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sabato 29 dicembre 2012

Il quasi politico

Monti viene da lontano. Da un progetto tecnico perché programmato. Da parte del nuovo-vecchio blocco confessionale, un progetto neo guelfo. “A vocazione maggioritaria”, come lui stesso ora confessa. Come riprendersi il potere politico, dopo i nuovi importanti acquisti economici: le banche, la sanità privata, il “Corriere della sera”. In aggiunta ai vecchi: l’energia (Eni, Enel e le fonti rinnovabili), la ricerca (Cnr, Infn, Esa), l’insegnamento, dalla materna all’università, la Rai, le Poste). Rompendo il bipolarismo oppure surrogandolo. Con la partecipazione attiva del Vaticano dopo-Woytiła e dei vescovi dopo Ruini.
L’armamento è imponente, ma all’innesco non sembra più Monti il generale giusto. Di un’ingenuità evidentemente falsa, se si è giocata la presidenza certa della Repubblica, onore massimo e duraturo, per fare il capo di Fini e Casini. Ma allora di impudente strategia, invisa ai più. Monti è l’uomo delle tasse e del declassamento dei molti, cui ha reso il fine mese difficile. Vanta una credibilità internazionale di cui i più dubitano, per primi gli europeisti. Non sa parlare politicamente, non è rassicurante. E soprattutto s’indirizza nello stesso alveo che il suo fronte ha scavato: l’antiberlusconismo. Nel progetto doveva raccogliere i voti di Berlusconi, al dunque è uno dei tanti che pescano nell’opinione anti-Berlusconi. Cioè nell’area che il Pd riteneva assicurata – il voto di opinione, che sposta le maggioranze, si stima sui cinque punti percentuali, tra i due milioni e i due milioni e mezzo di voti.
Napolitano lo ha denunciato quando se n’è accorto, in ritardo – il progetto neo guelfo data da almeno un anno e mezzo. La sua reazione a dispetto un paio di mesi fa conferma che il professore pesca a sinistra. L’unica area di voto su cui la sua candidatura inciderà, quella milanese e lombarda, lo vedrà raccogliere i voti passati dai moderati a Pisapia.

Il quasi democristiano - postmoderno?

Twitter e l’“ascesa” sono innovativi, il decoro e il linguaggio vecchia maniera. Monti politico è più che mai passatista. Anni Cinquanta. Col convento, quando un medio albergo offriva di più. E quel non voler essere una Democrazia Cristiana, che è molto democristiano – con la Libertas scudocrociata peraltro a simbolo. Con le correnti in forma di partiti dei capetti. E l’endorsement esterno, del solito Vaticano e della Germania al posto degli Usa. Si può dire un postmoderno della politica, ma non sembra, a ben guardare, tanto scafato: va con l’agilità del bulldozer. Mentre il mondo è un altro, e pure l’Italia.
C’è il bipolarismo, radicato. Non c’è più il Nemico. C’è il radicamento, bene o male, del Pd e di Berlusconi. C’è il nessun peso politico della chiesa, specialmente rifiutato dai parroci, alle prese col ben più grave problema della scristianizzazione. Monti sembra vecchio, malgrado i dinieghi, proprio per questo, per non sapere in che mondo si trova. Compresa l’Udc, la cui base elettorale, a Roma e in Sicilia, è quella più legata al sottogoverno, la vecchia politica – la scelta di Monti di lasciare a Casini e Fini (ammesso che superi il 2 per cento) le liste non è ingenua, Passera ha ragione. Anche twitter, in mano sua, non funziona – è più sveglio il papa. E l’ascesa: non è battuta che possa spopolare nei talk show cui si indirizza. Anche Bondi, più che altro sembra un sacrestano. 

Dio diede a Borges la cecità con la biblioteca

In una serie di conferenze al teatro Coliseo di Buenos Aires nell’estate del 1977, Borges ne tenne una sulla cecità, e una sull’incubo. Da professionista, si può dire, essendo egli stesso cieco, nonché autore di un “Elogio dell’ombra”, e un praticante assiduo dei sogni, autore naturalmente anche d’un “L’incubo”Due testi che il curatore Tommaso Menegazzi dice esemplari della “fabbrica Borges”, quella “della vita e la letteratura, della realtà e l’artificio, della verità e la finzione” (in un’edizioncina incredibilmente scorretta, “borgesiana” si può dire anch’essa, dove le lettere si dispongono come vogliono).
È il Borges conversativo, al suo meglio. L’aneddotica sulla cecità è inarrestabile. Della nonna e il bisnonno, che morirono “ciechi, sorridenti e coraggiosi”. Non i soli, ma “si ereditano molte cose (la cecità per esempio), non si eredita il coraggio”. Della cecità sopravvenuta nel 1955, con la direzione inattesa della Biblioteca Nacional. Dove i due direttori precedenti erano stati ciechi, Groussac e José Marmol. Propiziando la “Poesia dei doni”: “La confessione della maestria\ di Dio, che con magnifica ironia\ mi dette insieme i volumi e la notte”.  E la capacità accresciuta di affabulazione e scrittura. Come Milton, che “consumò la vista scrivendo libelli in difesa dell’esecuzione del re a opera del Parlamento”, salvo poi essere graziato dal figlio del re assassinato e scrivere i suoi illustri poemi. Cieco si voleva a suo modo Oscar Wilde, e conviene leggere Borges per capire perché.
Sugli incubi, cioè sui sogni, ogni citazione sarebbe borgesiana, una riproduzione pari pari del testo, senza essere esaustiva. Uno da antologia è quello di Dante, la lettura borgesiana del “nobile castello” che Dante incontra nell’“Inferno”. Borges è decisamente con Shakespeare: siamo fatti della materia dei sogni. Ne siamo come dice Addison: attori, registi, autori, dialoghisti, truccatori, costumisti, scenografi. Tutto dei sogni gli piace, anche degli incubi, specie nella versione inglese, del nightmare, la cavalla notturna. E non esclude i sogni profetici. “I sogni sono un’opera estetica, forse l’espressione estetica più antica, la cui forma si rivela estremamente drammatica”, al modo di Addison. “E se gli incubi fossero strettamente sovrannaturali?” In tutte le lingue “rimandano a qualcosa d’innaturale”. E perché, nel sovrannaturale, non sarebbero “squarci dell’inferno”? Anzi, e “se negli incubi ci trovassimo letteralmente nell’inferno? Perché no? È tutto così strano  che persino questo è possibile”.
Una sola cosa si può dire: che i sogni costituiscono per Borges, con gli specchi, il suo triplice labirinto (una volta Borges vide, in casa di Dora de Alvera una stanza circolare con le pareti e le porte di specchi: un labirinto e una prigione). Anzi quadruplice, poiché con gli specchi vanno le maschere – e questo è il sogno di Baudelaire (il sogno che hante Calasso nella “Folie Baudelaire”, e nella seconda, illustrata, più che nella prima). Borges  è una di quelle esistenze, non rare nel Novecento ma senza precedenti, che sono state letteratura.
Jorge Luis Borges, La cecità. L’incubo, Mimesis, pp. 58 € 3,90

Iperuranio

Monti ascende
Col fido Bondi
Tra i calvi nimbi
Dei preti santi
Le coppole storte
Dei voti comprati
E i monti secondi
Delle indoconfetture
Senza più paure
A suo agio infine
Coi fini casini

Ombre - 160

Il partito neo guelfo nasce a Roma in un convento, delle Suore di Sion al n.28 della via Garibaldi.
Ha a simbolo lo scudo crociato. Sarà organizzato da Riccardi, della confessionalissima Comunità di Sant’Egidio. Ha a patroni il Vaticano e i vescovi italiani. Ma Monti assicura: “Non stiamo facendo una nuova Dc”.

Monti assicura anche: “Non siamo centristi né moderati”. Il diavolo, si sa, sta nelle sacrestie.
Ma è il vecchio gioco dei quattro cantoni: Monti vuole essere tutto, di destra e di sinistra.

Francesca Pascale, la fidanzata di Berlusconi, spiega Rossella al “Corriere della sera”, è “una ragazza simpatica e molto in gamba, somiglia fisicamente a Veronica. Però ha doti notevoli, carattere, intelligenza, cultura”. Però. I cortigiani sono sempre malelingue.

Seicento milioni di nuovo capitale per il “Corriere della sera” è una cifra enorme. Tanto più per un cespite e perdere, senza dividendo, senza plusvalenze. Che non  si capisce perché i soci ardano di sborsare, a gara tra di loro. Per diventare meno ricchi? Per il gusto della dépense – saranno pure cannibali?

Pietro Grasso può “scendere in campo”, Ingroia no. Forse perché Grasso è più di Ingroia, essendo Procuratore Nazionale? Violante non dice perché. In quanto Procuratore Nazionale Grasso non avrebbe dovuto essere più neutro politicamente?

Violante è il magistrato ex per eccellenza: ispiratore del processo a Andreotti per mafia, presidente della Commissione antimafia, presidente della Camera. Ma è tuttora parlamentare. Nonché professore di diritto e procedura penale – anche se a Camerino.

Monti essendo un “quasi” candidato può occupare liberamente la Rai, non c’è par condicio per lui - il direttore generale Gubitosi e la presidente Tarantola si muovono solo se c’è da contenere Berlusconi, il concorrente di Monti.
Formidabile triplice ipocrisia: della Rai, di Monti, dei suoi amministratori. Non sanzionabile, essendo la “cultura” di Milano: la sopraffazione..

Se ne va Pato: il padre Silvio lo vende, la figlia Barbara non si oppone. Pato, docile, serviva a Barbara per uscire sui rotocalchi.
La figlia dell’uomo più ricco e potente d’Italia ha l’ambizione di una velina. Anche questo senza scandalo a Milano.

Dunque, Nicole Minetti ha passato tre giorni con Cristiano Ronaldo (Andrea Nicastro, incidentalmente, sul “Corriere della sera” venerdì), in gloria, malgrado la splendida fidanzata di lui. Questa ce l’avevano tenuta nascosta, anche se della Minetti ci dicono tutto. Per non sembrare berlusconiani?

“Il bilancio italiano è usato come un Bancomat, per ripianare i buchi delle banche tedesche e francesi”. È una battuta? No, è la verità. E come può succedere?
Tremonti lo dice solo in campagna elettorale. E lo dice per conto della Lega, che questo bancomat ha voluto.

Monti vuole “ascendere” alla  “guida del Paese”. Avevamo le guide turistiche, le guide scout, alpine e naturalistiche, e quella dei perplessi, di Maimonide. La guida del Paese era mussoliniana. Anche gesuitica? Davanti ai giornalisti italiani in assemblea, a bocca aperta.

“Vado da Santoro, Travaglio mi è simpatico”, ghigna Berlusconi a Rai 1. Una perfidia, per agitare  il nemico, nel teatrino della politica. Ma è anche molto di più, considerando il numero di libri scritti da Travaglio contro Berlusconi per mafia, droga, riciclaggio, stupro, più o meno tutto il codice, assassinio compreso. I due si tengono, in alto, sulle spalle delle audience.

Tre punti percentuali di prelievo fiscale sul reddito in più in un anno, dal 42,5 al 45,3 per cento. Di che strangolare l’economia più robusta. Col debito in crescita - il record della crescita in un anno. Più catastrofe di questa! Ma per il “Sole 24 Ore” è un quisquilia. Per i suoi patron,  vecchi-neo Dc.
Il potere anzitutto, fosse pure sui cadaveri: questa è sempre la Dc che ha portato l’Italia ha portato alla deriva, dal Moro-Andreotti del 1976.

“Cade il tabù del 25 dicembre” – si può lavorare. Questa mancava, il Natale come tabù. C’è proprio paura della festa, il tempo vuoto. Per il vangelo del mercato? Per la stupidità?.

È più scandalosa la condanna di Sallusti, a una pena esorbitante, con una motivazione demenziale (delinquente incallito, recidivo, pericoloso, detto di un incensurato), o la grazia di Napolitano? Senza censure per il giudice di Sallusti. È un nuovo codice.

“Siamo fuori dai giri che contano”. Tripudio a Roma per il nuovo giro di Zeman. Ma questo l’aveva detto prima Lucescu.

venerdì 28 dicembre 2012

L’ultimo tabù

È caduto nel vuoto a Natale
Il tabù dello shopping
Ma non s’è fatto male.

Letture - 122

letterautore

Borges – Sicuramente uno dei classici del Novecento, anche alla rilettura. Sicuramente anche antifascista (antiperonista, antinazionalista), nella vita e nelle opere. Ma non filocomunista, per questo evitato dal Nobel? Che sia stato filotortura è infatti un errore, prima che un’infamia. Uno che ebbe la madre e la sorella, per colpa sua, imprigionate da Perón. Pero diceva anche “non sono comunista”, e questo è imperdonabile
 – non è molto che c’era il delitto di leso comunismo, con pene severissime, Borges è morto nel 1986.

Citazione – Serve molto le dittature – Mussolini ne era maestro. L’ultimo che ne ha fatto uso, il Presidente Mao, l’ha trovata a un certo punto pericolosa per se stesso, una sorta di latinorum della rivoluzione. Al punto da vietarne il massimario, il suo stesso “Libretto Rosso” – anche se non per un senso critico libero, ma per il silenzio.

“Citare brani è estrarre aculei da un porcospino”, Marianne Moore di E.Pound, in “Poetry”, 39, ottobre 1931).

Dizione – Pone la maggiore differenza tra fiction e teatro. Un’altra dizione, un’altra lingua, un’altra estetica, molto più incisiva, questa, e duratura. Non c’è una dimostrazione più feconda del potere della retorica che uscire una sera dal farfugliare televisivo e ascoltare un buon attore, i napoletani per esempio, Barra, i Servilo, o anche i vecchi, Albertazzi, Poli. Le sonorità, le rotondità anche, e soprattutto le infinite variazioni del parlato, fino alla ritenzione del suono stesso, alla parola dei silenzi. La voce è non solo il fiore della bellezza di Zenone, è anche come dice Montaigne: che fa vedere, oltre che udire, la poesia.
È un di più o un di meno di verità? È un di più. La “naturalezza” dev’essere anch’essa pensata e architettata per essere trasmessa: non c’è comunicazione se non architettata, compreso quella del coatto.  Ovvero, c’è anche naturale, spontanea, come viene agli attori, soprattutto alle attricette, belle ragazze al più, in televisione, ma allora di nessun impatto, e quindi di nessun significato – se non quello della bella figliola che, come il calciatore con cui si accompagna, vuole comparire: non la si desidera, né suscita altre emozioni.

Editoria – Tornano a moltiplicarsi le incorporazioni, fusioni, acquisizioni. All’insegna del “più grande è meglio”. Un’economia che privilegia la dimensione alla qualità del prodotto. Facendo valere la riduzione delle spese generali e, nel caso dell’editoria libraria, il maggiore peso specifico sulla distribuzione. Ora sempre più online – il gruppo Mauri-Spagnol si è molto avvantaggiato della sua piattaforma online Ibs. L’ultima grande fusone è tra Random House e Penguin, che è quanto dire tra Bertelsmann e Pearson, i due giganti della comunicazione di cui le due grandi case editrici fanno parte.
“È  l’editoria senza editore”, ha commentato l’“Economist”, che pure loda la fusione (ma è una joint-venture, è diverso). “Oggi si rifiuterebbe Kafka”, ha rincarato il “Nouvel Observateur”. Ma Kafka non era stato rifiutato anche al suo tempo(Kafka è un autore postumo, è Max Brod, l’amico che lo “creò” dopo morto)? L’editoria ha poco a che fare con la letteratura, se non per il fatto che pubblica quaranta-cinquantamila libri l’anno nelle varie lingue.

Flashback – È il racconto retrospettivo, di cui Omero abbonda.

Ironia - La narrativa riduce ad aneddotica. Oggi come già nel Seicento, nel tardo Cinquecento, quando pure imperversava. Anche se lievitata, alleviata, al modo già dell’Ariosto, per una lettura multiforme, più fantasiosa che critica, esagerata. Ma buona per gli intervalli: non si cammina senza soste, la libertà è mentale più che fisica.

Italo Calvino la dice prova di depressione: lo scrittore italiano è depresso (perché) quando scherza fa ironia.
Sul tono irritante del falsetto, specie fra ironici – fra ironici si sta in guardia, non c’è da fidarsi, neppure di se stessi.

Marx era ironico: per un Witz avrebbe dato il “Capitale”. Cioè superbo. In tutti i rapporti, anche familiari, il criterio della verità diventa per lui distacco critico: io e gli altri. È la forma più esasperata di egotismo, limitare alla misantropia, il fastidio dell’umana imperfezione.
L’ironia è il suo lato universalmente simpatico, oltre che una grande dote conoscitiva, socratica. Ma è il virus che ne mina la dottrina. Il cristiano si riscatta al confessionale, per quanto ipocrita possa la confessione cristiana essere, il comunista non può pentirsi mai. Pena l’ipocrisia, che è malvagia. Inoltre, ironizzare porta all’insensibilità, non a più conoscenza. Attraverso lancinanti ulcere o gialle epatopatie - soffriva Marx di fegato? Vladimir Nabokov lo vede in aspetto di “traballante e bisbetico borghese in calzoni a quadretti di epoca vittoriana”, il cui “cupo «Capitale»” è “figlio dell’insonnia e dell’emicrania” – ma Nabokov ne condivide il sarcasmo, con punte snob perfino più acute, anche se non sembra possibile.

Italiano – Si moltiplicano le parole italianate per i modelli automobilistici, anche di case asiatiche o tedesche. C’è bisogno nell’ipostasi di parole vocaliche, non si possono fare monumenti verbali consonantici. Ce n’è bisogno nella comunicazione globale soprattutto in Asia. Dove il consonantismo inglese è sofferto, è traumatico (tutti i bambini in Giappone studiano l’inglese a partire dagli otto anni, ma a 15 o 20 pochissimi ne sanno articolare sia pure le parole più semplici, se interpellati rischiano di soffocare, il suono gli si ferma alla glottide).
Delle case tedesche è Volkswagen che adotta i nomi vocali, avendo il suo maggior mercato in Asia. Ma in lingua tedesca ci sono già i precedenti del Settecento, i Tamino, le Pamine, e dello stesso Wagner: il tedesco pure ha bisogno di nomi con molte vocali per poterli cantare – cantare (in qualche modo) melodiosamente.

Natale – Si moltiplicano nel Millennio i “Racconti di Natale”, di scrittori, giornalisti, perfino calciatori e attori. Tutti tristi, tutti contro, quella che voleva essere una festa della vita e della gioia. Ed è una festa religiosa: tutti contro anche la religiosità della festa, appellandosi a saturnali romani. Per una rivalsa personale più che per il senso epocale della crisi – della crisi dell’Europa: in alcuni casi sono stati gli immigrati asiatici a chiedere la festa di Natale, contro le insegnanti.

Romanzo - Una costruzione comunque artefatta, e non necessariamente narrativa – o non è al contrario: l’attrattiva del romanzo è che è “vero” pur essendo totalmente falso? È la pregiudiziale di Borges, che lo ha evitato con spirito polemico, pur rifuggendo dalla polemica e leggendo assiduo romanzi. Borges è più per l’idea, in un punto, con un personaggio, le tre unità aristoteliche trovano le uniche “naturali”. Magari corredata dall’“invenzione circostanziale”, cucita addosso. Per cui può diventare narrativa anche la vita ordinaria (attività, conversazione). Mentre il romanzo è “capriccio laborioso e immiserente” (prefazione al “Giardino dei sentieri che si biforcano”).

Traduzione – Il gioco di parole e il refuso si limitano a traduttore-traditore. Traduzione-tradizione è più facile, e sarebbe più giusto.

letterautore@antiit.eu

Borges scriveva per il cinema

“La corazzata Potëmkin”, che pure è “uno dei migliori film del Soviet”, è tutto qui: “Un incrociatore bombarda a bruciapelo lo stipato porto di Odessa, senz’altra moria che quella di alcuni leoni di marmo. Tale innocua punteria si deve al fatto che è un virtuoso incrociatore massimalista”. Mentre “Billy the Kid” è una delle opere “tanto innecessarie e triviali” del “diseguale regista di opere memorabili” King Vidor. Borges ha delle idiosincrasie. Non gli piace la violenza. Non gli piace neanche “Quarto potere” (“Citizen Kane”), “un film opprimente”. E tutto il Chaplin che gli capita di recensire, “Luci della città”, “La febbre dell’oro”, “Il pellegrino”. Ma non irrita e anzi coinvolge, anche al buio in sala. Andava al cinema con la stessa curiosità con cui leggeva, e per il cinema avrebbe voluto scrivere, breve come diceva lui (“scrive invano soggetti per il cinema”, lamenta in una biografia di poche righe nel 1940) e non come nei romanzi: scene impareggiabili e non architetture fumose. Anche se, confidava a Bioy Casares, “al cinema, siamo lettori di Madame Delly”.
Questa compilazione che bizzarramente non si ripropone è in tutto borgesiana, con “le spalle zenitali di Greta Garbo”, “gli occhi murati di Gandhi”, Orson Welles “non intelligente, geniale”  (“soffre di gigantismo, di pedanteria, di tedio”), o la modernità democratica anti-tirannica di H.G.Wells, “La vita futura”, fatta di scienza, chauffeurs e aviatori, che era il punto di forza dei tiranni dello stesso 1936, i laboratori di Hitler, gli chauffeurs e gli aviatori di Mussolini in Etiopia. Un collage di Borges al cinema, sul cinema – una cinquantina di “recensioni a grappolo” che scrisse per “Sur” dal 1931 al 1945, più brevi testi sparsi – e nel cinema. Borges scrisse molto di cinema, e di più su altre riviste, “Megafono” e un’altra di cui non dà il nome. Cozarinsky raccoglie solo i testi di “Sur”, seguendo la traccia della critica-narrazione in cui Borges eccelleva. Molto borgesiani peraltro gli echi, quasi calchi, di Alain Resnais in “L’anno scorso a Marienbad” (ma Robbe-Grillet, che sceneggiava, conosceva bene il borgesiano “L’invenzione di Morel”) e “L’anatomia di un suicidio”, del1968, come già in un documentario del 1956 per la Bibliothèque Nationale, “Toute la mémoire du monde”, di Rivette, “Parigi ci appartiene”, 1958, e perfino del Rosi di “Cadaveri eccellenti” – meno le citazioni e appropriazioni borgesiane di Godard, con altri autori della nouvelle vague, di Straub, di “Performance”, il film di Roeg con Mick Jagger, e altri.
Nel capitolo finale, “Versioni, perversioni”, il curatore si produce nella temibile impresa di confrontarsi a Borges recensendo sei degli otto film che al 1975 erano stati tratti da suoi racconti e soggetti. Ci sono più invenzioni nelle poche righe, per ogni film, di Borges.
Edgardo Cozarinsky (a cura di), Borges al cinema

giovedì 27 dicembre 2012

Secondi pensieri - 128

zeulig

Amore – Non è per tutti, secondo La Rochefoucauld: “Ci sono persone che non sarebbero mai stati innamorati se non avessero mai sentito parlare dell’amore”. Sarebbero stati la stessa cosa con un altro nome?
Oggi comunque non sembra possibile: l’amore è dappertutto, nei giornali femminili, alla tv e perfino nella filosofia. È legato però alla coppia, che per molti suoi limiti (pretese, illusioni) è la negazione dell’amore. E alla coppia nella sua connotazione cinematografica, di due che “fanno l’amore”, di due a letto. Che non sempre è possibile. La vita di coppia è inoltre vita di appartamento, al chiuso. E difficilmente ci si può permettere una camera da letto comoda – dipende dalla rendita urbana. 

Per Kierkegaard l’amore è comico. Per la nota regola dialettica per cui la contraddizione è comica, e l’amore è contraddittorio. Per il Kierkegaard notturno – ebbro? il filosofo scriveva a ore fisse, ma cose diverse, il giorno e la notte, la notte fino alle due, e allora era su di giri, la mattina, fino al tocco, era invece amaro: l’amore è il tema del banchetto notturno di “In vino veritas”.
L’amore a tavola di notte è dunque indigesto.

Complotto - Secondo il giovane Engels “i complotti sono non solo inutili ma dannosi”. Ma l’idea del complotto non è senza dignità. Richiama l’“argomento del progetto” di William Paley e della sua “Teologia naturale”, che influenzò la formazione di Darwin e lo indirizzò all’“Origine della specie”. Se c’è un orologio, argomentava il teologo Paley, ci dev’essere un orologiaio. È l’argomento della creazione individuale, per cui c’è un progetto di Dio dietro ogni singola specie. Era argomento a favore dell’esistenza di Dio. Anche nella forma rovesciata.

Ci sono specie e eventi senza progetto, non immediato, non specifico. Geometrie complesse che anch’esse giustificano un complotto, proprio per essere inspiegate, inspiegabili. Il primo è forse quello della democrazia. Con la storia dei Quattrocento, tra essi Tucidide, che Antifonte mise insieme nella primavera del 411 contro la democrazia a Atene: “C’erano persone che mai si sarebbero credute”, rivela lo storico, e stabilisce un legame tra la congiura e una serie di delitti misteriosi. Ora che i delitti misteriosi ritornano non ci sarà anche la congiura, magari a opera di un antichista? Oppure si può pensare che la storia vada per congiure. I Quattrocento di Antifonte, sostituendosi ai Cinquecento del consiglio eletto, calcolarono al millesimo le indennità loro dovute fino alla fine del mandato, e “le pagarono via via che quelli uscivano dalla sala”.
La pratica dunque è perfezionata, se c’è da tempo anche un galateo del golpe. E si può pensarla fine a se stessa, come la argomenta Josef K., personaggio eponimo dei complotti, che Kafka nel “Processo” fa accusare di un delitto ignoto: “E ora il senso, signori, di questa grande organizzazione? È di far intentare dei processi senza ragione, e in gran parte pure, è il mio caso, senza risultato”. È che così c’è più suspense: la democrazia è come i “Promessi sposi”, non vi succede mai nulla.

È più spesso una “provocazione”, anche se non voluta, un artificio per seminare il caso e provocare una crisi, culturale (religiosa, filosofica) come politica ed economica. Gli ateniesi dormirono “fuori la notte in armi”, narra Tucidide, quando uno spione s’inventò il golpe di Alcibiade. Liquidato il quale fallirono la conquista della Sicilia, che li avrebbe resi padroni del Mediterraneo, e duemila anni di storia, e persero la stessa Atene. E sempre c’è il sospetto dell’ignoranza consapevole, il metodo socratico della verità simulata, far credere che si sa pure ciò che s’ignora. È il vizio della politica totalitaria (in Italia da ultimo la sinistra), che sapendo tutto quello che non sa pensa di doverlo denunciare come complotto. Per questo Bacone spregia la Fama, l’opinione pubblica: la natura del popolo essendo “malvagia e triste, e propensa alle novità”, i turbolenti se ne approfittano con “pettegolezzi, malignità, denigrazioni, ricatti”, per muovere alla “femminea invidia verso coloro che governano” – il complotto è femmina per il barone di Verulamio, la ribellione maschio. Il popolo sospetta di tutto, la democrazia ateniese è una serie di complotti, democratica solo perché spesso sovvertita. Ma sempre ci vuole un giudice per un complotto.

Invidia  - Si può dire l’unica passione (vizio capitale) residua. Variamente denominata ma alla base dell’età della competizione, sotto forma di ambizione, zelo, strategie e tattiche, pugnacità.
È il metro del mercato. Specie dai consumi. C’è un 1 per cento di gusto, o piacere, nello shopping, e un 99 per cento di imitazione. Indotta dalla pubblicità, cioè indotta.

È il motore della pubblicità. Si può dire che la pubblicità si fonda sull’invidia: nasce per stimolare l’invidia, la modula e se ne modula.

Ironia - Sottintende un bisogno di autenticità. Dice Mario Soldati del bisogno di viaggiare: “Chi ha provato la lontananza, difficilmente ne perde il gusto”. Accade da fermi con l’ironia, la lontananza di chi è dannato a straniarsi.
Thomas Mann lo dice nell’ “Impolitico”: “L’ironia come modestia, come scetticismo volto all’indietro, è una forma della morale, è etica personale, è «politica interna»”.

Non è innocua, anche se, insegna Kant, noioso è solo lo stupido. Montesquieu, condannando la tratta degli schiavi con l’ironia, al libro XV, capitolo 5, dello “Spirito delle leggi”, la prolungò di un secolo. Verso il 1770 i bianchi discussero in Giamaica di lasciare liberi i mulatti, se di padre inglese. Uno che era contrario lesse Montesquieu e gli altri si convinsero: si convinsero che la schiavitù era necessaria.

“Il fenomeno, come sempre foeminini generis, deve cedere al più forte, al cavaliere filosofo”: è l’esordio del “Concetto d’ironia”, libro di esordio di Kierkegaard, senza ironia.

Libertà – È mentale più che fisica. La libertà è felice solo nel bisogno, o in “Živago: il romanzo è libero entro un mondo chiuso, in guerra, opprimente. Nella libertà si fanno i conti con se stessi, la fatica, le debolezze, i trucchi.

Organico  - A che cosa – l’aggettivo è ancillare? “Organico” è il concime, diceva Sciascia. O piuttosto sa di rifiuto. Carl Schmitt lo direbbe della natura del teologo, della teologia che nei primi secoli fu fonte di controversie cruente, con identico arsenale - esegesi, ipse dixit, anatema - ma non grato: un intellettuale dovrebbe essere semmai contro il Partito.

Riso - Hobbes mette il riso tra le quaranta passioni derivate o secondarie, legandolo al piacere maligno, per la deformità o disgrazia di una persona – si presume che Hobbes non ridesse, come tutti i filosofi. Per Spinoza è invece “pura gioia”. E dunque Spinoza non è un filosofo?
Ora l’epoca di nuovo lo esclude, dovendo andare di fretta. Ma già Platone lo proibiva ai “guardiani”, i politici. A Dio manca. La battuta celebre, mentre condanna Adamo alla presenza femminile e alla fatica, “ecco, l’uomo è divenuto uno di noi”, un dio, la disse in un impeto d’ira. Dopodiché non ha più parlato. Né ha mai riso Gesù. L’uomo invece vi ambisce, il riso libera dalla necessità dell’identità. Persino Leopardi, nel progetto editoriale per un settimanale, “Lo Spettatore Fiorentino”, lui che non leggeva i giornali, si propose di assecondare “la naturale inclinazione al riso”, assumendo che “il dilettevole sia più utile dell’utile”.

Si ride per niente: Crasso al vedere un asino coglionastro brucare cardi, Filemone un altro asino mangiarsi i fichi pronti per la tavola – rise tanto, è vero, da morirne. Mentre Crasso, attesta Erasmo, rise una volta sola nella sua vita. Anche perché, afferma Jünger in contrasto con Hegel, “il riso tradisce il rango inferiore, ne è involontaria espressione”, si vedano i cinesi, che ridono alle esecuzioni capitali. E c’è il riso spartano: i lacedemoni ridevano nelle pause delle reciproche improsature, si suppone, se hanno eretto al riso una statua, ma non si sa perché.
L’argomento è insomma impervio: Aristotele, non sapendo chiarirlo, finse di essersi perduto il relativo trattato – l’uomo non sa trattare le cose che non può legare al divino, la violenza, il dolore. “Il riso libera dal dolore”, assicura Usener, quello dei Nomi di Dio, giovane filologo che a Basilea volle in cattedra lo studente Nietzsche. E Fehrle: “Le persone capaci di affrontare la vita ridendo sono in genere più sane e vitali di quelle depresse”. Hermann Usener ha stabilito che i nomi degli dei sono la loro “essenza divina”, e l’essenza degli uomini che li creano col nome, i loro vizi e le paure.

zeulig@antiit.eu



Contro Leone il livore antimeridionale

Lo storico De Francesco (“La palla al piede”, pp. 220-222) trova nel best-seller, che portò alle dimissioni forzate di Leone dalla presidenza della Repubblica nel 1978, “un antimeridionalismo molto tradizionale”. In effetti è l’unica rilettura possibile: un regesto di frasi fatte, sul politicante meridionale, la donna meridionale, la famiglia meridionale, e su Napoli.
Ebbe per questo tanto successo? Il milanese ama essere confermato nei suoi pregiudizi.
Camilla Cederna, Giovanni Leone. La carriera di un presidente

mercoledì 26 dicembre 2012

Ma l’antimeridionalismo è parte dell’ideologia italiana

“Plebi inconsulte dominate da ceti dirigenti privi di scrupoli” (139): il Sud del Nord si alimenta in questo stereotipo. Non eccezionale, e anzi indigente, ma a quel che sembra indistruttibile – l’indigenza è dopo un secolo e mezzo parte del dna del Sud. Con il costante refoulement del ribellismo meridionale, anche quando è democratico e rivoluzionario, nel sanfedismo, senza più. Con l’incredibile categoria del lazzaronismo quale naturale indolenza e perversione – centocinquanta anni fa, quando serviva al Piemonte, come pure oggi.
De Francesco trova le radici dell’antimeridionalismo nella durezza politica di Cavour (tema disusato, l’innegabile durezza del conte), negli emigrati, nella letteratura meridionale, nel giornalismo a sensazione, nel lombardismo. Milano impone il suo primato di capitale morale nella guerra costante a Crispi, contro il quale ebbe la vittoria facile col fallimento della politica africana a Adua, ma dopo una campagna rozzamente antimeridionalista: “Nasceva così il mito di una Milano che da tempo reclamava di essere la capitale morale e ora sembrava capace addirittura di anticipare la politica nazionale, come avrebbe scritto, ammirato, Salvemini: anche questo, certo, un luogo comune (come quello relativo alla capitale morale per altro), che avrebbe però pesato non poco sugli sviluppi politici nazionali” (138-139).
La ricerca di De Francesco si segnala per il peso dato all’immaginario. Nella letteratura alta, per primi gli scrittori veristi, tutti del Sud, come lo stesso Capuana capì e denunciò. E nei “fogliettoni”, le storie a dispense a forti tinte. De Francesco ha messo a profitto la lezione di Nelson Moe e, in parte, di John Dickie, della pubblicistica levatrice del “Sud”. Dell’enorme potere dei media, dell’“opinione pubblica” come si esercita in Italia, nella creazione d’immagini e miti. Esumando anche la letteratura specialistica e sparsa sui vari aspetti della creazione della “bassa Italia”: l’opera, il teatro, la narrativa, le canzoni, la cronaca (il coscritto calabrese Misdea che fa una strage in caserma di non calabresi dopo che un altro coscritto calabrese era stato dileggiato, e tanti altri processi celebri: Notarbartolo, Nasi).
Il precedente immediato di questa storia politica dell’antimeridionalismo è Petraccone, “Le due civiltà”, del 2000. In realtà c’è una sola civiltà, quella italiana, della quale a questo punto è da dire costitutiva la “questione meridionale”. Cioè un Sud Pulcinella, da bastonare: il Sud non conta nulla. Fu antimeridionale perfino il primo socialismo, di Turati, come lo storico qui ricorda. Col contributo entusiasta dei (pochi) socialisti siciliani. Per il trito disprezzo delle “plebi” isolane. Con strascichi fino al secondo dopoguerra, a Giuliano e oltre. Dell’odio-di-sé meridionale è paradigma a fine Ottocento il siciliano Alfredo Niceforo, allievo del criminologo socialista Enrico Ferri e socialista egli stesso, che teorizzò “un’antropologica inferiorità meridionale” ((158), sulla scorta dell’atavismo di Lombroso, e delle gerarchie razziali di Giuseppe Sergi, altro siciliano. Con  un esito incredibilmente sciocco: Niceforo propugnò un regionalismo totale per il Nord e uno statalismo totale per il Sud, imponendone la discussione in ben due congressi socialisti, a Roma e a Imola, tra il 1900 e il 1902.
“L’antimeridionalismo”, conclude De Francesco, “è certo un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita”. No, è la maniera d’essere dell’Italia, evidentemente non a somma zero o negativa, se viene perpetuata. Altra non ce n’è. Nemmeno è ipotizzabile: questo “Sud” è funzionale a questa “Italia”, una questione da usare secondo le occorrenze. Per l’incapacità del Sud si può aggiungere, di fare da sé, autonomizzarsi. Ma è un’incapacità determinata in larga misura dal Nord: dai suoi media, le sue istituzioni (basta istruire una “pratica europea” al Tesoro per avvertire le differenze siderali tra Nord e Sud), le sue leggi. Ultima la legge per l’intervento straordinario nel Mezzogiorno trasformata in intervento nelle aree disagiate, in maniera da dirottare sul Nord i residui trasferimenti pubblici in servizi e infrastrutture. Non c’è altra realtà per il Sud che il Nord, e nessun’altra possibilità.   
Nato e cresciuto a Milano, dove è ordinario di Storia delle rivoluzioni, da padre calabrese, cui dedica questa ricerca, editore di Vincenzo Cuoco, la divisione che lo storico della rivoluzione di Napoli superò d’impeto De Francesco mostra di soffrirla, anche personalmente. Non essendoci dopo quasi due secoli altra evidenza che la capitale della corruzione è Milano, anche se pretende di attribuirla alla ‘ndrangheta. Limita la ricerca alla Sicilia e a Napoli – alla vulgata delle due Napoli, la nobile e la plebea, che non cessa di sorprenderlo, ma chi ha avuto esperienza del colonialismo, del’ideologia del colonialismo, sa che è uno stereotipo, non dei più fini. E pur in ambito così ristretto (peggio sarebbe allargando il fuoco alla Campania tutta, alla Calabria, alla Sardegna), resta sopraffatto dal carattere tranquillamente “eversivo” dell’antimeridionalismo. Nei confronti dell’unità, dice, ma anche, bisogna aggiungere, nei confronti della democrazia e dei diritti fondamentali dell’uomo, tra essi il rispetto del più debole.
Antonino De Francesco, La palla al piede, Feltrinelli, pp. 255 € 20

martedì 25 dicembre 2012

Monti non è Ciampi

Monti è un capopartito, anzi peggio, un capo cordata, non manifesta ma surrettiziamente forte, e non certamente il tecnico al di sopra delle parti. Si può misurare la quasi candidatura di Monti dal raffronto di Ciampi. Per una differenza non tanto di stile quanto di strategia politica.
Ciampi era il vero tecnico: chiamato a risolvere alcuni problemi, lasciò poi con buona pace quando Scalfaro decise d’interrompere la legislatura – il primo dei suoi golpe istituzionali, che doveva segnare il trionfo di Occhetto e invece portò Berlusconi. Poi, chiamato da Prodi e quindi da D’Alema per preparare l’ingresso della lira nell’euro, vi si prestò senza storie. Monti è diverso.
Monti è il cavaliere dell’ipotesi neo guelfa. Il progetto di riprendere il controllo del paese attraverso una Democrazia Cristiana ribattezzata Grande Centro. Anche da posizione minoritaria, come è avvenuto in questo anno di supplenza, concessa improvvidamente da Napolitano sotto la minaccia dello spread. Ma forte dell’appoggio delle banche, ormai confessionali al 90 per cento. E dell’“opinione pubblica”: la Rai, casiniana in percentuale di poco minore, Sky, La 7, e l’editoria giornalistica: Rcs, Espresso-Repubblica-Finegil, Itedi-Fiat- Caltagirone-Messaggero, Riffeser, Sole-24 Ore. Che ne hanno imposto all’Italia l’urgenza, e quasi il bisogno, malgrado un’esperienza disastrosa di governo, il primo della storia della Repubblica che abbia provocato da solo una recessione.
Monti è ipotesi forte a Milano, grazie alle due grandi banche e alla Confindustria di Emma Marcegaglia. E ha una sponda ferma nel cardinale Bagnasco, presidente dei vescovi, e nella Confindustria di Squinzi. Gli editori sono allineati per il ripristino delle “provvidenze” all’editoria, e per interessi di bottega, a Torino e a Roma.  

lunedì 24 dicembre 2012

Il quasi candidato

Bizantino, è stato detto, che inventa la “quasi candidatura”, così come Bisanzio aveva indebolito il saldo diritto romano coi “quasi contratti” e i “quasi delitti”. Ma è anche più di questo: Monti ha potuto dire di “ascendere” alla politica, e di proporsi a “guida del Paese”, senza suscitare risate e nemmeno sorrisi. Di un Paese che sta mandando al fallimento (si dice default?), con lo strozzinaggio di Stato. Monti dunque è la “buona coscienza” del Paese: dei media, delle istituzioni, presidente della Repubblica in testa, e dei comici.
Non bisogna del resto sottovalutare la potenza della retorica. I gesuiti, alla cui scuola Monti si è formato e di cui si fa scudo, ne conoscevano la forza e l’hanno ampiamente usata. Fino a farne un marchio, il “gesuitico” appunto. Che vuol dire spaccare il capello in quattro, cioè pignoleggiare, ma con un sottinteso: contrabbandare merce falsa per vera. Avremo dunque il quasi Monti per lungo tempo, e bisogna rifletterci.
Una cosa poi Monti sicuramente è, un milanese a parte intera. Uno che pensa al bene dello Stato in  termini dei propri interessi. Qui proprio in senso specifico, di obblighi di intermediazione a favore delle banche. Pochi euro qui è lì, naturalmente:  un “quasi salasso”. Come i tre punti di reddito in più sfumati in tasse, pagati dai soliti noti: una  “quasi lotta all’evasione.

Fisco, appalti, abusi – 21

Si fa un regalo (a Roma 300 euro) a chi firma per una candidatura, alle politiche o alle amministrative indifferentemente. Le elezioni anticipate hanno portato quest’anno un regalo di Natale extra per alcune centinaia di migliaia di persone, anche se le firme necessarie a ogni candidatura sono state ridotte a un quarto. Il mercato della politica comincia da queste firme, del tutto inutili – e forse incostituzionali.

Si può avere l’annullamento del matrimonio alla Sacra Rota “per errore”, anche dopo alcuni anni di convivenza e alcuni figli. Con un regalo ai monsignori che lo gestiscono anche modesto.
Si può averlo da alcuni anni, da quando al ferreo Giovanni Paolo II (e al cardinale Ruini) è succeduto Benedetto XVI (e il cardinale Bagnasco).

Al mercato rionale del Trullo, a Roma, due sabati fa, tutti i banchi sono chiusi, eccetto un paio. Tre macchine della Polizia e 25 vigili (venticinque) presidiano l’area. I banchi sono chiusi perché devono essere “ambulanti” e non fissi. A chi vuole sapere come fare la spesa viene risposto: “Vada al supermercato”. E a chi obietta: “Che ci fate in tanti?”, la risposta è: “Badi a come parla!”.

Una lettera può arrivare dall’Inps con una convocazione “urgente”. Raggiunto l’ufficio, irraggiungibile, dell’Inps, e dopo lunga attesa, viene comunicato che per errore l’Inps ha corrisposto 40 euro più del dovuto. Che verranno recuperati in ragione di 3,35 mensili. E non è uno scherzo.

Si approfitti della convocazione urgente dell’Inps per chiedere come mai gli arretrati della pensione, nei mesi trascorsi tra la cessazione dal lavoro e l’inizio della quiescenza, non vengono pagati. La riposta sarà, testuale: “La pratica non è perfezionata”. “Manca qualche carta?” “No, è tutto a posto. Ma nell’iter manca una firma, che avrebbe dovuto essere doppia, e la pratica va rifatta”.
 
Si vada in banca di primo mattino, per esempio a Banca Intesa, per comunicazioni urgenti. Il funzionario è già uscito, appena entrato, “per il caffè”. Questa crisi è diversa dagli anni 1993-94: allora la paura di perdere il posto produsse un incremento di produttività notevolissimo (crollò l’assenteismo, l’orario lavorato fu effettivo, le pratiche si risolsero).

Si vada a rinnovare l’assicurazione, sicuri dell’orario continuato. Ora non più: si apre al pubblico in alcune ore. Anche i macchinisti del tram se la prendono comoda: se lampeggia un segnale non  mettono il mezzo in sicurezza a uno scambio, lo lasciano lì, a bloccare tutta la linea. 

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (156)

Giuseppe Leuzzi

Un anno fa aveva irriso gli ispettori del fisco, che avevano trascorso lo straordinario festivo notturno del week-end nei suoi negozi a Milano. Con la scusa di controllare gli scontrini. Ora vende in tutto il mondo, “da Londra a Hong Kong”, un panettone speciale, migliore di quello che si faceva a Milano, “il migliore”. Ma questo Rocco Princi quando lo mettiamo dentro per ‘ndrangheta?

Raffaele Nigro propone (“Lettera di Natale”, scritta al Salvatore che ha lasciato il paese per il mondo globalizzato – in Aa.Vv., “Natale mediterraneo”) un’Italia non più “latitudinale”, divisa tra Nord, Centro e Sud, ma un’Italia adriatica, una tirrenica e una appenninica.  Molto più vera, in effetti, nella storia e anche nella contemporaneità.. L’appenninica Nigro fa partire dai monti Iblei, su fino al giunto tosco-marchigiano-emiliano e alla Cinque Terre, più “le montagnole delle Langhe”. È uno scheletro che tiene benne in letteratura, a un primo ripasso e anche a un secondo.

Natale, la festa della nascita, cioè della speranza, viene trasformata in episodio notturno, di malattia, di dolore nei racconti di “Natale Mediterraneo”, con i racconti di scrittori meridionali. Cosa che non è nella pratica, che ancora non risente del rifiuto – del dono, del cibo, della famiglia allargata, dei buoni sentimenti. I racconti sono espressione di una forma depressiva indotta, uno dei tanti aspetti del rifiuto del Sud da parte del Sud. A opera dell’ “Italia”, nella cui deriva il Sud assume la connotazione di capro espiatorio (“ah, se non  ci fosse il Sud”) e di pietra di paragone (“siamo ridotti al Sud”) – il Sud che ne è solo vittima (solo no, ma insomma…).

Lo Stato-mafia
In una lunga pagina su “Le Monde Diplomatique” di novembre Serge Quadruppani si fa raccontare da Gioacchino Criaco ad Africo Vecchio che “i moti di Reggio”, insurrezione popolare di massa, furono domati grazie all’infiltrazione di elementi del Msi neofascista, di cui alcuni “membri dei servizi segreti”. Dopodiché “tutti i capi della mafia calabrese, la celebre ‘Ndrangheta, furono assassinati, sia dalle forze dell’ordine sia da presunti concorrenti. E tutti furono sostituiti” - qui Quadruppani si cautela con un “sostiene lui” - “dai membri dei servizi segreti. Da allora, la ‘Ndrangheta è il quinto corpo della polizia dello Stato, quello che gestisce per conto di quest’ultimo l’economia sotterranea e argina i moti d’insubordinazione del Sud ribelle”.
Può darsi che ad Africo Vecchio i “membri” prendano consistenza - è un cumulo di macerie e rovi, in abbandono da quasi un secolo, roba da fantasmi. Sicuramente “Le Monde Diplomatique” ama sballarle. Ma Quadruppani non è uno qualsiasi. È scrittore, saggista, traduttore, giornalista, editore. È autore in proprio di romanzi polizieschi,. Ed è il traduttore in francese di Camilleri. È anche editore di Criaco. Che non dicessero sul serio?
O Criaco non si è privato del piacere di sballarle grosse, col visitatore venuto da Nord. Lo scrittore,  autore di “Anime nere” e “Zefira”, è uno che sa quello che succede. Uno Stato vero, diceva quattro anni fa, “dovrebbe dare risposte serie, non forti, regole normali, non speciali. Dovrebbe individuare e punire singoli colpevoli e non sparare nel mucchio. Dovrebbe dare libertà e risposte alle comunità territoriali. Non accendere fugaci meteore, fatte solo di divise e manette. Dovrebbe supportare le voci locali e non soffocarle solo con parate militari. La Calabria ha bisogno di sentire la presenza dello stato nella quotidianità, nella normalità, non nell’emergenza”.

Mafia e antimafia
C’è un delitto al Sud e non c’è risposta dallo Stato – dall’apparato repressivo, giudici e polizie. Il reato va alla statistica, e dopo venti-trent’anni, un considerevole accumulo, la giustizia procede, arrestando e sequestrando.
Si sequestrano patrimoni frutto di decenni di reati, quasi tutti a danno di altri non criminali cittadini. Che in quei decenni hanno perso i beni, la tranquillità e la salute, mentre i criminali si ingigantivano per la sola impunibilità. Punto d’attrazione irresistibile per il reclutamento. Dopo cioè che centinaia di famiglie sono state rovinate. E altre centinaia - non necessariamente di politici o “classi dominanti” - coinvolte in correità: per disperazione, per quieto vivere, e per ogni sorta di favori, piccoli e grandi, posti, appalti, prestiti, licenze immobiliari. Quando non si ritrovano corrotti i minori, nei furti, la droga, lo spaccio, il riciclaggio, le intimidazioni, e perfino gli assassinii.
L’esperienza è ormai lunga al Sud di questa giustizia a scoppio ritardato. Per ragioni peraltro che esulano dalla giustizia – che è prevenire, e punire i colpevoli: vendette politiche, vendette mafiose.  Il vero ambiente criminale ci è stato creato non da tare ereditarie (di che? della grecità? della vita chiusa nelle valli di montagna? e in pianura, allora?), né dalla razza, ma dalla giustizia. Dall’“Italia”.

“Lo  Stato meridionale”
Goffredo Parise ha nei “Sillabari”, alla voce “Mistero”, ”lo Stato meridionale”. Parise era uno che stava bene nelle sue colline venete del Piave, e al Sud. Non a Forte dei Marmi, spiega dettaglista in un fugace giro d’Italia delle villeggiature (“Gioventù”, altro lemma dei Sillabari”), pur “bella… e ventilata e in certe ore ventosa”, dove la bellezza gira attorno alla ricchezza, in “un involucro di calcolo e aria fredda”, e “un mare blu trasparente di denaro”. Non a Portovenere, Rapallo, Portofino, per “l’odore grigio, chiuso e ostico della Liguria”. Non al Lago Maggiore, “un’acqua fredda color dell’acciaio”. Sta bene a casa, al Lido di Venezia, ma soprattutto e sempre a Capri. Una specie di giro di sé oppresso dalla canicola ad agosto a Roma, che ha definito in precedenza “quel tipo di sopportazione mediterranea, come una cottura del cervello, che non permette nessuna anche minima decisone”.
Chissà quale sarà “lo stato settentrionale”.

Nello steso pezzo dei “Sillabari”, Parise ha, tra i nudisti gay della spiaggia di Castelporziano, il “volto quadrato di braccianti del Sud”. Non conosceva braccianti del Nord?

leuzzi@antiit.eu

Meno lavoro più soldi, per l’economista di Pound

Due scritti del “filosofo” di Pound, volgarizzatore dell’“economista” del Credito Sociale, maggiore Douglas, con un intervento dello stesso Douglas. Sul “bisogno” di lavorare meno, e sul “salario di cittadinanza”, la distribuzione del reddito disponibile in base ai bisogni e non al profitto, fulcro della teoria del Credito Sociale (ma anche di un pilastro della scienza economica, “L’economia del benessere” di Pigou). Con la solita critica degli abusi del mercato – non è difficile: il testo di Douglas è una disamina molto contemporanea della finanziarizzazione. La ricerca di un’economia sostenibile non è di oggi, anche se velleitaria.
Un’utopia esoterica, quella di Douglas e Orage, confinante con Uspensky e Gurdjieff, anche se Keynes dovette occuparsene. Di cui Luca Gallesi dà le coordinate nella introduzione, un saggio di godibile fantapolitica – tutto può essere, perché no. Ma una teoria e due personaggi che molto influenzarono Pound e l’economia dei “Cantos”, estetica e scientifica. Orage anticipò anche di un secolo l’Età dell’Acquario e il New Age, con la rivista ”The New Age”, che fondò nel 1909 e diresse fino di 1922, potendo contare sulla collaborazione di Chesterston, Hilaire Belloc e G.B.Shaw, e poi di Katherine Mansfield, H.G.Wells e Ezra Pound. Nel 1932 fondò un’altra rivista, “The New English Weekly”, che gli sopravviverà di sei anni dopo la morte nel 1934, fino alla guerra, ricca anch’essa di collaboratori di prim’ordine, T.S.Eliot, Dylan Thomas, Orwell, Lawrence Durrell, e Pound, che vi pubblicò oltre 180 “pezzi”. Pagava i collaboratori, anche bene, fu il primo traduttore di Nietzsche in inglese, introdusse Freud nella pubblicistica inglese, nel 1912, fu teorico, prima di aderire al Credito Sociale, del Guild Socialism, il socialismo corporativo – “The New Age” fu finanziata per questo da Shaw.
Alfred Richard Orage, Il lavoro debilita l’uomo Greco & Greco, pp. 87 € 9

sabato 22 dicembre 2012

I rottamati di oggi furono rottamatori

Non si lascia la politica “come una donna di cui si sia abusato”. Plutarco non avrebbe votato per la rottamazione. Perché era lui stesso vecchio, ma più per un buon motivo. Solo l’ambizione Tucidide, il primo rottamatore, voleva immune da vecchiaia. Plutarco non è d’accordo: immune è “piuttosto lo spirito comunitario e politico, istinti che anche nelle formiche e nelle api permangono fino ala fine inalterati”. Anche perché la buona politica esige una scuola, l’esperienza.
Una vindicatio della politica. “Quanto all’invidia, male che iù di ogni altro affligge la vita delle istituzioni politiche, i vecchi sono quelli che ne soffrono meno”. Questo oggi non si direbbe: più che l’improntitudine dei rottamatori, sorprende quella dei rottamati tra di loro. In un solo partito politico, l’ex Pci.
Pubblicato venticinque anni fa, alla vigilia della Seconda Repubblica, l’opuscolo morale di Plutarco non fu tenuto in conto e l’effetto si è visto. Il ricambio generazionale non ha portato nulla di buono:  solo Casini, con D’Alema, Veltroni e Berlusconi – di questo non si parla, curiosamente: dei rottamati che furono rottamatori..
Plutarco, Anziani e politica

Problemi di base - 128

spock

Tutti generali attorno a Monti, e le truppe?

Perché i tedeschi, così buoni, sono cattivi con i greci?

Dopo il capo dello Stato, si processano a Palermo i giudici: ma non c’è più la mafia in Sicilia?

Quanti mafiosi Ingroia ha preso in questi venti anni? O è Stato anche lui?

Perché Dio fa tanto male?

E perché non ride mai?

Il Dio della Genesi non è quello d’Isaia: ce ne sono due?

O tre: Elohim, Adonai, Jahve?

Allah e Jahve non si pronunciano, mentre Dio è dappertutto per i cristiani: c’è un Dio semita e uno “ariano”?

spock@antiit.eu


L’uomo delle ambasciate

Buone feste quest’anno tra i diplomatici accreditati a Roma con spreco di elogi reciproci e autocelebrazioni. Monti ha accreditato al suo governo soprattutto il favore acquisito presso le cancellerie europee. Non poteva – non può – essere altrimenti, e non c’è da formalizzarsi. Anche dell’autocelebrazione: è parte accettabile della buona politica.
Il fatto però pone la domanda se Monti abbia perseguito e realizzato gli interessi dell’Italia, o comunque la difesa. L’elogio degli altri depone a sfavore, in un’Europa fortemente competitiva al suo interno, con punta da guerra civile, da tre anni a questa parte, ora quasi quattro.
Il principio cardine della diplomazia è di avere buoni rapporti con tutti, fatti salvi i diritti fondamentali di tutti. Mentre non c’è dubbio che Monti non ha fatto salvo nessun diritto dell’Italia in questo suo anno, ma li ha anzi tutti abbondantemente sacrificati a un’idea di Europa fantomatica, e che anzi le altre cancellerie al coperto irridono. È Draghi che ha dimezzato lo spread, la Banca centrale europea, anche se piace darne il merito a Monti – un’operazione tecnica, senza nessun afflato: l’Europa non c’era e non c’è..

Che li eleggiamo a fare?

“Temo il sabotaggio”, dice il sindaco di Roma Alemanno dei continui sabotaggi alla metropolitana. E non si sa se compiangerlo o irritarsi. Alemanno ipotizza quello che a Roma tutti sanno. Che alla metro di Roma tutti gli inconvenienti, quasi quotidiani, da circa otto mesi sono provocati e non fortuiti. Soprattutto alla linea B. Provocati dai suoi uomini, più che dai suoi nemici politici, dalla loro incompetenza.
Questi sindaci sono del tutto inutili. Si direbbero imbelli ma non è possibile che tutti lo siano. Li abbiamo voluti a elezione diretta perché amministrassero meglio, sciolti dagli impegni di questo e di quello, dagli interessi. Ma evidentemente non sanno farne a meno.
Alemanno ha avuto una campagna contro da spellare da parte di Caltagirone, il costruttore-editore, per impegni non onorati – impegni di interessi. Caltagirone gli ha anche scatenato contro gli Udc di Roma, che di loro sarebbero di destra. E niente,  Alemanno non ha avuto una parola, una sola, contro Caltagirone. Che li eleggiamo a fare?

venerdì 21 dicembre 2012

Marcel come Odette

Sei scritti “inediti” di Proust al debutto nella carta stampata a 19 anni  (altri cinque, firmati M.P. o Marcel Proust, erano stati ripresi nel 1991, in “Marcel Proust. Écrits de jeunesse”). Firmati “Stella Filante”, “Y.”, “Fusain”, carboncino, “Pierre de Touche”, pietra di paragone, “Bob”. L’artiglio c’è: le “procaci Bellezze dei café-concert, vegetali”, “l’umanitaria intelligenza dei leoni dell’Ippodromo, che non si dedicheranno dunque mai, mai, a mangiare un pochino i loro domatori”. Ma sono pezzi svagati. Poco illuminati anche, se non nell’articolo “La moda”. Fa due rassegne dettagliate di pittori in mostra di cui non resta un solo nome, a parte Puvis de Chavanne, e c’erano in giro Monet, Renoir – col “gusto del cattivo gusto”. Un paio di rassegne del music-hall (café-concert) si urtano al suo scarso interesse, anche in presenza di Yvette Guilbert, icona della storia del cabaret – a un certo punto critica  lo snobismo dei patiti…(un giovanotto che non è mai stato giovane?)
Proust non ha scritto sempre lo stesso libro, qui si vede. Ma l’ultimo “pezzo”, un racconto di tre pagine firmato Pierre de Touche, è su un amore impossibile, di cui la “Ricerca” diverrà il teatro – dopo essere stato ripreso due anni dopo, nel 1893, in “Prima della notte”, sulla “Revue Blanche”, e cinque anni dopo in “L’indifferente” (“I piaceri e i giorni”). S’intitola “Souvenir”, è una storia di Normandia, ambiente anche del precedente pezzo, “Cose normanne”, già noto, e ha per protagonista una Odette. Un’amica della vita spensierata delle partite a tennis già con gli occhi “cerchiati di nero”. Ma questa Odette è solo malata. In una casa piena di disgrazie.
Anche Pierre de Touche ritorna nel romanzo, censito una volta in “Guermantes” e una in “Sodoma” da Jérôme Prieur nella lunga prefazione che prende la metà del libro, “Proust avant Proust”. Ma Odette intriga di più. Partendo dal “Mensuel”, un’esperienza di un anno poi completamente obliterata, Prieur s’interroga sulla sparizione di due amici intimi di Proust negli anni famosi del liceo Condorcet, Otto Bouwens, di un anno più giovane di Marcel, e del coetaneo Gabriel Trarieux. Che hanno entrambi larga parte nel “Mensuel”, Otto come editore e direttore, Gabriel come nume tutelare. Entrambi di ottima condizione, Otto Bouwens Van der Boijin, barone, figlio di architetto rinomato, Trarieux di un avvocato importante,  senatore, futuro ministro di Giustizia, primo dei dreyfusardi, fondatore della Lega dei Diritti dell’Uomo. Nonché di Horace Finaly, figlio del creatore e padrone della Banque de Paris et des Pays Bas. Tutt’e tre più in vista anzi delle altre amicizie che Proust mondano coltiverà, di Daniel Halévy, Jacques Bizet, Robert Dreyfus. L’altra metà della compagnia alla quale aveva imposto al liceo i suoi giornaletti a mano, “Le Lundi”, “La Revue verte”, “La Revue lilas”. Una cancellazione radicale, anche dalla foltissima corrispondenza, e per questo ancora più bizzarra: voluta cioè e non casuale.
Prieur vuole che Swann sia Otto, e anche Odette. Ma più insegue tracce dello stesso Proust in Odette, nel passato equivoco, bisessuale, di Odette ragazza. Introducendo estesamente a questo fine, anche se fuori tema, un parallelo fra i due ritratti pittorici, quello di Proust a opera di J.-È Blanche nella realtà, e quello di una Miss Sacripant a opera di Elstir nel romanzo. Perché entrambi sono ridotti al viso, cancellati il corpo e le mani, che nella realtà Blanche aveva, a suo dire, distrutto insoddisfatto, prima che Proust salvasse la testa. Quello di Miss Sacripant, che nel romanzo è “proprio un ritratto di Odette de Crécy”, è nella stessa pagina anche quello “d’una ragazza un po’ ragazzo”, oppure di “un giovane appassionato vizioso e sognatore”.
Marcel Proust, “Le Mensuel” retrouvé, Editions des Busclats, pp. 143 € 15