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sabato 22 settembre 2012

Secondi pensieri - (116)


zeulig

Dio – “Impossìbile che Dio sia, impossibile che Dio non sia”, Mauriac ne scrive insoddisfatto con André Gide. È il Cristo, aggiunge, che gli ha fatto fare la scelta, e sempre lo entusiasma (il “dono” della fede). Il ragionamento in materia di Dio non conduce a nulla, il Dio dei filosofi. Peggio quello dei teologi – per non dire lo squallore della scommessa di Pascal: se Dio esiste bene, sennò non abbiamo perso nulla.
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Falso – È limitato. Nell’invenzione e, più, nell’espressione: le copie,  le false notizie, i complitti. Mentre la violenza, di cui si vorrebbe sfaccettatura,  è sempre incisiva - anche nelle manifestazioni non cruente, un borseggio, il furto in casa in assenza. Perché la violenza è sempre fisica, anche il borseggio con destrezza, l’altra invece è un gioco, seppure cruento.

Fisica – S’intende meccanica – meccanica nel senso comune: modualare, ripetitiva. Scientista. Mentre è il dominio della ricerca, cioè dell’incerto.

Giustizia – Si dice “giustiziato” di morti per condanna a morte. Anche se la condanna a morte è dopo Beccaria condannata quale strumento di condanna.

Più spesso le condanne a morte sono pronunciate da tribunali rivoluzionari. Le rivoluzioni fanno a meno della giustizia. La giustizia è il primo fondamento dell’uguaglianza (socialismo): le rivoluzioni sono antiegualitarie?

Guerra - Non è filosofica. Dovrebbe esserlo, ma non lo è stata e non lo è. Se non nei suoi attributi, preventiva, difensiva, coloniale, di liberazione, giusta, umanitaria, etc.. Un filosofia falsa, che discute l’apponente di un fatto incognito.

Incarnazione – È il nucleo dei monoteismi, ebraico, cristiano, mussulmano, sia essa attesa oppure avvenuta. E, attenuata, di ogni religione: Dio si vuole come l’uomo. Totemico, sciamanico o fantastico invece che consacrato.
È in essa anche la grazia, un’attesa che è delibatio – prelievo, anticipo, consumo: sostanza.  Altrimenti si fa filosofia. Anche attraente, ma come risolvere il cubo di Kubik.

Secondo la teologia mistica (speculativa, fisica, dei teologi orientali), la Redenzione arriva per il solo fatto dell’Incarnazione, cioè l’unione in Cristo della natura divina e di quela umana. Anche la concezione di sant’Agostino converge, dell’Incarnazione come riscatto dal diavolo, che s’era impadronito dell’uomo.

Matrimonio - Uxor pessima, pessimus maritus , Marziale non se ne capacitava, ma così avviene, il matrimonio è additivo - cumulativo e non dialettico.

Nazionalismo – Ha svuotato l’idea di nazione, se non quella di patria, pacifica e scontata per lunghi secoli in una col coagularsi delle lingue (le letterature, le storie). Il nazionalismo europeo, in un secolo di guerre civili. È l’esito del Novecento, e il senso della crisi dell’Europa. >Nelle due guerre mondiali e nella guerra fredda. Guerra concettuale, ma lunga mezzo secolo e oltre, e senza remore, compreso l’annientamento, i cui effetti condizionano anche il Duemila.

Paternità – È una novità assoluta. Tutti i maschi americani, gay e non, pare, vogliono essere padri. Occuparsi cioè dei figli, dopo averli in qualche modo procreati. Negli Usa si possono seguire almeno quattro serie tv sul tema della paternità: “The New Normal”, “Brothers and Sisters”, “Guys with kids”, e “Brothers and sisters”. La legge ha aperto il congedo parentale anche ai padri. In Francia molti autori scrivono il libro sulla propria paternità, come figli e come padri.
Può essere l’effetto del crescente isolamento cui costringe la condizione urbana: la vita fuori casa è serpe meno interessante. Sarà anche la reazione a mezzo secolo di femminismo totalitario. Ma è una novità, e come una scoperta. Non c’è molta riflessione sulla paternità, sul rapporto padri-figli più che sulla generazione. Non ce n’è affatto.

Volendo essere profondi, è l’ “ideologia” profonda del Vangelo: un Figlio che insegna a conoscere e amare il Padre (“chi vede il Figlio vede il Padre”).

Puzza – È concettuale, un senso di disgusto. Come di ogni proprietà, non è inerente alla cosa. È un giudizio. Ultimamente abbastanza regolamentato: igiene e etica sono indissociabili nella società postmoderna in senso proprio – di dopo il Seicento, quando si cominciò a fare il bagno e il bucato più di una volta ogni sei mesi. Ma chi vive accanto a una conceria, o a una sorgente solforosa, o anche in un magazzino Decathlon, in un ospedale, in uno spogliatoio, può non soffrirne, e anzi trovare le puzze gradevoli, senza essere feticista. Per non dire delle scarpe di gomma in casa – un fenomeno ormai di più generazioni, che forse sta per sciogliere e rovesciare l’accoppiata igiene-modernità. Mentre gli odori di santità possono sapere di disfacimento. Puzzano anche i profumi, per chi non ama quella speciale fragranza – in “Zazie” il profumo Barbouze de Fior puzza perché ha un buon odore.

Storia - Oggi la memoria va molto, ma non c’è memoria senza l’oggi. Anche se non si può dar torto a Nietzsche, ogni atto dell’andare avanti è tornare indietro. E a Spengler, per cui i fatti storici essendo fatti psichici, la storia non può fare a meno del concetto di causa. E quando diventerà più complessa della natura? I suoi tempi senz’altro sono più veloci della natura, catastrofi comprese. Gentile vede a tratti un’attività vuota: un cielo lampeggiante d’infinite luci, che splendono un momento e subito si spengono, “restando immota e immutabile solo l’enorme volta appena soffusa del tenue chiarore prodotto dalla sfuggente luminosità di tutte quelle stelle cadenti, spettacolo da fermare ogni cuore più animoso”.
                        
Umanità – Viene opposta nel linguaggio comune all’animalità (istinti animali, irragionevolezza, imprevedibilità). Mentre si esprime (si conferma, si realizza, esiste) attraverso l’animalità, i sensi. Nell’amore come nell’odio. E più nella santità: la privazione, la rinuncia, la penitenza sono tutte fisiche, materiali – animali.

Viaggiare – Heidegger direbbe, l’ha detto al corso del 1929-‘30: “L’uomo è questo non-poter-restare e insieme questo non-poter-partire”. Che obiettargli? L’uomo è periegeta, sempre in moto, senza meta. E più spesso senza memoria, giusto per l’irrequietezza. Dicono che s’è perduta la memoria. Dicono che succede agli autodidatti, che hanno questa schiavitù. Ma che senso ha la mobilità?  “Coelum non animum mutant qui trans mare currunt”, stabilisce Campanella: cambia solo il cielo andando per mare. Ma chi sarebbe così insensato da morire prima di aver fatto il giro della propria prigione? è il paradosso di Zenone-Yourcenar.

zeulig@antiit.eu

Nella metro di Zazie le identità perdute

Il libro (racconto, romanzo, saggio, divertissement) è più articolato ma meno attraente del film di Malle – del 1960, che si riedita in dvd, risonorizzato e ricolorato. Il libro, del 1959, si può dire un caso di “teatro”
dell’assurdo – in contemporanea con Ionesco, che il genere sublimava e esauriva. Al film manca l’Aristotele dell’epigrafe: “Chi ha composto ha soppresso (o dissimulato)”, che annuncia i molteplici travestimenti cui Queneau si è obbligato – e che fanno la “trama”. E manca naturalmente la parola magica, “Doukipudonktan?”, che apre il libro, il parlato di “D’où qu’ils puent donc tant”? com’è che puzzano tanto. Ma l’ossessione di Queneau con la metro, mondo infero, obbligato per i più e precluso, è nel film visibile, non più un’ubbia di Zazie.
Nello stesso anno in cui cominciava “Zazie” Queneau fa il protagonista di “Lontano da Rueil” un appassionato di “metrologia”, e della metro la scena di un tentativo di teatro, i due atti “En passant”. L’idea è un gioco a nascondino con le identità (verità). Senza ricorrere all’inconscio (sotterraneo: la metro è chiusa ostinatamente per sciopero), ma in superficie, tra fughe e trasformazioni. Lo stesso meccanismo per cui in “Alice”, quasi un secolo prima e di più nel recente film di Tim Burton, le cose appaiono e scompaiono. Identità sessuali, generazionali, parentali, di ruolo. Con un multiforme Vittorio Caprioli nel ruolo plurimo di Trouscaille-sbirro-satiro-gentiluomo. Con in più le fughe e gli inseguimenti, che solo al cinema si possono.
Con questo arricchimento Malle avvicina “Zazie” al “Romanzo comico” di Charron (“buffo” nella traduzione in commercio di Sellerio). Cui la critica recente lo apparenta. Il mondo povero dei commedianti, lì professionali qui loro malgrado, si sostanzia nell’incomunicabilità e nell’irrilevanza. Fino alla baraonda finale al ristorante - di cui faranno tesoro le serie di film alla Bud Spencer e Terence Hill.
Louis Malle, Zazie nel metro

venerdì 21 settembre 2012

Cane cristiano


Giovanni è un signore pakistano di mezza età, benestante al suo paese, dove aveva allevato un figlio che si è laureato medico. Il giorno dopo la laurea la fotina del giovane è uscita sul giornale del circondario, con gli auguri. Il giorno successivo il giovane è stato assassinato. La famiglia di Giovanni è cattolica, e questo è il motivo dell’assassinio del giovane.
Gli assassini non sono stati cercati. Giovanni ha protestato col parroco, e poi col vescovo. Ottenendone parole. Lo hanno tuttavia indirizzato a Roma, a una parrocchia di ex missionari, che gli hanno trovato un lavoretto. Fa il garagista, lava le macchine. Abbastanza per un modesto alloggio, “una casetta”, dice, all’altro capo della città, a Settebagni, e per mantenerci la moglie. Il garagista gli ha dato una vecchia Panda, e con quella fa i suo andirivieni di notte con Settecamini, o con l’ospedale dove la moglie più spesso è ricoverata. La figlia li ha lasciati. Preferisce vivere da sola a Bruxelles.
Al suo paese Giovanni faceva il contabile, ma qui, come dice lui, gli “manca la lingua”. Legge e rilegge copie spiegazzate del “Pakistan Times”. Avrebbe voluto meglio un portierato, ma sua moglie, che avrebbe dovuto aiutarlo nella pulizia delle scale, si è presto infermata di tbc. L’hanno curata, dentro e fuori il Forlanini, ma ne è morta. E ora che la moglie è morta ne sta predisponendo il rimpatrio, con pratiche molteplici e costose, per una tumulazione in patria, a casa.

O Passera o morte?


“La Fiat ci deve spiegare perché non riesce a guadagnare in Europa e in Italia”. È uno. Due: “Non c’è scritto da nessuna parte che in Europa non si possa guadagnare con l’auto. Ci sono esempi chiari di successo”. Sembra il pugile dei “Soliti ignoti", questo Passera che il “Corriere della sera” schiera stamani contro la Fiat al posto di Mucchetti. Marchionne gliel’ha già spiegato con chiarezza su “Repubblica” – perché l’Italia vende soprattutto in Italia, mentre VW (il “chiaro esempio di successo”) vende in Germania. Ma Passera non capisce - si capisce che Di Pietro non lo abbia voluto nelle sue liste.
Dice: è impossibile, Passera è stato amministratore delle Poste, amministratore di Intesa. Eppure. In dieci mesi di governo, titolare di tre ministeri e mezzo, mesi di durissima recessione, non ha fatto niente. Ora emerge per smantellare la Fiat - dice che la Volkswagen ne può prendere il posto…
Questo Passera è anche la colonna del governo Monti. Questo non si capisce, perché Monti, cioè Napolitano, l’ha imbarcato. E perché gli ha dato tanti ministeri? E perché se lo tiene?
Questo è un problema costituzionale, in effetti. E non dei minori: un ministro non può essere rimosso. Si uò dimettere ma non cacciare. Per costringere un ministro alle dimissioni si deve dimettere tutto il governo, cioè il presidente del consiglio. Sarebbe una catastrofe, per l’Italia e per mezza Europa. La costituzione d’altra parte è intoccabile, e di questo Passera probabilmente ha nozione – non avrebbe rinunciato ai milioni di Intesa per pochi mesi da ministro.

A Sud del Sud - l’Italia vista da sotto (144)

Giuseppe Leuzzi

Campanella Carl Schmitt lo vuole barocco ( “Il Leviatano”, p. 57). Non ha mai pace. Rosario Villari lo deve difendere, con un libro di 715 pagine, “Un sogno di libertà. Napoli nel declino di un impero, 1585-1648”: un monaco molto realista. Vittima del “sogno di libertà”, perché questa era l’aria a Napoli nel primo Seicento. Per quanto strano possa suonare. E con lui molti altri calabresi.
Per esempio l’economista Antonio Serra. Che per primo costruì la bilancia dei pagamenti, e scorse la debolezza del regno di Napoli nel deflusso costante di moneta a beneficio di banchieri e affaristi stranieri.

“Perché Dio ha fatto la Calabria?”, pare che Antonello Venditti si sia chiesto nel 2008, a un concerto in Sicilia: “Qui si trova la cultura, in Calabria non c’è veramente niente”. E ora che dovrebbe cantare in un paesino di Vibo Valentia annuncia che ci rinuncerà, perché è stato per quelle parole minacciato.
Ma Venditti non è il solo: l’ignoranza della Calabria è un fatto prima di tutto dei calabresi stessi, dell’odio-di-sé irreprimbile. Paesini calabresi di poche anime e nessun reddito pagano da giugno  a settembre ogni anno 40 e 50 mila euro per novanta minuti di canzoni di Venditti e altre vedettes – questa estate un migliaio di serate, 40-50 milioni buttati via.

L’autostrada si fa elevata
E allargata in Calabria,
per nascondere alla vista
i paesi dagli abusi sconvolti
o in tunnel ristretta
il più possibile stirati
senza altra necessità.

(Dice la rabbina Aiello che i calabresi sono almeno 40 per cento ebrei anusim, esuli):
Simm’anusim,
Insomma

La raccomandata da Palmi
Domenico Margiotta da Palmi rivive nell’ultimo romanzo di Eco, “Il cimitero di Praga”, autore di una guerra massonica tra le più violente in Francia, con i pamphlet “Souvenirs d’iun trente-troisième”, contro il capo della massoneria Adriano Lemmi, 1892, e il successivo “Le Palladisme. Culte de Satan-Lucifer dans les triangles maçonniques”. Prima di riconvertirsi alla chiesa, pupillo dei vescovi e porporati di Francia e Italia a fine Ottocento. Margiotta si riteneva miglior candidato di Lemmi, tardo adepto della massoneria, tardo adepto della massoneria (di cui era stato però tesoriere), alla carica di Gran Maestro, e rimproverava al suo avversario il proprio fallimento alle elezioni del 1888.
Eco trascura Lemmi, che invece sarebbe stato ottimo personaggio dei suoi complotti. Il futuro Gran Maestro s’era fatto imprenditore delle concessioni ferroviarie in vista dell’unità d’Italia, in società con Pietro Adami, due che Cavour giudicava “furfanti”. Adami e Lemmi avevano ottenuto dal governo dittatoriale di Garibaldi a Napoli il 25 settembre 1860 la con cessione delle ferrovie napoletane e siciliane per la loro costituenda Società italica meridionale. Cavour tolse dopo pochi mesi la concessione ai due. Che la riottennero ridotta alle ferrovie calabro-sicule. Per cederla infine definitivamente nel 1863 a un’altra società, la Vittorio Emanuele – che confluirà in una Strade ferrate meridionali.
Palmi ha dimenticato questo suo così notevole cittadino (ha una strada a lui intitolata dal un sindaco socialista ma non sa chi è). Eco ha tratto i suoi riferimenti dal capitolo X del libro di Arthur Edward Waite, “Devil worship in France”, del 1896 (leggibile liberamente in inglese su internet, a sacred-texts.com), intitolato “The vendetta of Signor Margiotta”. Che contiene altri riferimenti alle origini del personaggio. Come se vivesse tra  Palmi e Parigi.
Waite lo dice “personalmente in contatto con Miss Diana Vaughan”, la patrona, poi denunciatrice, del “palladismo”, una massoneria diabolica, nel culto di Lucifero: “Elogia le sue innumeri virtù  in pagine di eloquente scrittura. Si spinge fino a fotografare la busta di una lettera raccomandata che ha impostato a Palmi, in Calabria, indirizzata a quella signora a Londra”.
E in un altro punto, nella polemica contro Lemmi: “Per quanto riguarda la Massoneria Univesale, quando annuncia le sue dimissioni e la conversione a un rappresentante della loggia Giordano Bruno di Palmi, Margiotta gli rivela che lui e i suoi fratelli sono diretti, senza saperlo, da un rito supremo, e che lui Margiotta, Venerabile di quest’altra loggia, di cui era vero eletto e perfetto iniziato, costituiva l’anello di collegamento tra la massoneria ordinaria di Palmi e questo insospettato potere centrale. Nella stessa occasione inviò una lunga comunicazione a Miss Vaughan, nella quale afferma di avere sempre agito da massone onesto, fedele all’ortodossia”
Waite crede in Margiotta (anche la chiesa gli dà ancora rilievo, a chiesaviva.com). Se non che Miss Vaughan, opina Eco, non esisteva. E così è. Ne scrivevano molti, tra i manipolatori prezzolati che costruivano il complotto ebraico-gesuitico-massonico, ma lei non era a Londra, e nemmeno a Parigi, dove tanti si piccavano di incontrarla regolarmente. Era l’invenzione - un doppio, testimone comodo - di “Léo Taxil” (Marie Joseph Gabriel Antoine Jogand-Pagès), un Margiotta con più fantasia, e soprattutto di maggior successo, presso i massoni e i clericali. Margiotta invece dev’essere vero: la lettera raccomandata, con relativa fotografia, è proprio roba da Palmi, da avvocato.
Qualche dubbio alla fine ce l’ha pure Waite: “Il signor Margiotta può essere liquidato con tutte le sue carte, non perché imbroglione, ma perché singolarmente soggetto agli imbrogli”. Come quando racconta di un bellissimo pomeriggio a Castelnuovo in Garfagnana, nel giardino del confratello Oreste Cecchi, che sostiene di rivedere spesso una figura nota nello sguardo di un montone, che a uno sguardo più approfondito si rivelava come il Grande Architetto dell’Universo; e chiamata la bestia ne ottiene leccatine, sfregamenti e occhi lucidi. O a Napoli una notte in casa del Gran Maestro imperiale Giambattista Pessina, dove da una bottiglia di whisky si materializza Beffabuc, una figura umana, con una corona d’oro e una stella brillante nel mezzo della corona, ali di pipistrello e coda della classe bovina”.

Il posto
Nel ricordo commosso del padre appena morto, “Memoria e vita” del 1942, Corrado Alvaro fa una rivendicazione della nobiltà del padre-madre Calabria, e del Sud. Da un semplice fatto minimo trae in mezza pagina tutta la “storia del Sud”.
Il padre, maestro, non era un buon partito per la famiglia della madre – le cui sorelle erano state “date a pastori ricchi”: “Quando si presentò mio padre, fu combattuto da tutto il parentado”. Ci vorranno la grande guerra e i rivolgimenti successivi “per riabilitare nell’idea paesana gli stipendiati”. Quindi, in quattro frasi tutta la storia che non si fa: “Coloro i quali pensano all’Italia meridionale come a una contrada che ha per ideale di vivere a spese dello Stato, riflettano a come è nata tale disposizione. Non è qui il luogo per tracciare quella storia dolorosa, né per dire come la nostra parte di meridionali nel miliardo annuo che fruttava l’emigrazione, assorbita dalle grandi banche attraverso il sistema delle piccole banche locali, adoperato per fondare la grande industria, e non precisamente da noi, fu alla fine distrutto attraverso le piccole banche che fallirono puntualmente travolgendo tanta economia meridionale faticosamente conquistata. Priva d’industrie, rovinata, divenuta un terreno di sfruttamento dell’industria non locale, al livello di poco più di una colonia (qui, nell’italiano faticoso, indignato, l’oggetto-soggetto è femminile, la Calabria, n.d.r.), si capisce che la sola speranza fu il pane dello Stato. Dico queste cose brevemente per i signorini che reputano l’Italia meridionale economicamente e intellettualmente  una contrada di moretti convertiti…”.
“Memoria e vita” apre “Il viaggio”, la raccolta di poesie che Alvaro assemblò a monumento del padre, che lo avrebbe voluto poeta, “per tutto ciò che è disinteressato nel mondo”. La raccolta è stata pubblicata da Anne-Christine Faitrop-Porta per Falzea. 

leuzzi@antiit.eu

I paradossi di J.Donne made in Italy


“La discordia non è mai così sterile che non porti qualche frutto, giacché la caduta di uno Stato fa al peggio la fortuna di un altro”. Sembra la Ue di oggi, così unita e cattiva. Riscoperta e riedita integrale nel 1980 da Helen Peters, questa raccolta è uno dei primi testi di John Donne. Pubblicata postuma come quasi tutti gli scritti del decano, “per paura della vergogna e vergogna della paura”. Più brillante e irrispettosa di altre, specie sulle donne (“Com’è possibile dare  un’anima alle donne?” “Per renderle passibili di dannazione”; e “Perché le donne amano le penne?”). O “il matrimonio è castità”. E “la vita uccide”: ricordare uccide la memoria, desiderare il desiderio, dare la generosità – che non è un’etica della ritenzione, è (solo) un paradosso.
Il genere si era diffuso a Londra sulle traduzioni, via le edizioni francesi di Parigi, di Ortensio Landi, spiega Pierre Alferi nella postfazione. Sulle traduzioni dei suoi “Paradossi”, 1543, e dei “Quattro libri de dubbi”, 1552. Era l’epoca delle tragedie di Shakespeare, e del teatro Globe, d’instabilità, complotti, fumi di guerra civile, fulminee fortune e sfortune sociali. John Donne, di famiglia cattolica, un fratello carcerato – Henry - e morto in prigione per aver aiutato famiglie cattoliche in bisogno, aderisce alla chiesa anglicana, è ordinato a 43 anni, due prima della morte della moglie, e a 50, nel 1622, è decano della cattedrale di Saint-Paul (morirà nel 1633).
“Perché non prendere sul serio i politici?” è uno degli ultimi “problemi”: forse perché “sanno poco”, forse perché “si credono fra di loro e non capiscono dunque niente”. Mentre “La stella Venere si dà tanti nomi quante affezioni-…: polluzione, fornicazione, adulterio, incesto, laico e religioso, stupro, sodomia, mastuprazione, masturbazione, e altre diecimila”. Il penultimo problema è: “Perché i puritani fanno prediche lunghe?” “Devono farle finché l’uditorio non è uscito dal sonno”. L’ultimo è: “Perché il diavolo ha conservato i gesuiti?”. Perché ne testimoniassero l’esistenza. “Perché l’oro non sporca le mani” è invece problema superato in quest’epoca di mercati virtuosi – o no?
Il testo online è quello mutilo in uso fino al 1980. Ma ha la pregnanza della mano dell’autore..
John Donne, Paradoxes et problèmes, Allia, pp.78 € 6
Paradoxes and Problems

giovedì 20 settembre 2012

Il mondo com'è (110)

astolfo


Colpa – Jaspers, che impostò il tema dopo la guerra, della Colpa collettiva, la escluse, la colpa essendo sempre individuale e personale. Non “collettiva morale” né “collettiva metafisica”. Ma è certo che può essere politica e storica, e dunque collettiva e anzi generale. In Jaspers, antinazista ma psicologo, agiva la difesa irriflessa della Germania alla caduta del nazismo: la non accettazione della Colpa nasce dalla non accettazione della storia – molto forte in Germania, paese di filologi.
Jünger, nel “Trattato del Ribelle”, che è un manuale di guerra partigiana al comunismo, del 1952, a qualche anno dalla guerra, reimposta la questione. Conservatore sottile, Jünger la colpa vuole commisurata alla resistenza. Non all’obbedienza, ma al grado di resistenza: se non c’è la resistenza degli uomini liberi allora non c’è colpa collettiva di popolo, se invece un gruppo, pur limitato, di uomini liberi resiste, allora si può ipotizzare la colpa collettiva. Uno pensa di aver letto male ma è così: è una cosa tedesca. Esaminando i casi di violazione del domicilio, sotto Hitler usuale senza mandato giudiziario, Jünger trova un solo atto di resistenza: un giovane socialista abbatté con la pistola in casa una mezza dozzina di poliziotti, sulla base dell’antica libertà germanica, di cui i visitatori volevano il monopolio. E dunque la Germania non ha colpa: niente libertà niente colpa.

È pure vero che la Colpa, la colpa collettiva, prende corpo nel ‘44. È propaganda, e in quanto tale è paradossale: se “un buon tedesco è un tedesco morto”, un antinazista è solo riconoscibile se i nazisti l’hanno impiccato. Ed è nazismo: non fare differenza tra nazisti e tedeschi è la tarda tattica di Himmler e Goebbels. Prima no, i nazisti erano selettivi, le efferatezze riservavano alle SS, a nuclei scelti all’interno delle SS, fra i tedeschi e i non tedeschi, con esclusione meticolosa degli altri. Questo fino al fallimento della battaglia d’Inghilterra, cioè della guerra. Poi la tattica opposta fu lanciata, di fare d’ogni tedesco un assassino, le casalinghe come la Wehrmacht.

La colpa, volendolo, è semplice: è del fascismo. Lo Stato etico del fascismo e del nazismo ha in realtà svuotato gli Stati, trasferendone le funzioni agli apparati di partito - cioè di regime, il partito si vuole eterno. L’hanno appreso dal bolscevismo? Non importa. A questi apparati privati hanno affidato i loro idoli: gioventù, guerra, ginnastica, razza, il culto della nazione cioè e della purezza, di cui l’antisemitismo è una forma. Totalitaria è la natura dell’architetto, quale Hitler avrebbe voluto essere.

Nella pubblicistica la Colpa è più spesso del papa. Del sacerdote per eccellenza. Ma gli unti del Signore se lo dicono ogni giorno con la Bibbia: “Li ha provati come l’oro nel crogiolo e li ha graditi come un olocausto”.

Imperialismo - Il governo britannico impose nel 1741 allo zar con apposito trattato commerciale l’obbligo di vestire l’esercito di lane inglesi. Ma le lane inglesi erano buone.
“La nozione di oppressione è una stupidaggine: non c’è che da leggere l’Iliade. E, a maggior ragione, la nozione di classe oppressiva”, già Simone Weil aveva un’altra nozione dell’imperialismo tigre di carta: “Si può soltanto parlare di una struttura oppressiva della società”. L’imperialismo è un programma su una corda tesa: non si governa con la polizia, e nemmeno con i missili. Almeno questo il Novecento avrà insegnato, al prezzo di cento, o centocinquanta, milioni di morti assassinati, con le pallottole, le bombe, il gas, il veleno, il machete, una verità semplice: la libertà è difficile, certo è un’utopia, ma il potere non può che limitarsi. Per sovietico che sia, o totalitario.
Il massimo di potenza è impotenza, e preavviso di deflagrazione: il secolo avrà sperimentato la politica totalitaria solo per provarne i limiti. L’equilibrio del terrore, è detto, ma è intollerabile, tanto più per venire nel nome della democrazia. La deterrenza è minaccia costante, rinnovata, eccitata. E vero dominio, che il mondo ordinato vuole sotto di sé, docile, disciplinato, uniforme.

Islam – Protesta uccidendosi. Anche in questa occasione: le poteste contro gli Usa hanno prodotto molte vittime nei paesi islamici. Il martirio connaturato alla fede. Ma anche l’unica forma di protesta. Per una funzione politica ridotta alla violenza, a essa anzi confinata. Come una camicia di forza.
Volendo razionalizzare, la ribellione cieca è uno degli strumenti dell’imperialismo. Si potrebbe dire anche quello decisivo, che la resistenza e la ribellione rende impotenti nel masochismo.

S’è imbozzolato da quarant’anni nel khomeinismo. Col quale non ha creato niente, non libertà né  benessere, né il rispetto del mondo, o la benevolenza, e ha distrutto molto. Per primo la rendita del petrolio e del gas, che non è per sempre. Con la quale si è data l’illusione della ricchezza, ma sulla quale non ha costruito nulla, a parte le faraonate del Golfo. Non una società più giusta, né più solida, non più lavoro né un mercato, un processo di crescita integrata al mercato mondiale, svendendosi anzi a esso quale carne povera da fatica. Vive del fondamentalismo religioso, che è una consolazione nella miseria – è l’illusione di una superiorità per i suoi demagoghi, cioè una follia.

Manomorta - La borghesia si costituì in Italia rubando i beni alla chiesa, questa è storia. Non recente. “Il male è acuto” già nel primo secolo del millennio, annotava Gioacchino Volpe: il clero carico di mogli, amanti e figli, e schiere “di funzionari vescovili, vicedomini, viceconti, avvocati”, a ogni vacanza del vescovato o del priorato si buttavano “come una bufera sul patrimonio ecclesiastico, patrimonio di tutti”. Ne nacquero le repubbliche cittadine, di chi viveva del proprio lavoro, i briganti, poi principi, e le eresie.

Misantropia -  Se è vero che gli animali la alleviano, dev’essere oggi diffusissima: c’è un animale domestico, cane, gatto, pesce, uccello, criceto, in ogni famiglia, e spesso uno personale per questo o quel membro della famiglia. Effetto della solitudine urbana. In case alveare. Senza tempo. Con ore vuote di pendolarismo, la condanna quotidiana della vita urbana, che ogni giorno spegne ogni scintilla, del cuore o dell’intelligenza. Senza voglie, per l’acedia, l’inedia dello spirito, tanto diffusa, la vera malattia sociale, e tanto trascurata. Senza voglie se non lo shopping, unica funzione sociale residua, ripetitiva, compulsiva.

Viaggiare – La promessa di uno svago. Con l’incubo del ritorno. Dove aspettano le multe. Da ritirare alla posta, dai vigili, tutti antipatici, alla casa comunale. Dopo lunghe attese. Da pagare con altre code. E bollette, anche della luce di dieci inquilini fa.

astolfo@antiit.eu

mercoledì 19 settembre 2012

Gli anni Settanta tornano al “Corriere”, e alla Rai

Fiat, Ilva, Finmeccanica nel mirino, l’anti-industrialismo. Che non vuol dire niente, è una stupidaggine, ma c’è. Nello stesso sindacato: sì. E le gambizzazioni. Che tutti condannano, ma “si tengono” con l’anti-industrialismo. Sono gli anni Settanta. Pallidi, ogni tragedia che si ripete è ridicola. Ma altrettanto minacciosa. Con l’aggravante dei giudici e dei media sciolti da ogni obbligo di verità o anche solo d’intelligenza. Uno legge Mucchetti oggi e trasecola:
http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_19/Il-lingotto-la-carta-tedesca-mucchetti_70e9fc24-021c-11e2-9f2e-6124d1c3f844.shtml
È il fondo del “Corriere della sera”, lungo ben cinque cartelle perché la minaccia s’intenda bene.
Si dice: è l’interesse della banca Lazard. Ma Lazard paga Mucchetti, o il “Corriere della sera”? No, sono gli anni Settanta, la miscela è quella. Di albagia, superficialità, stupidità.
Nel caso di Taranto e Finmeccanica sgomenta l’avventurismo dei giudici. Perché un brigatista dovrebbe essere da meno dei giudici di queste aziende? Dove sono i delitti di Finmeccanica, gruppo scosso da più Procure? E a Taranto, si muore certo, ma non più né peggio che altrove. O non è vero. I giudici producono perizie che però, quando uno le legge, dicono e non dicono – benché pagate con dovizia dall’accusa. Se abolissimo il traffico avremmo meno morti, o anche solo le caldaie del riscaldamento singole. Anche a Taranto, dove pure ci si scalda poco. Oppure, a Taranto, solo i fuochi d’artificio, che fanno respirare più diossina del siderurgico. Spargere i veleni è anche un delitto.
Non è il caso di rivangare il ruolo confusionario del “Corriere della sera” degli anni 1970, che alla somma fu un invito e un’apologia del terrorismo. I giornali oggi non contano nulla, all’infuori degli azionisti che se ne fanno arma e scudo. In questo quadro desolante si segnala invece il ruolo nefasto della Rai. Che è un’azienda Dc. Cioè della politica che si ripropone, del Grande Centro: delle preferenze, delle correnti o partitini, delle coalizioni, de governo attraverso il non governo, cioè attraverso la corruzione. Tutto purtroppo collima.

La crisi rilancia il lusso

Nell’intervista a Ezio Mauro su “Repubblica” martedì Marchionne dà due esempi di investimento: un miliardo per la Maserati-Bertone, un marchio che da sei anni non produce niente, e 800 milioni per la Nuova Panda. Che però, dice, è un investimento sbagliato: “Abbiamo la migliore Panda” mai progettata ma i suoi acquirenti sono quelli che non possono più spendere.
Nella crisi, un produttore di auto piccole, la Fiat, punta sulle macchine care. Maserati non preoccupa Marchionne, che non critica l’investimento. L’idea, non tanto vaga, è di bissare il costante successo della Ferrari, che in questi due ultimi anni, di recessione in Italia, di ristagno in Europa, ha registrato vendite e utili record. Lo stesso marchio Fiat ha rapidamente abbandonato la pubblicità della Nuova Panda per puntare sulle vendite della Freemont, nata Chrysler, un Suv infine solido, e caro, e il cabriolet Flavia Lancia.
I segnali sono convergenti dagli altri segmenti del lusso: auto tedesche, gioielli, abbigliamento, accessori, arte, vacanze cinque stelle, e case di vacanze non sono settori in crisi di domanda. Agli italiani che fanno questi acquisti all’estero, per sfuggire al 999, è subentrata una forte domanda estera in Italia.
La lotta all’evasione di Monti-Befera ha colpito solo i deboli. Attraverso la recessione (precarietà, disoccupazione) e direttamente, sul reddito spendibile dopo aver pagato l’imapagabile.

Fisco, appalti, abusi - 10

Si vada a Mentone. È piena di barche, mentre a Ventimiglia il porticciolo è vuoto. E vende quantitativi spropositati di gioielli, orologi, mobili antichi, quadri d’autore. Tutta roba che in Italia vede negozi vuoti. È l’effetto della tassa di possesso per le imbarcazioni, e del 999, l’obbligo di passare per la banca per ogni pagamento. Lo stesso avverrà a Lugano, Lienz, Fiume, Lubiana. Con la solita “puntatina a Chamonix”.

Diego Della Valle è salito a quasi il 9 per cento della Rcs – ufficialmente. Ufficialmente, cioè, lo ha detto a Lerner in tv. Senza dirlo alla Consob, come ne avrebbe avuto l’obbligo. Che non se n’è risentita. Magari Della Valle ne ha di più.

Della Valle è lo stesso che muove periodicamente i mercato con dichiarazioni avventate, con Generali, contro Fiat. Con gli altri soci muti. Speculano tutti contro le proprie aziende? Ma almeno pagano le percentuali alla Consob?

Della Valle ha fatto cacciare Geronzi, 76 anni, perché tropo vecchio da Generali. Mentre si tiene Bazoli, 80 anni, in Rcs e altrove. Perché Intesa, la banca d Bazoli, non è scalabile?

Telecom Italia fa sapere che Mediaset vuole comprarsi la sua tv, La 7. Oppure Murdoch. Grandi affari se ne ricavano, con rialzi spropositati in Borsa. Per un’azienda che perde 70 milioni l’anno e non ha futuro. La Consob tace.

C’è Lazard, grande nome ma piccoli banchieri milanesi, al coperto di Carlo Salvatori, il cache-sex universale, dietro la destabilizzazione della Fiat a opera di Mucchetti e del “Corriere della sera”. Questi affaristi - Lazard è banca d’affari - vogliono che Fiat venda o affitti, per guadagnarci. Nell’attesa speculano sulle proprie indiscrezioni. Solo la Consob non lo sa.

Lazard spende il nome di Volkswagen come di un compratore. La casa tedesca non è interessata ma lascia dire. Non è diffusione di false notizie? La Consob non ne ha un’idea.

Quella della Volkswagen è solo l’ultima destabilizzazione dell’Italia a opera della Germania - ha fatto molto di peggio. Ma che Milano si presti, “Corriere della sera” e Consob, non dovrebbe interessare la Procura? Lo fanno gratis? Il diritto penale non assolve il delitto gratuito.

“Pensi che vendevamo un Qubo a metano a meno di 5 mila euro, a 4.990”, spiega Marchionne a Ezio Mauro su “Repubblica” martedì: “Drogato al massimo”. Gli altri 9 mila euro li pagava lo Stato. Quanto ci costa l’economia verde? Sul kWh, per esempio – compreso il risparmio di CO2 che alcuni fornitori ci fanno pagare in bolletta?

Ombre - 147

Berlusconi è andato in tv e ha detto: “Abolirò l’Imu”. Bersani lo ha irriso. Ora dice dice che l’Imu va “corretta”. Non poteva dirlo prima?

“Repubblica” vanta il primato confermato tra i giornali non sportivi. Rcs vanta il primato confermato tra tutti i quotidiani, per la “Gazzetta dello sport”. Segue “Repubblica”, con il “Corriere della sera” a un’incollatura – quarta viene “La Stampa”. Ma la notizia non è che per il terzo o quarto anno i lettori di quotidiani sono in flessione? Meno 312 mila per “Repubblica”, meno 159 mila per il “Corriere della sera”, meno 245 mila per “La Stampa”.

Le foto della giovane Kate nuda sono sconvenienti per la giustizia in Francia – nella Francia socialista. Le insolenze illustrate contro Maometto no, e anzi vanno protette con l’esercito nelle piazze. A costo di chiudere le ambasciate e le scuole in venti paesi, e di rimpatriare diplomatici, insegnanti e famiglie. È la laicità?

Grande scandalo di Fini perché la Camera non vota l’obbligo di certificazione dei bilanci dei partiti con certificatori professionali. Solo con gli audit dello stesso Parlamento. E i casi di Parmalat, di Merrill Lynch, e di tante altre aziende e banche fallite dopo la certificazione? La lobby dei certificatori

“Il mercato italiano per noi è assolutamente preponderante, pesa più di quello degli altri paesi europei messi insieme: e il mercato italiano e spagnolo sono quelli che hanno perduto di più. Non è un’equazione troppo difficile”, spiega Marchionne a Ezio Mauro. Ma l’equazione è evidentemente non facile per i giornali, e di più per la Rai.

Mani Pulite nel calcio – tutti Procuratori, specie alla Rai, chi di questa chi di quella squadra – ha prodotto i suoi effetti: dopo la politica rinunciamo anche alla partita. I tifosi si sono dimezzati in pochi anni, secondo i più che attendibili dati di “Repubblica”, e gli altri sono per lo più “tiepidi”, s’informano lunedì dei risultati
La distruzione dell’Italia a opera di Milano diventa opera enciclopedica: politica, giustizia, affari, Torino, il Sud, il calcio, che altro?.

“L’Espresso” si fece bello delle foto di Berlusconi nudo, contrabbandandole per un atto di resistenza, opera del celebrato Zappadu, l’orgoglio della Nazione con conto ai Caraibi. Berlusconi si fa bello delle foto della quasi-regina Kate nuda. E invece che la resistenza ci fa i soldi, in edizione straordinaria. Si spiega così che De Benedetti perda e Berlusconi vince – parliamo di soldi?

Il faccendiere Cola, arrestato più volte per malversazione, scopre che può sgamarla accusando Guarguaglini, il capo di Finmeccanica. Meglio ancora se accusa lui e la moglie. Lo fa, Guarguaglini e consorte sono allontanati con vergogna, Cola ha sconti di pena.
Ora, dovendosi celebrare infine un processo, le accuse risultano infondate agli stessi Procuratori che lo hanno protetto. Poche righe e nessuna autocritica. Nessuna censura, anche, non ai giudici.

Il giudice palermitano Morosini si dimette da segretario della sua corrente sindacale, Magistratura Democratica, in quanto sarà giudice nel processo Stato-Mafia. C’è conflitto d’interessi tra la sua funzione di giudice e quella di sindacalista? Non si vede come. Non c’è invece tra la sua funzione di giudice e quella di pubblico accusatore.

“Inchiodare la Fiat alle sue responsabilità”, chiede Gad Lerner sabato su “Repubblica”. Apodittico. Ripetitivo. Dopo aver riconosciuto che “se non fosse andata all’estero, la Fiat sarebbe probabilmente defunta”. Lerner la vuole inchiodata morta?
Non si può fare a meno d’inchiodare qualcuno?

Lo Statuto dei lavoratori Bersani dice “opera di civiltà”, un evento “epocale”, che ha affermato il “diritto di cittadinanza”. Ci arriva dopo quarant’anni. Senza autocritica.
Il 14 maggio 1970 la Camera approvò la legge 300, detta Statuto dei diritti dei lavoratori, alla presenza di soli 352 deputati su 630, con 217 sì e 135 astensioni. Fu l’ultima di una serie di leggi a difesa del lavoro promosse dal partito Socialista coi governi Moro e Rumor. Con la parentesi del 1964-65, gli anni del Piano Solo. Nell’avversione dunque di buona parte della Dc. E col boicottaggio, dentro e fuori il Parlamento, del Pci di Berlinguer, il partito dell’allora giovane Bersani. Che si rifugiò infine nell’astensione.

“Un pubblico disattento e spesso disinformato”, dice Servergnini gli americani in apertura di “Sette”. Meno interessati di noi alla politica, semmai solo a quella locale, vulnerabile alla propaganda, etc. “Una debolezza della democrazia? Temo di sì”: Si possono scrivere ancora di queste cose? L’indigenza di Milano è senza fine.

Poche pagine più in là Panebianco oppone “The Federalist”, un monumento di scienza politica che l’Europa non ha, vecchio di duecentocinquanta anni e sempre nuovo. Dove si spiega che la politica comincia con ognuno di noi. Col pluralismo, il localismo, i diritti civili, senza trascurare le grandi cause. Con la democrazia come partecipazione, invece che “dibbattito”. – è vero che le tv pagano bene, ma che c’entra con la democrazia?

L’“Economist” invita gli Usa a “non lasciare il Medio Oriente”. Ci fa anche una copertina. A chi lo dice?

La Confindustria dice che l’Italia è in stagnazione da vent’anni. È un fatto, noto ai più. Drammatico. Silenzio.

Céline ingenuo e comico

“Poco c’è mancato che, ingenuo com’è, diventasse uomo di lettere”, astuto, traffichino. L’osservazione casuale, di fronte a Céline a Meudon, in un villino decoroso in collina ridotto a canaio, dello scrittore insonne, inappetente, misantropo, anche con la moglie gentile, che scoppia a ridere alla pubblicazione di “Da un castello all’altro”, è la più interessante di tante altre qui contenute. Poulet, alter ego di Céline, per età, professionalismo (uno medico, l’altro ingegnere) e anarchismo fascistoide, carcerato in Belgio, la sua patria, per collaborazionismo, condannato e amnistiato, autore di vari romanzi e libelli (contro l’amore, la gioventù, l’automobile eccetera), è ricordato per questi “Entretiens familiers avec L.F.Céline”. Incontra più volte Céline nel 1957 e pubblica i colloqui nel 1958 - il Libro, tradotto a cura di Massimo Raffaeli vent’anni fa, tradotto da Giuseppe Guglielmi, è ripubblicato con una nuova introduzione del curatore.
Ingenuo, chi l’avrebbe detto? Ma si spiega l’eccezione Céline. Rispetto a “Balzac, Flaubert, Zola, Proust, Bernanos”, che “hanno idee politiche, rispettano il potere costituito, amano tanto la mamma”, Céline invece dice: “Il sacro non c’è. C’è il vero e il falso, tutto qui. Per non essere falso, come tutti, io sono andato al di là del vero, ho forzato la verosimiglianza”. Anche nei libelli, tanto più scomposti perché Céline “vedeva” la guerra, dalla trincea, senza la superficialità dell’uomo di lettere elzevirista, opinionista. Le “Bagatelles” dopotutto sono “un massacro”.
La prima impressione di Poulet, che ebbe la possibilità di leggere il “Viaggio” in bozze, da autore già affermato di Denöel, è anche di un autore comico. Questa impressione dirà alla rilettura errata, ma è la più persistente. Non minore il giudizio critico, di Céline come “d’uno scrittore fuoriclasse e fuorilegge, d’un personaggio la cui ragione d’essere consiste nello strappare al sociale il primato della scrittura, recuperando (nell’epoca della prosa-prosa) la tradizione del poeta delirante e vaticinante”. Con una marcata “componente ossessiva”: Céline si ripete – ma la guerra è ossessione, per i sopravvissuti.
Poulet ha molti “pezzi” di interesse, non solo per i céliniani – il migliore sono le quattro pagine su Robert Denöel, l’editore, anche lui di origine belga, trucidato nel 1944 in quanto collaborazionista, uno per tutti. Ha anche fissato l’immagine dello scrittore cencioso e blaterante degli ultimi anni, dopo la ripresa letteraria. Ha il carcere danese, per un prigioniero solo: guardiani invisibili, mai una parola, orari spietati, dieci minuti d’aria e non un secondo di più. E Céline che, nel vaniloquio, parla per imperfetti congiuntivi. Ma ha avuto la possibilità, in quanto autore di Denöel, di leggere il “Viaggio” del medico in bozze. E ricorda il primo incontro, breve, scostante,”nel grottino dei Denöel”, il “basso” che serviva all’editore da ufficio, con “un satanasso dalla faccia ferma e sprezzante, malvestito”, già allora. Un dottore, consulente della Società delle Nazioni, caposervizio al dispensario di Clichy, romanziere sotto falso nome per non pregiudicare la professione, ma già oggetto, come romanziere della domenica e comunista, dei sarcasmi dei colleghi.
Robert Poulet, Il mio amico Céline, Elliot, p. 116 € 14

martedì 18 settembre 2012

Pound contro l’euro

Si presenta dimessa, ma è una raccolta piena di sorprese, sotto forma di enciclopedia tascabile. Il fascismo è in questa raccolta dichiarato. E l’antisemitismo. Ma l’economia esoterica di Pound si rivela solida: sotto l’antimonetarismo c’è molta dell’“economia sociale” postbellica – oggi sarebbe stato contro l’euro. Compresa l’anti-casta (“INDEBITARSI è un modo per fare carriera politica”). E si concorda molto in tema di poesia, dalla metrica alla luce.
Questa edizione è la ristampa dell’edizione Scheiwiller del 1974. Che riprendeva tal quale, scalandola di due pagine, l’originale del 1942, dell’editrice Lettere d’oggi, di G.B.Vicari - che negli anni 1960 sarà battagliero direttore-editore de “Il Caffè”, la migliore rivista delle avanguardie (ottima alla rilettura). Luca Gallesi vi ritraccia la biografia, “un patriota americano”.
Ezra Pound, Carta da visita, Bietti, pp. 110 ill., € 14

Problemi di base - 116

spock

Dobbiamo l’anima e il cinema (il mondo di ombre) a Platone: c’è una connessione?

L’anima viene da ánemos, si dice, vento: e non avrà nulla a che fare con nome?

C’è l’anima delle cose, e quella delle persone: e quella di Dio?

Che avrà pensato Elena quando i greci si facevano la guerra per lei?

E Beatrice incontrando Dante così spesso?

Da qualche tempo ci sono anime nelle donne, ma prima?

Dice Wodehouse che non c’è paragone tra un buca da golf, “uno splendore”, e una donna, per quanto bella: con intenzione?

Se non ci sono fatti, solo interpretazioni, come interpretare questa?

spock@antiit.eu

lunedì 17 settembre 2012

Fisco, appalti, abusi – 9

Il Comune di Milano ha in essere da due anni, avviata dall’allora sindaco Letizia Moratti, un’azione di tutela con le banche per eventuali perdite sui derivati da lei stessa sottoscritti. La perdita era allora stimata in 300 milioni, dopo aver pagato commissioni alle stesse banche per 85 milioni. L’operazione verrà a maturazione nel 2035, e perciò è prematuro parlare di perdite. Ma La Procura e la Corte dei conti volevano assicurazioni, e allora il sindaco ha nominato un collegio di consulenti legali. Costosissimo.

La corruzione non si esclude comunque al momento della sottoscrizione dei derivati, una pratica di cui tutti i comuni italiani si sono dilettati. Non si esclude che parte delle ricche commissioni non siano state stornate a beneficio degli amministratori.

I consulenti sono il fenomeno della “rivoluzione italiana” delle Mani Pulite - l’outsourcing del governo e della P.A. Sono architetti, ingegneri, avvocati, banchieri, finanzieri, contabili, meglio se con un titolo universitario, che incassano parcelle spropositate, senza controlli.

Sulla Salerno-Reggio C. nella parte a tre corsie (i 90 km. della Campania sono a tre corsie…) nei tratti rettilinei compaiono improvvisi limiti a 100 e anche a 80 km\h. Senza che niente induca l’allarme nel guidatore, un cantiere, il fondo stradale, un dosso. Segnali tra i tanti, ma con cento-duecento euro di multa in agguato.
La benzina a due euro, multe da duecento sono ritenute “normali” dagli amministratori. Che evidentemente navigano nell’oro.

Sono un centinaio, tra la Toscana e la Bassa, gli apparati di controllo telematico della circolazione, del rosso, della velocità, “taroccati”. Riconosciuti taroccati in seguito a vertenza. Dagli stessi amministratori committenti, o dai loro concessionari. Per “fare” multe.
Succede anche le stesse aziende delle tecnologie di controllo del traffico vendano anche, cari, i congegni per evitare i controlli. I cronotachigrafi digitali dei tir, per empio, che memorizzano la velocità dei pesanti mezzi. O i trucchi per accecare l’autovelox.

La crudeltà è umanitaria, la guerra non filosofica

Un’altra guerra perduta – la guerra non è filosofica? In una collana “Minima”, ma sono duecento pagine. Di cui una quarantina di note, in corpo 6. Sbrigliato, cattivo. Guardiamo alle guerre come al peep-show, all’atto osceno in diretta – dove il frillo cioè viene dalla diretta (l’intrusione) più che nell’atto. Senza partecipazione emotiva, quindi senza residui. Incatenati alla ripetizione. Con un utile richiamo alle proprietà “sacrificali” della crudeltà, di Joseph De Maistre e ora di Girard. Ma con troppe cose, ininfluenti, mentre troppe latitano.
C’è la guerra che non c’è, che è Baudrillard nella guerra del Golfo, la prima del nuovo ciclo. Ci sono le false notizie, tema di analisi ormai classiche della prima guerra mondiale e della seconda. Più indietro, le esecuzioni capitali come spettacolo. E la crudeltà dei romani. Che erano anche schiavisti. Una sorta di scoperta dell’Africa, la quale era stata scoperta prima di Gesù Cristo. Il resto non c’è. Non c’è la demagogia dei media. Un po’ per non saper che altro dire, se non la delazione e l’aizzamento (il vecchio jingoismo). Un po’ come strumenti della disinformazione, che è l’arma centrale dell’imperialismo oggi. Nel quale la persuasione (l’opinione pubblica) ha più peso delle bombe, essendo necessaria a pagare bombe e bombardieri – pagare è centrale nella nostra democrazia anglosassone (“niente tassazione senza rappresentanza”). Il filosofo intravede il ruolo dei media, ma lo limita agli innocui ghirigori del disincantato Sofri, o alla superficialità di P.Flores d’Arcais, l’ex Solidarnosc’ che ha adottato il deposto linguaggio sovietico.
Non c’è, per strano che possa sembrare, l’imperialismo contemporaneo, basato come sempre sul buon diritto, nelle forme della persuasione. “Al Jazeera”, che aizza il radicalismo arabo e islamico, per esempio, sarebbe stata un buon esempio: progetto e prospettiva di uno sceicco del Golfo, già tesaurizzatore di oro e ora di royalties, che in un’altra prospettiva dovrebbe esserne (sarà) la prima vittima, molto prima dell’“Occidente” – una prospettiva non remota, era quella del nasserismo, del riformismo laico, di trent’anni fa, prima del khomeinismo.
Della stessa “guerra umanitaria”, la nostra storia, di questi ultimi venti anni, e la nostra tragedia, la tragedia dei buoni sentimenti, manca l’anamnesi e il giudizio. Benché le sintomatologie non difettino – anche questo sito ne ha trattato per esteso (“La guerra umanitaria”). La guerra “umanitaria” è la forma dell’imperialismo. Il filosofo dice queste guerre che da vent’anni moltiplichiamo, più che atti di “polizia internazionale”, le cacce all’uomo delle posse del “vecchio West”, o “peep show militari globali”, o anche “giustizia sommaria globale”. Dopodiché siamo al punto di prima – dov’è l’acribia di Foucault? E la guerra totale americana? La guerra aerea o, peggio, missilistica – con “droni” intelligenti che scovano il singolo nemico… - “senza limiti”. Deciso e ambiguo fino dal titolo: la nostra indifferenza è infatti verso la nostra crudeltà. Viviamo, l’Europa vive, una situazione di violenza indifferente, “normale” – l’Europa, non l’Occidente di una remota propaganda (ci fu un comunisno in Europa?).
Giustifica la lettura la guerra nei romanzi dell’Ottocento, e in quelli del Novecento (ma qui con l’assenza curiosa di Céline, che invece fa “capire tutto”) - che forse era in origine tutto il libro. Un altro libro allora da quello che è proposto al lettore. Forse la guerra non è filosofica. Dovrebbe esserlo, ma non lo è stata e non lo è. Se non nei suoi attributi, preventiva, difensiva, coloniale, di liberazione, giusta, umanitaria. Un filosofia falsa, che discute l’apponente di un fatto incognito.
Alessandro Dal Lago, Carnefici e spettatori. La nostra indifferenza verso la crudeltà, Raffaello Cortina, pp. 220 € 13,50

domenica 16 settembre 2012

Scatta la trappola alla Fiat

Non c’è la recessione, non ci sono i licenziamenti in massa, non ci sono 140 miliardi di nuova tasse da digerire, anzi le vendite di automobili raddoppiano ogni mese, e comunque il Nuovo Centro non deve spiegazioni. È la Fiat che deve spiegazioni, al Nuovo Centro: a Fini, patrono di Passera, e a Bazoli, patrono di Passera e Fornero, nonché del “Corriere della sera”. La trappola preparata da mesi, di cui l’improvvido Mucchetti diede notizia anticipata sul giornale a Ferragosto. Cosa ha minacciato la Fiat per doverla minacciare? Niente, né chiusure né tagli, ha detto che c’è la crisi. In ballo in realtà sono i debiti e i crediti del gruppo Fiat, su cui Intesa-San Paolo non guadagna abbastanza.
Della Valle è il detonatore, la spoletta. Non c’entra nulla, se non in quanto socio di Montezemolo, l’ultimo residuato di quelli che hanno distrutto la Fiat. E come longa manus di Bazoli quando c’è da far saltare qualcosa, alla Rcs, a Generali, e ora alla Fiat. Lo scopo dell’attacco è politico e affaristico. Nessuno a Milano ha dubbi su questo secondo aspetto. Marchionne è indigesto perché ha diversificato la provvista finanziaria. Il Nuovo Centro vi si aggancia perché non è diverso dal vecchio: attendista e senza idee. Se non quella che tutto è politica, cioè mani in pasta. Anche a costo di chiudere la Fiat, evento impensabile, perché no?

La corruzione è politica

La politica è il culmine dell’ambizione. E arricchisce sempre di soldi e di potere. In tutte le epoche e le civiltà. È anche giusto, in una logica dirigistica (sovietica, per esempio) come di mercato: il politico subisce prove e selezioni più severe di un manager. Anche di un imprenditore, considerata la molteplice varietà di nemici con cui si deve confrontare. E certamente rende più servizi che non la migliore impresa o munifico mecenate.
Il delitto di corruzione, che si vuole associare alla politica, si può configurare per eccesso, quando l’arricchimento personale va a scapito della cosa pubblica. La impoverisce complessivamente e non l’arricchisce. Oppure è un fatto politico, un’arma in più nell’agguerrito arsenale.
Il Pci, che è stato per quasi mezzo secolo il partito più ricco, con i soldi di una potenza straniera oltre che dei militanti, ed è riuscito ad addebitare la corruzione agli altri partiti, i quali non hanno saputo controbattere, benché avessero argomenti credibili, e anzi si sono fatti giudicare e condannare da giudici del Pci, questa è una battaglia politica. Che il Pci ha vinto, e non artatamente: si è dimostrato il partito più “politico”.
La vittoria comunista è stata politica soprattutto alla luce degli handicap del Pci: Yalta, la ferocia sovietica, la doppia verità, la faziosità della base (totalitarismo). Berlinguer è stato per questo grande politico malgrado i fallimenti, al minuto e nel complesso: il moralismo aiuta a superare l’ambiguità, ha funzione utile e non astratta. È appunto un’arma e non la soluzione.

La corruzione unisce

Quando il Candido di Sciascia, neofita Pci,decide di regalare il terreno per l’ospedale, i compagni lo isolano. L’ospedale è un “affare”, tanto più grande, comprensivo quindi dell’acquisto del terreno, tanto meglio. Per far lievitare i costi per lo Stato, di cui le tangenti per i partiti e i politicanti sono una percentuale. Gli affari pubblici sono gestiti unitariamente da una cupola interpartitica – Sciascia ne aveva fatto esperienza personale, in quanto consigliere regionale dello steso Pci.
La corruzione sorge quando si rompe il rapporto di fiducia. È una forma di ricatto e di vendetta – di giustizia intesa come vendetta. È la traccia politica di Mani Pulite.

Forti come la verità incomunicabile

Forti come la doppia verità
Una primizia. Un racconto del 1949 (Giono tornava a pubblicare dopo l’ostracismo del gollismo in cerca di capri espiatori – carcerato nel 1939 perché non considerava i tedeschi tutti nazisti, e nel 1944 perché in guerra era stato pacifista) che introduce una discontinuità nel “punto di vista”. La veglia e il funerale del “povero Alberto”, il castellano, aprono e chiudono il racconto di una vita. Di Due vite, povere. Viste da lei, viste da lui. Senza turbe freudiane, Giono rifà la verità, delle cose e dei sentimenti, e l’incomunicabilità. Come sarà in “Rashomon”, o l’incompiuto “Fuoco grande” di Pavese e Bianca Garufi.
La verità è scaturigine e filtro. Il ricordo è selettivo, la memoria è parte della psiche: ricostruisce e costruisce, inventa, qualsiasi sbirro sa che indurre al ricordo è perfino facile. Quello dei testimoni è sempre una ricostruzione, la stessa onestà si organizza in base al punto d’osservazione, e alla capacità di espressione, che agisce retrograda, seleziona le cose da dire. Con effetto cumulativo, la selezione si affina – come altrimenti si sarebbe scritta tanta letteratura del ricordo? Quello dei protagonisti è tarato di necessità.
Jean Giono, Le anime forti, Neri Pozza, pp. 286 € 13,50

Letture - 110

letterautore

De Fiores – Stefano De Fiores, un mariologo, teologo della Madonna (era Ordinario emerito di mariologia sistematica e storica alla Pontificia Università Gregoriana e alla Pontificia Facoltà teologica Marianum), che oggi si ricorda a sei mesi dalla morte, sarà stato il miglior lettore e interprete di Corrado Alvaro. Per ragioni tribali, padre de Fiores e lo scrittore erano entrambi di San Luca, alle falde dell’Aspromonte. E anche per una segreta sintonia con la religiosità pronfoda di Alvaro. Nel rapporto con la Montagna (l’Aspromonte), col suo santuario (Polsi), e anche con le origini (il paese, i familiari).
Roberto Roversi nell’ultima intervista lo ricorda probabilmente come “il parroco Sales”, uno dei clienti “inimmaginabili” della sua libreria antiquaria, “che dall'Aspromonte mi ordinò una prima edizione del Wittgenstein”.

Massoneria – Mozart e Beethoven, massoni professi, hanno composto Messe e Requiem che sono fra le musiche più emozionanti e compassionevoli.

Omero – Le questioni omeriche sono geopolitiche - Lisbona non si vuole fondata da Ulisse? Si sa che Omero, cieco, ha idea vaga della geografia e delle distanze, oltre che dei colori.

Patrimonio artistico – Nella folgorante raccolta “Scritti galeotti”, Daria Galateria riesuma il furto della Gioconda al Louvre, nel settembre del 1911. Il quadro per il quale il Louvre è il museo più visitato al mondo passò la frontiera tranquillamente. Fu ritrovato – fatto ritrovare – sedici mesi più tardi, a Firenze. Da Vincenzo Perugia che l’aveva sottratto. Un futurista, pittore. Che si ebbe un solo anno e cinque giorni di pena, con la condizionale, per “meriti patriottici”.
Una vicenda doppiamente esemplare. Per quello che si sa: che è bene che i quadri siano esposti, in luoghi visitabili (accessibili, fruibili) ai più. E per quello che si intende ma non si dice: che le opere d’arte sono polpa del nazionalismo. Un bene della nazione. Un patrimonio pubblico, inalienabile. Tutto per di più sordidamente inteso. Oggetto di gelosia, possesso, avidità. Da avari che accumulano più che godere. Mentre patriottismo, nazionalismo e orgoglio meglio si realizzerebbero nella fruizione libera delle opere d’arte. Del patrimonio. Di quello esposto ma anche, anzi soprattutto, di quello non esponibile, per mancanza di spazi o di utenza, che è ben più vasto di quello esposto. Anche di pezzi pregiati, che attirerebbero l’attenzione. Anche in rispondenza alle tendenze fluttuanti che animano la curiosità e l’estetica.
Allargare l’interesse, diffondendo e mantenendo viva una cultura (passato). Condividere i canoni. Stimolare l’empatia, che li arricchisce. Moltiplicare gli studi. Con una funzione pedagogica, nel Middle West o nel Dubai. La fruizione stessa, popolare, commerciale, non è da disprezzare, è in qualche maniera l’arte tra noi.
Per placare le suscettibilità nazionaliste (ma un veneto “darebbe via” volentieri i bronzi di Riace…) si può pensare a un leasing novantennale, con i diritti di proprietà imprescrittibili..

Roversi - Muore Roberto Roversi e i titoli d’obbligo sono sull’“ultimo poeta pasoliniano”. Lui che si professava amico di Vittorini, Bassani, Calvino, Volponi, e mai nominava Pasolini. Che aveva ospitato, forse, nella sua libreria quando editava “Officina”. Rona della preistoria. Da cui tutto lo divideva, la passione ideologica, lo stile di vita, l’umanità.

Viaggiare – “Viaggiare è il mio peccato” è titolo di Agatha Christie. Per antifrasi, viaggiare come passione.

La nostalgia è stupida, se uno parte non ha molti motivi per starsene a casa. Ne soffre Ulisse, che è però nomade suo malgrado, e forse la finge.
La dottoressa Pellech, studiosa d’Austria, paese senza mare, deduce dall’Odissea, specie dalla colorazione dei mari, che per i greci la terra non fosse un disco ma una sfera, per cui correvano in tondo, non da qui a lì.
La studiosa è la stessa che gli Argonauti spedisce in Scandinavia. Il periplo degli Argonauti è occupazione cara da tre secoli alla Mitteleuropa, che lo voleva nell’Adriatico prima che al Polo.

Thomas Mann, che fa in grande pure “due giorni di viaggio” di personaggio anonimo, dice che “lo spazio che ruzzola via fuggendo tortuoso, e s’interpone fra lui e il suo luogo di residenza, ha in sé forze che si credono di solito riservate al tempo”. E che, come il tempo, lo spazio “genera dimenticanze”. Per il piacere al solito di filosofare al ritmo della sua stessa frase? La strada è oggi autostrada, diritta e chiusa, senza spazio né tempo. A meno d’infognarsi nella foresta amazzonica, nel Sahara. In un buco nero, dove il moto è bloccato e il tempo illimitato, si può andare avanti e in-dietro. Ma il censore cosmico non lo consente. Si resta così in compagnia di se stessi.
Cos’è l’esotismo? All’Hilton? E cosa sono le Wanderlust e Wanderschaft, i Wanderleben e Wandertrieb, una fuga dall’amata, dagli amici, dal paese impossibile? I tedeschi, che l’istinto di vagare professano, si ritenevano e erano prima del Reich una tribù, nomadi.
Viaggiare però bisogna, poiché illustra la scrittura britannica.

They watch, they listen, they compare notes, they learn everything about everyone. They have nothing else to do because hotel life is the most deadly of all forms of boredom”: la vita dei giornalisti in albergo è noiosa secondo Chandler, il miglior scrittore Usa che fu inglese, e manager del petrolio fino al ‘33, l’anno della Crisi, dalla quale uscì scrivendo gialli fra chiome bionde e carni sode della California del Sud, dove visse di preferenza in albergo. Anche Joseph Roth non ne poté fare a meno: “Tutti i miei libri sono scritti in camere d’albergo”. È piacevole destarsi in una stanza nuova. Diversi i colori, la forma, l’altezza, la luce, e gli odori. Per ipotesi, di solito gli occhi non vedono. E la veduta, aprendo la finestra, è di solito un muro cieco, quello che ci vuole per scrivere.

In alto mare, stando gli occhi di una persona eretta a sei piedi sopra il livello del mare, se è alta un metro e ottanta, il suo orizzonte, secondo i calcoli di Darwin, è alla distanza di due miglia e quattro quinti: “Egualmente, tanto più piatta è una pianura, tanto più l’orizzonte si avvicina a questo ristretto limite, cosa che, a mio parere, annulla del tutto la grandezza che uno s’immaginerebbe nella grande pianura”. Ma nei paesi piatti, in Belgio o in Libia, c’è piuttosto l’effetto Gulliver: ciuffi d’erba si ergono a cipressi, piccole Toyota a mammut, e ombre si agitano di uomini giganti. È l’orizzonte basso che crea la grandezza, nel senso dell’incognita che sta dietro, ciò che non si vede. Nel deserto la sorpresa è sempre uguale, rimandando di continuo a un’altra sorpresa. Ma non si può dire. Lo stesso dev’essere per la bonaccia in mare.

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