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sabato 16 aprile 2011

Vendere la Roma gratis, con la dote

Il giorno in cui i vecchi “amici” delle Fondazioni si riunivano per decidere un altro aumento di Unicredit, il colosso bancario ha esordito miseramente nella sua prima operazione dopo Profumo – aspettando quella su Fonsai-Ligresti: la vendita della As Roma. Senza incassare niente dei 300 e rotti milioni che i Sensi debbono alla banca, e che era il motivo per cui la banca ha costretto i Sensi a vendere. E anzi anticipando altri soldi al nuovo padrone. Un italo-americano che prima si diceva si chiamasse Di Benedetto e ora si chiama Pallotta. Un avvocato. In cambio di un progetto industriale che prevede uno stadio di proprietà, che in Italia e a Roma non si può fare e non si farà. E altri proventi da merchandising che sono in realtà legati allo stadio con annesso centro commerciale. Il tutto, per una società quotata in Borsa e su cui si espone la seconda banca italiana, dato in pasto ai cronisti sportivi. Che in cambio di un viaggetto a Boston, con spumante, in classe business, afferrano dell’affare cose del tipo: “La Roma con Totti sarà grande e forte”.
Si può ironizzare: la Roma è venduta gratis, con una dote - in euro invece che in cammelli. Ma il debutto della nuova finanza confessionale è molto vecchio: è il pateracchio. Sul “Corriere della sera” Massimo Gaggi evoca l’epoca delle Partecipazioni Statali. Che funzionavano così: imprenditori privati investivano con capitali e crediti pubblici. Ed effettivamente questa vendita ricalca, in piccolo, l’ultima e più famosa operazione delle Pp.Ss., nel 1986, presidente dell’Iri Romano Prodi: la cessione del colosso alimentate Sme a Carlo De Benedetti in cambio di un credito – di Prodi a De Benedetti. Allora di trenta miliardi di lire, per un gruppo stimato tre miliardi di euro, oggi di quaranta milioni di euro, poco meno del triplo, per una società che ne varrà, forse, il doppio.

Il mondo com'è - 61

astolfo

Aristocrazia-Democrazia – Si vuole, si dovrebbe, la democrazia l’aristocrazia dello spirito. D’incanto senza percorso né funzione pedagogica. Per effetto di una legge (suffragio universale) o di una presa del potere (partiti, sindacati, mobilitazione). Ma nella società come nella natura non ci sono salti. Si vede a Roma, città che fu a lungo principesca (cardinalizia) e miserabile, ma separatamente, due città accostate. Che invece con le leggi eversive e la manomorta sono state combinate in una. Si vede nei cortili o nelle tenute dei palazzi gentilizi. Che alti muri ciechi ingombrano e spezzano, dai quali penzolano gabinetti e cucine, inserrati sui balconi, e sopra i quali ogni genere di sopraelevazione deturpa la vista e fino il cielo, di mattoni a vista, anche forati, o di vetro, o di plastica, e più spesso di una sopraelevazione sopra l’altra invereconda. Mentre rami secchi adornano i vasi giganteschi, pesanti, i più giganteschi e i più pesanti, chissà perché, che ci siano in commercio su terrazzi e terrazzini, contro la stabilità e la visuale di ogni vicino o condomino che sia. E non c’è regolamento urbano che tenga: i regolamenti li applicano i vigili, che stanno dietro il muro.

Cooperazione – È lo spiraglio di generosità dell’epoca, residuo, il solo possibile. Ma per ogni aspetto controverso e anche falso. Quella economica è più spesso (le statistiche del dare e avere, delle partite correnti tra donatori e beneficiari, lo attestano) a profitto del donatore. Quella umanitaria è confusa: non si può dire beneficio dei cooperanti, ma così è. I cooperanti sono volontari, non agiscono per un guadagno, ma si va nei paesi e nelle società che ne hanno bisogno per un proprio impulso personale e con poco rispetto per le stesse (conoscenza, rispetto delle differenze).
Il linguaggio lo tradisce. Gli emigranti, ora “migranti”, quasi nomadi, “coronano il loro sogno” – il sogno dell’emigrazione? Le donne islamiche “conquistano la libertà”. La libertà viene esportata con i bombardamenti. Che portano piuttosto morte, distruzione, amputazioni.
Egidia Beretta, madre di Vittorio Arrigoni, il militante italiano a Gaza assassinato dai palestinesi salafiti, nonché sindaco di Bulciago in provincia di Lecco, un solo cruccio ha nel momento in cui della morte del figlio, che la salma possa transitare per Israele: “Vorremmo che lasciasse Gaza dal valico di Rafah e che passasse dall’Egitto”.

Novecento - Dopo l’Ottocento sistematico, il Novecento curioso e indagatore, disponibile e “aperto” (Popper), ogni secolo ha il suo carattere. Il Settecento anch’esso indagatore ma dell’esistente, il Seicento celebrativo, pletorico, quantitativo (matematico), il Cinquecento classico (reazione alle divisioni, religiose, politiche, istituzionali?). In controtendenza è andata la politica, in questo secolo sistemica più che mai – ideologica. Che ha portato a grandi imperi, per ultimo quello del pensiero unico nel quale siamo immersi, e ad ambizioni d’impero mai viste prima, per estensione e nel pensiero (totalitarismi). È per questo che il secolo è finito nell’implosione, etnica, religiosa, politica?
Se questo è un adeguamento allo spirito del secolo, se ne dovrebbe dedurre che è uno spirito improduttivo, e forse anche barbarico. È nell’Ottocento peraltro la parte migliore del Novecento: in pittura, nella psichiatria, nella fisica, in letteratura. È lo spirito di sistema che ha preparato, dando loro fondamenta solide, più o meno “vere”, i Cento Fiori. Il Novecento cosa ha preparato?

Occidente – È stato la bestia nera del sovietismo, compreso quello italiano, per quasi mezzo secolo – dopo esserlo stato della Germania nazionalista, Th. Mann incluso. Mentre era un mondo desiderato dal sovietismo stesso, sicuramente da quello italiano. Cosa spinge Asor Rosa et al. A godersi superbamente l’Occidente e a respingerlo, anche dopo la caduta del Muro? Perché l’antioccidentalismo persiste in Italia, che di questo particolare Occidente, sbrigativo, poco considerati, è la quintessenza. È ipocrisia e buona coscienza? Forse questo mettersi fuori di se stessi rivela che tra le due chiese, la Chesa e il Partito, non c’è parentele ma identità. È solo in Italia che fatica e emergere un senso laico della politica, liberale.

Oriente– È una proiezione della malattia dell’Occidente, dell’Occidente come “filosofia”, o filosofia popolare, alla portata di ognuno. L’Oriente reale non è filosofico, e nemmeno eroico (antinaturalista, esploratore del mistero, mistico): è ordinario. È come appare, abbandonato. Acritico, parallelo al flusso. La memoria, che lo contraddistingue, la sua tradizione, è cumulativa, ripetitiva, e non selettiva.
Può darsi che tutto questo sia saggezza. E saggezza superiore. Ma non è conoscenza.

Televisione – Il suo linguaggio è la pubblicità: messaggi semplici (uno alla volta), ripetuti, brevi, attraenti.
Con la frequenza dei messaggi, uno ogni pochi minuti, la pubblicità è la televisione.

astolfo@antiit.eu

venerdì 15 aprile 2011

L’Egitto di Obama torna in guerra

L’assassinio di Arrigoni, in video nelle spaventose tv degli sceicchi arabi, conferma che non c’è nemico migliore degli arabi che gli arabi stessi. Né c’è difesa possibile. È così che, a maggior ragione dopo l’insorgenza ora dichiarata dei salafiti, i fondamentalisti islamici più brutali, all’origine dei moti del Cairo contro Mubarak, a Roma la diplomazia s’interroga su cosa ha voluto fare Obama imponendo al Cairo la sostituzione di Mubarak con la giunta militare. Che per prima cosa si è fatta approvare dai salafiti stessi la modifica della Costituzione. I quesiti referendari erano del tutto incomprensibili ma i salafiti si sono incaricati di portare la popolazione, anche gli analfabeti, al voto per dire sì. Sul presupposto, più che ovvio in un paese arabo, che tali consultazioni non hanno alcun valore.
In cambio, la giunta militare s’è impegnata a tenere aperta la frontiera con Gaza anche in caso di guerra. È il preannuncio della fine della pace tra Egitto e Israele. Il fondamentalismo militante non sarà una minaccia credibile, come si ritiene, alla giunta militare. Tanto più che questa è radicata nell’economia, con investimenti diretti e attraverso la corruzione – Mubarak e famiglia erano scuramente i “più” democratici e i meno corrotti della casta militare. Ma allora l’unico cambiamento rispetto a Mubarak è la frontiera aperta alla guerra con Israele.

La bella borghesia d’Italia che non fu

È la storia di Giuseppe Poerio e dei suoi tre figli Carlo, Alessandro e Carlotta – i tre sopravvissuti dei dodici che ebbe con la moglie Carolina Sossisergio. Del genero Polo Emilio Imbriani, deputato, ministro, e dei suoi figli. Dei fratelli di Giuseppe: Raffaele, che militò ventinove anni nell’esercito francese, nel 1848 accettò l’invito del governo lombardo e comandò una brigata all’assedio di Mantova, mentre il nipote Enrico, figlio del fratello Leopoldo, “partì da Napoli luogotenente in un battaglione di volontari e fu ferito a Montanara”. È anche una storia di donne meridionali molto forti e molto libere, la moglie Carolina e la figlia Carlotta. Ma Croce sceglie i Poerio, dalle vite avventurose ma non troppo - non per la media dei liberali del primo Ottocento -, per spiegare una cosa che non osava spiegare a se stesso: l’inconcludenza (inaffidabilità) della borghesia del Regno, e forse dell’Italia.
Giuseppe Poerio, figlio di Carlo e di una Poerio baronessa di Belcastro, si trasferisce ventenne nel 1795 a Napoli da Catanzaro, dove si era formato al collegio dei nobili, per esercitare l’avvocatura. È una persona d’ingegno, poliglotta, in grado di corrispondere con Savigny, Hugo e altre personalità europee. Buon amministratore, sarà anche barone di Murat. Ma dopo essere stato nel gennaio del 1799, malgrado l’età, ventiquattro anni, l’instauratore della Repubblica filo francese. Di cui poi si pentirà, ed è questo il filo della storia di Croce: che un vero movimento liberale (di liberazione) deve vedere le élites, come si sarebbero chiamate, in contatto col popolo. Giuseppe manifesterà ripetutamente “il dubbio di avere errato nel 1799, quando aggiustò fede alle promesse de’ forestieri”, racconterà il figlio Carlo, il più rivoltoso di tutti, ricredendosi sull’esempio della Spagna, che invece aveva resistito all’invasione francese: “Forse (soggiungeva) se la sana parte del paese si fosse unita col popolo, sfrenato sì ma pieno di vita e d’avvenire, dalla congiunta energia di quelle forze dissolute ne sarebbe nato qualche cosa di meraviglioso e di grande a salvezza dell’Italia”. Ma questo più tardi.
I Poerio sono patrioti in quanto liberali, perseguitati per la libertà politica prima che nazionale. Giuseppe si batteva per la libertà nel Regno, l’Italia non era all’orizzonte. Solo si cominciò a parlarne nel ’48, ma più come forma di sostegno a Carlo Alberto in guerra, come sempre era avvenuto nella storia d’Italia, non nella forma che gli eventi avrebbero preso dodici anni dopo. I liberali napoletani sono monarchici ma borbonici – non albertini, non unitari.
Sarà Carlo, il figlio patriota, dopo dieci anni di ergastolo, a reindirizzare il liberalismo napoletano verso l’unità e il Piemonte costituzionale, sul finire della decade 1850. Insieme col fratello Alessandro, il poeta, germanista (deluso), cosmopolita, poliglotta come il padre.
Giuseppe calabrese, la fidanzata Carolina leccese, non sono per nulla provinciali: senza partito preso, è questo il ritratto che prorompe dalla lettura che Croce fa del loro epistolario e delle memorie di congiunti e conoscenti. Sanno cosa succede al mondo, corrispondono in francese, e in inglese, vivranno in continui trasferimenti forzosi dentro e fuori del Regno, ovunque sapendo mettere radici e generare apprezzamenti e legami forti.
Benedetto Croce, Una famiglia di patrioti, Adelphi, pp. 179, € 13

La scoperta del chinino porta alla conquista dell’Africa

È una serie di testi brevi (una scelta di quindici articoli sulla cinquantina che Cipolla scrisse per il “Corriere della sera” e “Il Sole 24 Ore” tra il 1985 e il 1997), ma col consueto taglio illuminante, che dà senso alla storia e anche all’economia. In grande, lo sterminio dei messicani di cui non si parla: “La popolazione del Messico centrale ammontava a circa 25 milioni ai primi del Cinquecento. Un secolo dopo era ridotta a poco più di un milione”. In piccolo: la scoperta del chinino in Messico rese possibile la conquista dell’Africa. E poi: Visconti e Sforza, “l’arbitrio e l’abuso caratterizzavano il modo di governare dei duchi milanesi”; la tecnologia nasce in Inghilterra nel 1615; “i banchieri genovesi tra il 1530 e il 1620 dominano la scena finanziaria”…. Con ottime illustrazioni d’epoca. E personaggi, anche, inattesi. Giotto imprenditore del leasing, a tassi usurai – il pittore di san Francesco era avidissimo. Un Alonso Martìnez de Leyva, come la monaca, “il prototipo del cavaliere senza macchia e senza paura, il favorito del re e l’idolo degli spagnoli”, che era attorno al 1580 il capitano generale della cavalleria dello Stato di Milano. O, in forma quasi di trattatello benché in prose sparse, un quadro memorizzabile del guazzabuglio monetario dei romanzoni con i quali siamo cresciuti: grossi, dobloni, fiorini, ducati, talleri e dollari. E il problema secolare, oggi rinnovato, di cosa vendere alla Cina in cambio delle tante merci cinesi importate. Allora come oggi si trovava poca roba, eccetto i dollari. Finché gli inglesi non scoprirono che l’oppio piaceva, crearono piantagioni apposite in India, e ne imposero l’importazione all’imperatore con la famosa guerra – dopodiché la Cina non si riprese per oltre un secolo.
Carlo M. Cipolla, Piccole cronache, Il Mulino, pp. 110, € 10

giovedì 14 aprile 2011

Ombre - 84

“Perché gli insegnanti tornano a fare paura”, scrivono su “Repubblica” in prima pagina temibili Bartezzaghi e Mariapia Velodiano. Lapsus?
Mariapia, che è insegnante, vuole fare paura? A Bartezzaghi? Dice anche che la scuola si sta rinnovando con i genitori.
Si stava rinnovando, prima che la perfida Gelmini non lo impedisse.

Berlusconi è fotografato magro, perfino elegante, su “Repubblica”, “davanti alla villa di Arcore”, dice la didascalia, “dove si sarebbero svolte le feste al centro dell’inchiesta della Procura di Milano”. Dopo quattro mesi, e un migliaio di pagine, di orge, si tratta di “feste”, per di più ipotetiche?

Sono pieni di cimici gli uffici della presidente della Regione Lazio Polverini. Come gli uffici di Berlusconi, periodicamente, del suo partito, e di ministri sparsi. Ma non si fanno indagini. Perché sono state messe da qualche Procura, o dagli ufficiali che fanno carriera proponendo intercettazioni già sbobinate. Questo lo sanno tutti, ma nessuno lo scrive.

Nel rifacimento della “Donna della domenica” su Rai Uno, gli sceneggiatori, tra essi Scarpelli e De Cataldo, fanno andare un po’ tutti a puttane. Tutte procaci, e in qualche modo attraenti. Come nello sceneggiato di Milano. La Procura di Milano e la corte berlusconiana l’hanno visto in anteprima?

Formigoni si dà coraggio e dopo vent’anni, domenica 10, attacca sul “Corriere della sera” un Procuratore di Milano, il dottor Clerici, dicendolo ignorante: “Non conosce la grammatica della lingua italiana e l’esistenza del periodo ipotetico”. Milano non ha più bisogno dei suoi giudici? Sarà una battaglia ferocissima, la Procura di Milano ha nell’arsenale mezza Italia.
Formigoni è doppiamente coraggioso, perché il dottor Clerici non è nome napoletano, come invece sono tanti Procuratori della Procura di Milano.

Nello stesso giorno “Il Sole 24 Ore” depreca la lentezza della giustizia penale (“Processo ingolfato, quanto costa al Paese”), che pone fra le cause del ristagno dell’economia. Ci sono state tre riforme in dodici anni, dice, e nessuna accelerazione. Più “nove tentate «riforme»” negli ultimi tre anni: “La logica della depenalizzazione non trova seguito come all’estero”. Ma i giudici non c’entrano, il sindacato di categoria Anm e quello istituzionale Csm: i giudici italiano sono i più “produttivi” d’Europa, anzi del mondo. Il problema, secondo il giornale della Marcegaglia, è che l’Italia è al livello della Guinea.
La scoperta dell’Africa evidentemente dev’essere rifatta, a Milano come in Germania, in Austria e in Olanda. Ma perché insolentire la Guinea? È poverissima ma dignitosa, non ha nemmeno il Csm.

Ora il verbo è alla “italianità”, non più alla “contendibilità”. La contendibilità è durata una dozzina d’anni, il tempo di smobilitare le banche, le finanziarie e le industrie di Stato. Mercato? Ideologia del mercato? C’è solo furbizia, con la corruzione di cui il palazzo di Giustizia così temibile garantisce l’impunità. Opinione pubblica? Informazione? Giornalismo investigativo? Sono i giornalisti e i giornali che se ne ammantano che garantiscono la corruzione.
L’italianità è l’ombrello per il passaggio dei poteri alle Fondazioni ex bancarie, ben potenti come si vede, sempre presidiate come si sa dagli amici – quelli del “ci sono e non ci sono”, “qui lo dico e qui lo nego”, e degli affarucci, l’unica “classe” immutabile del ventennio.

Geronzi ha salvato mezza Milano – oltre che mezza stampa italiana, direttamente e attraverso la concessionaria di pubblicità Mmp, e l’ex Pci (nel 1996 il fido fu elevato alla cifra record di 503 miliardi). Ha salvato “La Repubblica”, allora Mondadori, nel 1980. Berlusconi nel 1994. La Rizzoli-Corriere della sera nel 1996, direttamente e tramite F.G.Caltagirone. Unicredit – peraltro insalvabile – nel 2006. Ora che non ne hanno più bisogno l’hanno rimandato a casa, con giubilo.

Per dare addosso a Geronzi Massimo Giannini lo chiama don Abbondio, e gli mette in bocca il “troncare, sopire” che Manzoni invece fa pronunziare al Conte Zio. Anche dire Geronzi don Abbondio è sbagliato: che lo criticheremmo a fare? L’editorialista di “Repubblica” voleva solo caricare Geronzi di tutto il peggio, si faceva a Roma a ogni morte di papa.
Ma nessuno dei capi redattori e titolisti di “Repubblica” sa che don Abbondio non è il Conte Zio?

Sarkozy ha portato l’Europa e l’Onu in guerra per difendere la democrazia in Nord Africa – la democrazia in Nord Africa? Poi, quando i tunisini si presentano alla frontiera a Mentone, li ributta in Italia. Perché Sarkozy non ci fa la guerra per riportarci alla democrazia?

Pietro Ichino e Nicola Rossi lanciano il manifesto per il merito nel lavoro con Montezemolo. Passi per gli economisti del partito Democratico, ma che Montezemolo parli di merito e di lavoro sembra una barzelletta.

Lo scrittore stupisce non in linea

Non cessa di stupire anche nelle cose minime, la favola di san Nicola, quella dell’amore, o il Natale in Cocincina, questo scrittore a lungo negletto, “non in linea”. Disincantato, ironico, e troppo nostalgico.
Joseph Roth, Il secondo amore, Adelphi, pp. 124, € 11

mercoledì 13 aprile 2011

Problemi di base - 57

spock

Il caso non è la necessità?

E il vocabolario è una liberazione o una prigione?

O: perché la vita sarebbe nel vocabolario?

E perché un De Siervo presiede la Corte Costituzionale? La Corte è asservita a chi?

Siamo noi che sogniamo o i sogni che ci sognano? Importuni, insinuanti, faticosi, luridi, come truppe leggere d’occupazione.

“Andando stando” dice la poetessa nata, amante di poeti, con orrido verso: segnare il passo, come in caserma? Bisognava aprire le caserme alle donne prima.

Se la poesia è femmina, bisognerà (non bisognerà) conquistarla?

Perché la poesia sarebbe femmina? Ci vogliono allora le quote blu – o gialle, o rosse: di che colore è il maschio?

spock@antiit.eu

Si ruba impunemente, essendo ricchi

Si rieditano alcune storie nello stile dello storico “extra vagante”: documentate e lievi, e sempre utili perché legge la storia al meglio, fuori dai clichés. Le prime due sono di ordinaria follia finanziaria, nel Trecento e nel Seicento, impunite anche allora – pagarono, col rogo, solo un paio di esecutori. Due casi di monetazione falsa. Uno della famiglia fiorentina dei Bardi, dopo che la Compagnia, l’ultima di un secolo di forte espansione e successi, era fallita nel 1346 perché il re d’Inghilterra si rifiutò di pagare i debiti - la banca per la quale lavorò Boccaccio dal 1325 al 1540 a Napoli, nella succursale locale. E uno di Genova, messo in atto attraverso le diecine di zecche private nel territorio della Repubblica, a danno dei Turchi. Lo scandalo emerse quando i mercanti inglesi, creditori dei Turchi, furono pagati con moneta a basso conio. La terza storia è sull’opera dei Savary, Jacques padre e Jacques figlio, di accreditamento e nobilitazione del commercio in Francia a fine Seicento, con gustosi giudizi sui caratteri “nazionali” del commercio. Cosmopolita di formazione e di carriera, lo storico pavese dell’economia fa grande caso anche qui delle differenze nazionali.
Calo M.Cipolla, Tre storie extra vaganti, Il Mulino, pp. 91, € 9,50

martedì 12 aprile 2011

La scomparsa di Napoli

Non se ne accorge nessuno, la città per prima e le sue molte intelligenze eccezionali. Ma non è la prima volta che Napoli non si accorge di Napoli: la città è scomparsa. Napoli. Non c’è più nelle canzoni, ed è tutto dire: non un cantante, non una canzone napoletana in televisione, non diciamo a Sanremo – dove hanno gabellato per napoletano il milanese Vecchioni. Non c’è Napoli nei film, dopo “Gomorra”, che ormai è di qualche anno fa. Non c’è Napoli nei telefilm e negli shorts pubblicitari, non è buona nemmeno come fondale: le location si fanno ancora al Sud, ma in Sicilia o in Puglia, perfino in Calabria, a Napoli e nel napoletano no. Sono scomparsi i comici napoletani, i ristoranti, i cuochi, i piatti, i monumenti, e perfino le belle napoletane. Giusto si parla di quelle, un po’torbide, che girano attorno alla politica. Il Napoli potrebbe vincere il campionato, ma riscuote più simpatie l’Udinese. Non parlano di Napoli neppure i tanti napoletani al comando, il presidente della Repubblica, i giudici e i giurisperiti, i questori, i giornalisti. E ancora non ha eruttato il Vesuvio.

Le intercettazioni, letteratura del millennio

Si possono dire le intercettazioni il genere letterario per eccellenza del millennio. La letteratura è fatta in Italia dal giornalismo, e il giornalismo è fatto dalle intercettazioni. Le quali non sono teatro ma letteratura: si presentano infatti trascritte. Le trascrizioni sono opera di questurini. È la letteratura italiana del millennio opera di questurini? Purtroppo sì, e non per la proprietà transitiva.
Presentate infatti dai giornalisti (c’è una categoria di giornalisti addestrati a imbellettarle, i cronisti giudiziari), appaiono rivelatrici di verità nascoste. Ma lette in originale mostrano tutta la debolezza della letteratura che su di esse si è venuta costruendo in questi anni. I due volumi pubblicati cinque anni fa dall’“Espresso” sullo scandalo delle partite comprate sono illeggibili. Se non come una auto presa in giro del redattore, un colonnello dei carabinieri. Il volume di intercettazioni sullo sfruttamento della prostituzione di Berlusconi, messo su Internet, è invece noioso. Forse perché intercetta donne di piccola virtù. Sarà difficile che i romanzi del prossimo decennio decollino su questa materia grigia.
Nel volume su Berlusconi una cosa interessante ci sarebbe. È al foglio 10 – quello che si farà forte, dopo due mesi, del “Seguito annotazione della Volante Monforte Bis IV Turno, a firma Ass.PS Landolfi Marco e Ag.Sc.Ferrazzano Luigi datata 28/07/2010. Due mesi prima, il 27\5\2010, alle ore 18,02, Pasquino Caterina chiama il 113 per denunciare Ruby di furto. La telefonata dura quattro pagine. Alle 18,15 Ruby è già fermata. Cioè: è finita la telefonata di denuncia. Una volante è partita. La Volante ha chiamato Pasquino Caterina per farsi dire dove può trovare Ruby. L’ha trovata e l’ha fermata. Provare per credere.
Ma qui siamo già nella brutta letteratura. Uno svolgimento romanzesco dovrebbe infatti prevedere che la questura di Milano sia sollecita con le puttane. Oppure che la Polizia Giudiziaria s'inventi le trascrizioni. E in questo caso su indicazione e a uso di chi? Del questore? Dei Procuratori della Repubblica? Oppure che Ruby sia una confidente - non è la prima volta che si fa fermare casualmente dalla polizia. Ma della Procura di Milano? O di Berlusconi, per i suoi comizi legali? Non c’è il morto, in queste trame, ed è un bene. Ma non c’è la certezza che ogni storia esige, neanche in forma di certezza dell'incertezza - che del resto per le questure e le Procure sarebbe impropria.

Giustizia a Milano

A garanzia della loro equanimità la presidente del Tribunale di Milano dottoressa Livia Pomodoro e il presidente della Corte d’Appello di Milano dottor Giuseppe Tarantola chiedono di vietare le manifestazioni davanti al loro Tribunale a favore di Berlusconi. Contro Berlusconi sì, a favore no.
Il Palazzo di Giustizia di Milano umilia ogni settimana il governo, e quindi il Parlamento, con le inutili (procedurali, formali) presenze obbligate del presidente del consiglio. E vuole impedirgli di riprendersi un po’ di autonomia con le sue manifestazioni politiche. Ognuno capisce che questa non è democrazia e nemmeno legalità. È anzi giustizia politica, l’illegalità più feroce, anche se a opera di piccoli uomini – la “banalità del male”.
Il dottor Tarantola è il giudice che condannò Cusani, consulente finanziario di Raul Gardini del gruppo Ferruzzi, al doppio della pena chiesta dal Pubblico ministero, perché l’accusato era anche socialista. La dottoressa Pomodoro invece faceva carriera al ministero a Roma chiamata dal socialista Martelli.
Il dottor Tarantola quindi passò, per fare più rapidamente carriera, dal penale al civile. Dove, in qualità di presidente della VIII sezione, affossò il processo per un ammanco alla Gemina-Rizzoli Corriere della sera che poi si rivelerà di ben 1.300 miliardi, del 1995. C’è ben qualcuno, in questa piazza giudiziaria milanese, che dovrebbe stare in prigione - esserci passato, una vera giustizia non moltiplica le pene, non per motivi politici.

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (86)

Giuseppe Leuzzi

Nord/Sud
C’è sempre un Nord più Nord: più prepotente, più razzista, violento anche, e menefreghista, in buona coscienza. È esilarante, benché triste, vedere il piccolo Maroni di fronte ai tronfi, pettoruti, sprezzanti tedeschi, olandesi, scandinavi, polacchi di Bruxelles che lo rimandano indietro con tutti i tunisini.
Sostenuti, è vero, da un napoletano di nome e di fatto: Napoli sempre si allea col Nord, ma con quello che più conta.

Marc Bloch ha reintegrato il suo plotone al fronte nel 1915 con territoriali bretoni, in età quindi, “combattenti assai mediocri”. L’insigne storico li dice “intorpiditi dalla miseria e l’alcol”, nonché “incapaci di capire e farsi capire” perché analfabeti. Non parlavano francese e neppure un dialetto comune: “Ognuno parlava un dialetto diverso”, e chi capiva un po’ di francese aveva difficoltà a farsi capire dagli altri”. Ma non li disprezza.

Gli inglesi hanno aiutato la resistenza locale ovunque durante le guerre napoleoniche. Con successo in Spagna. Le guerre napoleoniche cerarono un diffuso sentimento partigiano, cioè ribellistico, a fondo religioso, in Spagna e nel Tirolo, o nazionalistico in Russia, e contro la leva in massa in Calabria. L’odiosissima tassa sulla vita, introdotta al coperto della rivoluzione e della libertà. Non fu l’unici, ma la resistenza dei “massisti” in Calabria fu la più lunga, che poi si ripeterà col primo brigantaggio subito dopo l’unità, che anch’essa si presentò con la coscrizione. È questa resistenza, e non la libertà, il tema di uno dei primi canti della tradizione popolare italiana, nel 1808: “Partirò partirò, partir bisogna\ dove comanderà nostro sovrano;\ chi prenderà la strada di Bologna\ e chi anderà a Parigi e chi a Milano.\ Ahi, che partenza amara…”.

Il brigante può avere avuto un ruolo sociale – se ne sa molto poco. Ma, spiega C.Schmitt nella “Teoria del partigiano”, “nei periodi di disgregazione…il soldato irregolare finisce per confondersi con i grassatori e i vagabondi, fa la guerra per conto proprio”. Diventa “partigiano di se stesso”, come lo diventarono i briganti, qui scuramente, già nel 1863, che si erano specializzati nella cattura dei viaggiatori a scopo di estorsione-riscatto, come già i saraceni e i corsari. “Simili dissoluzioni sono segni dei tempi da non trascurare”, ammonisce però il giurista: l’unità cioè manifestò subito la sua debolezza, l’annessionismo non si può negare.
Diverso il caso nella resistenza spagnola a Napoleone, che Schmitt analizza in dettaglio: “”La guerriglia spagnola fu un insieme di circa duecento piccole guerriglie locali… ciascuna guidata da un capo diverso, il cui nome resta avvolto nella leggenda”. Come il brigantaggio? Sì e no: aveva infatti dalla sua la convinzione (il motivo politico), un “terzo interessato” (l’Inghilterra), e un territorio favorevole, unito.

L’esempio spagnolo è indubbio, il precedente è nei fatti, anche per i legami dinastici. Inoltre, in contemporanea con la Spagna, anche la Calabria aveva tentato di resistere all’Armée di Napoleone. Ma nel Sud Italia non si ebbe una guerra di popolo, come invece avvenne in Spagna.

Autobio - Il ritorno
Della storia greca qualcosa comincia a riemergere. Che è stata così lunga e anche recente, se il Barrio, “De antiquitate et situ Calabriae”, nel tardo Cinquecento ci classificava di parlata ancora grecanica, in chiesa e fuori, ma la voglia di moderno aveva cancellato. Dell’altra storia non si sa nulla, ma s’indovina. Tutto fa parte d’altronde di un ritorno, uno studio non è consentito e forse nemmeno gradito, solo le sensazioni, e i ricordi: il paese è una realtà distinta, a cui si ritorna, per periodi più o meno brevi, ma da visitatori, forestieri seppure non estranei. Per i quali il raffronto è soverchiante, non vivendo il giorno per giorno, le realtà in trasformazione, le trasformazioni stesse nel loro farsi.
Ma non c’è altra realtà che il come siamo in rapporto al com’eravamo. Come per un emigrato in terra lontana, o un carcerato di lungo periodo, che ritorni dopo molti anni, così è per l’intellettuale anche se sempre è tornato e torna spesso: c’è una radicalità nella scelta del distacco, più che nella lunga lontananza dopo un distacco non voluto. L’emigrato per scelta inevitabilmente assume il punto il vista del comparatista – il ritorno si fa in rapporto a una realtà “altra” dove si sono messe radici – e del giudice. Con la possibilità dell’errore, e il sospetto sempre dell’ingenerosità. Benché inevitabile, e talvolta utile.
Il ritorno a casa è ambivalente, secondo la psicanalisi. Felice e angosciante lo dice Lou Andreas Salomé in “Aprile. Memorie su Rilke”. Lou Salomé ricorda a Rilke come egli, tedesco, si sia “trovato” nella sua Russia, di lei. Ma anche lei concorda, non artificiosamente: “Sul suolo nativo, con le sue rocce, i suoi alberi, i suoi animali, rimane qualcosa di sacrosanto all’interno dell’umanità di ognuno”. Questo essere nelle radici e altrove di Lou Salomé è tanto più rilevante in quanto Rilke aveva “una forte antipatia nei confronti delle proprie origini austriache”. Mentre Lou, russa, si ricorda al poeta più spesso come “noi tedeschi”. Un po’ come Aldo Maria Morace, storico della letteratura, presenta due racconti di Alvaro “novecentista” sotto il titolo “Viaggi attraverso le cose”, spiegando che non c’è vita senza “passato e memoria”. Morace trova tema alvariano, “estetizzante”, il “trapianto impossibile in un’altra società”. Il racconto bello della plaquette, “Avventure”, che dava il titolo alla raccolta originaria, non più ristampata, del 1930, “Misteri e avventure”, era stato da Alvaro ripreso dalla raccolta “L’amata alla finestra” dell’anno precedente, dove figurava nel racconto eponimo, col sottotitolo “Il ponte”. È da rivedere se questa realtà-irrealtà non sia il proprio di Alvaro. Anche e specialmente in “Gente in Aspromonte”, che è tutto meno che realista – né neo realista in anticipo, non essendo un testo politico.
Il ritorno-rifiuto delle origini è uno dei problemi biografici acclarati di Corrado Alvaro, lo scrittore che deve la sua fama all’Aspromonte e a San Luca, il suo paese, dove però non è mai tornato dopo i vent’anni, se non rade volte, di notte, per poche ore. Più spesso invece se ne è alimentato, di un ritorno fantastico e mitico all’infanzia e al passato, alla montagna, al mare, agli elementi – colori, odori, sapori, luci, miti, leggende, persone, modi d’essere e di dire. Senza però un ritorno reale, anzi nella mancanza ricercata di contatti: la sintonia è con l’infanzia immaginata, il passato supposto, una natura peraltro sconosciuta, e in definitiva estranea. Compresa la famiglia, con la quale il legame è fattuale – beneducato - e non affettivo. Al funerale del padre Alvaro arrivò a esequie già fatte, e ripartì subito – di un padre che l’ha voluto “Alvaro”, fortissimamente: colto, scrittore, emigrato. Alvaro esemplifica la commistione di radicamento e sradicamento. È grande scrittore per il radicamento in San Luca, Polsi, l’Aspromonte, lo Jonio, ovunque nei suoi scritti, perfino nella tragedia “Medea”. Ma questo mondo propone avulso, un reperto senza contesto, e dai significati servili: trascuratezza, asocialità, violenza. Mentre più vivacemente è sradicato, a suo agio a Berlino, Parigi, Mosca, Istanbul, lo scrittore più cosmopolita del Novecento italiano.
Il ritorno a casa può essere fonte di vita. La superintellettuale Lou Salomé così lo ricorderà di sé e del sensitivo Rilke in morte di quest’ultimo, con il quale s’era accompagnata amante, lei di cinquant’anni, lui della metà, in un lungo viaggio di ritorno in Russia, la sua patria, aprendolo all’amore: “Molti anni dopo… mi dicevi talvolta del tuo sforzo per raggiungere, in qualunque cosa o circostanza, la dimensione mitica, mistica, cercata in modo simile ad un tentativo di anestesia, per far scivolare i dolori e le angosce. E pensavi a quei comuni accadimenti come fossero stati dei miracoli mancati, che pure avrebbero potuto essersi prodotti. Così assolutamente certi e tangibili si produssero per noi, per niente mistici, più reali anzi di ogni realtà, tanto che, anche quando volevamo allontanarcene, dovevamo poi sempre farvi ritorno come ad una casa”. La casa dell’amore ma anche la natura comune. Che Rilke, continua Lou, siglò con queste “felici parole”, una volta che sul Volga avevano rischiato d’imbarcarsi su due battelli diversi: “Anche navigando su due navi separate, avremo una medesima via a ricondurci indietro – perché comune è la sorgente”.
Ritrovare una persona per ritrovare un passato, dei personaggi, degli scorci, degli avvenimenti. Perché la tradizione è grande parte di noi stessi. Ed è un’occasione per avere interlocutori esclusivi personaggi illustri.
C’è comunque un “riconoscimento” in ogni ritorno. Personale e circostanziale, delle cose, dell’ambiente, delle persone, che più spesso negli anni sono nuove o sconosciute. Compresa l’estraneità che il paese sente verso chi è emigrato. Anche contro le intenzioni, che magari sono amichevoli: non c’è interscambio fra chi è andato via e chi rimane, se non limitato: sporadico, occasionale, di circostanza.

leuzzi@antiit.eu

Secondi pensieri - (68)

zeulig

Possibile – Il concetto non c’è in latino – né c’è l’impossibile. Non riferito a “potere”. Le cose sono o non sono, e possono avvenire oppure no, ma non in rapporto al soggetto. C’è un fondamento religioso nella cultura latina. Nella lingua perlomeno.

Presente – Per la fisica non c’è, poiché o è già passato o deve ancora venire. Mentre tutto è presente: la storia, come dice Croce, e anche il futuro.
L’evoluzione ne viene scardinata, o incardinata?

Psicanalisi – È terapia compulsiva – per autorità del terapeuta, che se non ce l’ha se la deve acquistare, con la ripetizione e l’offerta propiziatoria e non per una sintomatologia. È stato detto e questo è: ha lo stesso fondamento dei guru, dei guaritori, dei predicatori Usa.

È chirurgia, Non di quella fine (micro), ma ricostruttiva, devastante.

La riduzione di tutte le pulsioni al piacere non ha nulla di scientifico. Né è possibile cancellare ogni altra relazione, se non quella erotica, carnale, con la madre. Liberarsi dal padre era opportuno dopo millenni di patriarcato, opportuno per la storia ma non per la scienza.
Cancella quattro quinti della letteratura (linguaggio) e della sensibilità (psicologia) umane. Non tutto è nel sangue e nella fisiologia. Anzi, la stessa fisiologia si determina infine nel cervello, coi neuroni. Che sono i vero mistero umano.

Quotidiano – L’ordine può essere troppo, troppo per lo stesso ordine, nella vite ben ordinata: la vita scandita da orari, calendari, doveri sociali, d’abbigliamento, di conversazione, d’alimentazione, di trasporto, di terapia… è qui la (una) radice della depressione, o del senso ossessivo di crisi e d’inutilità, nella violenza dell’ordinario. Che è contro la natura umana, o è un modus per il quale non è stato ancora adattato il tipo – born free è sempre la dote del mondo. Tempo libero, vacanza, hobby, moda, culinaria, tutto l’effimero è diventato guida e catalogo. Per non parlare del lavoro. Mai si è stati meno liberi di oggi che si è liberi dalla fame, dal bisogno, dall’insicurezza. Le stesse regolazioni feudali, in Cina o in Europa, non erano così assorbenti.

Religione – Come filosofia della storia è meno irrazionale del razionalismo, ma è radicalmente falsa (in contraddizione). Il razionalismo non dà un senso alla storia, se non quello aberrante della fine della storia (morte). La religione salta bene questo ostacolo. Ma porta a un Dio che è anche Dio del male, al diavolo, al destino (la fede per la grazia), al’inutilità delle opere, quindi della vita, a un intrattabile Adonai. È consolatoria ma porta alla bestemmia e alla caduta. E da un punto di vista religioso, non meramente razionalista: il dio di giustizia è la negazione della provvidenza.

Sadomaso – È il distillato dello spirito borghese oltranzista. Non è la condizione umana: l’istinto di sopravvivenza è sempre più forte della violenza, nonché la socialità (Aristotele). È l’estrema conseguenza dell’individualismo e dello spirito di proprietà, con il quale la libertà viene confusa, spinto fino all’eugenetica, col connesso senso di colpa. Sade ne è l’alfiere anche storico, vero rivoluzionario borghese.
Nella condizione umana c’è, ma come stato intermedio, l’adolescenza – di incertezza tra l’animalità sociale e l’affermazione di sé.

Santità – Non può che essere l’orgoglio. Chi non vuol essere santo a tutti i costi, giorno per giorno, minuto per minuto, in ogni occasione, con ogni interlocutore, chi ha qualche debolezza, o anche soltanto non ci pensa, a essere santo, non con costanza quotidiana, santo non sarà.

Storia – La coltiva l’Occidente. Come fatto significativo e non mera cronologia è solo occidentale – è l’Occidente storia? La storia in Occidente è analisi, e difesa: la memoria non è un semplice gesto ricognitivo, ma normativo. La storia maestra-mostra (mostro?) di vita.

È una curva piena (piatta?). Può non essere una funzione lineare, ma si muove su un piano orizzontale.

È la nostalgia dei morti.

Superbia – È il peccato di paragonarsi a Dio. È il peccato per eccellenza ancora oggi, anche se la chiesa non ne parla più, nella forma degradata del carrierismo come valore. E del rapporto d’amore come reciproco dressing (non più “io vorrei” ma “io vorrei che lei\lui…”).

Viaggiare – Pitagora, dice Diogene Laerzio, prescriveva di non volgersi indietro quando ci si allontana dalla patria, e intendeva di non attaccarsi alla vita al momento della morte. Viaggiare è come morire? Anche se oggi si viaggia molto e si ritorna spesso.

Wittgenstein – Che reputazione avrebbe avuto come filosofo se non fosse stato bello, ricchissimo, viennese, viennese di Cambridge, eccentrico, e omosessuale represso? Quella di un affascinante superficiale. Cioè di un (buon) filosofo?

È “socratico”. Perché filosofa lungo la linea “so di non sapere”. Ma anche per il “demone di Socrate”, che spesso lo costringe a chiudersi, e sentirsi. E per l’inadattabilità al misticismo, se non nelle forme esteriori della bontà di cuore, e dell’impegno tolstojano, non del nefas, si può anzi dire incontenibile.

zeulig@antiit.com

lunedì 11 aprile 2011

Napolitano per il tanto peggio tanto meglio?

Forse perde colpi, forse ha nel dna il “tanto peggio tanto meglio” del partito che fu la sua vita. La ragione non si sa, ma sugli immigrati illegali dalla Tunisia il presidente Napolitano ha lasciato a bocca aperta alcuni collaboratori, oltre che molti sostenitori: sconfessare il governo sugli immigrati clandestini subito prima del Consiglio europeo degli Interni è sembrato un siluro più che uno sgarbo. Con indiscrezioni al “Corriere della sera” e dichiarazioni alla “Repubblica, i due giornali che guidano l’opposizione.
Fuori del Quirinale la critica è aperta all’atteggiamento minimalista del presidente della Repubblica di fronte all’immigrazione illegale dalla Tunisia. Che tutto a questo punto porta a considerare organizzato, da mafie sì, ma ben protette dal nuovo regime. E che potrebbe anche coprire un’esportazione in massa dei criminali. Nonché di fronte al dramma di Lampedusa: il presidente non ha speso una parola per l’isola. Dentro le stanze ora c’è perplessità sull’atteggiamento del capo dello Stato verso il governo. Si è voluto tenere Berlusconi, anche perché non aveva altro governo possibile, e non vuole assolutamente eguagliare il record di Scalfaro, di due Parlamenti dissolti d’autorità in un mandato presidenziale. Ma non obietta, né ha mosso alcun rilievo, a Fini, che fa il presidente della Camera in modo partigiano. E sull’immigrazione ha voluto senza ragione indebolire lo stesso governo. Su un problema si può aggiungere, reale e non da teatrino della politica.

Precariato e bassi salari, miscela letale

Troppi precari, troppi non occupati, e salari in contrazione. È la distruzione di un’economia. Elementare, non ci vogliono studi per capirlo. Solo l’Europa non lo sa, e l’Italia. Tempo ancora una generazione e la ricchezza dell’Italia, se non dell’Europa, sarà finita: ora si sta consumando il capitale – il risparmio. Ma si fa come se non.
È anche l’economia dell’incertezza, che come si sa è il peggior fattore eversivo di un’economia. Effetto della crisi del 2008, ma in Italia tendenza anche di lunga durata. Si fa finta tuttavia che l’incertezza non ci sia. Il futuro, certo, è incerto. Come escludere che l’India scompaia in uno tsunami? O la Cina si dissolva col partito Comunista, non è già successo all’Urss? E lo stellone d’Italia? Se non che questa volta sembra troppo anche per lo stellone.
Da quasi vent’anni, dal fatidico 1992, il reddito non cresce. Non crolla, ma non cresce. Se il tenore di vita non è caduto in conseguenza ciò si deve al risparmio pregresso, che sempre più si va assottigliando – le statistiche sul risparmio sono semplici e sono chiare. Il perché e il come sono anch’essi chiari. L’Italia ha perso quindici anni fa due milioni di posti di lavoro. Che non ha ricostituito in nessun modo. Ha quindi ristretto la domanda di lavoro e di reddito di altrettanto. Questo vuol dire che ci sono due milioni di persone, forse tre milioni facendo la sommatoria delle persone a carico e dei decessi intervenuti nel frattempo, che vivono a spese dell’Inps, del Tesoro e della famiglia, improduttive e di bassi consumi. E un terzo della forza lavoro in questo quindicennio, quindi sui sei-sette milioni di lavoratori, ha trasformato in precari: a tempo, a bassa retribuzione, con coperture previdenziali minime.
È una mutazione mondiale, imposta dal mercato unificato dalla caduta del Muro. Ma a fronte di questa mutazione non c’è stata e non c’è alcuna reazione, l’Italia è da quasi vent’anni assorbita e immiserita dal meretricio e le scalmane degli angiporti delle Procure. Il miglior ministro della Repubblica è un contabile, che al meglio sa spostare le poste di bilancio, da un settore all’altro, magari togliendo un milione ai musei per dare qualche blindato in più ai militari a Herat, e da dicembre a gennaio. Nessuno si pone il problema, lasciamo andare risolverlo, o proporre di risolverlo.
In Italia la mutazione è stata aggravata dall’avventato varo dell’euro. Che per una malintesa questione di orgoglio è stato accettato a due volte il suo valore. Il che ha costretto e costringe l’Italia a una perpetua cura dimagrante, che anch’essa non può non essere letale. Ma di questo problema, nonché affrontarlo, non si può neppure parlare. L’epoca è del resto all’eutanasia, potersi dare la morte da sé. Soprattutto dopo una certa età, che l’Europa ritiene di avere per saggezza superato.

domenica 10 aprile 2011

Che bravo Arbasino, giovane, negli Usa, 50 anni fa

Curioso volume rétro, anche la copertina ha Elizabeth Taylor, intanto morta di vecchiaia, all’epoca. A caldo, cinquant’anni fa, sarebbe stato “La democrazia in America” del Novecento, un Tocqueville adeguato ai tempi. Oggi è mille pagine d’autore. Curioso, vaporoso, brillante, come sempre sa essere Arbasino, un autore oggi necessario se non altro per la cultura solida e affidabile che s’è persa, e che lui possiede in molti campi, l’economia, la sociologia e gli affari internazionali inclusi, oltre ai decori, ai colori, alle dizioni, e ai coscioni frigoriferi delle ragazze della Harvard Summer School sempre in short. Uno che era in grado, nel 1959, di parlare con Kissinger, Schlesinger, Galbraith, Burnham, Riesman, Edmund Wilson, Kazin e la General Motors, oltre che con i “sommi” scrittori, di capirli, di esporli sempre correttamente e per quanto hanno d’intelligente. Ma l’editoria italiana, si sa, è lenta – chissà che altra Italia sarebbe stata, se uno scrittore-scrittore come Arbasino, e migliore social scientist del suo mezzo Novecento, fosse stato celebrato come oggi che ha solo da dirci: “Quant’ero bravo!”.
Alberto Arbasino, America amore, Adelphi, pp. 867, € 19

La guerra moderna è partigiana

Se Kennedy avesse letto questa “Teoria” quando uscì, nel 1962, non avrebbe fatto la guerra in Vietnam. Schmitt già sapeva che “le operazioni belliche dopo il 1945 assunsero il carattere di guerriglia partigiana perché i detentori di bombe atomiche rifuggivano, per ragioni umanitarie, di farne uso, e coloro che non le detenevano poterono contare su questo scrupolo – una conseguenza inattesa sia della bomba atomica sia delle ragioni umanitarie”. L’inermità connessa alla potenza. Dopo cinquant’anni, la “Teoria” è più che mai valida, si vede su ogni fronte, anche se ora tutti per convenienza si chiamano umanitari. La guerra di difesa partigiana esiste del resto da due secoli, secondo Schmitt, dalla resistenza a Napoleone in Spagna, nel Tirolo e in Russia, 1808, 1809, 1812 (e in Calabria, 1807-9). E da almeno un secolo, dal Regolamento per la guerra terrestre dell’Aja del 18 ottobre 1907, è regolamentata, cioè prevista e protetta – ancora meglio dalle Convenzioni di Ginevra del 1949. Per non dire della Svizzera: tra le chicche trovate da Schmitt una è della confederazione, s’intitola “La Resistenza totale. Istruzioni alla piccola guerra alla portata di tutti” (“Kleinkriegsanleitung für jedermnann”), nel 1958 è alla seconda edizione, opera di un semplice cap. H. von Dach, a cura dell’Associazione dei sottufficiali svizzeri - ma la guerra partigiana non è da sempre la strategia e la tattica della difesa elvetica, con e senza Guglielmo Tell? Per non dire, andando più in là, dei gueux nelle Fiandre, dei Vespri Siciliani, eccetera. Solo la coalizione dei Volenterosi in Iraq e quella Onu in Afghanistan sembrano ignorarla, insomma lo Stato Maggiore Usa. Fermo restando, Schmitt si attesta qui sul “Che”, che “la guerra di guerriglia è una fase della guerra, che non ha di per sé la possibilità di conseguire la vittoria”.
È un libro di diritto ma si legge come un libro di storia, che sempre riserva sorprese. Di cui Schmitt è anche qui dispensatore, benché giurista meticoloso. Le stesse guerre napoleoniche trova interpretate come guerre di guerriglia dallo Stato Maggiore prussiano nel 1806. Che si adegua e dopo pochi anni la ordina per editto. Fino ad allora la guerriglia, o guerra di partigiani, era la “guerra leggera”, di squadroni mobili, ussari, ulani, panduri, cacciatori, forma prediletta delle “guerre di gabinetto” delle quale il Settecento si compiaceva, dopo gli orrori delle guerre hobbesiane del Seicento. Ne fu fautore Clausewitz, per lo stesso principio che la guerra è politica. Di Clausewitz Schmitt scopre che ci arrivò in polemica anonima (“un anonimo militare”) nel 1809, a 29 anni, con Fichte, in quanto “autore di un saggio su Machiavelli”: il futuro polemologo obietta al filosofo che le tattiche di Machiavelli sono antichiste, mentre modernamente, “attraverso la sollecitazione di forze individuali, si ottiene infinitamente di più”, e specie “nella più nobile di tutte le guerre, quella che un popolo combatte sul proprio suolo per la libertà e l’indipendenza”. Ne fu fautore Bismarck, che nel 1866, dice Schmitt, era “acherontico”: voleva scatenare l’inferno, ossia il nazionalismo, ovunque contro il nemico asburgico, fino in Boemia e in Ungheria, e lo organizzò. E perfino Hitler, che il 16 maggio 1944 la guerra partigiana decretò contro l’Armata Rossa.
È la guerriglia partigiana che ha sconfitto Napoleone in Russia, ed è la vera materia, dice Schmitt, di “Guerra e pace”, più del pacifismo inorridito. L’ultima storia rimossa è quella di Raoul Salan, finito all’ergastolo nel 1962 per il terrorismo della sua Oas, l’organizzazione anti-De Gaulle e anti-Algeria, lui che era un generale, repubblicano di sinistra, comandante in Indocina, gollista decisivo nel 1958 per il ritorno del Generale: “L’analogia fra gli ufficiali dello Stato Maggiore prussiano del 1808-13, che erano rimasti impressionati dalla guerriglia spagnola, e quelli dello Stato Maggiore francese degli anni 1950-60, che avevano avuto esperienza della moderna guerra partigiana, è sbalorditiva”.
L’editto prussiano del 21 aprile 1813, “pubblicato secondo tutte le regole”, reca in calce la firma del Re. “Si resta attoniti nel leggere il nome di un legittimo regnante sotto un simile appello alla guerra partigiana”, ironizza il fine giurista: “Queste dieci pagine della raccolta delle leggi prussiane del 1813 (pp.79-89) sono certamente da annoverare tra le più inusitate di tutte le gazzette ufficiali del mondo… Scuri, forconi, falci e lupare vengono espressamente raccomandati nel paragrafo 43”. Insomma, “una specie di Magna Charta del partigiano”. C’è in questa “Teoria” naturalmente molto Lenin, in pensiero e di fatto – la sua traduzione dalla Svizzera in Russia a opera dello Stato maggiore tedesco per fare la rivoluzione. E una lettura anticipata del ruolo decisivo nel dopoguerra di Mao, della sua Marcia e delle sue riflessioni, rispetto al boom del Libretto Rosso e del maoismo.
C’è la Resistenza nella seconda guerra mondiale. In Italia e altrove. In Italia “cursoriamente”, lamenta Franco Volpi nella postfazione, ma c’è, in rapporto al ruolo dell’Italia, e della Resistenza in Italia, Schmitt non si nega nulla. Mentre di quella in Russia afferma che innescò la sconfitta tedesca: “I partigiani russi sono riusciti a impegnare, secondo stime di esperti, circa venti divisioni tedesche, portando così un contributo decisivo alla vittoria”. Ma più ancora del moto di popolo, rileva, contò qui l’organizzazione, politica e militare. Con un comando unico, del partito Comunista e di Stalin. Perché il partigiano deve essere sì irregolare e “tellurico”, legato alla terra, alla patria, ma anche politicizzato, e organizzato, inquadrato come vogliono il “Che”, Mao e Lenin, in una guerra vera. O legato a un “terzo interessato”. Altrimenti le cose non funzionano: “I partigiani polacchi che durante la seconda guerra mondiale combatterono contro i tedeschi furono crudelmente sacrificati da Stalin”, scrive Schmitt, le cose si sapevano prima che la strage di Katyn fosse resa pubblica.
Delle guerre napoleoniche Schmitt curiosamente sottovaluta il sentimento partigiano, cioè ribellistico, che esse suscitarono con la leva in massa. L’odiosissima tassa sulla vita, introdotta al coperto della rivoluzione e della libertà. Essa suscitò fra le tante la resistenza dei “massisti” in Calabria, che poi si ripeterà col primo brigantaggio subito dopo l’unità, che anch’essa si presentò con la coscrizione. È questa resistenza, e non la libertà, il tema di uno dei primi canti della tradizione popolare italiana, nel 1808: “Partirò partirò, partir bisogna\ dove comanderà nostro sovrano;\ chi prenderà la strada di Bologna\ e chi anderà a Parigi e chi a Milano.\ Ahi, che partenza amara…”. Schmitt cita la resistenza di von Kleist, che per tre anni fino alla morte combatté l’invasore francese, ma con l’aria che sia il giovane poeta lo strano della situazione e non gli ammirati esegeti della Provvidenza napoleonica, Hegel, Goethe. Il “terzo interessato” inoltre non è dirimente: Schmitt trascura di rilevare che il sostegno inglese, se servì alla vittoria della Spagna contro Napoleone (e nel secondo dopoguerra in Grecia contro Stalin), non fu di alcun aiuto alla Resistenza polacca, durante e dopo la guerra (e di scarso, non decisivo, aiuto ai “massisti” in Calabria nel 1807-9). Ma questo suo resta il testo più innovativo. Molti altri si sono esercitati nei cinquant’anni dopo l’uscita della “Teoria”, specie con la “guerra umanitaria”. Enzensberger nel 1984 a margine del suo amato nichilista Boris Savinkov (“Vor- und Nachbericht” a Boris Savinkov, “Erinnerungen eines Terroristen”), che pone il problema della “resistenza alla resistenza”, alla rivoluzione cioè abortita, Glucksmann, Negri e Hardt più recentemente con “Moltitudine”, la resistenza-presa di possesso della globalizzazione, Michael Walzer, dal 1973, dalla sconfitta americana in Vietnam il trattatista più esteso in materia (che non cita Schmitt…). Ma “don Capisco” ne sa di più.
Chissà che avrebbe detto della “guerra umanitaria”, nella quale si esprime il nuovo ius publicum mondiale, e che discende dal cielo, imprendibile. E “intelligente”, certo. Lui aveva già individuato il “cosmopartigiano”. La tecnica potrebbe togliere l’aria e la terra al partigiano, la cosa è possibile, ma che succederà, si chiedeva, “se il tipo umano che ha dato vita fin qui al partigiano riuscisse ad adattarsi all’ambiente tecnico-idustriale, a servirsi dei nuovi mezzi e a sviluppare un nuovo tipo di partigiano, che si è adeguato alla nuova realtà, il «partigiano industriale»”? In definitiva, il partigiano di una sola cosa ha veramente bisogno, di legittimazione: deve “restare nella sfera del politico e non sprofondare in quella del criminale”. O come diceva il “Che”, ricorda Schmitt divertito: “Il partigiano è il gesuita della guerra”.
Carl Schmitt, Teoria del partigiano, Adelphi, pp. 179, €13