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sabato 2 maggio 2020

Ombre - 511

È bastato l’annuncio dell’allentamento delle misure restrittive da lunedì e il Primo Maggio non s’incontrava a Roma che gente senza mascherina, giovani e vecchi – uno su tre la indossa, forse uno su quattro. In effetti, governare è difficile. È anche inutile?

Da governatore del Lazio Nicola Zingaretti intima: “La mascherina è obbligatoria”. Ma non mette un vigile o un carabiniere in una sola piazza che faccia una sola multa – il cui effetto in una città come Roma sarebbe immediatamente dissuasivo. Forse non ha fatto nemmeno l’apposita ordinanza. È proprio vero: la politica in Italia è fuori scena - fa avanspettacolo, ma senza le tette?   

“Pensi alla crisi greca di dieci anni fa”, Prodi confida faceto a Corrias sul “Venerdì di Repubblica”: “Era una cosa che poteva essere risolta con un prestito, ma la Germania andava a elezioni e Angela Merkel non se l’è sentita di mettersi contro la sua opinione pubblica. Così la piccola crisi della Grecia è diventata una valanga”. Così, semplice.

“Nella migliore delle ipotesi, e questo vuol dire se veramente va proprio tutto bene da qui in avanti, i rendimenti futuri saranno deludenti”. I rendimenti dei piazzamenti finanziaria del risparmi. Lo assicura sul “Corriere della sera” Paolo Basilico, titolare della holding di investimenti Samhita. Non c’è salvezza?

De Giovanni non scrive, “sogna la pizza” invece di mangiarsela, e guarda Napoli. Quando tutto sarà finito, i racconti d’autore sul coronavirus, sui quotidiani, sui settimanali, online, resteranno fra i macigni più grossi: che ci è capitato?

“Accidenti! Da troppo giovane per andare in pensione, in appena due mesi sono diventato troppo vecchio per uscire di casa”. Giannelli ha facile gioco con la sua vignetta sul “Corriere della sera” contro gli esperti del governo. Dopo quella delle banche nel 20007-2008, un’altra crisi degli “esperti”. Bravi solo a invadere i siti di chiacchiere.

Un’occhiata all’H-Index, l’indice d’impatto (indice di Hirsch: si basa sul numero delle pubblicazioni, e sul numero delle citazioni conseguite), che qualifica gli scienziati, mostra i virologi da social e talk-shaw, il Burioni di Fazio e la Gismondo del “Fatto Quotidiano”, agli ultimi posti, con punteggio 26 e 22, rispettivamente. Poco meglio vanno gli altri esperti, Lopalco (33), Ilaria Capua (48), Crisanti (49). Walter Ricciardi, il consulente del ministro della Salute, è a quota 39.
La classifica è aperta da Anthony Fauci (174).

La graduatoria H-Index per i virologi vede in Italia, sulla scia di Fauci, Alberto Mantovani dell’Humanitas (167) e Giuseppe Remuzzi dell’Istituto Mario Negri (158). Due istituzioni milanesi, che però sono state inefficaci, sia nella prevenzione che nell’organizzazione della risposta.

“L’Europa guarda all’Italia come a un modello”: non teme il ridicolo il presidente del consiglio, con tutti i morti e contagiati giornalieri, il doppio, in rapporto alla popolazione, della Germania,  a reti unificate. I sindacati, il Pd, gli esperti, non sanno che si apre una voragine nell’occupazione e nei redditi?

È anche strano che Conte si prenda un’ora a settimana in tutte le tv per farsi propaganda. Non ci sono più controlli sull’emittenza, sulla Rai, sugli abusi? Quelli c’erano solo per Berlusconi – che però non ha mai fato il Conte.

“Il modello cinese contempla l’iniziativa privata, ma su un base pubblica molto forte e prevalente in tutto e per tutto”, spiega semplice Patrizia Van Daalen, manager in Cina del maggiore gruppo editoriale mondiale, Penguin Random House, a Bricco sul “Sole 24 Ore”. Tra “significativi condizionamenti della politica e supporti statali altrove impensabili”.  Da regime, cioè, saldo, occhiuto.

Van Daalen deve dirigere il suo mercato cinese da Berlino, dove vive col marito, cinese, musicista: “Diciamo che, dal regime comunista, abbiamo ricevuto dei segnali”, insiste: “Mio marito, che compone musica, ha avuto alcuni concerti interrotti”.
La Cina non si nasconde. Ma se ne sa qualcosa di sguincio, nei pranzi domenicali di Bricco, e lì resta confinato.

Vendite dei quotidiani in calo a dicembre del’8 per cento su base annua. Nell’ultimo quinquennio, 2015-2019, le copie giornaliere cartacee complessivamente vendute si sono ridotte di quasi un terzo, da 2,2 a 1,5 milioni di unità. In calo anche le copie digitali. Ma uno perché dovrebbe comprare il giornale se tutto è scritto sui social, il giorno prima?

La catastrofe del giornalismo si evita rincorrendo i social, come fanno i grandi giornali in Italia, che le redazioni hanno sguarnito e immiserito, di esperienza e di cultura? Evidentemente no. Anche sull’esempio del “Financial Times” e del “New York Times”, e dei tanti altri giornali che sanno sgonfiare lo tsunami social.

Dante cantabile

La “Divina Commedia” in ottonari. Il verso, nota lo stesso Ceccatty, del “Corriere dei Piccoli”, delle filastrocche, di “quant’è bella giovinezza\ che si fugge tuttavia”, delle arie d’opera, di Pessoa – e dei cantastorie. Senza un sola nota di spiegazione. Un verso cantabile, come alla fin fine si vuole il poema, che è in ogni piega “musicale”, invece del solenne alessandrino, o dell’endecasillabo.
René de Ceccatty ha voluto aggiungere una versione pop, o meglio rap, della “Commedia” alle tante già in uso in francese. Rifacendosi al Dante “romanzesco” e “realista” quale lo voleva Elsa Morante, che cita in esergo. Traducendo il poema in versi ma mettendolo in rapporto col pubblico. A cui lo stesso Dante si rivolge, sedici volte (al modo dei cantastorie, si può aggiungere) – “secondo una postura narrativa che sarà spesso ripresa dagli scrittori, fino a Violette Leduc e Jean Genet, passando per Villon, Baudelaire, Stendhal e Lautréamont”. Confrontandosi a Dante dal vivo, invece che al monumento. Fino a ipotizzare una sorta di “bottega” del poema, altrimenti di “impossibile” fattura.
L’ipotesi – “il sospetto” – che Ceccatty butta lì, in breve, tra parentesi, “che il libro non è di una sola mano”, sembra eretica. Ma a ripensarci persuasiva: che Dante possa avere lavorato al poema in analogia con i maestri delle arti applicate, la pittura, la scultura. Rime ripetute, rime astruse, neologismi in serie, talvolta senza senso altro che il suono, danno l’idea del lavoro creativo quale è stato, impervio. Con possibili rifiniture, quindi, di scuola. La bottega non c’è, la vita e l’opera di Dante non sono un mistero, ma la possibilità è seducente.   
Sulla scia della traduzione calzante, filante, ritmata di Jacqueline Risset, e mentre se ne prepara una nuova per la Pléiade, in sostituzione di quella di André Pézard, l’anno venturo per le celebrazioni, questa “popolare” di René de Ceccatty, la fortuna di Dante in Francia non ha soste. Maggiore che in Italia, si direbbe, a giudicare dalle continue riproposte. Non di tutto Dante, del poema. E al modo, Ceccatty ora dopo Risset, come De Sanctis consigliava di leggere il poema  senza note. Ma Ceccatty, pur semplificando, tiene ben presenti nell’ampia introduzione il “Convivio” e la Vita Nuova”.
Il linguaggio di Dante è complesso, è il ragionamento del traduttore irriverente: “Digressioni astruse, allusioni mitologiche o politiche, metafore complicate, personaggi designati per un gesto, una battaglia,una città, città evocate da un fiume, stagioni suggerite da un segno zodiacale…”. Dante non si può leggere senza le note? Volendo farne a meno, bisogna semplificare il poema. Ma la semplificazione, assicurare la “leggibilità”, non è operazione da poco. Ceccatty avverte che ha sacrificato molto del poema: parole o immagini speciose, di significato incerto, intraducibili o insignificanti in francese. Difficile, ammette onesto, anche rendere la varietà e complessità semantica e lessicale: Dante spazia tra varie lingue, il latino, l’ebraico, il provenzale (non l’arabo…), i giochi di parole, e perfino gli anagrammi (“515”, possibilmente anche il “pape satàn”). La sua traduzione considerando egli stesso nella premessa “un sistema riduttivo”. Filosoficamente: “Ogni traduzione è inesatta”. Anche solo tradurre “follia”, “cielo”, “inverarsi”, “segno”, parole comuni, è arduo.
Ceccatty è modesto, del poema e di Dante avendo opinione come di entità irraggiungibili – “il Paradiso può essere considerato un’opera filosofica a parte intera che annuncia quella di Leibniz”. Anche se c’è ironia nella cantica, Ceccatty la trova evidente. Beatrice del resto denuncia come severa e non amorevole, in immagine evocando quella di Caterina Boratto, la madre di Giulietta Masina in “Giulietta degli spiriti” - se non saccente, “una chiacchierona impenitente”.
Una traduzione svelta. Anche come applicazione, dice Ceccatty: in poco tempo, pochi mesi, viaggiando da Parigi a Montpellier per l’insegnamento, e in vacanza in Canada, in Italia e alla Réunion. In aereo, “luogo predestinato per questo lavoro”. E a Spoleto e in Umbria. Ma soprattutto a Parigi. Partendo da un omaggio – un monumento - alla traduzione di Jacqueline Risset, la poetessa franco-italiana scomparsa sei anni fa, grande cultrice di Dante - tentò anche di farlo al cinema con Fellini. Anch’essa si era posta “la necessità della leggibilità”, spiega Ceccatty, e c’è riuscita, senza tradire il poema, per la “sua sensibilità poetica”: “Poeta lei stessa nelle due lingue, italiano e francese, sa perfettamente ciò che vuole dalla poesia, fatta di concentrazione e folgorazioni, che ricerca e riproduce in francese”. Per cui “la versione di Jacqueline Risset è la sola che dà un’idea della vita, dell’invenzione, dei cambiamenti di ritmo, degli effetti di realismo, della sensualità, degli scherzi o dei momenti di profonda meditazione, di questo testo sempre inatteso”.
Una nuova traduzione con un atto di resa. Curioso. Ma il Dante cantabile non è del tutto un tradimento. Vale sempre il suggerimento di Dorothy Sayers, che traducendo il poema in inglese nel 1949 consigliava di leggerlo di seguito, come un racconto di avventure.  
Dante, La Divine Comédie, Points, pp. 695 € 13,90

venerdì 1 maggio 2020

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (424)

Giuseppe Leuzzi

Vittorio Feltri ha periodicamente la necessità di inveire, contro i terroni, gli immigrati, gli islamici, per restare sull’onda. Accudito probabilmente da qualche extracomunitario. Da direttore dell’“Europeo” regalò il Corano. Da direttore del “Giornale” stimava molto Totò Delfino: “Mi fa vendere 400 copie”, in Calabria. Fa un po’ il clown e un po’ l’augusto del circo – i media lo privilegiano per questo.

“Diabolik già dal ’92 faceva affari (di droga) con i boss della camorra”, si legge di Fabrizio Piscitelli, noto solo come capo ultrà della Lazio, la squadra di calcio, assassinato lo scorso agosto. “Informativa finale della Finanza al Pm”, che indaga sull’assassinio: “Ricostruiti trent’anni di carriera criminale”. Il crimine una carriera? Ma non è un titolo sbagliato. Una carriera che le polizie registrano, senza intervenire. Per trent’anni, o quasi, Diabolik ha potuto trafficare la droga, ed è finito male solo perché un’altra mafia lo ha ucciso. Il discorso sulle mafie è un discorso sulle antimafie, comprese le polizie.

Il virus clemente
Molte regioni del Sud, Sardegna, Sicilia, Calabria, Basilicata, Campania, Molise, vedono limitato al 10 per cento, più o meno, il numero dei contagiati di coronavirus deceduti - altrove il rapporto va sul 20 per cento. Effetto di una gestione più oculata del contagio.
Il numero dei contagi nelle stesse regioni è relativamente limitato, relativamente ai residenti. E malgrado situazioni di forte densità abitativa, in Campania soprattutto, la conurbazione Napoli-Caserta, e in Sicilia nell’area metropolitana di Palermo. Questo si può attribuire alla scarsa industrializzazione. Non ci saranno state lavorazioni intensive, portate avanti in condizioni di facile contagio, come in Lombardia, Emilia, Liguria, Piemonte, Veneto, Toscana, Marche. Ma anche di rispetto delle regole imposte dal governo. Da parte dei sindaci, e della gente.
Lerner, che in tema di governo della pandemia sul “Venerdì” se la prende con “l’Italia dei viceré”, dei presidenti di regione che fanno da sé, ne ha solo per De Luca (Campania), Musumeci (Sicilia), Emiliano (Puglia) e Santelli (Calabria). De Luca, socialista onesto e ottimo amministratore, sberleffa con Zaia, “il Doge delle Tre Venezie”. Il leghismo è una forma mentale prima che un partito. Un riflesso condizionato.
 
La vitalità indiavolata
Mario Praz ha, “Il mondo che ho visto”, 359, il “paesaggio del Nord” e quello “del Sud”: “Nel Sud il paesaggio viene a noi sotto forma di mito, si umanizza, nel Nord noi ci dilatiamo alla misura del paesaggio, diventiamo natura”. Che non (sempre) è vero – e anche il contrario si vede, al cinema e in pittura. Ma allarga, sancisce la divisione tra Nord e Sud, due entità poco geografiche – il Nord dell’Italia, pur tanto nordista, è il Sud della Germania – e più che altro metafisiche.
Praz ha anche un Baudelaire che lamenta il Mezzogiorno, inteso come Sud. Mentre invece lamenta Mezzogiorno (Midi) inteso come ora canonica del solleone. Del Sud Baudelaire, che non lo conosceva, aveva opinione come di paradiso terrestre, nei “Poemetti in prosa” trovando “nei profumi selvatici tutta la vitalità indiavolata del Mezzogiorno francese, Nîmes, Aix, Arles, Avignone, Narbonne, Tolosa, città benedette dal sole, romantiche e incantevoli”.

L’organizzazione della mafia
Nelle statistiche criminali (furti, violenze, assassinii) il Sud non figura peggio di altri posti. Ma è oberato dalle mafie, che sono sicuramente meridionali. Affaristi ce ne sono ovunque, e anche violenti, ma al Sud la criminalità si vuole “organizzata”. Con cellule, federazioni, confederazioni, comitati centrali o cupole: è l’organizzazione che fa la differenza. Per questo il malaffare è solo al Sud.
Ma c’è l’organizzazione delle mafie? C’è e non c’è – nessun mafioso si fa scrupolo di aggredire un’altra mafia, se è nei suoi interessi. E quando c’è, si cambia. Generazionalmente o anche prima, all’occorrenza. Il “modello” mafioso è piuttosto anarcoide.
C’è invece ferma, fissa, nell’apparato di contrasto, giudici e polizie. E (ma) questo spiega probabilmente l’insufficienza del contrasto: il ritardo. In attesa che l’organizzazione si configuri possono passare – passano – decenni, di immunità. E si finisce per intervenire a contrasto quando il danno è irreparabile, alla persona, all’impresa, al territorio alla società. In aree di mafia il vecchio principio che a un’azione corrisponde una reazione non si applica. Ci vogliono tavole sinottiche, alberi genealogici, diramazioni internazionali, laboriosi organigrammi, e quindi l’interdizione ritarda. Tanto più se non si manifesta il necessario attaccapanni politico. L’organizzazione mafiosa diventa: la mafia non c’è se non è organizzata. Cioè c’è, poiché se ne archiviano i misfatti, ma non si interviene.

Calabria
Ercole è stato anche in Calabria. Al passaggio tra le due chorai di Reggio e Locri, le province per così dire, separate da un fiume di nome Alece. Lo racconta Diodoro Siculo in un celebre passaggio. Celebre - Valentina Consoli spiega nel saggio “La dedica ad Eracle Reggino da Castellace di Oppido Mamertina: un’iscrizione efebica? – perché al passaggio Ercole fu molestato dalle cicale.

La scuola di Pitagora a Crotone fu distrutta dal popolo: tutti uccisi - eccetto due giovani, Archippo e Liside, fuggiti in tempo. Pitagora, assente, morirà presto a Metaponto, forse suicida. Era colpevole di avere convinto la città a resistere a Sibari, e insegnato come combatterla. Con successo. I notabili dissero che voleva farsi dittatore, e i crotoniati provvidero a eliminarlo per loro.
Ci si chiede perché la Calabria non benefici della democrazia – è l’unica regione che, nella storia repubblicana, è andata indietro, relativamente alle altre regioni ma anche in assoluto (risparmio, commercio, mafie): forse non capisce di che si tratta.

I crotoniati non avevano idea di chi Pitagora fosse e rappresentasse, nel loro angolo magnogreco e in generale. Non se ne curavano. Lo stesso oggi: non c’è stima per la qualità, intellettuale o di altro tipo, nemmeno di facciata, per la forma. Tutti sono uguali in Calabria, del genere todos Caballeros, più intelligenti, più buoni, più bravi, più nobili. Una democrazia. Non produttiva?

È un museo a cielo aperto per geologi e ogni specie di naturalista. Ha nella Sila ancora vestigia di Foresta pluviale. Ha anche una riserva residua si sequoia giganti, fino ai 30 metri

De Amicis ha, nella prosa “Garibaldino fallito”, “la tragica cima d’Aspromonte”. Che invece non ha cima, è una montagna non spigolosa. Che mostra, dice ancora De Amicis, “nitida la sua fiera nudità colorata di viola”. Nudità che non ci sono. Ma il colore viola sì.

Si scopre nelle “Meraviglie d’Italia” di Angela in tv che le uniche carte che consentono di avere un’idea del vecchio complesso di san Pietro in Vaticano prima della basilica di Michelangelo e Bramante sono dovute a un cronista di Gerace, Tiberio Alfarano. Un sacerdote che il vescovo di Gerace, Tiberio de Mutis, portò a Roma, dal 1567 “chierico beneficiario” della Basilica Vaticana.
Alfarano fece tre disegni particolareggiati della vecchia basilica, 1571, 1576 e 1582. E nel 1582 redasse la guida “De Basilicae Vaticanae antiquissima et nova structura”. Sconosciuto ai più, e anche a Gerace. Che però non è terra di terremoti – le scosse telluriche si può supporre che scuotano la memoria.

leuzzi@antiit.eu

Ospitale solitudine

Un omaggio all’isola che lo ha ospitato per molte estati. Ma non un qualsiasi posto di mare. Né un’isola come le tante – attorno alle quali c’è anche una specie di genere letterario. Oppure no: “Sono pochi i posti nel nostro continente che danno una sensazione di solitudine pari a quella che si gode qui”. Che oggi sembra impossibile, Carloforte e San Pietro sono big business turistico.
L’isola è peraltro dotata di molta storia. Recente – era disabitata fno a metà Settecento - ma curiosa. È abitata infatti da “tabarkini”, famiglie genovesi di ritorno a metà Settecento da Tabarca, l’isoletta sopra Tunisi che erano andati a colonizzare due secoli prima.
Qui siamo negli anni 1950, e Jünger può ancora godere della “potenza prodigiosa” delle cose. Esperienze di cui ha lasciato traccia anche nei “Diari”e in “Cacce sottili”. Qui è commosso. Dalle persone. Dal geranio che fiorisce su un muro a secco. Dai terrazzamenti. Dalla ritualità – i funerali nel “sole accecante”. Dall’ospitalità, che va con la semplicità. Anche nella mattanza, “la carneficina” – l’isola era una tonnara: “il risvolto mortale” di ogni bellezza.    
Ernst Jünger, San Pietro, Fausto Lupetti, pp. 67 € 15

giovedì 30 aprile 2020

Letture - 419

letterautore

Caffettano –La veste dei principi russi e polacchi fino a tutto il ‘500, e anche nel ‘600, lo dice Praz in “Il mondo che ho visto”,  474, quando cominciarono a passare alle fogge europee.
L’indumento e la parola sono di origine persiana. 
Fra gli ebrei poveri dei villaggi fra Russia, Ucraina e Polonia l’abbigliamento orientale fu perpetuato fino al primo Novecento. Albert Cohen, in “Bella del Signore”, che ambienta negli anni 1930, descrive così vestiti i parenti del suo personaggio, uno che ha fatto una grande carriera alla Società delle Nazioni, che vanno a trovarlo sgraditi a Ginevra. 

Don Giovanni – Perché non verrebbe da Galvano, il sir Gawain nipote di re Artù? Galvano-Gawain, nel suo girovagare all’appuntamento con il Cavaliere Verde, si sente come obbligato a giacere con le dame che lo ospitano. Non per sua particolare foja – e non sappiamo se con soddisfazione.
Si collegherebbe così alla poesia cortese. A quella nordica, malinconica, dei trovieri, i cantori del ciclo o matière di Bretagna. 

Germania – È invernale? Si fa molta musica in Germania in famiglia, e “la musica è per sua natura squisitamente invernale”, attesta Savinio.

A lungo si è voluta francese. Molti tedeschi si sono voluti francesi, fino al primo Ottocento. Non solo Federico II Il Grande di Prussia, e Heine. Il barone d’Holbach. Il cavaliere Grimm della “Correspondance littéraire” - il “piccolo profeta” della sua amante madame d’Epinay e del di lei amico abate Galiani. Il giovane Anacharsis Cloots, il rivoluzionario barone prussiano. Paul de Lagarde.
Lagarde, berlinese, nato a Berlino Paul Anton Bötticher, prese il nome della madre, di ascendenza lorenesi. Oggi dimenticato, fu uno amato da molti Thomas: Carlyle, Masaryk e Thomas Mann, il quale lo nominò Praeceptor Germaniae. Voleva Parigi rasa al suolo, e ungheresi, turchi, lapponi e celti perire, in omaggio alla religione dell’avvenire - fine Ottocento pullula di religioni dell’avvenire: in questa chiave si sostenne pure che il marxismo era opera dell’“ariano” Engels, cui il semita Marx l’aveva rubato. Il genio di Gesù, sosteneva, fu di “non voler essere ebreo”: Lagarde lo sostenne nell’ambito dell’“arianità” di Gesù, dolicocefalo biondo.
L’inverso è raro: Nicholas Fréret voleva i franchi tedeschi, come erano all’origine. Il più tedesco di tutti, tra Otto e Novecento, fu l’antropologo Vacher de Lapouge. Magistrato, poi bibliotecario universitario (Montpellier, Rennes, Poitiers), avendo fallito il concorso per l’insegnamento universitario, socialista marxista, fondatore del Partito Operaio Francese con Jules Guesde, poi membro della Sfio, il partito socialista, allievo dei gesuiti, darwinista spenseriano, teorico dell’eugenetica (divulgatore in Francia di Francis Galton, corrispondente e traduttore di Madison Grant e Margaret Sanger), e dell’“arianesimo” in funzione antisemita, apprezzato da George Bernard Shaw e Sorel, annesse ai dolicocefali biondi Dante e Napoleone. In corrispondenza con Arthur Trebisch e altri razzisti tedeschi
Fino a Drumont l’“arianesimo” fu francese - in Germania ebbe un solo avvocato prima di Hitler: Arthur Trebisch, che era ebreo.
Arnaud de Quatrefages, padre dell’antropologia francese, aveva detto peraltro i tedeschi “ariani” a metà, i prussiani essendo slavo-finnici, o finnici, popolazione che il professore non stimava in quanto ramo inferiore della razza bianca.

I tedeschi sono in realtà “francesi” anche in questo, nota Savinio,  “Scatola sonora”, 137-8): “I Tedeschi, tre volte in meno di un secolo, hanno mosso guerra ai Francesi. Per vincerli? No. Per distruggerli? No. Per manducarli a scopo eucaristico. Per infranciosarsi (per indiarsi… Dieu est-il français?)”.
Con una coda: “In altri tempi, e quando non la Francia ma l’Italia era la sirena di turno, i Tedeschi, e con lo stesso fine eucaristico, cercavano di manducarsi l’Italia (Goethe)”.

Intellettuale - Una volta “intellettuali” erano gli ebrei, era una colpa. È invenzione, un secolo e mezzo fa, del sociologo Ferdinand Tönnies, contro Spinoza e la sua “determinazione intellettualistica degli affetti”.

Ernst Jünger – L’unico autore del Novecento di cui non si sia fatta una “sistemazione” critica, benché tedesco. Nemmeno biografica – giusto un rororo (che lo fa “precursore del nazismo”…). Eppure resiste, si fa leggere.

Manzoni – “Scrittore degli umili” lo vuole Praz, “Il mondo che ho visto”, 435. Come Tolstòj. Di più, sempre, in tutta l’opera, “compresa la sua lirica e il suo teatro: “Non sono forse «I Promessi Sposi» l’epos degli umili, un tributo alla loro bontà impulsiva, ai tesori d compassione, di pazienza e di rassegnazione contenuti nelle loro anime?”. Nella saggistica, la corrispondenza e la vita domestica non si direbbe. Ma Praz insiste, avendo avviato un parallelo tra Manzoni, misconosciuto, e Tolstòj, invece celebrato, per l’impegno sociale. Il parallelo fondando su due pilastri: “Anch’egli (Manzoni, n.d.r.) credeva all’importanza della folla anonima, degli atti che la storia non registra; per lui soltanto l’attività inconscia recava frutto”. E per l’impegno: tutta l’opera di Manzoni “non è forse permeata da simpatia per gli oppressi, per le lacrime che nessuno ha mai confortato nei secoli, pel travaglio e i sacrifici che formano la trama della storia, pei deboli che tremano in silenzio, per le tribù disperse e senza nome?”.
Di fronte alla disattenzione per Manzoni, lo stesso Praz rivendica di stare con Emilio Cecchi, “che dei tre sommi romanzi dell’Ottocento, l’«Educazione sentimentale» di Flaubert, «Guerra e pace» di Tolstòj, e «I Promessi Sposi», quest’ultimo giudicava superiore agli altri due”.

Egidio Menaggio – È Gilles Ménage, poeta e saggista francese del Seicento, latinizzato Aegidius Menagius, ma più conosciuto come Egidio Menaggio. Autore del primo dizionario etimologico dell’italiano, “Origini della lingua italiana” (sarà un altro straniero, Gerhard Rohlfs, a redigere un una prima voluminosa “Grammatica della lingua italiana e dei suoi dialetti”, licenziata a dicembre 1946 – ma redatta in tedesco), pubblicate a Ginevra, “appresso Giovanni Antonio Chouet”,  “Compilate dal S.re Egidio Menagio, gentiluomo francese”, 1669.
Ménage era versato anche in spagnolo, ma l’italiano era allora la lingua dominante sulla scena culturale. Fu avvocato, poi priore di Montdidier, nella Somme, sacerdote, protetto dal cardinale de Retz, favorito del cardinale Mazzarino, e della contessa de la Fayette, Marie-Madeleine Pioche de la Vergne. In polemica un po’ con tutti, fu satireggiato da Boileau e da Molière (è Vadius, l’erudito pedante delle “Donne saccenti”), ma si fece molti nemici per averli satireggiati, e per questo non fu accettato all’Accademia francese. Fu invece socio onorato dell’Accademia della Crusca – anche se in polemica con la stessa Accademia sulle origini dell’italiano.

Polacco – Lingua impraticabile la dice Praz, “Il mondo che ho visto”,466. Come l’irlandese, ma per un  motivo: “Lo stile rinascimentale fu adottato in Polonia con la stessa aria impacciata con cui adottarono l’alfabeto latino per la loro lingua, in cui non si è mai interrotto l’andazzo medievale di rappresentare con due lettere un suono unico, conservando così l’uso di consonanti parassitarie che rendono assai malagevole la lettura onde quell’accavallarsi di cz, dz, rz, sz che non danno alcuna idea della pronuncia a cui basterebbe un solo segno”. Con “la elle tagliata”.
E aggiunge: “La conservazione d’un alfabeto ingombrante come un prato autunnale cosparso di foglie morte è certamente dovuta  a quella coscienza della propria nazionalità che la Murdoch diceva comune ai polacchi e agli irlandesi”. Il riferimento è a una lettera che Iris Murdoch gli aveva scritto “in agosto”, Praz scrive nel 1974, in cui raccontava di un viaggio in Polonia, con questa considerazione: “Non ho mai conosciuto un paese così conscio della propria storia, salvo l’Irlanda”.  

Spia - Ci sono sempre spioni nelle storie di Stendhal e non cambiano niente. Ce n’è almeno uno in ogni storia.

Usa – Erano, prima della seconda guerra, il paese più lontano-vicino al socialismo. Poi la parola, oltre che la cosa, è diventata quasi un reato, con la guerra fredda, e il ruolo imperiale. Ma prima della guerra erano il paese in Occidente più aperto al socialismo. Per un sindacalismo perfino eroico, combattuto con centinaia di morti. E in letteratura per le simpatie, e anche l’impegno diretto in politica, di tanti scrittori, Steinbeck, “Furore”, “Uomini e topi”,
“La battaglia”, tradotto da Montale, nel 1940!, Dos Passos, Hammett, e di molta Hollywood, nonché per l’unanimità nella guerra di Spagna, per la Repubblica. Con Hemingway – a suo modo anche Pound. Nel 1937 un comitato di intellettuali americani, capitanato da John Dewey, si fece tribunale in Messico di Trockij, delle accuse che Stalin gli muoveva – gli fecero un vero e proprio processo, e lo assolsero.

letterautore@antiit.eu

Sotto il mattone niente

Sorprendente, ma perché è impensabile: una storia criminale del San Leone Magno. Inafferrabile.

Malagevole anche, al desk e in poltrona.

Il vuoto sorprendentemente esiste, il premio Strega ne è pieno. 
Edoardo Albinati, La scuola cattolica, Il Sole 24 Ore, pp. 1.295 € 12,90

mercoledì 29 aprile 2020

Problemi di base - 559

spock

“Ai più induriti peccatori Iddio riserva le grazie più belle”, Mario Praz?

“Perché non ci sono filosofi della morte nella Riviera Italiana”, Cathcart & Klein?

“L’eternità è ora”, Paul Tillich?

“Vive eterno colui che vive nel presente”, Wittgenstein?

“Al fondo delle cose non c’è nient’altro che l’assenza di senso e quindi l’orrore”, Franco Rella?

“Molto rumore per nulla”, Shakespeare?

spock@antiit.eu

Cronache virali

“Secondo l’Istat la quota della spesa sanitaria sul totale della spesa pubblica è ai minimi dal 1990, specie per l’assistenza ospedaliera”, “la Repubblica”.
“Oltre 30 milioni di lavoratori sono in cassa integrazione nelle cinque più grandi economie europee, Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia, Spagna”, “Financial Times”. Più di tutti in Francia, seguita da Italia, Germania, Spagna, Gran Bretagna. Un terzo della forza lavoro totale nei cinque paesi.
Il Congresso americano si accinge a varare un secondo sussidio ale famiglie, in aggiunta a quello da 600-1.200 dollari, in relazione diretta col reddito (sotto i 75 mila dollari), già pagato un mese fa.
I 600 euro per le partite Iva, per i mesi di marzo e aprile, stanziati col primo Dcpm il 10 marzo, non sono ancora stati pagati.
Nessuna  erogazione, benché prevista dallo steso decreto, in forma di integrazione al reddito, per bar e ristoranti è stata effettuata.
La Cassa integrazione in deroga, per i dipendenti di pubblici esercizi (bar, ristoranti), non è stata ancora pagata.

La potenza dell’indistinto


Osservazioni da entomologo non soltanto formali. Anzi non formali ma storiche.Le migrazioni dei popoli si ampliano con le guerre, e con lo sviluppo dei mezzi di trasporto. Ma ci sono conunque, per “l’attrazione dell’indistinto” – o meglio la deriva: “Ogni più disperato tentativo, spinto anche fino alla lotta per la vita e per la morte, di arrestare la mescolanza delle razze è destinato a naufragare”.
Il mondo trascorre, cambia, muta. Nel caso, “la mescolanza, così come la fulminea moltiplicazione della popolazione terrestre, non comporta solo pericoli e motivi di inquietudine”: si spuntano le differenze, si equiparano “le piccole sorti con le medie”, ma si “aumenta anche la possibilità di un’eccellenza più grande, che il livellamento nasconde”. Dal punto di vista zoologico, “le specie vengono diminuite e le varietà accentuate”. Semplice? No: “Il venir meno delle distinzioni riguarda la specie uomo”.
Un tentativo di assestamento formale, di definizioni, di psico-sociologia, che è però un trattato di sociobiologia. L’unità è – viene – nella metamorfosi, l’unità dell’universo. L’uomo è alla fine di un ciclo, di individuazioni e denominazioni, classificazioni: di creazione di “tipi”. Che ora va in dissoluzione.”Lo spirito segue leggi cosmiche: come secondo gli antichi l’universo si immerge periodicamente nel fuoco per rinnovarsi, così esso tende anche all’indistitno”. Da cui proviene, si è emanato – anche se tende a dimenticarlo: “Intueor”, osservo attentamente, esamino, viene nella forma passiva. E da cui rinascerà: “La sorgente delle immagini lo lava dal saputo, dalla polvere delle biblioteche e dei musei, dalla zavorra dei tipi”. Lo libera dalle incrostazioni, vergine per nuovi inizi. È la filosofia dopo Nietzsche, che dopotutto era un rivoluzionario, voleva ribaltare la filosofia e il mondo, anche lui – un visionario, un millenarista.
Al centro – anche fisico del libro, ai §§ 57-84 – Nietzsche. Incagliato nel suo rifiuto dei “Tipi” di Wagner, come di quelli cristiani. Il concetto di Tipo, di formazione della storia, Jünger elabora per aprire uno sbocco ai tentativi di Nietzsche di scrollare il mondo. Uno sbocco ragionato, piuttosto che Bizet invece di Wagner, Molière invece di Shakespeare, e il “ritorno alla natura” con Rousseau: incongruenze, se non farneticazioni, di cui Jünger non sottace l’assurdità, rinviando all’“umorismo da Till Eulenspiegel”. Oltre Nietzsche tornando all’antico, a san Paolo, a Angelo Silesio. “Il celebre «Dio è morto» di Nietzsche era stato pensato “molto tempo prima di lui”, in altro contesto, da “certi spiriti dell’Illuminismo cui in parte Nietzsche stesso si è richiamato” – Jünger cita Sade, e poi Dostoevskij (“anche lo Svidrigailov di Dostoevskij gli è imparentato”, il cattivo malgré soi di “Delitto e castigo”).
Il progresso è delle cose. “Il regresso al mito non basta più. Il mito può in parte  produrre cambiamenti, anche suscitare sciagure, e tuttavia solo entro il flusso e come correnti contrapposte di possenti inondazioni”. Come, si direbbe, oggi, nel clima palingenetico che stiamo vivendo, non fosse artificiale, indotto - promozionale, quasi pubblicitario, “come vi vendo bene la catastrofe”. “Dobbiamo risalire molto più indietro dei tipi mitologici, molto più indietro degli stessi tipi. Dei ed eroi non possono più rovesciare il destino”. Il vero progresso è quello di Baudelaire, del “procedere della materia”. Il moto è costante: “Se il padrone di casa non trova più confortevole la propria dimora, la ricostruirà o la arrederà in modo diverso. Se ciò non gli basta, la farà demolire. Lo stesso vale, in proporzioni più grandi, per una chiesa, un castello o una città”. Lo stesso come il pittore di un quadro cui sta lavorando he più non lo soddisfa, che “ne cambierà i tratti mentre ancora lo dipinge”, oppure “tornerà indietro fino al fondo”.
Una classificazione: cosa è Tipo, cosa è Forma, Gestalt. Ma radicale, di uno “uno sguardo che penetra attraverso il velo della quotidianieità e anche della storia”. Senza esagerare, onestamente, con argomentazione piana. I Nomi sono delimitazioni di “una pienezza senza nome”. “Natura, Terra, Madre sono nomi per l’indistinto, ma sono anche già ripartizioni di esso”. Un nuovo inizio? È semrpe possibile, e forse inevitabile: “Al di soto del mondo organico si cela una forza che seleziona modelli, che li attiva e che li provoca”. Comuni anche a “popoli assai lontani l’uno dall’altro nello spazio e nel tempo”. Un’attrazione “primaria e inesplicabile”: “Essa scende profondamente fino all’inorganico”. Molto insomma resta da fare: “L’ampiezza della nostra conoscenza è inferiore a quella della nostra ignoranza”.
Sul concetto chiave di forma, Gestalt, Jünger si era dilungato già nell’“Operaio”, 1932, e poi in “Al muro del tempo”, 1959. Lo riprende nel 1963 in questo trattato in toni curiosamente presaghi del’attualità, già da prima del coronavirus. Nel 1932 la Forma era la tecnologia. Ora è immagine: incertezza, o indistinto – se per la traccia discendente che la sottende, dissolvente. “L’universo vive in una profondità che non conosce Nome”.
Iadicicco arricchisce la traduzione con note succose. E con una elaborata Nota al testo, che mette il saggio in quadro nell’opera di Jünger.
Ernst Jünger, Tipo Nome Forma, Herrenhaus, pp. 170 € 13

martedì 28 aprile 2020

Cronache virali

“Hanno detto che le mascherine non servivano invce di iniziare a produrle”, Matteo Renzi.
“Hanno mandato i medici in prima linea senza protezione”, id..
“Non hanno gestito le zone rosse”, id.. “Loro” sono il governo: la fase 2 sarà anche quella delle responsabilità.
Quattro paesi si tassano per aiutare Lufthansa: Germania, Austria, Belgio, e Svizzera. Senza incorrere nel divieto europeo di aiuti di Stato.
“Sui 1.800 miliardi di aiuti pubblici approvati da Bruxelles da inizio pandemia, il 55 per cento è in favore della Germania, il 20 per cento della Francia e il 10 per cento dell’Italia”, Alberto D’Argenio, “la Repubblica”.
“Lì lo Stato ha già garantito una sovvenzione da diecimila dollari, e un finanziamento, nel mio caso 50 mila dollari ogni locale, che se mantieni l’occupazione sarà a fondo perduto”: per “lì’” il ristoratore romano Salvi intende la Carolina, Usa, dove ha due locali. A Roma invece niente: “Dopo quasi due mesi abbiamo solo frasi buttate lì”, “Corriere della sera.

Il mondo com'è (402)

astolfo
Amedeo Guillet – Diplomatico italiano, da ultimo. Si ricorda come ambasciatore, prima della pensione, in Marocco in una circostanza speciale, molto cruenta: l’eccidio ordinato dal generale Ufker, uomo di fiducia del re Hassan II, alla festa nei giardini del palazzo reale di Skhirat, il 10 luglio 1971, per i 42 anni del re, alla presenza di un migliaio di invitati, diplomatici e gente dello spettacolo, marocchini e francesi. Un centinaio di persone furono uccise a caso, e circa duecento ferite. L’ambasciatore Guillet, con la sua esperienza militare, si segnalò per avere messo in salvo buon numero di ospiti alla festa del re – la Germania lo premiò per aver salvato il proprio ambasciatore. Finirà subito dopo la carriera diplomatica in India.
L’ambasciatore era un generale, che s’era fatto tutte le guerre di Mussolini, e quando gli inglesi riconquistarono l’Africa Orientale continuò a combatterli. Da capo guerriglia, soprannominato Comandante Diavolo. Era stato anche l’organizzatore, per conto di Balbo, nel 1937 della cerimonia a Tripoli in cui Mussolini si proclamò “difensore dell’islam”.
Era un comandante in realtà, non un generale, un capo di combattenti sul campo, comandava a cavallo le Bande Amharà, composte di eritrei, etiopi e yemeniti, circa 1.700 uomini, con le quali molestava i britannici nell’Eritrea nord-occidentale. Riparò infine a Massaua, fingendosi un manovale arabo di origini yemenite, Ahmed Abdallah Al Redai. Finché non si mise in salvo nello Yemen, con un salvacondotto del governatore britannico all’Asmara. A Hodeida fu arrestato come sospetta spia britannica, ma riuscì a entrare nelle grazie del sovrano yemenita, e per un anno fu l’istruttore della sua cavalleria. Poco prima dell’8 settembre riuscì a tornare in Italia su una nave della Croce Rossa, fingendosi pazzo.
All’armistizio passò a Brindisi, fedele monarchico. E si occupò nel Sim, il servizio d’informazioni militari di Badoglio. Smobilitato dopo la guerra, mise a frutto la laurea in Scienze Politiche e nel 1947 vinse il concorso per la carriera diplomatica.
Amico di Montanelli dal tempo della guerra d’Africa, se ne parlò negli anni 1970, dopo il pensionamento nel 1975, come del Lawrence d’Arabia italiano. Ma il vero Lawrence, non quello del film, era corpulento, a cavallo soffriva. Guillet invece era un cavaliere – era anche stato designato a far parte della squadra italiana di equitazione all’Olimpiade di Berlino nel 1936, prima delle tante guerre cui poi partecipò. Aveva in effetti il cavallo bianco, e la barbiccia a cornice sulla bocca. Ma non gli istinti animaleschi, non che se ne sappia, né la scrittura – Lawrence è scrittore.

J’accuse - Zola, reduce da un lungo soggiorno a Roma alla quale dedicava un voluminoso romanzo,  non era interessato allo scandalo Dreyfus. Marcel Prevost, l’autore delle “Demi-vierges”, lo sintonizzò sull’affaire. Su cui Zola cominciò a produrre articoli e pamphlet, prima del celebre “J’accuse”.

Kalashnikov – L’ingegnere del mitra portatile senza rinculo, è morto a 94 anni, il 23 dicembre 2013. Un centinaio di milioni di fucili d’assalto che portano il suo nome erano già stati fabbricati, AK-47, Avtomat Kalashnikova, anno 1947. Arma tipicamente d’assalto, per terrorizzare, per uccidere indistintamente. Un’arma “robusta e senza fioriture”. Facile da copiare. Disponibile a 50 dollari.  “Mi piace la pesca”, diceva andando in pensione, “la caccia e le donne. Così, in quest’ordine”.
Era nato nel 1919 a Kuria, nell’Altai, da piccoli proprietari terrieri, poi espropriati dalla rivoluzione e mandati in Siberia. Crebbe scrivendo poesie. Si allontanò dalla Siberia per arruolarsi contro Hitler. Ferito, in ospedale cominciò a disegnare e riprese a scrivere poesie. Partecipò a due concorsi, ne vinse uno. Ma restò nell’esercito: da sergente maggiore arriverà a generale. 

Katyn – La località oggi bielorussa è famosa per il massacro degli ufficiali e civili polacchi prigionieri di guerra che per un mese e mezzo, da 3 aprile 1940, vi operò la polizia politica sovietica, allora Nkvd. Un numero minimo di 21.857 persone ne furono vittime, di cui circa ottomila ufficiali.
Il massacro fu noto all’epoca, i giornali di Mussolini avevano pure le foto. Ezra Pound si arruolò per una commissione d’inchiesta internazionale della Croce Rossa. Katyn era luogo di visite organizzate per gli ospiti del Reich nell’estate del 1943. Ma fu cancellato dal diniego di Stalin. E tale restò alla vittoria, malgrado la guerra fredda – una guerra dei furbi? Il generale Wladyslaw Sikorski, capo del governo polacco in esilio a Londra, che ne aveva chiesto conto a Stalin nell’aprile del 1943, quando l’eccidio dei 22 mila fu scoperto dai tedeschi, s’inabissò nell’Atlantico con l’aereo che lo riportava a Londra da Lisbona. Dove i servizi segreti britannici erano diretti da Kim Philby, lo spione venduto all’Urss.
A Norimberga Stalin poté portare il massacro a carico dei tedeschi. E a lungo dopo Mosca manterrà questa posizione. Fino al 1990, quando riconobbe che il massacro era opera di Stalin.

Rommel - C’era un Rommel pure nella disprezzata Polonia, pure lui generale, Juliusz. Un generale scrittore, anche di romanzi. Fu uno degli organizzatori della Resistenza polacca dopo l’invasione tedesca. Era diventato famoso nella Grande Guerra come quello che aveva la più grande battaglia di cavalleria del Novecento. Anche lui al momento decisivo, come il più celebre omonimo tedesco,  staccato dalla sua armata, con la quale doveva difendere nel 1939 il confine con la Germania. Ma non si uccise. Negoziò la resa e si fece la guerra da prigioniero. Alla fine della guerra, costretto alle dimissioni per la mancata difesa, si fece comunista: si schierò col nuovo regime polacco imposto da Stalin. Continuando a scrivere romanzi.

Sacco – Per antonomasia è quello di Roma, 1527, a opera di bande di lanzichenecchi: quattro-cinque mesi di saccheggi e distruzioni, di vite umane e di cose, intervallati da un’estate di peste. Ma almeno altri due si registrano negli annali.
Il sacco di Brescia fu il primo, 19-24 febbraio 1512, a opera sempre dei lanzichnecchi, ma per contro della Francia, col concorso dei guasconi: la caccia all’uomo, per cinque giorni senza sosta, col massacro di migliaia di persone. Anche dentro le chiese, dove la popolazione si era rifugiata, fatto allora estremamente scandaloso, perché non era ancora intervenuto lo scisma di Lutero: il Duomo, Santa Maria delle Consolazioni, San Desiderio, sant’Eufemia della Fonte. Il capo della resistenza all’invasione francese, Luigi Avogadro, fu decapitato in piazza della Loggia e squartato, gli arti poi appesi a patiboli in vari luoghi della città. Per evitare lo stesso trattamento, Bergamo pagò 60 mila ducati.
Il sacco di Mantova, 18 luglio 1630, fu opera dei lanzichenecchi per conto dell’imperatore asburgico Ferdinando II: la popolazione fu decimata, il palazzo Ducale spogliato e incendiato, dissolta la biblioteca, una delle più ricche d’Italia. Ferdinando II se ne voleva signore per avere sposato nel 1622 Eleonora Gonzaga. Che però non aveva diritto alla successione.
In tutti i “scchi” la popolazione subì anche la peste.

Trieste – Si rappresentava, nei Sei-Settecento, in tutte le vedute, con un turco inturbantato. Come si vede nei quadri di Venezia dei secoli precedenti, i secoli d’oro della Serenissima. Come a dirsi porta dell’Oriente. Mirando, fin dal primo Settecento, borgo allora insignificante, a proporsi luogo di scambio dell’impero asburgico con il Mediterraneo orientale.
Fu il vincitore dei Turchi a Vienna, Eugenio di Savoia, a consigliare nel 1717 all’imperatore Carlo VI la concessione dello statuto di porto franco a Trieste.

astolfo@antiit.eu

Il caso dei diecimila morti scomparsi

“Una stima accurata di questi due numeri, ossia dei reali decessi dovuti direttamente o indirettamente al virus, non è disponibile. In questo articolo cerchiamo di supplire a questa lacuna, fornendo una stima ragionevole di tali decessi  tramite l’analisi statistica dei dati messi a disposizione dall’Istat sui decessi totali registrati in Italia nel periodo dal 22 febbraio al 4 aprile, ed elaborando scenari sulla minore prevalenza di donne nella mortalità da Covid-19”. Con questa premessa onesta un quadro più che probabile, anzi certo. L’esito, una stima ragionata, è che al 4 aprile mancavano agli aggiornamenti quotidiani della Protezione Civile circa diecimila decessi per coronavirus. Di cui poco meno di settemila nella sola Lombardia – circa tremila nella provincia di Bergamo - e più di un migliaio in Emilia-Romagna.
Un team di ricercatori della Sapienza si è applicato a due (non) piccoli misteri del coronavirus: come mai i morti comunicati all’Istat sono molti di più di quelli censiti dalla Protezione civile, e come mai muoiono di virus due uomini per ogni donna. È la prima e la più accurata delle tante indagini che ora si accumulano, soprattutto di tipo giornalistico, con induzioni e proiezioni, anche mondiali, dell’“Economist”, del “Financial Times”, dell’Ispi, etc., sulla portata reale del contagio. La confluenza dei dati all’Istat da parte dei Comuni non è automatica: circa un quarto del totale dei Comuni italiani li avevano conferiti al 4 aprile. Ma abbastanza da consentire un’estrapolazione probabilisticamente attendibile sull’intero universo statistico.
La stima dei decessi avvenuti a causa dell’epidemia in modo indiretto, ossia non direttamente causati dal virus, è corroborata dalla lettura delle morti ospedaliere da covid più elevate per gli uomini che per le donne. Una lettura che, in vari scenari, conferma che mancano circa diecimila morti al conteggio. Mancavano al 4 aprile.
Enrico Bucci-Luca Leuzzi-Enzo Marinari-Giorgio Parisi-Federico Ricci Tersenghi,  Verso una stima di morti dirette e indirette per Covid, scienzainrete, free online


lunedì 27 aprile 2020

Problemi di base europei - 558

spock

L’Europa guarda all’Italia come un modello?

Chi glielo ha detto a Conte, Merkel?

È il democristianesimo eterno?

L’Italia contro l’Europa?

Da sola?

È l’Europa beneaugurante – “bellavista”  - una brutta parola?

Tutti machiavellici in Europa, eccetto l’Italia?

L’Italia spende meno degli altri paesi europei par la sanità, per l’istruzione, per la ricerca, per la tecnologia, per la viabilità, non paga i fornitori, non termina le opere pubbliche, e s’indebita ogni giorno di più: ma dove li mette tutti questi soldi?


spock@antiit.eu

Poesia buggerona

Si parlava nel primo Cinquecento come oggi, tra i coatti come tra i pariolini, specie le donne, per via di turpitudini, benché smaterializzate? Non si sa. Ma per iscritto sì. Qui per ben 198 sonetti. Raccolti poi in volume, in almeno un paio di edizioni, a Venezia nel 1539 e a Torino nel 1541 – questa dedicata a Alfonso d’Avalos, governatore spagnolo di Napoli. “In morte del ribaldaccio”, il “flagello de’ principi” ribattezzando “flagello dei c…”: per spregiare l’Aretino, l’amico, forse anche di letto, diventato nemico. Che non era morto e non pensava di morire, ma l’inimicizia era alla morte: “Che l’infame (viste prima le infamie de la sua vita) veggia ultimamente le esequie de la sua morte”, spiega il poeta – il poeta? - in premessa allo stampatore torinese, “che vivo si sia visto sotterrare da da la virtù di colui, il quale egli con la maligntà avea pensato di por sotterra”. Una tappa in una gara di “infamie”, considerato che lo stesso Franco all’ex amico aveva già dedicato una raccolta, “Rime contro l’Aretino”.  
L’oscenità era nel Cinquecento poco significante, si parlava come oggi con rivii a organi sessuali e offese dello stesso tipo - il linguaggio che usava dire sboccato. Nicolò Franco era stato un giovane dabbene. Primi studi a Benevento, dov’era nato, poi a Napoli, pregiato latinista. A 21 anni si trasferì a Venezia per accelerare il successo, e vi debuttò con un plagio. Poi si fece segretario dell’Aretino. Dopo la lite, fu al servizio di vari signori, a Casale Monferrato, Mantova, Cosenza e Napoli. Infine a Roma, regnante Paolo IV, della famiglia napoletana Carafa. Per un anno o poco più fu il beneficiario dei nipoti del papa, ma quando il papa morì, a Ferragosto del 1559, entrò a far parte di una congiura contro la sua memoria, e contro la vita dei suoi nipoti, che furono giustiziati, scrivendo un libello infamante, di prove inventate. Per questo nel 1570 sarà a sua volta fatto processare da papa Pio V, e impiccare. Ma la tentazione ce l’aveva già qui, nel sonetto, caudato,  più fortunato, il n. 80: “Buggera il papa, e tutti i suoi prelati,\ con ogni altra persona religiosa:\ or dunque il buggerare non è cosa\ che annoverar si possa tra peccati”.
La pornografia è decretata oscena nell’Ottocento, l’epoca che l’Orlando di Virginia Woolf trovò delle “tendine alle finestre”. Prima se ne faceva come di ogni altro genere letterario, sotto e sopra il bancone. Perfino, come qui, in rigidi sonetti. Interpolati da versi di Petrarca. Forse troppo esplicita e insistente, insignificante. Anche se la non difficile rima, al singolare e al plurale, il prolisso rimatore limita ai soli sollazzo e schiamazzo al singolare, e uguale al plurale, con pazzi e palazzi.

L’oscenità è materia consistente della poesia in Italia, fino al secondo Ottocento – Ammirà, “La ceceide”, celebrerà la vulva. Annalizzata a partire da Cecco Angiolieri, e soprattutto nel primo Cinquecento, con Berni, Aretino, Vignale (“Arsiccio Architronato”), Grazzini (“Lasca”), Della Casa probabilmente, Bino. Mentre contemporaneamente un buon numero di poetesse, di professione cortigiane, Tullia d’Aragona, Veronica Gàmbara, Veronica Franco, Gaspara Stampa, Louise Labé, creava la dematerializzazione dell’amore sensuale in un esasperato petrarchismo.  
Nicolò Franco, La priapea

domenica 26 aprile 2020

Se l’untore è il sistema sanitario

Dilaga sul coronavirus il compiacimento da fine del mondo, indotto dal facile “colore” mediatico. Una sorta di voglia di Anno Mille. Non è un effetto inoffensivo della pandemia: ritarda o impedisce la riflessione sui troppi nodi che l’hanno resa mortale, per prima in Italia. E potrebbe infettare la fase 2 che si annuncia, con nuovi focolai.
Il virus ha colpito i paesi dell’ex Occidente: l’Europa occidentale e gli Stati Uniti. Poco o niente, al confronto, altrove: nella stessa Cina e in Asia, nell’Est Europeo, Russia compresa, in Medio Oriente, in Africa, in America Latina.
E in Occidente ha colpito alcuni paesi molto più che altri: Italia, Spagna, Gran Bretagna, Francia, a differenza di Germania, Austria, Svizzera, Portogallo, paesi scandinavi.
La diffusione del contagio è l’effetto di una spesa sanitaria insufficiente? L’Italia in effetti spende in sanità l’8,8 per cento del pil, contro l’11 per cento della Svezia e l’11,3 per cento della Germania. Ma la Francia spende, in quota del pil, quanto la Germania. 
Il virus ha colpito di più dove le condizioni di lavoro (produzione) erano più affollate, sregolate? Ma allora perché in Lombardia-Emilia sì e non nel Napoletano, nell’economia in nero, affollata e sregolata per definizione?
La risposta sanitaria è stata sbagliata? I tanti ricoveri. I tanti rinvii-condanna dagli ospedali alle Rsa, le case di riabilitazione. Il deficit o la disattivazione dell’assistenza sanitaria di base – troppi, con troppe morti, i contagiati che sono stati “visti” dopo giorni e settimane di insistenze.
Questo è probabile, anzi certo. Potrebbe da solo spiegare l’eccesso di morti in Toscana, Emilia, Lombardia, che vantavano l’eccellenza sanitaria per avere meglio “riorganizzato”, cioè tagliato i costi, accentrando tutto sull’ospedale.