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sabato 20 giugno 2020

Problemi di base americani - 573

spock


Si rivolta l’America, contro se stessa?
 
“Spacciatori col Rolex sono andati al sacco di New York noleggiando dei Suv con Uber”, Federico Rampini?
 
È tutta colpa di Trump?
 
E di Woody Allen?
 
Più una cosa è uguale più è americana”, Andy Warhol?
 
Uguale a che – uguale all’altra?
 
Si rivolta l’America ogni pochi anni, è il paese della ribalta  continua?

È sempre Hollywood – Hollywood è l’America, o l’America è Hollywood?


spock@antiit.eu

La traduzione tradisce

Del travestimento Montale è l’autore dietro le quinte, da suggeritore. “Faccia tradurre”, disse nei primi mesi del 1978, “con allegria”, a Maria Corti, “in arabo la lirica Nuove stanze  delle Occasioni”. Per poi farla tradurre dall’arabo, come componimento di anonimo, in francese, e dal francese al polacco, e così di seguito, a catena, in russo, ceco, bulgaro, olandese, tedesco, spagnolo, e dallo spagnolo all’italiano. Non ci sarebbe stata più la poesia originaria, Maria Corti ricorda che “lo disse con un gradevole, consueto risolino ironico”. Analogo desiderio, ricorda ancora Corti, era stato espresso da Montale una dozzina d’anni prima, a Enrico Emanuelli che per il loro giornale, il “Corriere della sera”, l’aveva intervistato in occasione della nomina a senatore a vita.
Attraverso Guglielmo Gorni, italianista a Ginevra, Maria Corti avvia l’anno dopo il progetto, e le prime traduzioni sono pronte in breve. Quella fondamentale in arabo è affidata a Mahmud Salem Elsheikl, accademico della Crusca, cioè profondo conoscitore dell’italiano – anche a  Elsheikl Montale aveva esposto un progetto analogo (la conversazione tra Montale e Elsheikl è qui riprodotta), il 18 luglio 1980.
L’effetto è quale Montale divertito prevedeva – dopo una vita da traduttore, in poesia e in prosa…: la traduzione cambia il senso. Il lettore italiano lo vede dalla ri-traduzione, per le lingue poco frequentate, delle varie traduzioni a pie’ di pagina. Anna Maria Terzoli analizza le “varianti” traduzione per traduzione.
La conversazione con Elsheikl, la parte più godibile della plaquette, riesce a cavare qualche elemento da Montale su qualcuna delle sue “donne” – l’Anna di “Annetta”. Montale canta anche, a Elsheikl e a Rosanna Bettarini: “La calunnia è un venticello”. In ricordo di quando Silvio Guarnieri, amico delle “Giubbe Rosse”, gliela fece cantare in teatro a Feltre, dispiaciuto che ora Silvio non abbia vinto il concorso a cattedra a Pisa -  dopo vario pettegolare sui concorsi universitari, essendo Bettarini e Elsheikl cattedratici a Firenze: “Non ha vinto, poveraccio!, mi dispiace, non so come protestare. È anche un comunista… un comunista all’acqua di rosa”. Elsheikl nota che “per un attimo, fu tradito dall’emozione”.
Eugenio Montale, Poesia travestita, Interlinea, remainders, pp. 79 € 7,75


venerdì 19 giugno 2020

Appalti, fisco, abusi (175)

Intesa e Unicredit, visto da sinistra, vista da destra. Due categorie desuete ritornano alla ribalta nella guerra per procura tra le due banche maggiori sull’opa Ubi. Curiosi allineamenti. Unicredit punta sul blocco di destra, con a capo Savona (Consob), e l’Antitrust del giudice Rustichelli. Intesa su quello di sinistra, con a capo Banca d’Italia e Ivass.
 
L’Ivass, l’Autorità di vigilanza sulle assicurazioni, calcola che il caro-Rc auto in Italia rispetto ai principali quattro paesi europei, Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna, è dovuto “al più elevato costo dei sinistri”. È quello che ognuno constata, a proprio danno. Ma l’Ivass non dice l’essenziale: che le liquidazioni generose si fanno, tra periti e liquidatori, col concorso del sinistrato, che divide: un segreto di Pulcinella. Che le compagnie assicurative colpevolmente non controllano né tanto meno sanzionano. Tanto pagano l’assicurato, scalando di classe, e l’insieme degli assicurati, scalando la tariffa base. Ah, l’incidentalità! Ma è dele compagnie.
 
Dice Ivass che la Rc auto in Italia è di “solo 90 euro” più cara che nel resto dell’Europa. Come se fosse una inezia. Ma è il premio prima delle tasse. Senza contare l’aggravante per l’assicurato singolo,  declassato dopo la liquidazione del “danno”.
 
L’Ivass vanta negli ultimi sei anni, cioè da quanto l’istituto è operativo, la riduzione del divario della Rc auto in Italia rispetto al resto dl’Europa “da oltre 200 e 90 euro”. Sempre al netto delle tasse. E cioè, l’Autorità di controllo che cosa faceva prima? Ribattezzata Ivass dal governo Monti, l’autorità esiste dal 1982, col nome di Isvap?
 
A lungo si è sostenuto che la Rc auto è troppo cara in Italia perché molti non la pagano. Non credibile. Molti, quanti? Milioni, centinaia di migliaia, migliaia? La stocastica dice che le proiezioni variano moltissimo in corrispondenza.
La verità è che non c’è controllo in Italia sul mercato dei servizi. Un campo di predoni, anche se investe la vita di ognuno: la luce, l’acqua, la spazzatura, il telefono, il gas, l’assicurazione obbligatoria.  


La grazia divina è magia

 “La grazia gratisdata o riguarda la ricchezza delle cognizioni”, nella traduzione dal latino di Romano Amerio, il teologo svizzero-italiano di orientamento tradizionalista, che ha collazionato il testo critico dell’inedito “Theologicorum Liber XIV”, “onde l’uomo può ammaestrare altri, e a questa specie appartengono la profezia, la fede, e la discrezione degli spiriti; oppure riguarda la parola, onde la verità e la promessa divine vengono insegnate e manifestate altrui, e a questa specie appartengono quattro grazie, cioè la parola della sapienza, la parola della scienza, l’interpretazione dei lingauggi e la molteplicità delle lingue”. Vasto programma.
Campanella lo svolge con scienza e costanza. E in fondo è il “suo” tema: la grazia come magia di ordine trascendente. Molte parole spendendo sulla profezia.
Una ripresa nel, 1616, del “De sensu rerum et magia”, il trattato composto nel 1604 in italiano (poi tradotto in latino, cinque anni dopo), dopo che la versione originale latina, composta tra il 1590 e il 1592, gli era stata sequestrata dal Sant’Uffizio. Il tema riprendendo e organizzando, con gusto secentesco, in innumerevoli rivoli, quasi casistico - anche se non da gesuita (ma il domenicano, quando è teologo, non è da meno). Tutti più o meno fertili per il pensiero. “Benché”, come Amerio nota del primo trattato, “la fantasia dell’uomo anche in questo De sensu baccheggi” – parola repertoriata solo in riferimento a Bacco, per dire che si esagera, tripudia.
Tommaso Campanella, Magia e grazia


giovedì 18 giugno 2020

Problemi di base storici - 572

spock

Abolire la storia?


Compresi gli abolitori?
 
Nella storia si è sempre alla soglia del peggio?
 
La storia è degli incontentabili?
 
Ma è meglio l’ottimismo o il pessimismo?


È abolire l’uomo per abolire la storia, o viceversa’


spock@antiit.eu


Il calcio degli sceicchi – morto

Si segue con più attenzione senza il pubblico Napoli-Juventus e si vede nettamenta una squadra libera di giocare e una squadra dell’allenatore, ingessata, disciplinata come un battaglione, e non c’è gara: c’è intelligenza, atletismo, voglia, contro abulia e ripasso, il compitino da eseguire.
Si segue con sorpresa Napoli-Juventus partendo dal monte ingaggi. Con il Juventus Fc che, sulla scia del Paris Saint Germain e del Manchester City, le squadre degli sceicchi, paga tre volte tanto la Ssc Napoli, 146,7 milioni contro 47,5 (lordi ben 250,7 milioni, contro 88). Ingaggi che la Ssc Napoli ha pure multato, e ora non paga, volendoli ridurre d’autorità. E si penserebbe: non c’è partita. E invece no, la Ssc Napoli ha calciatori ancora affamati, come si suole dire, con la voglia di giocare al meglio, e hanno strapazzato l’avversario.
E cioè: i soldi non fanno il calcio, se non c’è anima, voglia, interesse di fare – i soldi sono comunque acquisiti, nei contratti pluriennali, basta limitarsi alla presenza, risvegliandosi l’ultimo semestre di contratto, per il resto spendendosi in pubblicità e promozioni, per incrementare il business.
Giocano all’inverso anche gli ingaggi degli allenatori? Quello di Sarri, della “squadra del mister”, è di 10 milioni, 5,5 netti. Quello di Gattuso di 1 milione, 750 mila netti.

 


Raffaello inquietante

Un Raffaelo inquietante, non molto urbinate – non angelico. Aperto a tutto quello che ribolliva nel primo Cinquecento tra Firenze e Roma, soprattutto a Roma. Curioso e critico, pur essendo già giovanissimo molto indaffarato, preso dalle commesse. L’anello che manca tra Leonardo e Caravaggio. Pittore anche geometrico, delle prospettive, tourné architetto un ventennio prima di Michelangelo. Una mostra che poteva fare epoca, segnare una svolta nel mondo di Raffaello ovattato.
Peccato che un mostra così ricca, in collaborazione con gli Uffizi, con prestiti da tutta Europa (Louvre, Prado, Vaticani, National Gallery, Albertina, Britisth, Ashmoleum, Lille, Brescia, Napoli, Bologna, le Gallerie Nazionali d’Arte Antica) e dalla National Gallery di Washington, e una vera mostra, di manufatti dell’artista, oltre un centinaio sui duecento esposti, piuttosto che di didascalie, contesti e storia dell’arte, debba essere vista in fretta, col tempo contato sala per sala, senza la possibilità di rivedere alcunché.
Raffaello 1483-1520, Scuderie del Quirinale, Roma € 13-15


mercoledì 17 giugno 2020

Letture - 424

letterautore

Azzardo – La droga dei poveri. Gay Talese ne fa un quadro succinto ma incisivo nella sua vita romanzata del mafioso Bill Bonanno, “Onora il padre”, spiegando uno dei rami più proficui delle mafie allora in America, negli anni 1950-1960, le scommesse clandestine. Un vasto mondo di piccole scommesse, anche di centesimi, quotidiane, in attesa del miracolo, fidando nella “banca”, il circuito di scommesse clandestino: “Tre quarti degli introiti criminali erano contribuiti da cittadini che scommettevano sui cavalli o altri eventi sportivi con gli allibratori, o si giocavano i numeri”. Lo “scommettitore tipico sui numeri è la casalinga di Harlem assistita dai servizi sociali che deposita ogni mattina 25 centesimi presso l’agente (di allibratore) del vicinato”, mentre “il tipico cliente dell’allibratore potrebbe essere un meccanico o un facchino che investe due dollari ogni giorno sui cavalli” – “ci sono abbastanza di questi cittadini scommettitori in America - milioni, che non possono frequentare un ippodromo, per i quali una piccola scommessa è il tonico quotidiano – da mantenere nell’agio la favolosa industria delle scommesse clandestine”.

Bach – La musicalissima narratrice Vernon Lee ha, in “The Spirit of Rome”, “un organo molto ben suonato, su un registro che dà un’imitazione di Bach musette. Tutta la cerimonia, un po’ come il 6/8 di quel musette, forse un tantino troppo sull’elemento danza, ma grave e perfetta…”.
Il Cantor è leggero, anche. Non solo in quell’esercizio per piano in Re maggiore dal “Quaderno di Anna Magdalena. O, sempre per piano, nell’“Aria variata ala maniera italiana”. Nel greve socialismo dietro la “cortina di ferro”, in una delle fiere di Lipsia anni 1970, capitava di ascoltare dalle chiese sconsacrate un Bach cantante se non proprio musette. Quasi una rivolta, sorniona. Sarebbe stato contento Bach, che invece i tempi, i suoi principi e consiglieri municipali, e poi la Germania tutta hanno voluto e vogliono musone.
Kant – Si trovava bene con l’occupazione russa a Königsberg nel 1762, nota perfido Rumiz, slavofilo, in “Trans Europa Express” – nella Guerra dei Sette Anni. Non aveva ancora quarant’anni, ed ebbe quell’anno come allievo il diciottenne Herder.
È anche vero che i russi a Königsberg finirono per creare la fama di Federico di Prussia, che grazie a loro diventerà Federico il Grande. A Königsberg ci stettero poco. Subito dopo l’occupazione, che aveva convinto l’Inghilterra della debolezza della Prussia, al punto di minacciare l’abbandono dell’alleanza con  Federico se questi non chiedeva l’armistizio e la pace, la zarina anti-prussiana Elisabetta moriva, e il suo successore, Paolo III, si manifestò fervente filo-prussiano. Königsberg cadde in mano russa il 16 dicembre 1761. Elisabetta morì il 5 gennaio. Pietro III, prima ancora di essere incoronato, proclamò la restituzione delle terre occupate in Prussia, chiese la pace, e offrì a Federico aiuto militare.

Mafie – Il crimine organizzato è molto vasto in America e ha avuto varie impersonificazioni “nazionali”: irlandese tra fine Ottocento e primo Novecento, ebreo tra le due guerra, italiano (siculo-napoletano) nel dopoguerra fino agli anni 1970 – ora latinoamericano e afroamericano. Ma solo la mafia propriamente detta ha prodotto letteratura (Talese, Puzo, Pileggi) e arte (Scorsese, Coppola, Ferrara, Farrelly, “The Green Book”, Eastwood).  

Mississippi – Evoca Fogazzaro, “Ombretta sdegnosa, del Missipipì…” il professor Parisi del Mississippi che lavora, dovrebbe, a trovare lavoro ai percettori del reddito di cittadinanza – il capo dei navigator, curiosa definizione, made in Italy, per un’attività che è da consulente del lavoro. Senza nessuna ragione, non c’entra Fogazzaro, il Mississippi è grande, il fiume. Ma il navigator è ben fogazzariano: sa di alligator, che nel fiume allignano.

Montagne russe – Sono “americane” in russo, Rumiz scopre viaggiando in Oriente, “Trans Europa Express”. In America l’ottovolangte è roller-coaster.

Napoleone – Crebbe con l’italiano, nella versione corsa. E “quando era nervoso o indispettito”, il suo francese “somigliava a quello di uno straniero”. Nel lungo e anticonformista ritratto che Conan Doyle ne fa in “Lo zio Bernac alla corte di Napoleone”, ritorna il sottinteso che Napoleone fu  francese per convenienza.
Curiosamente, Conan Doyle riveste Napoleone spesso di tricolore, ma di quello italiano. Del tipo: “Uniforme verde con la fascia rossa che attraversava il panciotto bianco”.
Usava il verde, anche nelle divise, dei dragoni e degli ussari, e non il blu.

Letizia Ramorino – Salva solo lei, la mamma, Conan Doyle, “Lo zio Bernac alla corte di Napoleone”, nella cerchia dell’imperatore: “Una regina tragica, alta, severa, riservata, silenziosa”. 

Università – Evoca solo mani, da qualche tempo – da un tre decenni almeno in qua: da rapinatori. La bibliografia non è cospicua, ma è univoca, non si scappa: quando si tratta di università, il titolo è sempre “Mani sull’università”, a opera di Felice Froio, Antonio Massari, un Comitato Messinese, Antonio Imbasciati.

Viaggiatori“Siamo tutti un popolo di viaggiatori”, Rumiz riflette a un certo punto della sua traversata dell’Europa  in spaccata, dall’estremo Nord all’estremo Sud. Tutti, l’umanità. Siamo inquieti e ci spostiamo. Gli unici stabilizzati si direbbero gli americani, del Nord. Che però anche loro sono anti pellegrini – e tuttora, in patria, si spostano moltissimo, rari sono gli americani che muoiono dove sono nati.

Zola – La moglie di Zola, Alexandrine, ragazza-madre a vent’anni, quando si faceva chiamare, non si sa perché, Gabrielle, ha dovuto abbandonare la sua neonata agli Enfants trouvés e non ha più potuto avere figli. Si attaccherà a quelli del marito, Denise e Jacques. Che Zola avrà da un’amante segreta in costanza di matrimonio. Lei contentandosi di vivere la sua vita grazie ai soggiorni autunnali, i tre mesi settembre-novembre, dagli amici in Italia. E alla devozione. Amatissima dai figli di lui, con loro sempre materna, amorevole. 
Con Zola aveva cercato la bambina lasciata al brefotrofio, ma era morta.

letterautore@antiit.eu

La passione della devozione

Tozzi al debutto è stato a lungo poeta. Con raccolte pubblicate anche da editori importanti, benché a spese d’autore. Esordì nel 1911 con “La zampogna poetica”, una raccolta pubblicata in Ancona da Giovanni Puccini - il padre di Mario Puccini, che molto contribuirà poi a far conoscere Tozzi narratore, dopo la morte prematura. Seguitò nel 1913 con “La Città della Vergine”, edita da Angelo Fortunato Formìggini, con le xilografie di Gino Barbieri e Ferruccio Pasqui. Nel mezzo, 1912, una raccolta intitolata “Specchi d’acqua”, rimasta allo stato di bozze, corrette.
Un Pascoli minore è la raccolta d’esordio, col bozzettismo alla Fucini in agguato, benché le dediche siano a E.A.Poe, al Poe poeta, a Mallarmé, a Cecco Angiolieri. Le età, le stagioni, i campi. Di fantasia spoglia, come sarà poi la narrazione, curata nella metrica (prevalgono i sonetti), ma di nessuna ispirazione. Non quelle indirizzate a un paio di signorine, e a muse altrettanto ignote. Non quelle bellicose – ce ne sono (“A idilli son simili le pugne\ he allietano i miei spirti di gigante….”) e ce ne saranno anche nelle altre raccolte (“mani mozzate son le mie rime”…). E nemmeno quelle, numerose, a carattere religioso.
“Le rime, somiglianti a corrrentìe,\ auliscono sì come ghirlandelle” è l’esordio del sonetto a Poe – con la rima, a proposito di Febo: “E invano a Marsia scorticò la pelle\....\ e la bellezza porge le mammelle”. Le ballate “A una donna nuda” conclude anche queste bellicoso: “Spesso pensai con molta voluttà\ che io uccidessi allo sbocco d’una strada\ tutti, volgendo a torno la mia spada”. Supplisce l’esergo della raccolta (non pubblicata) a  seguire, “Specchi d’acqua”. “Ché tale diventa la creatura\ quale è quelal cosa che ama”. Ma questa è santa Caterina.
La raccolta non pubblicata, “Specchi d’acqua”, è la più viva. A metà canzoniere d’amore, declinato in tutti i sintomi, elegia, dispetto, malinconia, gioia indefinita, e in tutte le forme, invocazione, mottetto, rapsodia, visione. A metà antifonario, che una “Canzone alla Vergine” conclude, seguita da un inno “A Dio”.
“La città della Vergine”, con dedica a Domenico Giuliotti”, è il poema di Siena. Con un cap. “I Salimbeni”, uno “Santa Caterina”, e uno “Battaglie” – quello delle “mani mozzate sono le mie rime”. Questo è l’aspetto più originale, la devozione. La passione, anche, religiosa. Che forse meriterebbe qualche scandaglio. Come pure l’ambiente nel quale Tozzi è venuto crescendo, non propriamente campanilistico. Le dediche degli ultimi componimenti delineano un, sia pure modesto, ambiente letterario cui Tozzi si legava, oltre Giuliotti: Ettore Cozzani, Ferdinando Paolieri, Antonino Anile.
Nel complesso un canzoniere d’amore. Specie le ultime raccolte, postume, pubblicate da Glauco Tozzi come “Fascicoli”, due quaderni manoscritti senza titolo. E i primi componimenti, è presumibile, di Tozzi, del 1903-4, trascritti come “Liriche sparse”. Insieme con “Quadernetto”, altro tiolo del figlio Glauco, che introduce il volume.
La raccolta, qui introdotta da Benedetta Livi, è sempre quella curata nel 1981 da Glauco Tozzi per Vallecchi.
Federigo Tozzi, Poesie, Ugo Mursia, p. 246 € 12,50


martedì 16 giugno 2020

Secondi pensieri - 422

zeulig

Amore - Dice bene Lou Salomé, l’amore dura finché ognuno resta se stesso. Finché cioè non si adatta, anche se per convenienza, di buona volontà, timorosamente, non si uniforma. Ma le differenze agiscono dolorosamente. Tanto più in tre stanze - quando non in due. Senza più l’osteria di rincalzo, o il bar, il biliardo, le quattro chiacchiere con gli amici, ma casa e lavoro, lavoro e casa, invariabili, monotoni.
Non ha più spazio.
 
Ereignis – Concetto centrale in tutti gli stadi di Heidegger, è così repertoriato dallo stesso, in “Il principio di identità” (in “Identità e differenza”), p.44: “La parola Ereignis, “evento”, è tratta dal tedesco ormai formato. Originariamente er-eignen significa er-äugen, ossia scorgere (erblicken), chiamare a sé nel guardare, fare proprio, (en-eignen). Ora, pensata in base alla cosa indicata, la parola Ereignis, “evento”, deve parlare come parola-guida al servizio del pensiero. In quanto parola-guida così pensata essa è intraducibile al pari della parola-guida greca λόγος o della parola cinese tao”.
E ancora: “La parola Ereignis, «evento», qui non intende più ciò che solitamente definiamo come un qualsiasi avvenimento, un fatto che accade. La parola è utilizzata ora come singulare tantum, nome invariabile”. Ciò che essa nomina avviene soltanto al singolare, anzi, qui non si ha nemmeno più a che fare con un numero, ma con qualcosa di unico”. Un miracolo - intendendo peraltro dire semplicemente: ciò che ci riguarda.
 
Heidegger - Alla fine, si potrebbe anche dire di Heidegger come di uno che provò a rinnovare il vocabolario, con esiti incerti, senza più? Il “Vocabolario Heidegger”, o dell’indefinitezza.
Diventato famoso, per lungo tempo, grazie a Hitler dopo la sconfitta di Hitler – a una sconfitta, cioè, non digerita.
 
Kant – È un altro in Simone Weil, che “Kant conduce alla grazia”, dice, la filosofia porta alla religione: “Kant vi porta segnando i limiti della ragione, che non produce ciò che pensa, ma lo riceve”, con i suoi cento talleri possibili che nulla aggiungono ai cento talleri reali. Il reale è il possibile, certo, anche di noi desideranti, ma il contrario è pure vero: “Lo stesso per Dio”. L’intelligenza serve a ripulire l’ambiente dei falsi dei: il falso Dio che somiglia in tutto al vero, eccetto che non lo si tocca, impedisce per sempre di accedere al vero. Alla nostra verità, non del Dio astratto.
 
Minoranze – Nella nuova dottrina dei diritti universali, dell’eguaglianza e quindi della protezione del più debole, sono totalitarie e irriconoscenti. Questo è di ogni movimento rivoluzionario, o di affermazione dei diritti, ma qui perspiscuamente, incongruamente, nel nome della minorità-minoranza.
 
È normale se non  giusto. Nella fase dell’affermazione, rivoluzionaria, e anche dopo, del consolidamento. Ma allora non più nel nome dell’eguaglianza, se questa è acquisita, bensì nella deriva politica inevitabile verso l’autoaffermazione senza limiti, in mancanza di contrappesi. Tendenza a cui la minoranza sembra portata inevitabilmente, pretenziosa, distruttiva, germinativa, per gemmazione si direbbe, per partenogenesi. Una società aperta che subito si fa chiusa, perfino ottusa (anonima, meccanica), e di una sola opinione, irriflessa, all’insegna del “tutto subito”. Provocando inevitabile un movimento di bascula – quello che si semplifica come destra e sinistra.
 
È la caratteristica (limite) che fa dell’immigrazione un problema: la minoranza si vuole divergente e non convergente. L’irriconoscenza (l’insoddisfazione) è perfino dichiarata nei movimenti migratori, la non integrazione. Che si impongono – con la forza del bisogno, e dell’obbligo di carità - ma non si integrano. Se non in un quadro piramidale, o di scala di apprezzamento, tra le varie destinazioni – con gli Stati Uniti alla cuspide. E quindi con una riserva. Contro il mondo di cui stanno beneficiando, benché per la prima e ancora unica volta, se non in esclusiva – se non ci sono alternative.
Il somalo e il sikh si acconciano all’Italia, ma dopo che non hanno potuto raggiungere la Germania e la Gran Bretagna, dopo averci tentato con gli Statu Uniti. Arabi, Indiani, Iraniani, Africani, anche gli Ebrei nel dopoguerra, tutti i popoli in fuga da sé  sempre agli Usa guardano – pretendono al meglio  È il ragionamento che la Libia faceva, la Libia di Gheddafi, che i suoi studenti mandava alle università americane, a migliaia ogni anno, pagando rette salatissime: “L’Europa non esiste,  dunque gli Usa”. Lo stesso poi, su altra scala, l’Iran degli ayatollah.
 
Musica – Porta all’astrazione. È risaputo che Prokof’ev, pur essendo pieno del tempo, un uomo del tempo, nel 1917 si astrasse  nella sua dacia nei dintorni di Pietroburgo, “in assoluta solitudine”, a leggere Kant e comporre la sua sinfonia “classica”, Haydn inseguendo e Mozart, senza le incrostazioni di Beethoven. Mentre il popolo al fronte si ribellava e nelle città ribolliva la rivoluzione. Analogamente Richard Strauss, nell’estate del 1942, mentre Hitler gioiosamente suicidava la Germania nelle steppe, si dilettava a musicare “Capriccio”, la storia in cui l’abate Casti discute del primato, nel melodramma, della parola o della musica.
 
Nietzsche – Un parodista, magari senza volerlo (saperlo)? Ritorna – ciclica – l’ipotesi che Nietzsche si divertisse e intendesse divertire – improbabile, ma l’ermeneutica è improbabile. Ritorna con una “custode delle memorie”, Babette Babich, la filosofa americana del “New Nietzsche”, di “Nietzsche e la scienza”, e dei “New Nietzsches Studies” (“Nietzsche and Kant” è uno dei numeri, “Nietzsche and the Jews” un altro), che insegna alla Fordham, l’università gesuita di New York, in “Incipit parödie. Nietzsches Empedokles/Zarathustra. Zwischen Lukians uperanthropos und Nietzsches Űbermensch”. Tra Empedocle, l’eterno ritorno, e Luciano, il superuomo. Un esercizio più ampio, questo della nietzscheologa americana, riportando in gioco l’eterno ritorno oltre al superuomo - la novità dei quattro volumi di “Così parlò Zarathustra”.
Ma in tema di parodia la novità è relativa: era già materia nel 1995 da Robert Gooding-Williams, lo studioso afro-americano di W.H.DuBois, in “Zarathustra’s Descent: Incipit tragoedia. Incipit parodia”. E prima ancora del poligrafo Sander Gilman – da noi conosciuto per le controversie dell’ebraismo, “Il mito dell’intelligenza ebraica”, 2007, e per le curiosità, “La strana storia dell’obesità”, 2008, e “La storia del fumo”, 2009, ma già autore di “Conversations with Nietzsche: A Life in the Words of his Contemporaries”, 1991 - in  “Nietzschean Parody”, 1976, e “Incipit Parodia:  the function of Parody in the lyrical Poetry of Friedrich Nietzsche”, 1975 .
Non una novità, insomma. Prima ancora Klossowski, “Nietzsche, il politeismo e la parodia”, vi si era esercitato nel 1958, a proposito della parte prima del lirico trattato, della nozione di superuomo che vi entra nel gergo nietzscheano: come se “superuomo” fosse una maniera per dire l’inconsistenza e l’inconseguenza della riflessione al tempo di Nietzsche, positivista.
Lo stesso Nietzsche suggerisce che “incipit tragoedia” si potrebbe leggere “incipit parodia”. Gooding-Williams ha argomentato che quello che Nietzsche suggerisce – o il suo scritto comunque porta a concludere - è che “Zarathustra” non è “soltanto una tragedia ma anche una parodia del Neoplatonismo e una lettura paolina della Bibbia”.
 
Streit – Quello degli storici tedeschi negli anni 1980, quello delle Facoltà all’epoca di Kant, sempre in Germania, più che contesa o controversia indica difficoltà, spiega Heidegger avviando la conferenza “La struttura onto-teo-logica della metafisica” (in “Identità e differenza”, 53): “La parola tedesca Streit (in antico alto-tedesco strit), “contesa”, non significa in primo luogo la discordia, bensì l’angustia”.

zeulig@antiit.eu

Lunga vita, tra nonno e nipote, in Georgia

Un romanzone come usava, una saga familiare più che lo storione freudiano. Una donna di 32 anni, come l’autrice, nella pausa di un rapporto con un ragazzo che le giura eterno amore, ricorda e si ricorda – si situa. Lo storione familiare ricomponendo. Nella Georgia nativa e fuori. Dai bisnonni alla nipotina, la “bambina magica”. Tra le lacrime, nella poca considerazione di se stessa. Da brutto anatroccolo - tutti sono più interessanti e, soprattutto, belli (“ero una bambina brutta”). Che, anch’essa, si salva fuggendo. Nel “continente dell’indifferenza”, l’Europa. Finché la vita da single, emigrata, in carriera, di successo, non si complica con l’istinto materno, rimosso o soppresso, e con le occasioni perdute – “storie dietro le storie” emergono, “come in un tappeto di pregio”.
Un racconto di separazioni. Già alla nascita, ma non crudeli - il ricordo si vuole balsamico. Sui toni in avvio della favola: “Il mio stesso bacio mi risvegliò dal mio sonno di bella addormentata”. Favolistica è la Georgia, alla creazione e poi nel mito: è la Colchide del Vello d’oro, del “diritto di amare”. E lo stesso  paradosso del narratore, che “ho paura di queste storie”, si dice, “che si annodano e si spezzano, girano in tondo e s’incrociano e si spiano a vicenda…. E, soprattutto, celano in sé migliaia di altre storie”. Storie che il narratore crea, oppure insopprimibili se sono i ricordi. Che, però, si sa, possono risultare ulceranti oltre che lenitivi.
La lettura è a cerchi concentrici, di storie giustapposte, lungo un filo tenue – che ne sarà della bambina-nipote cresciuta-alter ego, in un ciclo apeto di apparizioni-sparizioni? Talvolta intersecanti, ma q.b., come tela di fondo, per figure, storie, passioni conchiuse. Si può interrompere in quasiasi momento senza danno. Il romanzone è semmai di un mondo diverso e sempre in qualche modo luminoso – ingegnoso, amorevole, invariabilmente bello: la Georgia.
Nino Haratischwili, L’ottava vita, Marsilio, pp. 1148 € 24


lunedì 15 giugno 2020

Il mondo com'è (405)

astolfo

Continentale – “Stiamo nel cuore dell’Europa”, così lo scrittore Savinio spiega il paradosso della Germania, molta cultura e molta violenza, in “Alcesti di Samuele”, 47-48: “Terra da ogni parte. Terra, terra. E la terra strozza l’uomo, lo istupidisce, lo porta alla disperazione. Queste crisi che periodicamente squassano al Germania, che altro sono se non i movimenti convulsi di un sepolto vivo? La terra stringe tutt’intorno questo paese, lo strozza, lo porta all’isterismo e alla pazzia”.
Lo stesso si potrebbe dire degli Stati Uniti, che hanno una storia di violenze. Le civiltà continentali vivono come costrette, in un orizzonte basso e chiuso, anche in uno spazio ampio e disteso, come è la Germania centrale, o il grande belt agricolo americano.
Gli Stati Uniti sono però anche potenza marinara. Questa duplice natura è stata la forza della pax americana  dal dopoguerra a oggi. Lo stesso per l’impero romano, che si costituì dapprima come potenza marinara, contro i Cartaginesi.
Sull’ambivalenza punta ora la Cina, potenza eminentemente continentale. Per allargare e irrobustire la sua proiezione mondiale Pechino ha avviato il programma che fantasiosamente ha chiamato Via della Seta: investimenti al’estero di ogni tipo e qualità, pubblici e privati, per allargare comunque la presenza oltremare.
 
Il rilievo di Savinio era venuto svolgendo in contemporanea, nel 1942, per i 450 anni della scoperta dell’America, su un altro piano di riflessione, Carl Schmitt in “Terra e mare”. Un saggio sulla storia determinata dalla dicotomia terra-mare scritto in forma di racconto, “Una considerazione sulla storia del mondo raccontata a mia, figlia Anna” – il tema sarà sviluppato in “Il Nomos della Terra”. Schmitt tratta di Venezia, potenza di terraferma proiettata sul mare, ma soprattutto di Spagna, Portogallo e Gran Bretagna, che si avventurano fuori dalle “colonne d’Ercole”, specie dopo la scoperta di Colombo.
 
Dottor Živago – Il film è stato nelle sale 900 giorni. Tre anni. Benché durasse tre ore. E il Pci lo boicottasse. Per un incasso di sei miliardi.
 
Partigiani tedeschi – Fu diffusa in Germania la Resistenza a Hitler, in senso proprio, di opposizione politica manifesta, ma non si dice.
Numerosissimi furono i soldati tedeschi ribelli a Hitler in guerra. Non tutti renitenti: una buona metà si batté con la Resistenza in Grecia e Jugoslavia, perfino in Polonia, in Cecoslovacchia e in Russia, e in Italia dopo l’8 settembre. In tutti i paesi occupati nei quali c’era un movimento di resistenza armato, compresa la Norvegia. L’unica ricerca che ne è stata fatta, “Das letzte tabu”, l’ultimo tabù, dagli storici Wolfram Wette e Detlef Vogel, dà i condannati per diserzione in circa 100 mila, molti dei quali comunisti. Molte diserzioni, specie nei Balcani e in Grecia, provenivano dai battaglioni di disciplina “999”, di detenuti – che in larga parte, però, non erano comuni ma politici.
Il conto dei prigionieri politici non si fa, ma furono almeno cinquantamila, quelli internati. A migliaia restarono in cattività tutt’e dodici gli anni di Hitler. Si opposero anche gli artisti. Qualcuno preferì emigrare, ripartire da zero. Stefan George, pur reazionario, volle morire a Minusio di Locarno per evitare il funerale nazista  Il poeta Metzger piuttosto si fece fucilare. Un sergente Anton Schmidt si mise a salvare gli ebrei, gratis, per cinque mesi, poi lo fucilarono. Un bellissimo sergente venticinquenne delle SS voleva far evadere Rudolf Vrba da Auschwitz in uniforme da alto ufficiale, con lui attendente (lo scrittore slovacco sarà famoso poi per l’evasione da Aschwitz, ma con altra organizzazione). Salvò invece Lederer, un ufficiale ceco, l’unico che si fidò di lui: lo portò a Praga in treno in prima classe. Si chiamava Viktor Pestek. Poi tornò ad Auschwitz benché ricercatissimo, pretendeva di far evadere un ragazza di cui s’era innamorato, ma un tedesco lo riconobbe e lo denunciò, e finì al forno. E c’erano ebrei nascosti variamente in Germania a guerra finita, nascosti dalla popolazione, malgrado il puntiglio della persecuzione.
Poche ricerche ne parlano, non di grande diffusione. Non c’è una festa o una giornata dell’opposizione. “Nel secondo dopoguerra solo la Germania di Bonn  ha saputo criticarsi a fondo, un atto d’intelligenza e di forza. Un processo esteso anche all’altra Germania con il crollo del Muro”, è stata considerazione lusinghiera, davanti al Bundestag il 27 gennaio 2003, di Jorge Semprun, lo scrittore spagnolo antifranchista già esule in Francia, dove era stato fatto prigioniero dai tedeschi, per professo comunismo, e internato a Buchenwald. Ma la Repubblica Federale tace della Resistenza: niente celebrazioni, niente ricordi o richiami.
Ventimila sono i condannati per reati militari giustiziati, nei conteggi di Vogel e Wette. Le esecuzioni di tedeschi, militari e di civili, furono tante che si dovettero trovare metodi diversi per eseguirle. Il Plötzensee, il carcere presso Berlino dove è stato eseguito un quarto delle condanne a morte accertate nel dodicennio, fu attrezzato per esecuzioni simultanee, otto alla volta per impiccagione. Più tecniche sperimentali varie: la ghigliottina piacque, e Hitler la sostituì all’ascia. Il record fu stabilito la notte del 7 agosto ‘44 con trecento decapitazioni. Furono ghigliottinati tutti i detenuti del Plötzensee, per il timore che scappassero sotto le bombe.
Vogel e Wette danno circa mille tedeschi passati con la Resistenza in Francia, 600 in Jugoslavia e altrettanti in Grecia, 100 in Polonia. Per l’Italia non danno cifre. Ma segnalano un rapporto della polizia segreta tedesca che dava a Civitella (Arezzo) la diserzione nel luglio 1944 di ben 741 soldati. Civitella era stata sede di uno dei peggiori massacri tedeschi di civili, per numero e crudeltà anche peggiore di Sant’Anna di Stazzema o di Marzabotto (Civitella non si celebra perché la popolazione locale è rimasta a lungo divisa sull’azione partigiana che innescò la rappresaglia, e tuttora cova risentimenti). Lo storico della Resistenza Roberto Battaglia, in uno scritto pubblicato a Vienna in tedesco nel 1960, “Deutsche Partisanen in der italienischen Widerstandsbewegung”, dice “forte e significativa” la “partecipazione di partigiani stranieri alla Resistenza italiana”, tra essi anche di tedeschi. In “dimensioni ragguardevoli”, anche se non dà cifre: “L’ingresso di tedeschi nelle file del movimento di Resistenza italiano non si è limitato a pochi singoli casi ma ha raggiunto dimensioni ragguardevoli. In tutte le regioni del Nord Italia, senza eccezione, è dimostrata la presenza di tedeschi nelle principali formazioni partigiane”.
Se ne trovano tracce sparsamente nella memorialistica. In Toscana, Umbria, Lombardia, e le regioni di frontiera, Trentino, Friuli. Stranamente, la maggior parte, senza nome. Le segnalazioni sono nell’ordine di molte decine, qualche centinaio.
 
Il fenomeno non è stato studiato perché fino al 2002 i condannati negli anni di Hitler per diserzione, renitenza, disfattismo e tradimento erano considerati tali anche dalla Repubblica Federale. Non c’è stata riabilitazione neanche dopo, se non caso per caso. Nel 2006 una ministra socialista della Giustizia, Brigitte Zypries, rifiutava la revisione dei processi: “Le asserite probabili ingiustizie nei casi di condanne per alto tradimento, e il fatto che esse siano state commesse durante una guerra di aggressione che infrangeva il diritto internazionale non sono ragioni sufficienti per una riabilitazione”.
 
Lady Hester Stanhope – La “mascula e amazzonia nipote di Pitt” (Mario Praz, “Il mondo che ho visto”, 214), che nel 1813 volle visitare Palmyra, e farvisi “acclamare dagli arabi” quale novella Zenobia – “un po’ per ammirazione, ma anche, certo, per le sue prodighe largizioni”, id.
Ancora Praz, evidentemente attratto, la ricorda (247) “fanatica eccentrica che trovava insipida l’Europa, e affascinante, formidabile, sibilla in abito di sceicco”. Finirà insabbiata, tra le comunità druse del Libano, a Djihoun, in fama di maga e profetessa, dove morirà nel 1839, a 59 ani, indigente, in un palazzo in rovina. Lamartine, che la incontrò e ne tratterà a lungo in “Le voyage en Orient”, la dice “giovane, bella e ricca”, ma insoddisfatta, e per questo passata in Medio Oriente, alla ricerca di sensazioni forti.
Resta però nella storia dell’archeologia. Per gli scavi da lei finanziati e organizzati a Ashkelon nel 1815, considerati i primissimi nella storia dell’archeologia biblica. E per l’uso di documenti medievali italiani, con i quali introdusse nell’archeologia sul campo le fonti testuali.
Era figlia di Hester Pitt, sorella di William Pitt il Giovane, il primo ministro britannico. Dall’adolescenza visse in casa della nonna materna. E nel 1803, a 27 anni, passò in quella dello zio primo ministro, fino alla morte di lui, nel 1806. Per tre anni ne fu la segretaria e anche la padrona di casa, e in questo periodo acquisì la rinomanza di cui si faranno eco Lamartine e Praz. Alla morte dello zio ebbe dal governo una pensione annua di 1.200 sterline. Nel 1810, a 34 anni, finita nel nulla una storia d’amore, decise di partire per il Medio Oriente.

astolfo@antiit.eu

All'origine del mito - la mafia tra noi

La vita di Salvatore “Bill” Bonanno, un gangster, tra Arizona e New York. Figlio del capomafia Joe Bonanno. Una non-vita, comunque senza qualità: Bill non è uomo d’azione, e i Bonanno sono una  delle cinquanta o sessanta famiglie mafiose italo-americane degli anni 1950-1960. Per di più dettagliata, minuta, completa di genealogie, la paterna e la materna, e di come o cosa Bill pensa o avrebbe potuto pensare o fare, di come si godeva l’Arizona, dove i genitori l’avevano trasferito per una minaccia di asma, dell’anno o due quando fu bigamo, dell’attaccamento della moglie Rosalie, eccetera. E tuttavia leggibile, godibile, sembra un romanzo. Le prime cento pagine sono annodate attorno alla “sparizione” del padre Joe, forse rapito e ucciso: tanto basta per creare la suspense.
Un libro del 1971. Il primo, purtroppo, di una serie che farà dei mafiosi, pentiti o trucidi, degli eroi. E sarà presto magnificata al cinema dalla serie di Francis Ford Coppola, “Il padrino” – sintonizzata più su Talese che su Mario Puzo. Un apprezzamento che la documentazione fotografica sancisce: Bill è alto, bello, elegante, Joe pure. E uno si chiede perché, come mai questi uomini hanno tante prepotenze e tanti assassinii sul gobbo. Per i mafiosi sarà come per i giornalisti, che è sempre meglio che lavorare? Bill è anche fortunato: il giudice che lo condanna dopo la guerra “dei Bananas”, come i Bonanno figuravano nella stampa sprezzante, riduce la pena al minimo, malgrado gli assassinii, quanto basta per lasciarlo libero su cauzione.  
Talese si cautela con un’annotazione all’inizio: la mafia negli anni 1950, prima di Bob Kennedy ministro della Giustizia, non dava grandi pensieri. I mafiosi non nascondevano le ricchezze, e facevano feste alla Grande Gatsby. Poi ha collaborato con Bill, un capocosca a disagio nella mafia, che finirà scrittore in proprio, nella documentazione di questo enorme ritratto.
Gay Talese, Onora il padre, Bur, pp. 600, ill. € 15


domenica 14 giugno 2020

Ombre - 517

Che Gentiloni, che non è un ardito, dichiari guerra al dumping fiscale, la concorrenza fiscale tra i paesi europei, dice a che punto l’Europa è caduta: a rubacchiarsi i contribuenti.
Ma quanto ha torto, anche, Gentiloni: ridurre le tasse – poterle ridurre, non alla maniera di Salvini e  Di Maio – è solo doveroso, e anche benefico. L’Italia ha il record delle tasse, patrimoniali comprese, e patrimonialine nascoste, in Europa e probabilmente nel mondo, ma a che fine?
 
“Rigore”, “riforme strutturali”, “piani definiti”: il corteo europeo che doveva dare lustro a Conte, von der Leyen, Lagarde, perfino Gentiloni, sono intervenuti agli Stati generali a villa Pamphili con la solita ramanzina. Non che non abbiano ragione, ma non hanno dato una mano.

O forse sì, nella vecchia ottica del “vincolo esterno”: l’Italia è spendacciona, bisogna che si metta al morso dell’Europa. Ma nessuno che lo rilevi: i media volevano una festa – la cosa è stata organizzata come una festa – e non capiscono.
 
Arrivati a toccare Montanelli, il “siamo tutti neri” e gli “statuicidi” d’America si risentono, a Milano e non solo. Anche se Montanelli una mano di vernice la meritava. E ne avrebbe goduto, sia per la statua (una statua a Montanelli?), sia per la vernice.
 
La sanità che arranca”, titola “la Repubblica”: “A Milano per un esame fino a due mesi in più”. E fino a 24 ore di attesa al Pronto Soccorso, si può aggiungere – anche trentasei, come è stato all’origine del contagio. A Milano che vantava, e vanta, il miglior sistema sanitario.
 
Spiega Enzo Moavero paziente che i fondi europei hanno complicate regolamentazioni. Ma è una voce isolata; piacciono invece gli “stati generali”, con gli stati maggiori europei. Che sorridano, ovvio, e dicano “coraggio”. Invece di lavorare, e magari pagare il primo mese di cassa integrazione in deroga, quello di marzo, a tre milioni di lavoratori nei servizi, comunque “avviare la procedura”. Amministrare certo non è bello come andare in tv.
 
Carlo Galli argomenta su “la Repubblica” se il coronavirus non sia una punizione, come si sente dire, “una meritata punizione che colpisce l’arroganza della nostra civiltà”. Sono 
“archetipi teologici”, spiega, non ce ne libereremo: ci sarà sempre chi chiede vendetta e chi si sente in colpa. Ma, e la Cina? Da scienziato politico, per quanto prestato alla politica, Galli non sarebbe stato più concludente collocando il virus in Cina?

Nessuno che, più che la natura e il presunto ordine naturale (ordine naturale?), chiami in causa per il contagio la Cina. Prevalgono le ragioni generiche invece che quelle specifiche. Ma se il coronavirus si fosse diffuso a partire dall’America, avremmo avuto altrettanta renitenza a dirlo?
 
Il professore Di Taranto, nomen omen, vuole per l’ex Ilva di Taranto l’intervento dello Stato, “purché l’acciaieria torni a competere”. Facile, no? Ecco perché esistono i professori, per semplificare.
 
Instagram e talk-show, le chiacchiere via etere senza contraddittorio hanno sostituito i Parlamenti? Di fatto sì. Si capisce che niente funzioni: solo annunci. Qual è la politica estera di Di Maio, in Libia, con la Russia, con Trump, con la Cina? Boh.
 
Il caso del professor Parisi del Mississippi che doveva rivoluzionare il mercato del lavoro a capo dell’Anpal e non ha fato nulla in un anno, dovrebbe far riflettere sul marcio che c’è nel nuovo. Superficialità, incapacità, indifferenza, eccetto che per i cento-duecentomila euro in tasca, e vita brillante su è giù in aereo, con  scorta. E invece no: l’Anpal, che non esiste, viene resa sul serio, e il  professore del Mississippi pure.


L'Europa sta nel mezzo

Sui Carpazi dilaga “un fiore gigante, alto tre metri”, che il kholkoz ha portato dalla Siberia, la proprietà collettiva dell’agricoltura sovietica. “Li ha piantati il kholkoz perché le mucche, mangiandoli, facevano più latte”, racconta l’albergatore che ha trasformato gli uffici del kholkoz. Ora il kholkoz non c’è più, e neppure tante mucche, “ma loro sono rimasti, hanno invaso le montagne. Non li estirpi nemmeno col lanciafiamme, e sono velenosi per l’uomo”. Il racconto inquieta Rumiz: “Chissà, forse il diavolo che inquieta i Carpazi si è nascosto in questa pianta killer. Già sul mare Artico ho incontrato un granchio gigante assassino dei fondali, portato dall’Asia in nome del progresso. Forse il demonio è il Globale”.
Non è l’unica premonizione giusta. A p. 222, quindi alla fine del viaggio, c’è tutto quello che sarebbe successo dopo non più di tre anni: “Se l’Ucraina smette di essere quello che è stata per secoli, cioè confine cuscinetto, per entrare in un’alleanza occidentale, succede il putiferio. Il paese, che è filo-russo a oriente, si spezza in due e allora Mosca interviene”.
Ma non è un saggio politico, è un viaggio lungo il limes, il confine, tra la Unione Europea non amata  e l’Est, da Nord a Sud – un viaggio “su una linea di periferia”, la Ue risentendo claustrofobica. Senza contare la storia: “Dal Baltico all’Ucraina l’Europa è tutta una necropoli, ancora da scoprire”.
La scoperta del normale, tanto è trascurato. Un itinerario inconsueto, e anche difficile da seguire, per scendere a volte di pochi chilometri bisogna viaggiare di bolina, per ore e giorni. Ma un itinerario che Rumiz si è disegnato orgoglioso, di cui fa il perno dell’Europa, il vero centro – a un certo punto trovandolo in un obelisco sperduto fatto erigere dagli imperatori di Vienna. Un viaggio comunque in un’altra umanità. Meglio, insiste Rumiz, nell’umanità. A fronte del grigiore europeo, da intendere Ue, solo animato dall’affarismo, con corredo di corruzione e mafie – al punto da minacciare di metastasi l’Est.
Se non che, anch’essa, “è una linea sismica solo apparentemente addormentata”. E non solo in Crimea e nel Donbass, la metà ucraina che pensa russo. Con argomenti: “Non si può pretendere l’indipendenza del Kosovo e poi non consentire l’autonomia dell’Ossezia dalla Georgia”, Rumiz si fa spiegare dallo “studente ucraino di Medicina, allegro e ben nutrito, capelli neri e lunghi come Gogol’”, quello che ha già prospettato la divisione del’Ucraina. E la Crimea: “Poi racconta della Crimea, che fino a ieri era piena di russi che andavano al mare e oggi non ha più turismo perché”… - perché, la verità è, gli ucraini non vi si sentono a casa: “Se ti piacciono i viaggi estremi”, lo studente sarcastico consiglia Rumiz, “vai in Crimea. Le montagne sono ridiventate una terra  pastorale feroce, come una volta”.
A un certo punto uno si sorprende a pensarlo un viaggio, un diario, di propaganda russa. Rumiz i russi trova anche i soli, o quasi, simpatici, ovunque ci si imbatta, bonari, curiosi, ospitali - anche gli “armadi” reduci di qualche guerra. Tutti in qualche modo di personalità spiccata, anche gli ignoranti – se mai ci fossero ignoranti in Russia, improbabili dopo il sovietismo. Ma non è questo che Rumiz racconta, benché slavofilo dichiarato. Del resto, la sensazione che l’Europa senza la Russia è dimezzata non è particolare, né “speciale”.
Il viaggio è nell’Europa dimenticata. Che Rumiz a naso sente, vanta, come ultimo muro contro l’inettitudine globale, seppure votata anch’essa alla scomparsa. “L’Occidente è il luogo dove lo sbadiglio regna sovrano”, si spiega a un tratto, non c’è nulla da raccontare. Senza la Russia senz’altro: l’Europa germanica non ha nulla da dire, a parte le pacche sulle spalle, e il bilancino della scienziata Merkel, del “troppo poco troppo tardi”. E quella latina si è fermata a Grillo, si può aggiungere, e alla triade più stupida che c attiva, altrimenti inimmaginabile , Sarkozy-Hollande-Macron: da quindici anni segna il passo.
Gli ultimi bagliori Rumiz vuole raccogliere di mondi in via di sparizione, se non già sepolti. E lo fa in compagnia di Monika Bulaj in qualità di fotografa e interprete, preziosa per molti aspetti, di comunicazione, per la conoscenza profonda della Russia, da polacca cresciuta dentro la cortina di ferro, e dell’ortodossia russa, di cui è studiosa e trattatista, che ora ristudia per “un libro sulla Gente di Dio dell’Altra Europa” – poi pubblicato come “Gente di Dio. Viaggio nell’altra Europa”. Con l’occhio clinico speciale cui l’ha addestrata la fotografia, che trova a Rumiz molte soluzioni pratiche, per l’ubiquità, la capacità di empatizzare con immediatezza e in profondità, con un’occhiata, una battuta, un gesto, scoprendo così, dissotterrando, miniere.
“Grande”, è l’esordio, “l’anima del popolo slavo d’Oriente”. E un mese Rumiz, viaggiatore disincantato, avrà di avventure, minime e micro, che però lo appassionano e sa compartecipare, dall’“iperborea Kirkenes a Istanbul”, “il vero centro dell’Europa”, col “fiume più bello d’Europa” – il Danubio, ça va sans dire, e il Reno? O il Tago, per dire. Per la nostalgia, anche, da letterato “esperto” di confini, di un confine vero abitando Trieste, all’epoca di Schengen, della falsa, superficiale identità comune: “Un viaggio borderline dal Mar Glaciale Artico al Mediterraneo”. Il titolo giusto sarebbe stato “L’Europa in verticale” – lo suggerisce a Rumiz un romito russo, a Kola. Quattro scoperte facendo già alla partenza, all’estremo Nord: “L’Unione Europea è alta mille chilometri più della sua larghezza”; vivendo al polo i fusi orari si restringono tanto che basta fare un passo a destra o a sinistra per cambiare longitudine; in questa contiguità di fusi, le ore si imbrogliano”: con la Norvegia in mezzo, chi va dalla Finlandia alla Russia in 10 km. deve mettere l’orologio insietro di un’ora e poi avanti di due; le carte geografiche locali non sono quadrate ma trapezi isosceli: è un mondo di diversità, imbricate. Per il viaggiatore curioso una goduria, malgrado i disagi estremi, la giornata di 24 ore con un tempo umido e ghiaccio a giugno, e zanzare a nugoli. Un viaggio anche nelle acque, per il bene, per i fiumi che da soli meriterebbero il viaggio, e per il male, per i laghi taciturni, bui, paludosi.
Paolo Rumiz, Trans Europa Express,  Feltrinelli, pp. 231 € 4,50