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sabato 23 ottobre 2010

Camilleri scassina-classifiche, per la letteratura?

Tra battute cretine, diecine d’“imparpagliamenti” del solito Catarella, e l’uso estensivo qui dell’“Orlando Furioso”, che questo sito non può che benedire, continua la vena prodigiosa di Camilleri-Montalbano. Che lo scrittore voleva “uccidere” e invece riproduce al ritmo di uno al mese. Di racconti, e anzi aneddoti, stiracchiati a romanzetti (questa volta resta perplesso pure l’instancabile Salvatore Silvano Nigro che firma il risvolto). Un godimento per il lettore. Una conferma della mediocrità forse del “resto da leggere”, che non c’è. La conferma felice della vena prodiga dello "squasi novantino" scrittore. Che, tra l’altro, a risarcimento delle facili battute (“Mi chiamo Ugo Foscolo”, “Per caso è nato a Zante?”), infligge al lettore non siculo-calabro in questo testo una serie sterminata di dialettismi, al limite dell’idioletto. E quindi la conferma che la letteratura può, con le chiavi false, battere i testi facili e scalare le classifiche?
Andrea Camilleri, Il sorriso di Angelica, Sellerio, pp. 259, € 14

Il mondo com'è - 48

astolfo

Comunismo - Yakovlev, è accertato, il collaboratore di Gorbaciov , era una spia della Cia. Ma una serie di variazioni ha aperto: perché non era Andropov, capo del Kgb e dell’Urss, l’uomo della Cia? O già Dzerzinski, il fondatore sei servizi segreti sovietici, infiltrato polacco – all’epoca la Cia non esisteva. Se non è stato Gorbaciov il vero Reagan, il ruolo grande che il mediocre attore Usa non riusciva a impersonare. Essere comunisti, e pensare che il comunismo l’ha abbattuto la Cia…

Guerra – Ormai è di liberazione, in Afghanistan e in Iraq come in Libano, nell’ex Jugoslavia, in Somalia: botte in testa per imporre la libertà. Lo si dice perché così vuole la propaganda, cui l’opinione pubblica s’è ridotta, e fin qui è una furbizia inoffensiva. Queste guerre di liberazione, però, mirano alle popolazioni. Finora, guerre mondiali comprese, le popolazioni non erano l’obiettivo primario, le guerre si facevano tra eserciti. Gli alleati hanno cambiato le cose bombardando a tappeto le città di retrovia. Ma la tremenda novità si poteva contabilizzare come una reazione alle malvagità di Hitler gli ebrei, gli zingari e gli altri esseri umani a suo avviso non puri. Ora, invece, è il meccanismo centrale della guerra: controllare, terrorizzare, anche attaccare, le popolazioni imbelli. Non solo nel carnaio libanese, o in quello jugoslavo, o somalo, ma anche dove un fronte si potrebbe stabilire, in Iraq e in Afghanistan.
È una conseguenza dell’occupazione: i liberatori s’impossessano delle città, dei nuclei più densamente popolati, e li controllano: setacciano, blandiscono, bastonano. È quando è stata liberata che Napoli, nel’ultima guerra, ha conosciuto la guerra: i bombardamenti prima, poi l fame, la borsa nera, la destituzione morale.
C’è un che d aberrante in questo: è contestabile il “diritto d’ingerenza” di cui si sta tentando l’introduzione. Se la conseguenza è fingere che dei soldati sappiano gestire l’ordine e l’economia in una città, mentre invece la occupano e controllano militarmente, questa è violenza insana.

Informazione – È sempre più un gioco da bancarottiere, a carte truccate. Quello che comunque ne tira un profitto, anche se dovesse uscire di scena, a danno dei soci e dei creditori, del pubblico. Il problema è che non siamo in alcun modo obbligati a darle credito, e invece… è questo il ruolo malefico dei media: portare la gente a credere. Credere ai bellimbusti che reggono la politica da un ventennio, i falliti e i filibustieri.

Occidente – Le aggressioni sono venute, sempre, da Oriente. Sempre, cioè per un millennio dopo che l’impero romano non ha più fatto argine, da Attila a Lepanto. Ce n’è abbastanza per segnare in perpetuo una psicologia sociale. Sono venuti da Oriente anche gli stermini di massa nel Novecento – e perfino le due guerre mondiali se la Germania, come Thomas Mann pretende, è poco occidentale, e anzi soffre l’Occidente.

Onestà – Quella del pubblico ufficiale e del manager di Stato è imprescindibile dalla sua capacità. Altrimenti, anche se non ruba, diventa colpevole (disonesto) per lo sfascio che provoca.

Dire di qualcuno che è morto povero non è una lode. San Francesco non l’avrebbe pensato così.

Pci – La sua breve storia è devastante. Non è stato e non è utopia, né materialismo scientifico, poiché non sa nulla dell’Italia né del mondo come va. È stato, è, togliattiano, partito d’ordine. E leninista, attaccato al potere anche nelle forme infime – senza, per fortuna, la spregiudicatezza di Lenin, e senza ovviamente la sua intelligenza. Ne è controprova il suo ruolo in Italia con Berlinguer e dopo, con l’incredibile Tangentopoli affossa-sinitra portata in palmo di mano e anzi ispirata da Botteghe Oscure, se non gestita a filo doppio dalle sue oscure organizzazioni. A beneficio sempre dei padroni: mai un gesto, un’iniziativa, un’idea per liberare un centimetro quadrato del Paese.

Politica – È la lotta contro i male, assidua, feroce anche. Solo questo può spiegarne l’impegno, e la forza. Lotta incerta, poiché il bene non si sa dove sia – pensare che nella Repubblica il male è stato impersonato dai vescovi, che sarebbero Cristo in terra, e dai giudici.

Prete – È Ponzio Piolato, non Cristo. Ne ha la funzione e la mentalità.

Rivoluzione – Lasciata a metà è un tradimento: abbattere senza costruire secondo le premesse. La rivoluzione francese è riuscita perché ha, come proponeva, dato diritti e poteri al ceto medio. La rivoluzione sovietica è fallita perché non ha liberato, come prometteva, i lavoratori: finito il suo potere di coercizione (stermini, purghe, gulag), che peraltro più si estende meno è efficace, si è semplicemente dissolta, una macchia nella storia.

Roma – Dunque c'è sempre meno adulterio a Roma (ce n'è di più a Milano, figurarsi..). Si può anzi dire scomparso, da tempo le cronache non lo registrano più. E se c’è è maschile, di cinquantenni che se la fanno con ragazzette, i capufficio s'immagina.
Ma c’è mai stato adulterio a Roma? Ci sono città, dice Jünger, che irradiano eros, tra esse cita Firenze e Venezia ma non Roma. Che pure è città sempre viva, e offre più nascondigli e sorprese. Sarà lo scirocco che la rende amorfa? O i preti, senza passione?

I Romani non piangevano mai. Non si commuovevano, non avevano passioni, non ne parlavano. Eccetto, naturalmente, quella del dominio. Del dominio politico poiché è dubbio che anche in guerra si eccitassero, non se ne ha notizia. Si abbuffavano, ma senza gusto. Scopavano anche molto, ma evidentemente senza piacere, perfino Catullo ne è prova – con la sfrenatezza algida dei moderni culti gay. E per questo non s’annoiavano nemmeno: s’annoia chi è sensibile.

Stalin – Il suo ruolo maggiore sarà stato di avere “creato” Hitler. Che era Hitler da almeno dieci anni, dal “Mein Kampf”, ma era valutato poco più che un cretinetti. Ma Stalin voleva dividere l’Europa ostile: impose al Pc tedesco di fare la guerra ai socialisti anche in combutta con Hitler, e a questo programma tenne fede per tutto il 1933, per otto-dieci mesi dopo l’ascesa di Hitler alla cancelleria. “Il fascismo e il social fascismo sono gemelli”, diceva Stalin dei socialisti, una battuta che fu una politica costante. E, certo, tenne bordone a Hitler, sabotando la produzione bellica in Francia, fino al 1941 – fu Hitler ad aggredire Stalin e non Stalin Hitler.

Totalitarismo – È un regime sociale, prima che una dittatura politica. Questa può aversi senza totalitarismo. E il totalitarismo può aversi senza dittatura: quello dei consumi, del tempo libero, della vita garantita.

astolfo@antiit.eu

venerdì 22 ottobre 2010

Camusso-Montezemolo, l’Italia dei merli

Uno che non ha mai lavorato, e una che fa di mestiere la Signora No, presidiano euforici e sicuri di sé il salotto di Floris, il democratico migliorista, che presenta il suo libro beneaugurante, “Zona retrocessione”. E tutti insieme allegramente dicono peste e corna dell’Italia. Offerti in pose lusinghiere, spiritosi, simpatici, per essere tutti noi, i belli-e-buoni italiani migliori. Una speciale Italia dei Merli, che si alzano tardi, si fanno una cantatina, e si ammirano a ogni riflesso. Loro non si occupano dell’Italia che sta al 120mo posto, su 138, per la produttività del lavoro – che negli stabilimenti Fiat è un po’ più alta, ma sempre meno che in Brasile, Polonia, Turchia, e ora perfino la Serbia.
Montezemolo e Susanna Camusso, che al convegno si raccontano le barzellette, vere spiritosaggini mica le storiacce di quello lì, tanto avranno l’animo nobile quanto la supponenza e la delittuosa stupidità. Una storia insomma che finirebbe qui, se nello stesso ambiente, che si pretende di sinistra e lo è, un onesto lavoratore come Marchionne, che tenta di salvare la Fiat anche in Italia, e di salvare anche Napoli con la Fiat, non venisse sbertucciato come un padrone e un fossile. Sì, è la borghesia italiana, che è sempre stata stupida, essendo nata ladra, dalla manomorta. Ma questa borghesia è ora la sinistra politica, che dovrebbe essere il futuro del paese – la destra è la conservazione, la sinistra è la novità e il futuro. È la sinistra per la retrocessione? A beneficio di chi?
Ma, poi, questo Montezemolo non lo paga la Fiat? Forse non c’è troppo da commuoversi su Marchionne. Ma questa Fiat, è giusto che ci imbonisca di tutto e il contrario di tutto? Dobbiamo morire per i fratelli Elkann?

Ballard aveva scritto Napoli, nel 1975

Un grattacielo residenziale negli anni Settanta a Londra (il libro è del 1975) diventa una giungla: i residenti imbelviscono. La solita prova geniale di Ballard, che fa vivere piano l’inverosimile, con linguaggio e situazioni ordinari. Seppure concentrazionari - il mondo di Ballard è, tranquillamente, concentrazionario e misogino. Sul tema del degrado urbano, che fa tanta letteratura britannica, dopo di lui la Nobel Dorothy Lessing. Che da noi trova l’equivalente nelle cronache, Corviale, Spinaceto, Le Vele. I sogni dell’architetto stranamore. Oppure Napoli.
Rileggendo “Il condominio” si viene a ogni pagina riportati alla Napoli che ci affligge, i volti, i ragionamenti, l’imperturbabile autodistruzione, dalla televisione. È “la psicopatologia”, dice Ballard, “automaticamente «libera»”. Una “crescente sfida alla realtà delle cose”, che è l’esito di “una nuova tipologia sociale, una personalità fredda e antiemotiva”.
James Graham Ballard, Il condominio

Letture - 43

letterautore

Critica – Vent’anni fa, nel 1992, Asor Rosa decretava la fine della letteratura italiana. Nel 1993 Walter Pedullà decretata la fine dell’ironia – di chi? Che malattia è? Deve avere un nome in psichiatria.

Dante – Analizzando Proust, Beckett trova l’allegoria applicata a un’allegoria, invece che a “una realtà precisa, letterale, concreta”, un di più fallimentare: “Dante, se si può dire che abbia mai fallito in chicchessia, fallisce quando descrive dei personaggi puramente allegorici, Lucifero, il Grifone del Purgatorio e l’Aquila del Paradiso, il cui significato è puramente convenzionale, estrinseco: l’allegoria fallisce allora come è sempre condannata a fallire sotto la penna del poeta. L’allegoria di Spenser crolla presto dopo pochi canti. Dante, che era un artista e non un piccolo profeta, non ha potuto impedire alla sua allegoria di scaldarsi, di galvanizzarsi in un’anagogia”

Italiano – Si può leggere Leopardi e pensare che sia Petrarca, e viceversa – o perfino Metastasio. Un critico dell’anno Diecimila, che dovesse ricostituire filologicamente l’identità che sta dietro “Muore giovane colui che al cielo è caro” avrebbe parecchi dubbi: la lingua resta immutata per cinque secoli, immutate le tematiche, gli stilemi.
Una lingua che era già formata nel Trecento, al top della costruttività e dell’espressione, dell’ampiezza espressiva, per costrutto e per vocabolario. Forse ineguagliabile quell’italiano, per vivacità (Dante, Boccaccio), per naturalezza (Petrarca), certo difficilmente migliorabile. Ma perché imbruttirlo, da Manzoni a Pasolini? È un rifiuto della buona lingua, o il problema della lingua è il riflesso di una rottura interna, no squilibrio psichico o nervoso (ipocrisia)?

L’italiano, dice Stendhal in margine al “Leuwen”, è complicato, va per particolari, e quindi è confuso. E dà l’esempio di Pietroburgo: “«Pierre le Grand bâtit Pétersbourg», dice il francese, mentre l’italiano vorrebbe esprimete tutto insieme, che «in un luogo deserto, soggetto alle inondazioni…»”. Era vero per Manzoni – anche se Manzoni resta apprezzabile come caso unico di questo linguaggio “componentistico” riuscito, e per l’Ottocento, torna a essere vero oggi, dopo il balzo verso il basso fatto dalla lingua con la televisione. Con un’aggravante. Storia e caratteri italiani hanno semrpe facilitato molta buona letteratura, da sant’Agostino in poi (lo stesso Stendhal, quando non ha modelli italiani, s’ingolfa ignobilmente, v. “Leuwen”, “Amiel”….). Mentre oggi dalla realtà italiana non si ricaverebbe una virgola buona: c’è l’intrigo, ma nell’indifferenza – solo i soldi contano, la passione è scaduta a invidia, insofferenza (nevrosi), e a un minimo desiderio porno.

L’italiano di oggi è il Codice Bernabei (o Codice Rai, o Antonelli): la lingua che si parla, e quella che si scrive nei molti campi della comunicazione (giornali, aziende, pubblicistica di costume), è quella della televisione. Dovrebbe essere diretta, cioè semplice, e invece accresce la confusione. Passa infatti attraverso reticenza, omissioni, e falsi tecnicismi (condizionale, presunto, eccetera) che la rendono incomprensibile ai più, e per gli altri una “lingua furbesca”, il nonsenso trasformandosi in eccesso di senso: partigianeria, politica, ironia, complotto.

Joyce – Strano modernista, per la “rottura” della lingua, poiché è regressivo, e anzi tradizionalista. Contro il Rinascimento (v. “Scritti italiani”, secondo la tradizione medievistica dei cattolici. Contro l’illuminismo e ogni dottrina del progresso. È qui la radice della sua diffidenza nei confronti di Pound, il suo riscrittore, o dell’ammirazione da parte di Eco?

Kafka – Nella sua famiglia, Franz, il padre ingombrante, le sorelle, i cognati, le fidanzate, la madre è inesistente. Marino Freschi e Antonia Vitale dicono che è colpa del tedesco: la madre è la lingua madre, il tedesco. Che per Kafka però, avvinto all’ebraismo, illuminato dalle radici ebraiche, diventa una gabbia insostenibile, una cosa da negare. Ma Kafka non è uno scrittore tedesco? Massimo scrittore tedesco, e non rabbino – mentre l’ebraismo che gli impone Max Brod è contestato da chi ha conosciuto entrambi, e Canetti abbandona questa traccia.

Kitsch – Perché non verrebbe da chic pronunciato alla tedesca? In fondo è uno chic deragliato, la pretesa dello chic.

Latina – La letteratura è tutta politica, da Ennio a Tibullo, Orazio, Virgilio, e perfino Persio, Marziale, Giovenale – oltre ai cosiddetti storici, Tito Livio, Tacito, o anche Cicerone. Cinque secoli di letteratura patria (e il più saldo fondamento del maschilismo dei Romani, che invece erano femministi, in diritto e nella vita corrente), a fini imperiali. Perfino Ovidio, piange perché è escluso.
I Romani non si annoiavano mai? Evidentemente avevano una passione dominante per il potere. O nemmeno quella, erano solo indifferenti, e quindi crudeli?

Lettere – Uno vorrebbe tanto essere il Boccaccio, per avere un Petrarca con cui corrispondere. Ma la frustrazione non è tanto quella di non essere un Boccaccio, quanto di non avere il Petrarca a disposizione. Non ci sono in giro persone con cui parlare in amicizia, o con rispetto, di cose diverse dal tempo, Berlusconi, il film e le vacanze.

Letteratura – Quella buona va con la ricchezza.
Quella italiana va col Tre-Quattro-Cinquecento. Quella inglese con i regni super di Elisabetta e Giacomo I. E tutti siamo ancora vittime del Settecento e Ottocento francesi, dei due secoli tedeschi, dall’ultimo quarto del Settecento all’ultimo quarto del Novecento, del marchio Usa.
Il benessere migliora le capacità espressive, o la valorizzazione di queste capacità?

Linguaggio - È la metafisica del Novecento, campo di esercitazione al buio e senza esito. In letteratura e nell’arte. La rottura col significante – l’immagine e la storia – lo imbuca in un formalismo tanto acceso quanto inconcludente, se non per il lirismo. L’effetto fanatizzante cumulativo tanto simile alla giaculatoria, al pep talk.

Meraviglioso – In letteratura si lega alla tecnica. Da sempre, da molto prima che la tecnica facesse il grande balzo, da Hoffmann (mesmerismo, magnetismo, eccetera) a Verne, Lovecraft, Bradbury. Il futuro, o l’altro, il bizzarro, il meraviglioso, è sempre la natura incoercibile – gli eventi cioè, le passioni – ma sotto la nuovissima forma umanistica, del tentativo di controllo e sfruttamento (uso razionale).

Metafora – È un piacere. E un modo di essere del linguaggio – di conoscere e dire. Ma lo riduce a enigmi, a significati cioè noti a gruppi sempre più ristretti. Questo è vero perfino per letterature indagatissime, come quella greca, che prediligeva la metafora e il discorso indiretto. Se è vero che Saffo che si butta dalla rocca di Leucade è semplicemente Saffo che s’innamora, e forse nemmeno lei, ma il suo, o la sua, committente – quanti suicidi bisogna togliere alla letteratura greca!

Sublime – Ce n’è tanto nel Settecento, che pure figura secolo razionalista, anzi illuminista. È l’illuminismo il contrario di se stesso, la ragione non laica?
Ce n’è ancora di più nel Settecento tedesco. Dove, mentre altrove è diminutivo, genere quasi marginale, “obliquo” dice il Devoto, “che sale dal basso obliquamente”, è invece Erhaben, superiore, aristocratico, eminente. I buoni tedeschi non sono mai stati complessati: tutto ciò che a loro piace diventa eccezionale.

letterautore@antiit.eu

giovedì 21 ottobre 2010

Ombre - 65

Sara Scazzi è stata uccisa. Ed è stata uccisa a casa degli zii. Ma nessuno in questa famiglia, i genitori e i figli, ne ha rimorso. Si accusano tra di loro, poi ritrattano, poi si accusano di peggio, ma nessuno che dica un briciolo di verità, o manifesti un rimorso. Hanno tutti a lungo “bucato” i telegiornali e i talk show, con sapiente controllo di se stessi e fiuto della scena, quindi non sono una famiglia di mentecatti. Sono il male, che sempre è violento e insensibile, e solo si arrende alla violenza.

Tutti hanno potuto seguire l’incredibile commento di Cerqueti e Bagni alla partita dell’Inter. Mai un accenno agli errori dell’arbitro – tutti per l’Inter. O ai cartellini mancati contro gli interisti. Mai un replay in questi casi, da una regia superattenta. Salvatore Bagni è interista dichiarato. Ma la Rai? Non era di Berlusconi?

Visite “di Stato” ogni tre giorni per Fini. Indifferentemente, dall’Africa a Londra, basta che comportino il diritto di comparire ai telegiornali. L’ex ministro degli Esteri mette a frutto i “movimenti” di diplomatici, ora impegnatissimi a cercargli interlocutori ai quali possa stringere la mano. Come già aveva messo in moto i Procuratori Capo da lui favoriti come vicepresidente del consiglio, dall’Aquila a Firenze e Roma. Li aveva messi in moto contro i suoi amici politici, Berlusconi e soci. Poi si dice che non è un grande politico andreottiano.

Sfilano a Napoli i testimoni Del Piero, Ibrahimovic, poi magari Zidane, perché no, e tutti quanti. In un processo che la giudice non voleva fare, perché sapeva già come va a finire. Cioè con la condanna della Juventus e di tutti quanti. In primo grado. In appello invece no. Senza vergogna.

Il “Corriere della sera”, dopo aver lanciato con congruo preavviso le inchieste Rai sulle ville di Berlusconi alle Bahamas, o anche a Antigua?, fa diecine di pagine sulla banca Arner, che ha gestito l’acquisto. Facendo pubblicità a Mario Draghi, che inflessibile ha ordinato d’ispezionare la banca, e al professore avvocato della Bocconi che inflessibile la ispezionò, con tanto di foto e punti di accusa, anzi no di censura, anzi no di rinvio alle norme, sempre inflessibile. Dopodiché si paga una pagina di pubblicità della Arner, 50 o 100 mila euro, per dire che tutto è in ordine. Molto milanese.
Molto ipocrita anche. Ferruccio de Bortoli, che dirige il quotidiano, è sicuramente un gentiluomo. Ma in un giornale e in una casa editrice dove tutti hanno rubato per decenni impunemente, tutto è sempre possibile.

Fondo al vetriolo del “Corriere della sera” domenica 17 sulla farsa in Piemonte, dove si ricontano i voti ma non si sa con quale criterio, e con dubbia autorità. Dopodiché il severo, quasi giansenista, commentatore Cazzullo conclude: “La linea della palma è salita fin sulle Alpi”. Povero Piemonte, vittima della Sicilia.

Si ricontano i voti in Piemonte per invalidare la vittoria del leghista Cota. Non per verificare imbrogli, ma per far valere intrighi procedurali per cui molti che hanno votato Cota si possa dire che non lo hanno votato. È una sinistra ben sinistra, questa, ammesso che lo sia politicamente – poi si dice che la Lega vince ovunque. Ma i trucchi procedurali su cui far ricorso sono suggeriti dai giudici…

Sentendo parlare di governo tecnico, Mario Draghi attacca il governo: tre punti di disoccupazione in più, mica niente, e entrate in calo. Un attacco talmente sgraziato che neppure i nemici di Berlusconi lo cauzionano. La Banca d’Italia che attacca il governo con dati falsi: che paese è questo?

Le liti di Santoro con la Rai sono altro che operazioni pubblicitarie? Sono una delle tante soap Rai, altro che libertà d’informazione, il trionfo dell’ipocrisia.

La Rai ha i conti sfondati. Una destra che volesse effettivamente combatterla basterebbe che la lasciasse andare. E invece non passa giorno che non si applichi a sfidarla. A denunciarne da maestra di scuola la perfidia, la violenza, l’ipocrisia. È il vecchio tenersi reciproco fra Rai e Berlusconi? È l’occupazione condivisa dell’opinione pubblica, l’opinione critica.

Il cognato Tulliani ha avuto dalla Rai lo stesso contratto per docufilm che la Rai aveva preparato per Santoro. Non ha fatto i docufilm ma ha perso i soldi. Senza indignare Santoro.

La Procura di Roma lascia al principato di Monaco l’incombenza di dichiarare legale la vendita dell’appartamento al cognato Tulliani. Non c’è che dire.

Il fisco sbirro di Padoa Schioppa

L’Agenzia delle Entrate richiama a frotte i lavoratori contribuenti sulla dichiarazione dei redditi del 2008. E se non hanno conservato la documentazione originale delle spese mediche gliele detrae dalle detrazioni. Con multe, mora, eccetera. Non si contesta la congruità o la validità delle detrazioni, si scommette sull’imprevidenza di chi butta via le carte: si fanno, a milioni, accertamenti su valori minimi, su chi le tasse le ha pagate, con furbizia sbirresca.
L’obbrobriosa pratica delle forze dell’ordine impegnate a chiedere i documenti in giro per le strade, preferibilmente ai galantuomini onde evitare sorprese, si estende così agli accertamenti fiscali. In sostituzione della vera indagine sugli evasori – così come il controllo dei documenti supplisce alla caccia e punizione dei delinquenti. I funzionari se ne sentono umiliati, così dicono, ma così impiegano anche il loro tempo, invece di fare controlli veri.
Dicono anche che il riscontro è stato introdotto da una leggina del 2007. È possibile, anzi sicuramente sarà così. Ma all’epoca era ministro il dotto Padoa Schioppa, nonché fustigatore emerito dei costumi pubblici. È questa la sua lotta all’evasione, un piccolo trucco per fregare il popolino? Il capo del governo all’epoca era Prodi, non nuovo a questi trucchetti. Ma Padoa Schioppa non se ne vergogna?

martedì 19 ottobre 2010

Il Grande Fratello è diventato Sinistro

Fa impressione vedere tanti dossier, tutti precisi, tutti col lancio concordato da sapiente regia, su fatti non illegali né di corruzione, dove anzi l'illegalità è talvolta degli stessi dossier, acclarata cioè. Come le case di Berlusconi alle Bahamas, o a Antigua, o quella venduta da Sepe a Lunardi, il riciclaggio dello Ior, il minaccioso attacco napoletano al "Giornale", le intercettazioni di "Panorama". Per non dire dello screditatissimo Ciancimino e del Centokiller teologo.
Il tipico dossier è messo insieme sempre sotto l’ombrello di un giudice – ma non necessariamente a sua opera. Che lo usa per farsi una carriera politica alla pensione, ma non necessariamente. Più spesso nelle cronache lo ha usato l’ufficiale di polizia giudiziaria, per farsi gratis la testimone d’accusa vendicativa, o la cronista giudiziaria. I giudici dei dossier agiscono normalmente di concerto e sotto un ombrello politico, in passato il tiro a quattro Milano-Palermo-Napoli-Bari, dalemiano, ora quello Firenze-Perugia-Roma-Napoli, finiano. Collazionato un certo numero di documenti, col suffragio di qualche perizia, ultimamente sempre più della Banca d’Italia, si cerca un’anticipazione, presso l’Ansa o uno dei grandi giornali. Dopodiché, prima ancora che le “carte” siano rese pubbliche, c’è un giro di dichiarazioni che occupano obbligatoriamente (par condicio) i tg: ogni partito rappresentato in Parlamento ha diritto a dire la sua. Comincia quindi lo stillicidio della carte e dei pareri: documenti, pizzini, copie certe, copie incerte, interpretazioni, “letture”, precedenti storici. Sempre verso fonte controllata o controllabile, presso l’Ansa o i grandi giornali. Finché, diventata materia dei talk show, dei libri, delle presentazioni dei libri, degli echi delle presentazioni, la “cosa” non va avanti da sola, il tempo di un’ubriacatura. Questa scansione, insieme flessibile e rigida, ripetitiva, implica che al dossieraggio lavorano molte persone e organizzazioni fuori dele istituzioni, come si suole dire, esterne all’apparato repressivo – che si deve attenere a diverse procedure.
Il dossier è tipicamente lavoro di destra. Il genere fu sviluppato nel secondo Ottocento francese, e nel primo Novecento un po’ ovunque in Europa a opera dei regimi dittatoriali o autoritari. Riguardava la vita privata e gli affari. Orwell lo immortalò nel primo dopoguerra nella versione Terza Internazionale, o staliniana, a fondo e fine politico, e tale è rimasto. I tentativi di dossier della destra, sui giornali di Berlusconi per esempio, sono tanto affannati quanto pasticciati – inoltre, sono sempre "seguiti" dallo stesso Grande Fratello, si vede nel caso di “Panorama”, mentre dell’inverso non c’è ancora un caso.
Resta da accertare il loro peso elettorale. Non per avere confezionato e confezionare dossier superbi la sinistra si è ripresa dopo l’autogolpe del 1992. È però vero che i dossier annullano il voto, lo rendono inoperante. Che è probabilmente l’esito voluto dai veri manovratori delle “carte”: il governo attraverso la crisi, cioè la crisi della funzione di governo. Quando vinse Prodi l’ultima volta, nel 2006, subito partirono (sempre da “sinistra”) dossier contro la sua persona – di cui quello sulla loggia massonica a San Marino, che pure era ridicolo, fece molte prime pagine.

Berlusconi 4 – l’uomo del non fare

Ultimamente finge che niente stia succedendo, Silvio Berlusconi, ma un po’ come don Abbondio si tirava fuori dagli eventi: non vede, non sente, parla di altro. Anzi, parla solo con l'avvocato, che non fa nulla per non assomigliare all'Azzeccagarbugli. Per sei mesi non ha avuto un ministro delle Attività Produttive, poi ne ha nominato uno senza peso specifico. Da fine giugno la Consob non ha un presidente, che tocca al governo nominare. Un posto delicato in un organismo delicato, il controllo dei mercati finanziari: ma Berlusconi tentenna. “L’uomo del fare” è singolarmente inerte.
L'uomo è palesemente disorientato. Vaga solo per ville sterminate, senza familiari e senza più amici, si circonda di ragazze di nessuna attrattiva se non le facce puttanesche, si lamenta dell'ingratitudine come ogni beghino in confidenza con Dio. L'età, invece che saggezza, gli ha portato amarezza, e la moglie. Una vicenda inverosimile, questa, che peraltro è solo all'inizio. La vendetta della moglie-medea è solo all’inizio, se ne può antivedere agevolmente il percorso: dopo il governo, Berlusconi dovrà perdere l’azienda, per qualche giudice se non per errori di mercato, mentre i figli si dilanieranno. Le medee sono cattivissime, ed essere femministi o galanti, come si diceva, non aiuta, la donna è naturalmente amazzone, ama uccidere, smembrare. C'è insomma più di un fatto personale alla radice dell'incertezza e dell'incapacità dell'uomo. Ma c'è anche un sistema inefficiente di governo, paradossale per l'"uomo del fare" ma incontestabile.
Lo stallo è il segno più evidente delle divisioni nella coalizione di governo, Lega compresa, e più ancora della sterilità di un certo modo di governo, legato a un uomo e ai suoi umori. Non del carattere dell’uomo, che quando si tratta del Milan o di Mediaset o di altro affare privato sa essere anche rapido e sempre conclusivo. No, proprio del metodo di governo: di una coalizione che solo si muove se il capo si muove. Del sistema elettorale plebiscitario, costruito su un uomo, senza i contrappesi parlamentari di iniziativa e controllo (il Parlamento è jugulato: o fiducia o elezioni).
Un terreno su cui non c’è gara, una posta su cui correre da solo, l’idea non era male: la politica del fare. Realizzando infine, pensarci!, il famoso paradosso della tartaruga più veloce del veloce pie’ d’Achille. L’Italia ne ha il mito. Dal cav. Mussolini che in un’estate prosciugava le paludi pontine, dopo aver mietuto il grano, all’ing. Mattei che costruiva oleodotti in una notte – anche se il petrolio non c’era. Berlusconi stesso, si può dire, in una notte, o due, costruì ben tre tv. Ma a Roma come i romani, si può dire: Berlusconi si adegua. È così arrivato a metà di una legislatura solidissima in Parlamento e non ha fatto niente: federalismo, giusto processo, intercettazioni, tasse sul lavoro? Annunciando naturalmente imminenti riforme, che poi sono in attesa da quindici anni: fisco, giustizia, opere pubbliche. In un quadro lezioso di aggiornamenti e rinvii, ripensamenti e approfondimenti, precisazioni e miglioramenti, nel quadro delle corrette procedure democratiche, anche se con un pizzico di qui lo dico e qui lo nego, ci sono e non ci sono, e io non ho detto questo. Insomma della politica del non fare. O, come la teorizzò il sommo Andreotti, del governo attraverso la crisi. Dell’esserci e non esserci appunto, dire e non dire, e mai fare – la politica della durata, certo, si può anche metterla alla Proust.
E siamo finiti a un uomo che la moglie vitupera in piazza a giorni alterni. E che per farsi una scopata, uno che si ritiene ed è, dovrebbe essere, bello-e-buono, ricco, potente, intelligente, spiritoso, maschio, deve ricorrere a una puttana. Per giunta pettegola, collaboratrice dell’onesto sbirro della Finanza, il colonnello…(call…). Che nomina ministro due volte uno che dire incapace è fargli un complimento, l’ex funzionario savonese della Dc Scajola. Che mette giustamente al governo tante donne, ma tutte più o meno belle senza carne – si dice senz’anima, ma l’anima è la carne. Anche la Prestigiacomo, una che si tuffava con Fini (poi lui trovò l’amante già svezzata da Gaucci), e si sa che il nuoto fa bene alla salute, non si sa che abbia mai fatto al governo.
Berlusconi può non averne colpa. Ma è il fallimento del ghe pensi mì, del lombardismo. Si prenda l’università, un problema tanto semplice che non si poteva pensare che Berlusconi in persona se ne occupasse. L’ha perciò confidato a due signore, la Moratti e la Gelmini, il “la” è d’obbligo in Lombardia. Che non sanno neppure esse di che si tratta, ma essendo lombarde hanno la soluzione in pugno. Come Malpensa. Hanno preso l’università e l’hanno riformata. E poi riformata ancora. Senza nemmeno i decreti attuativi. E senza quindi effetto, eccetto quello di bloccare l’esistente, aggravando i problemi. Le due signore magari qualcosa avrebbero voluto farlo, per orgoglio, ma sono politicamente zero. La loro università sembra la media obbligatoria agli esordi, imbottita di supplenti: la sola differenza è che i supplenti venivano pagati come insegnanti, mentre i dottori in cattedra non sono pagati, e non accumulano punti per la carriera.
Letizia Moratti ha contingentato i ricercatori, pretendendo che non superassero i cinque anni di attività , ma ha fatto una legge che impedisce qualsiasi concorso. In questi dieci anni l’insegnamento universitario è stato svolto da cultori della materia, non necessariamente col dottorato. Un esito talmente assurdo che dirla incapacità è poco. Razionalizzando, bisognerebbe pensare le due ministre impegnate in realtà a scardinare l’università pubblica, e reintrodurre la selezione sociale attraverso le università private, dove si compra e si paga quello che si consuma. Può essere: è il loro mondo sociale è quello, la dignità è privata. La tecnocrate Moratti si è peraltro distinta nello scioglimento del più ricco e meglio governato centro di ricerca, l’Istituto Nazionale di fisica della Materia, gestito da troppo “comunisti”, dentro il vecchio Cnr della vecchia guardia Dc, compreso il presidente Maiani. Ma, poi, si vede Maria Stella Gelmini bloccare l’unico concorso che in dieci anni le università avevano approntato perché fulminata da un articolo di Giavazzi sul “Corriere della sera” che propone un nuovo modo di costituire le commissioni di esami. E non si può pensare che l’economista della Bocconi, distinto antiberlusconiano, o il “Corriere della sera” vogliano la morte dell’università. Ne vogliono, naturalmente, una migliore, “Milano” non è città illuminista?
Ci si interroga ancora, dopo quindici anni, sui motivi del successo di Berlusconi. Per il populismo si diceva, ma non ha funzionato. Per la politica spettacolo si dice, ma non funziona: Berlusconi in video è un flop, e anzi si danneggia. Le elezioni del 2008 e le successive hanno manifestato in modo perfino eccessivo la vera ratio del voto al centro-destra: l'attenzione verso i problemi. I problemi di oggi, non quelli di ieri: il governo della spazzatura e dei terremoti, e della globalizzazione in qualche misura, la sicurezza, di polizia e economica, contro i ladri d’appartamento e contro la speculazione, più opportunità per il lavoro autonomo, più previdenza, meglio distribuita, più certezza processuale se non normativa, e quello che rimane del welfare. Ben confezionati in un programma. Non dettagliato ma preciso, il governo del fare. Di cui a questo punto nessuno più si fida, se non per la figura del venditore. Che è, appunto, eccezionale: dell’antipolitica il re è Berlusconi. Ma la sbrigativa personalizzazione dell’esecutivo finisce anch’essa ineluttabilmente nell’inerzia. Si vedano i due casi cui il presidente del consiglio personalmente ha messo mano, la spazzatura a Napoli e la ricostruzione all’Aquila.
Nel governo precedente, del 2001, confortato da larga maggioranza, Berlusconi non fece la riforma del fisco, tante volte promessa, né quella della giustizia. Giusto la legge Biagi, dal nome dello studioso socialista che poi il governo, col sempre provvido Scajola, lasciò solo. In questa legislatura, in cui Berlusconi ha vinto tutte le elezioni, il federalismo è ancora in attesa, così come la solita riforma della giustizia. È ora a metà legislatura, e non ha prodotto niente, se non l’andirivieni parlamentare sul federalismo. Sembrava che avesse risolto il problema della spazzatura a Napoli e del terremoto dell’Aquila, e invece ne è solo offeso, che i due problemi non si siano risolti. A questo ritmo l’uomo del fare resterà negli annali come il più improduttivo in politica, nelle questioni grandi come nelle piccole. Che forse non è un male, ma certo non per il Paese.
Volendo confluire nell’opinione irridente dei belli-e-buoni della Repubblica, il sistema berlusconiano è nato in un ipermercato, dove Fini fu sdoganato, e finisce in un bordello, tra mogli amanti di lungo corso, a letto e negli affari. Ma sarebbe riduttivo, è anzi il moralismo algido meneghino, delle ben berlusconiana Milano: c’è di più di una risata. Volendo sottilizzare, lo stallo è l’esito finale, dissolutore, dello stesso sistema berlusconiano, o del consumismo. Il consumismo è certo equalizzatore e socializzante. È una moderna ideologia di redenzione, ben più viva ed efficace delle vecchie, socialiste. Con basi teoriche anche solide, e non tanto nell’utilitarismo di Bentham quanto nel nucleo stesso dell’Illuminismo: se la ragione e l’egoismo razionale sono destinati a trionfare, il consumismo è il loro veicolo naturale. Tanto più il modello è indicato per l’Italia, alla quale risolve cancellandolo un problema che non è mai stato risolto in un secolo e mezzo di storia: l’utilità, cioè l’inutilità e anzi la dannosità, della funzione pubblica. Nel consumismo lo Stato e la democrazia sono solo un servizio pubblico, come la luce e il gas: fanno osservare le leggi, a volte. Si capisce che gli italiani siano stati grati a Berlusconi di averli sollevati da questa commedia degli equivoci, limitando il loro ruolo al voto.
Ma il consumismo, poi, viaggia veloce: la soddisfazione delle insoddisfazioni va a ritmo sempre più rapido, ed è quindi condannata al disincanto, e anzi all’insofferenza, sotto forma di apatia o noia. Non potendo essere soddisfatta all’infinito, ciò non è possibile fisicamente né filosoficamente – è il problema del moto perpetuo. Così come l’antipolitica, che presto è destinata a scoprirsi vuota. Essendo improduttiva, anche delle stesse chiacchiere della tv, che non possono che finire presto ripetitive. È una forma di democrazia integrale, buona anche per gli stupidi e i violenti, ma anarcoide: incerta cioè e inaffidabile, senza più leadership possibile – i “persuasori occulti” già lo sanno, Il bisogno di novità, in sostituzione delle forme lente dell’essere, la pedagogia, la tradizione, la storia, è autodistruttivo. È un esito obbligato, senza più miracolo possibile: una umanità sazia e indifferente diventa presto paranoica. In famiglia, eh sì, e fuori. Disamorata, ostile. Ma su questo ci sarà tutto il tempo per indagare a fondo.

Problemi di base - 39

spock

Come si possono “ordinare” tre litri d’acqua al giorno? È una tortura, come può essere una terapia?

Che fine hanno fatto i libici in Unicredit? Non danno più fastidio alla Banca d’Italia?

Per chi lavora la Banca d’Italia? Perché dobbiamo mantenerla?

Il tempo ritrovato è vivo oppure morto?

I vitelli piangono?

I fatti sono più tosti delle opinioni.

Ma Gianni Letta, esiste?

Mani pulite a Milano?

Se non viene dall’Asia, da dove viene il caucasico? Dalla terra, come i vermi?

spock@antiit.eu

Vite noiose orizzontali

È un’epoca di cui comunque resta “La traviata”. Ma che paghiamo caro, a costo di noiose ripetizione, quasi una pornografia. Senza piacere, e anzi con qualche moralismo – le cortigiane finivano bigotte. Una sorta di “grande Bèri” a Parigi, col tiro a quattro invece dell’aereo pronto. Raccontare queste vite vuote dev’essere costato a Scaraffia, narratore amabile dell’Ottocento francese (si veda qui il medaglione Baudelaire), si sente che sbadiglia: il libro è singolarmente afflittivo, benché in edizione rinnovata, per essere una serie di schede sulle donne di piacere. Come se avesse avviato l’opera, pentito, sugli echi dei memorialisti dell’epoca che, con prudenza, s’incanaglivano: Gautier, un Goncourt o tutt’e due, Hugo, Lizst (altro tardo bigotto), Banville, Barbey d’Aurevilly, Baudelaire, purtroppo, e naturalmente Musset e Flaubert, che si rifacevano al bordello, con Sainte-Beuve. Le propone “maestre del desiderio”, ma presto dubita di navigare tra “le avventure esaltate dei romanzetti d’epoca”. Un genere frequentato in Francia, poco da noi, e con ragione - la dotta bibliografia cita un solo testo italiano, “Donne di piacere”, di Valeria Palumbo, 2005, uno più curioso sarebbe stato “Le amanti celebri” di Corrado Simioni, 1965. La tristezza prevale. Quando si dice, infine, che Reynaldo Hahn, l'amante di Proust naturalmente divinizzato, è l'erede testato di una di loro, "Méry" Laurent, insieme con Victor Margueritte per conto del defunto Mallarmé, ne era cugino, si viene a radicare molto sublime nella letteratura faceta fin-de-siècle, nella mediocrità - il massimo è lo champagne nello scarpino.
Giuseppe Scaraffia, Cortigiane, Mondadori, pp. 238, € 9,50

L’Italia in macerie del Sessantotto

Le generazioni sono “successive”. Sono generate, lo dice il nome: ognuna è figlia della precedente, e in sé si qualifica con la successiva (quella che essa ha generato).
Si può quindi dire che l’Italia pena e vaga sotto la sferza del Sessantotto. La generazione del Sessantotto ha voluto di più e si è presa di più, i diritti, il privato prepotente, il lavoro fisso, la baby pensione, il posto senza il lavoro, e senza la qualifica, ma non lascia che macerie, la politica e l’opinione pubblica avendo ridotto a complotto, opera dei pupi, furbi. Anzi non lascia nulla alla sua generazione, si tiene quello che c’è e il resto non coltiva e non ripara.
Il Sessantotto è stato libero perché era figlio della ricostruzione. Un quarto quasi di secolo di crescita, e di aperture, interdisciplinare, di grippo, di speranza, di liberazione, per gli europei vecchi e nuovi. La vecchia Europa residuava, in Indocina, in Algeria, ancora in Vietnam. È stata una generazione di liberi. Che però ha impiantato una società chiusa. Faziosa, prepotente (“meno so più mi tocca”) già negli anni Settanta, carrierista e approfittatrice successivamente. Piena di sé, prevaricatoria, non solo nella convivenza civile (caso tipico l’università: tutto il malessere vi viene non più dallo Stato ma dagli accademici), ma perfino nella legge (giudici, diversità cattocomunista).
Era maligno il germe degli anni del viaggio a Chiasso? Oppure è vero che la libertà si coltiva lavorando, cioè realizzandola, e non bamboleggiandola?

domenica 17 ottobre 2010

Breve storia del romanzo

Il romanzo è stato un tempo dei ricchi, tutto passioni, niente ananke. E l’amore adulterio, una storia tra lei e l’amante. Erano i tempi felici in cui l’uomo era ancora in diritto di avere un’amante, adulterina. E di tradirla. Poi lui deve cominciare a lavorare, con la Grande Guerra. L’adulterio regge, ma male. Poi deve lavorare anche lei, e col privilegio maschile finisce anche l’amore. Subentrano i com’eravamo (come avremmo voluto essere): le infanzie, le zie, i nonni.
Quello anglosassone è invece generalmente all male, come i film di guerra o d’azione, da Steele a Foster Wallace. Le donne ci sono ma stinte, in Conrad, Greene, Faulkner, Hemingway, Dos Passos, Steinbeck.

Secondi pensieri - (55)

zeulig

Morte – Samuel Beckett, “Proust”, p. 36: “La morte guarirà molti uomini dal loro desiderio d’immortalità”. Non Beckett, però, né Proust, a cui Beckett addebita la conclusione. Non tutti quelli che hanno un amico o un parente. E nemmeno i solitari ignoti: ognuno lascia una traccia, sia pure un grano di polvere.

Platone – Sempre a caccia del sublime, costeggia quindi il ridicolo. Si potrebbe farne un arguto “Il comico in Platone”.
È l’antipolitico. È quindi anticreativo. Nel suo nome vanno bene le avanguardie, le élites, i numi, ma non la poesia né la grazia (le bellezza, che non si dice). Nemmeno l’aristocrazia dei modi, che nasce anch’essa dalla politica (conoscenza dei più, del popolo, del mondo), solo lo snobismo – non il dandysmo, che si radica in una sofferenza iniziale.

Possesso – Si radica nel “terribile diritto”? No, c’è un istinto di appropriazione ed esclusione, che il diritto semmai limita e indirizza. Ma con una contraddizione: tanto più si accresce e diffonde il benessere (il possesso). Meno l’istinto esclusivo e di proprietà vuole fare, e può fare, danni.

Razzismo – È l’isolamento che porta alla “purezza della razza”, questo si sa, è un fatto, ma non si vuole ammetterlo. Il razzismo tedesco è stato anzitutto il fallimento della loro orgogliosissima filosofia – è forse questo l’anello che mancava a Hannah Arendt, che si trovò davanti agli amati teutoni con in mano niente più che banalità.
La sua forza diabolica è che è a senso unico: Treviso può insultare la Panasonic-Reggio Calabria, Reggio non può insultare la Benetton-Treviso. Un africano non può fare la morale a un britannico.
Però gli ebrei, che si avviano a essere la sola razza pura, e anzi “una razza uno Stato”, potrebbero un giorno dire dei tedeschi che sono mezzisangue, come infatti lo sono.

Semiotica - È scienza realistica. Di un linguaggio che c’è, e anche tosto.

Sport – L’attrazione delle cronache di sport, di qualsiasi sport, anche quelli che non si sono mai praticati, e perfino quelli di cui non si conoscono le regole, in qualsiasi lingua, arabo compreso, o giapponese. Stimola il ritmo: invitante, promettente, costruttivo. È l’unico agonismo che ci è rimasto, a noi della civiltà urbana. Un antidepressivo. Lo sport è gara senza astio, non ultimativa, finita una se ne farà un’altra, e senza stanchezza, se non nel senso igienico dell’eliminazione delle tossine.
Si può riportare il gusto italiano (e ellenico, iberico, francese) per lo sport chiacchierato, come per tutte le chiacchiere, di sport e di politica, sociologia, storia, eccetera, alla tradizione urbana? La città è il luogo dell’Ersatz.

Il ruolo delle regole. Lo sport è agonismo disciplinato. Si sbatte contro l’avversario e anche, costantemente, contro le regole. Regole imposta ma anche accettate, anzi volute.

Storia – Soprattutto è inutile.
È un mattone messo sopra. Sotto il quale non germogliano erba o radici ma vermi, tortuosi, informi.

Non ha senso, non può averne. Mettendo nel conto la protostoria e la preistoria qualcosa forse dice. Ma la storia ha cinquemila anni, forse ottomila: un punto, senza un’evoluzione. E senza un mutamento, un raffronto, come può significare qualcosa? Storie sì, tante. Allora: la storia è fatta di storie. Interessa poco i destini umani. Il Novecento, che si pensa abbia rivoluzionato il mondo, è in realtà un cumulo di macerie, cioè non è niente.
Il mistero incombe perché la storia difetta. Sul mutamento prevale la conservazione. E che cosa conserva? La paura e il disgusto.

È il tempo, si sa. Non maestro di verità quindi, ma esposizione, fiera, teatro. Serve, se serve, a fare sognare. Ma non ce n’è nemmeno materia, né il tempo, non essendoci passato. La storia è un infinitesimo della molto più grande fiera dell’universo.
Il tempo è statico, il tempo umano – mentale e della specie. A meno di non ricorrere ai miti, ai genesi, ai big-bang, siamo sempre gli stessi: Dante, Origene, Platone e Pitagora, il Libro dei Morti, il Libro dei Veda, e qualcosa di analogo che ci sarà in Cina.

Umanità – Viene dal semplice, o dal complesso? Certamente cresce nei numeri. Ma si semplifica sempre più: nelle tradizioni, nelle cosmogonie(rappresentazioni, filosofie), nei somatismi, nei linguaggi. È sempre più omogenea, ripetitiva.
Se l’uomo viene dal complesso, è impossibile che abbia parentele con Adamo. Se per Adamo s’intende la prima creatura, o l’unica, di Dio. È nato da se stesso, da forme semrpe più complesse di vita, minerali, vegetali, animali.
Al più Dio, nella sua solitudine, ne avrà benedetto (e utilizzato anche, perché no, in questo gigantesco teatro che è la vita, la terra) la trasformazione. La vita, la vita umana, riflessiva, potrebbe essere per Dio un immenso (infinito per Dio stesso, dal punto di vista probabilistico, perché indeterminato) campo di esercitazione. Non necessariamente benevolo. In se stesso anzi malevolo: agnostico, e quindi cinico.

Wittgenstein – “Osservazioni”, “note”, “ricerche”: le sue elaborate opere si presentano sempre diinutive. Ciò risponde all’obiettivo del filosofo di “aprire” le forme della conoscenza. Ma da dove nasce tanto desiderio di auto cancellazione – fortissimo: aliena i propri beni, cancella la famiglia, vive e lavora all’estero, pur non apprezzando Cambridge, e neppure l’inglese? Accompagnato peraltro a un egotismo forsennato, persino violento. È la natura francescana – anche san Francesco sfuggì alla sua accorata fiducia in Dio. È il dilemma della santità francescana.

Certe cose si mostrano, ma non possono essere dette.
Il problema della logica nasce dal fatto che, da ancillare, è stata promossa a reale. Ma il reale distrugge a ogni passo questa sua realtà.
Un’altra causa del problema è la riduzione delle cose al linguaggio: niente esiste se non è detto. Che è vero in alcune realtà (letteratura, storia) ma non sempre. Chi scrive lo sa: un tramonto, un arcobaleno, una fisionomia, si possono dire in mille modi, che sono tutti costitutivi della realtà e di una logica, ma di logiche diverse. Anzi, il linguaggio è (è bello) per questo: perché è libero e creativo, anche di realtà-irrealtà.
Le idee, certo, “non sono immacolate concezioni” (Nietzsche). Ma la loro logica è interna. È la dipendenza (origine, evoluzione, significati – delle parole) che è esterna.
Wittgenstein soprattutto opera, come altri viennesi eccellenti del suo tempo (Hofmannstahl, Kafka, Kraus), di prima e dopo la guerra, contro l’insignificanza del linguaggio che si nega, vuole porre un argine. Non del linguaggio in sé, che al contrario può avere una vis fortissima, ma del suo impoverimento, attraverso la menzogna, l’ipocrisia, la viltà, l’ideologia, la scienza. Un’impotenza storica del linguaggio.

zeulig@antiit.eu