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sabato 2 aprile 2016

Letture - 252

letterautore

Canetti – Perché non sarebbe italiano?, Herta Müller racconta che, nella Romania di Ceausescu, con un gruppo di amici uno alla volta andava a Bucarest, al Goethe Institut, a fare rifornimento di libri proibiti. A lei toccò di cercare tra i tanti un Canetti. Che “in biblioteca non c’era, e neppure nell’armadietto dei veleni”, le assicurò la bibliotecaria – un ripostiglio coi libri erotici o troppo di sinistra. La scrittrice ricorda l’aneddoto perché al colloquio con la bibliotecaria era presente l’addetto culturale tedesco. Che, quando Herta Müller disse se non si poteva ordinare il libro, rispose: “Non credo sia possibile, la biblioteca non può certo ordinare un libro italiano”.

Dante  - Fu anche astrofisico, einsteiniano? prima di Einstein, certo. La sua cosmologia era piana, naturalmente, tolemaica -  derivata da san Tommaso e cioè da Aristotele. E tuttavia si può fare un “Dante e le stelle” - come fanno Attilio Ferrari e Donato Pirovano, astrofisico e storico della letteratura - legato alla fisica einsteiniana. Per via dell’Empireo, la decima delle sfere celesti che girano attorno alla terra, quindi ha questo difetto, ma a differenza delle altre sfere che girano attorno alla terra, è del tutto spirituale, e al di fuori del tempo e dello spazio. Dove Dio si manifesta come sorgente di luce, ardente d’amore: un “punto” – “Un punto vidi che raggiava lume acuto”.  Quella di Dante è dunque propriamente non una sfera ma una “ipersfera”, al cui centro una fonte di luce e di calore genera e alimenta l’universo. Nella cosmologia einsteiniana una ipersfera, con un centro avulso, esterno, che nello stesso tempo è il suo centro e motore. Nell’universo generato da questo “punto”, in espansione vertiginosa a partire dal Big Bang, originando così spazio e tempo, e il mondo sensibile.
Senza colpa probabilmente di Dante, ma la grandezza è grande in tutto..

Ferrante – Si allarga la pista napoletano-pisana di Santagata, che individua la scrittrice in Marcella Marmo, professore di Storia contemporanea a Napoli. “Rovesciando” la scrittrice stessa: restringendola a Pisa, con appendice napoletana. Per cui “Elena Ferrante” potrebbe essere Walter Siti, lo stesso Santagata, e magari Romano Luperini, tutti i normalisti che scrivono romanzi. Ma a “Elena Ferante” tutto questo fa piacere? L’anonimato è mantenuto per modestia o per sfida? È vero che è un potente e gratuito motore pubblicitario.

Primo Levi – Ritradotto, e pubblicato integrale, negli Usa – l’unico autore italiano del Novecento, è scrittore pignolo, nient’affatto ingenuo o della domenica. Accurato, “riscrittore”, pieno di letteratura. Uno scambio polemico fra traduttori (Tim Parks contro questa riedizione-ritraduzione in America di tutte le opere di Levi in tre volumi) sulla “New York Review of Books”, porta alla luce molti elementi della sua scrittura. Michael F. Moore, che ha ritradotto “I sommersi e i salvati”, concorda con Patrks, che quella di Levi è una scrittura che oscilla tra il diretto e il colloquiale col letterario, e con lo scientifico: “il rapporto nel quale ci attrae è un complesso e mobilissimo animale”. Ma aggiunge molte notazioni, partendo dalla constatazione che Levi era uno scrittore “fastidious” , che muoveva “un densissimo universo intertestuale”. A partire dal richiamo implicito  alla “Ballata del vecchio marinaio” di Coleridge, là dove spiega in “Se questo è un uomo” la decisione o il bisogno di scrivere, di raccontare la sua storia, col ritmo ossessivo, ripetitivo. Ne “I sommersi e i salvati” Moore ha trovato una “piena di cadenze”. Con “interi passaggi che, sotto il semplice italiano standard, quietamente evocavano i grandi poeti italiani del passato”. Di difficoltà duplicata per il traduttore, perché Levi resta “uno scrittore molto parco” – e “niente è più difficile da tradurre della concisione”. Sempre vigile, scontento:  in “Se questo è un uomo” Moore ha contato “quasi venti varianti per pagina, comparando la vecchia edizione con la nuova”.  

Postumi – Alcuni ce li siamo risparmiati. Il più celebre è forse Gogol’, che prima di morire bruciò personalmente la seconda parte, che non riusciva a completare, delle “Anime morte”. Altri invece gli eredi di autori famosi non ce li risparmiano. Il caso più famoso è “Petrolio”, il romanzone di Pasolini. Ma c’è anche un Parise, “L’odore del sangue”. Senza molto beneficio per il lettore. E anche per lo scrittore – specie per Pasolini, che si fa grande torto – giusto per gli eredi titolari dei diritti. .
Si pubblica tutto degli autori che hanno un pubblico, anche le briciole. Senza poi che autori ne siano accresciuti, semmai ridimensionati. Gogol’ si salva perché ha dato l’estro a Nabokov di farne una lunga satira, in forma di saggio critico. Che dà spessore a Nabokov, come romanzo dell’inedito: del perché “Anime morte” non fu “completato”, non ebbe un seguito. Ma anche a Gogol’, a specchio di Nabokov.

L’inedito postumo è una sorta di “sogno d’artista”, o di incubo: il capolavoro incompiuto è l’incubo-segno di ogni autore, che ce l’aveva sulla punta della lingua ma per qualche motivo non lo ha scritto.

Spose-spie – Tradito dalla moglie, Uwe Johnson non scrisse più e si lasciò morire, di alcol. Aveva appena pubblicato in successione e con successo i primi tre volumi del suo opus magnum, ora ritradotto come “I giorni e gli anni”. Ma quello che subì non era un tradimento qualsiasi, come lo racconta Alessandra Iadicicco su “La lettura”: “La moglie Elisabeth lo tradiva, fu lei stessa a confessarlo nel 1975: lo spiava, per conto di un amante cecoslovacco”. Johnson era un fuoriuscito dalla Germania Est, alla cui nascita aveva partecipato entusiasta.  
Non fu il solo caso. Molte belle donne furono amanti o spose di artisti e scrittori che avevano l’incarico di spiare. La più nota è Elsa Triolet (Elsa Kagan), che fece coppia a Parigi con Aragon, grande intellettuale comunista, omosessuale. Un’altra fu la baronessa Budberg, segretaria di Gorki’j a Sorrento, di cui controllava gli archivi. Poi sposa a Londra, con lo stesso incarico, di H.G.Wells. Fu probabile sposa-spia 
la moglie di Artur London, il leader comunista cecoslovacco coinvolto nel 1952 nei processi a Praga – poi riabilitato. E si sospetta pure la moglie del filosofo Lukáks – che pure le faceva l’amore ogni giorno, metodico, dopo pranzo. La sposa spia (anche la fidanzata spia è quasi un trademark sovietico.

letterautore@antiit.eu 

La verità, si prega, sull’Eni

I partiti che Mattei “prendeva” (pagava) come il taxi, la morte di Mattei naturalmente, il colpo di Stato di Cefis, il tangentone Enimont, e fino a Paolo Scaroni, o l’Eni di Berlusconi, e perfino quello di Renzi, con le sue finte manageresse. Il repertorio c’è tutto – non è vero che questa è “La prima inchiesta sull’Eni” come vuole il sottotitolo. Ma manca sempre l’essenziale, cioè la verità del fatto Eni, che resta il più robusto e capace gruppo economico italiano. E una sorta di corazzata nei mari internazionali, che si porta dietro una vasta flottiglia nazionale, in Libia come in Iran, in Algeria, in Nigeria e in mezza Africa, e a suo tempo in Russia.
È vero, come dice la presentazione, che “il suo amministratore delegato vale più del ministro degli Esteri, sul suo tavolo passano affari miliardari, alleanze internazionali, interessi geopolitici, questioni di sicurezza fondamentali”. Ma non si dice: meno male, altrimenti dovremmo stare con Gentiloni, dopo la Mogherini, e magari con la Pinotti. Peggio, si continua la vecchia frottola delle aziende pubbliche focolaio di corruzione e incapacità, mentre sono un campione di sana gestione, pur coi loro evidenti limiti di sottogoverno, a fronte delle frottole del mercato – del mercato come si pratica in Italia: in banca, negli appalti, nella sanità, nell’ambiente, nell’invadente terzo settore. L’Eni, per dirne una, ha beneficiato di molto minore capitale pubblico che la Fiat di Gianni Agnelli e Romiti, e l’ha ripagato, coi dividendi oltre che con la creazione di reddito.
La morte di Mattei, se anche fosse un giallo (ma non lo è), non diminuisce e anzi accresce il ruolo e l’esperienza dell’Eni. Per anni la sola fonte d’informazione, oltre che l’unica società italiana operativa, nel vastissimo Terzo mondo. Dove le conoscenze, oltre che gli affari, erano gestite da Londra, Parigi e Washington, in chiave esclusiva, in ottica di sfruttamento, e di controllo politico. Informazione e controllo lasciati per di più ai servizi segreti, gente di mano. Mentre un’azienda italiana nel vasto mondo si trovava del tutto sprovveduta – chi operava all’estero sa che ancora negli anni 1970 i diplomatici italiani erano gentiluomini di poco senno. Cefis si faceva mandare i mattinali dei servizi segreti, ma perché non c’erano altre fonti di informazioni non pregiudicate da interessi stranieri. E quando creò con Marcello Colitti un servizio di studi sui paesi di interesse (per la Russia si avvaleva dei maggiori studiosi britannici, a partire da D.H.Carr), furono le sue relazioni e tenere informato il ministero degli Esteri per un decennio.
La lettura è quella demonica di Pasolini in “Petrolio”, storione di nessuna verità – feroce, anzitutto dello scrittore con se stesso, e incontinente. Mentre una vicenda che Greco e Oddo si sono risparmiati sarebbe stata invece ben più succulenta che non le escandescenze di Pasolini. Una storia recente, del signor Bruno  Mentasti, coetaneo e amico di Berlusconi, mandato a Mosca a trafficare gas col colosso Gazprom invece dell’Eni. Gazprom, per dire, ha consulenti del calibro di Schröder, ex cancelliere tedesco, ed è esente in Germania dalle sanzioni contro la Russia, addirittura vi ha raddoppiato le esportazioni di gas russo vigendo le sanzioni. Un “affare” voluto dalle donne più che dagli uomini, dalla signora Mentasti e dalla moglie di Berlusconi – che poi la stessa signora Mentasti, svanito l’affare del secolo, aizzò contro il marito, inducendola a confidarsi con “Repubblica” e a mettere Berlusconi nelle mani della giudice Boccassini col bunga bunga, come magnaccia, roba che nemmeno le “contesse” di Mussolini.
Prevale la lettura milanese, prima che pasoliniana, delle aziende pubbliche: che tutto quello su cui non si possono mettere le mani è da distruggere. Manca anche in questa voluminosa trattazione la lunga cattivissima guerra d Cuccia all’Eni, fino ad accollargli la Montedison stracotta, e solo lui sapeva quanto.  
Si prenda il vero nodo dell’Eni: che la politica l’ha fatta, e la fa, piuttosto che subirla. Greco e Oddo non mancano di denunciarlo, ma alla sommatoria è un fatto positivo. Più che positivo, per le fortune del gruppo, un dei pochi italiani di grandi dimensioni, con una forte capitalizzazione, patrimoniale e di mercato. Gli stessi autori lo riconoscono indirettamente quando denunciano le tentate manomissioni di Berlusconi con la presidenza Scaroni (quella di Mentasti…), recependo una nota critica di Giulio Sapelli, allora consigliere del gruppo pubblico: che gli Usa cominciarono a “considerare l’Italia come un paese non più affidabile” quando il governo orientò l’Eni al di là del ruolo “tradizionale” di mediazione coi paesi borderline, come la Russia e la Libia. Tradizionale nel senso che risaliva al 1955, agli accordi per il petrolio russo, e poi al 1957, alla rottura del monopolio delle “sette sorelle” con gli accordi in Iran. Nonché col Gheddafi terrorista, nel ruolo di pacificazione, almeno per quanto concerne l’Italia dopo la strage di Fiumicino, come già col terrorismo palestinese, e poi con quello khomeinista. Il fatto è questo: una forte supplenza dell’Eni non negativa e anzi positiva negli affari internazionali. Mentre è certamente un gruppo legato alla politica, come tutti i gruppi italiani, ma meno degli altri, e soprattutto non dipendente – se non per marginalia.
Per il resto anche qualche luogo comune sulla politica. Di un Eni infeudato a Fanfani, che invece ne fu rispettoso. Mentre fu Moro che lo volle lottizzato, con la presidenza Sette nel 1975, di una persona cioè di tratto signorile ma del tutto inadatto. O della P 2. Un vicenda nella quale l’Eni invece si segnala per essere assente – Gelli gestiva un dossier Eni-Libia, ma per tentare di ricattare l’Eni, cosa che evidentemente non gli riuscì. In “virtù” della politica fallì semmai quella che avrebbe potuto essere un’esperienza diversa e produttiva del grande business dell’antinquinamento, che avrebbe dato all’Italia una leadership economica e tecnologica nel settore, attraverso la Tecneco. Un progetto che la trattazione trascura, avversato dai potentati grandi e piccoli della politica, famelici, che vollero per sé, “privatizzato”, per la corruzione diffusa e improduttiva, fuori da ogni coordinamento o controllo di un’agenzia tecnica, quello che si annunciava come il più grande business pubblico, a carico dello Stato.
Andrea Greco-Giuseppe Oddo, Lo Stato parallelo, Chiarelettere, pp. 352 € 17,50

venerdì 1 aprile 2016

Germania-Italia 1-1, quasi

In un anno l’Italia riduce il gap nella bilancia commerciale con la Germania di dieci miliardi. Aveva chiuso il 2014 con un disavanzo di 20 miliardi, chiude il 2015 con un disavanzo dimezzato, 10 miliardi. Grazie un aumento delle esportazioni di ben il 20 per cento, a 49 miliardi. Il sesto maggior fornitore della Germania, avendo sorpassato l’Austria. Germania e Italia si confermano anche il primo e il secondo paese manifatturiero d’Europa.
L’export italiano in Germania ha beneficiato soprattutto del settore auto, per il marchio Jeep entrato in produzione a Melfi, in Basilicata. Ma i grandi volumi e valori dell’export italiano in Germania vengono sempre dalla Lombardia e dal Veneto, aree tradizionalmente integrate con l’industria oltralpe. Nei settori tradizionali: le tre A del made in Italy, alimentare, abbigliamento, arredamento, la meccanica, la bioplastica, per la quale l’Italia non ha concorrenti.. E nei settori nuovi della meccanica fine e delle biotecnologie, che hanno portato anche l’Emilia-Romagna a ridosso del Lombardo-Veneto per l’export in Germania.
La Lombardia da sola movimenta tra export e import 38 miliardi, un terzo dell’interscambio. Più dell’interscambio della Germania col Giappone. L’interscambio si fa soprattutto con Svevia e Baviera, le regioni più industriali della Germania. A disegnare un rettangolo, tra le regioni meridionali della Germania e il Nord-Est che è una  sorta di area economica integrata transnazionale, la più fertile e forse la più ricca d’Europa.
Come investimenti diretti l’Italia si può invece dire che batte la Germania – se investire all’estero è un successo: su 155 investimenti diretti in Germania nel 2015 di una certa ampiezza, monitorati dalla Camera di Commercio Italo-Germanica di Milano, 44 sono italiani. Mentre quelli tedeschi in Italia sono stati 15, su 92 investimenti tedeschi all’estero monitorati.

La Sicilia si diverte

Praticamente non visto, benché prodotto dalla Rai, se non ora su Rai Movie, è un omaggio a Camilleri e insieme alla Sicilia, all’unità d’Italia, all’Italia umbertina, insieme stolida  e caratterizzante, forse indelebilmente. Nonché un capolavoro di montaggio, e di recitazione, da parte di molti grandi nomi, Frassica, Bucci, Herlitzka etc. e tanti ottimi caratteristi, un mestiere che in Sicilia non si è perduto, nei numerosi cameo che infiorettano la vicenda. Per una volta fuori dal birignao centro-italiano - ora doppiato dalla lagna ambrosiana.
La storia è semplice. Il ragioniere Patò va a rappresentare Giuda al “Mortorio” del Venerdì Santo a Vigata, e quando s’impicca sparisce: precipita nella botola e non si vede più. Il bravo maresciallo  dei Carabinieri e il bravo delegato di Polizia, dapprima in concorrenza poi unendo gli sforzi, sillabandola,  ricostruiscono la verità: il ragioniere si è appropriato di un corposo deposito alla banca di cui è impiegato, ed è scappato con la consorte del direttore della stessa, lasciando una moglie che vive con le bambole. Ma questo non può essere nell’Italia conformista, ne scapitano la banca e le famiglie. Il maresciallo e il delegato sono incaricati di trovare un cadavere mezzo decomposto in un luogo riposto, la moglie abbandonata lo riconosce per suo marito, e il caso si chiude per quello che deve essere: un rapimento a scopo di riscatto, a opera dei soliti banditi mafiosi, andato a male.
Una vicenda da poco: un intreccio grasso, come piacciono a Camilleri, o piuttosto da “romanzo di costumi” tardo ottocentesco, alla Notari, alla Prévost. Trasfigurata nella rappresentazione, figurativa e linguistica. Il film è un omaggio familiare a Camilleri: Mortelliti ne è il genero, e nel ruolo della moglie-bambola-vedova c’è Alessandra Mortelliti, sua figlia, nipote di Camilleri. Ma le immagini sono l’una dietro l’altra di invenzione realistica sorprendente, mai scontate. E le parlate, sia quelle dialettali sia quelle italiane: un capolavoro di linguaggi etnici – la moglie non  guarda nemmeno il cadavere esumato – e verbali. Con pochi precedenti, Olmi, o meglio ancora il Coppola del “Padrino”, con le parlate localizzate per città e luoghi di origine – qui il messinese, il palermitano, il catanese, l’agrigentino. Un divertimento, ma anche un ricca testimonianza.    
Rocco Mortelliti, La scomparsa di Patò

giovedì 31 marzo 2016

Ombre - 309

Si censiscono le limitazioni che vari paesi europei si sono imposti per non provocare i maschi islamici: piscine separate, gonne al ginocchio, vagoni separati, ascensori separati, etc. Sono tutte ovviamente misure limitative per le donne. Che però sono in prima linea in Europa alla difesa della diversità delle culture. È femmina la voglia di sacrificio?

Il deprecato velo s’impone, non solo nella moda? Si consigliano o si impongono un po’ ovunque oltralpe limitazioni all’abbigliamento e alle frequentazioni femminili, come misura di prevenzione contro le violenze dei maschi islamici. E fare osservare le leggi no? È il problema del porgere l’altra guancia, si è vittime anche quando si è padroni.

Senza contare la creazione del disordine: autodiscriminandosi, sia pure a fini di prevenzione, l’autorità discredita se stessa. Specie in ambito islamico - e più arabo, poiché è da una psicologia più propriamente araba che si cerca di difendersi - dove conta solo il comando, ogni esperienza storica e sociologica lo conferma, la democrazia è termine e concetto ignoto.

 “I successi militari accelereranno l’accordo politico. Queste vittorie avranno un impatto su chi ostacola un accordo, perché Arabia Saudita, Turchia, Francia e Gran Bretagna scommettono sulla nostra sconfitta per i loro progetti”. Lo dice Assad ma è vero: combattiamo per la libertà della Siria con l’Arabia Saudita e Erdogan.

Non passa giorno che Renzi non debba difendersi dall’invito perentorio a mandare i soldati in Libia. Anche oggi, dopo la tragicommedia dell’entrata del primo ministro libico a Tripoli, attraverso la Tunisia  e quasi di nascosto. Ma il giorno dopo la partenza viene data lo stesso per certa.

I soldati italiani in Libia senza difese e senza scopo ce li vogliono Francia e Inghilterra – questo è notorio – per liquidare la residua influenza tricolore. I giornali italiani se ne fanno portavoce gratis?   

“Un vile attentato”. Parole di circostanze del papa a Pasqua per la bomba al parco giochi in Pakistan contro le famiglie di cristiani. Ha perso il coraggio? Vuole salvare il dialogo? Con chi vuole solo distruggerlo? Senza fermezza non c’è salvezza - dovrebbe imparare dal Cristo, appena risorto.

Nel 2015 sono stati uccisi nel mondo 7.100 cristiani, per il solo motivo religioso. Tutti impunemente. In paesi in cui i cristiani non vanno oltre l’1-2 per cento della popolazione. Quasi tutti a opera di islamici. Con una forte progressione: il 63 per cento in più di aggressioni nel 2015 rispetto al 2014. Ma è solo una parte di un tutto molto più vasto:
Di cui non si parla per un motivo?

“Partita a scacchi tra diritto e affari”, “Con l’Egitto scambi per 5 miliardi”, “Dall’energia alle costruzioni, rapporti stretti con al Sisi”: sono le argomentazioni della prudenza che bisognerebbe  usare con l’Egitto, che ha torturato e assassinato Regeni. Un’assurdità:  i rapporti internazionali si reggono con la forza, quantomeno con la severità, non con la condiscendenza. Soprattutto con i dittatori, che solo riconoscono la forza.

Con l’Egitto come in Libia, le ipotesi più invereconde vengono avanzate, discusse, proposte da giornalisti, commentatori e talk-show. Ma non è una fatto d’incultura (storica, diplomatica, perfino linguistica),è ormai un fatto di carattere, dopo settant’anni di vita democristiana: l’Italia ha solo la dimensione provinciale.

I bravi imprenditori Della Valle, padroni della Fiorentina, hanno assunto un nuovo allenatore senza avvisare quello in carica (Montella), e quando questo ha chiesto di essere svincolato per valutare altre squadre lo hanno costretto ad aspettare. Ad aspettare che tutte le squadre avessero già trovato un allenatore. Gli stessi che danno in tv e sui giornali lezioni di morale: morale è distruggere i propri collaboratori.

Fa senso vedere i terroristi belgi che pontificavano dalle tv libere o sul web, con foto e slogan e striscioni. E denunciati non venivano perseguiti. Perché appartenevano “di diritto” al Belgio, a noi: erano come noi. Salvo sparare a mitraglia per le strade di Parigi, mettere le bombe nelle metropolitane, e farsi saltare negli aeroporti: a quando le scuole e le chiese?

Gilles Kepel, islamista liberamente scorretto, dice a Francesca Basso, al “Corriere della sera”: “Isis prospera nei cosiddetti Stati falliti”. Ineccepibile, è un fatto. E aggiunge: “E il Belgio è uno di questi”. Elio Di Rupo, l’ex premier socialista belga, difende il suo paese, anche lui giustamente: “Il Begio non è fallito, qui c’è la libertà totale, per questo è fantastico”. Libertà di uccidere impunemente?

Ma, poi, lo stesso Di Rupo ha un ripensamento:”La Ue a 28 non sa prendere decisioni coraggiose”. È fallita dunque l’Europa.

Si deve a Di Rupo la sola, finora, ammissione della realtà: che i terroristi di Parigi e Bruxelles  sono europei. “Le terze generazioni vivono una situazione di disagio”, aggiunge, e sembra indicarne l’isolamento. Ma questi giovani sono isolati come tutti i loro coetanei, che vivono di playstation e chat. Inarticolati, si direbbe.

Myanmar, ex Birmania, è approdata alla democrazia. Aun Suu Ky, la Nobel per la pace che è tutti noi, ineleggibile, ha fatto eleggere alla presidenza suo figlio. E il primo provvedimento del governo democratico  è stato l’apertura della Borsa. Per una sola matricola. Il mercato è salvo.

La classe delle donne

“Quando ero ragazza mio fratello pretendeva che non parlassi con nessuno, era geloso. Mi faceva picchiare da mia madre se parlavo con un giovane, ed io che stavo senza mangiare pur di andare a ballare tanto che mi piaceva… Ma poi piangevo sempre, e Rosetta dell’osteria mi ha detto: «Io se ti vuoi sposare c’è uno che le piaci». Allora mi ha fatta incontrare con lui, uno che non osava parlare. Rosetta mi ha chiesto: «Allora, ti piace?» «Mah», le ho risposto. In otto giorni ci siamo presi e sposati. Io ho pensato: per stare lì a farmi picchiare da mia madre e mio fratello tanto vale che mi sposi”.
Si risfoglia questo voluminoso documento di storia orale con sorpresa: alla ricerca del mondo contadino in via di sparizione – ma spariva? le Langhe attorno a Alba, la campagna di cui parla, sono uno dei distretti agricoli più prospero - dopo gli anni del boom, com’era nei propositi, e nel modello sociologico allora standard dello sfruttamento di classe, Nuto Revelli ha finito per ancorare la sua ricerca a reperti solidamente femministi. Un formidabile repertorio di donne è questo “Anello forte”. Più che una storia del mondo contadino morente. Il risultato di sei anni di lavoro, a partire dal 1978, appena ieri, alla raccolta di 260 testimonianze, di cui sessanta di donne dal Sud (trentacinque dalla Calabria, diciotto dalla Campania, quattro dalla Basilicata, tre dalla Puglia).
Dopo ave fatto parlare i soldati, gli alpini di cui era stato capitano in guerra in Russia, Nuto Revelli si è impegnato a lasciare testimonianza di un mondo che vedeva scomparire, la campagna. Ma ci ha trovate le donne. Il sottotitolo “La donna: storie di vita contadina” è editoriale e successivo. Ma è quello che Revelli in realtà ha fatto: la voluminosa ricerca è una dura testimonianza di una condizione di vita delle donne incredibilmente arretrata, appena una generazione o due fa. In Piemonte.
I contadini, a Alba come altrove, sono in realtà di ogni genere: generosi e avari, capaci e incapaci, anche ricchi e ricchissimi che vivono da miserabili, o in lite quasi assassina per l’eredità.  Benché infiammato dal classismo, il buon ricercatore che è in Nuto Revelli lo riconosce. Ma non riconosce l’unico classismo che incontra, del maschio – spesso con l’ausilio della propria madre, la suocera – contro la femmina.
L’altra sorpresa viene dal Sud, dalle donne del Sud. Parte di un fenomeno più vasto: Alba aveva 31 mila abitanti nel 1978, di cui 6 mila erano immigrati dal Sud - le industrie nascenti assorbivano molti più maschi adulti di quanti ne forniva la campagna attorno. Ma loro, le sessanta meridonali intervistate da Nuto Revelli, sono anche particolari: sono spose procurate al Sud da mezzani per contadini che nessuno in Piemonte voleva più sposare. E sono, a rileggerle, le più articolate e combattive, le meno indifese o dimesse, delle spose intervistate. Nella ricerche precedenti, “Il mondo dei vinti”, sulla guerra, e sulla “pace dei poveri”, l’interlocutore di Nuto Revelli era sempre l’uomo, anche se gli incontri venivano fatti in coppia: “Era l’uomo che occupava il posto di comando… La donna interferiva raramente”. Qui le donne del Sud parlano liberamente.
Nuto Revelli L’anello forte

mercoledì 30 marzo 2016

Studi e consulenze, il Renzi business a Firenze

Ciò che è sopra va sotto e ciò che è sotto va sopra. Un procedura biblica, alchemica, filosofale, arcana. Ma non tanto: è il business delle consulenze, dei belli-e-buoni della città e della Repubblica, molto aggiornati e molto affamati, architetti, ingegneri, urbanisti, sociologi, archeologi, ambientalisti, professori vari. È tutta qui la chiave del “rovesciamento” storico che Renzi, approdato per poche ore a Firenze per la Pasqua in famiglia, ha imposto al suo successore a palazzo Vecchio, l’incolpevole Nardella – successore incolore.
Della cosa non si è parlato, è prassi fiorentina non fare. Ma nella fattispecie va segnalata, perché è – sarebbe – da codice penale. È arrivato Renzi a Firenze per Pasqua e le decisioni, gli studi, le consulenze, i lavori di venti anni ha rivoltato, avviando un nuovo ciclo – ventennale? – di studi e consulenze. Tema: non si sotterra più la ferrovia, si sotterra invece il tram. Per quarant’anni quindi Firenze non sarà sgomberata dalla ferrovia, e non avrà il tram in centro. Che sembra insensato e lo è. Ma con un fine ben preciso: riavviare la pletora di studi preparatori, e consulenze sugli studi, pro e contro. A carico del Comune, della Provìncia, della Regione e dello Stato. A nessun effetto pratico. Oppure sì: importante è legarsi con gli studi e le consulenze il Terzo Settore Avanzato, la piccola-grande corruzione con connesso voto di scambio delle civiltà non mafiose.
Era il momento in cui l’interramento della ferrovia e la penetrazione del tram in centro si dovevano realizzare. Per liberare la città dal traffico, che letteralmente la occupa in ogni cm. quadrato e la asfissia. E adibire le rotaie di superficie ai collegamenti regionali, per i pendolari, Firenze essendo ormai da decenni un complesso metropolitano – la popolazione urbana, dimezzata, è confluita nei comuni circostanti, fino al Mugello, ma lavora a Firenze. All’ex sindaco di Firenze Renzi appassionato della sua città, però, questo non importa un fico secco, come lui stesso direbbe: l’importante è che gli amici e i loro amici possano giovarsi di un nuovo ciclo di studi e consulenze.

I tentacoli dell'antisemitismo

“Il concetto stesso di popolo eletto è incompatibile con la nozione di vero Dio. Attiene all’idolatria sociale, la peggiore idolatria”. Sembra un attacco ultimativo, ma come è possibile includere Simone Weil nell’antisemitismo? Anche perché che l’“idolatria” del “popolo eletto” imputa al cristianesimo, e in particolare alla Chiesa – “Israele e Roma hanno apposto il loro marchio sul cristianesimo”. Radicale, ma non antisemita. Il suo fondamentalismo è mistico e culturale: per la bruciante propensione personale per il Cristo – l’Incarnazione, la Passione – e per la vastissima conoscenza da fine filologa della classicità.  
Queste “radici ebraiche” - il loro rifiuto – sono ben costruite. E meglio presentate. “Nell’autunno del 1940 Simone Weil scrive una lettera al ministro dell’Istruzione della Francia di Vichy, Jérôme Carcopino, in polemica con lo «Statut des Juifs», di cui mette in luce incoerenze e assurdità, e afferma con forza la propria estraneità alla tradizione ebraica”. Non basta, lavora anche, nel 1942, all’evizione degli ebrei dalla Francia quando sarà liberata - in una, si lascia supporre, con la Soluzione Finale che Hitler adottava nello stesso torno di tempo, con l’Olocausto (“soluzione” segreta ma di cui si lascia supporre che la Resistenza francese fosse al corrente): “Uno dei suoi scritti più controversi, steso durante gli ultimi mesi di vita, a Londra, mentre lavorava per France Libre (la Resistenza gollista, n.d.r.): sono pagine di commento a un testo prodotto da una delle organizzazioni della Resistenza attive nella Francia occupata dai tedeschi. In esse Simone Weil approva le proposte xenofobe e antisemite di questa organizzazione della destra politica, suggerendo di procedere certo in modo non brutale, ma con l’adozione di misure discriminatorie (per esempio impedendo agli ebrei di insegnare nelle scuole), l’imposizione di un’educazione cristiana….”.
Le due lettere non sono riprodotte , ma non importa: sono false. Esistono ma non dicono quello che si dice. Questa è la lettura di un paio di pubblicisti che si sono fatti un piccolo nome attaccando Simone Weil –pratica poco deontologica di molta pubblicistica: prosperare attaccandosi a un personaggio. Di uno dei quali, Paul Giniewski, viene riprodotto anche uno scritto, a chiusura dell’antologia. Prima di un contributo di Bataille, più ambiguo del solito, che si segnala per la cattiveria dietro l’ammirazione.
Si rilegga Bataille, ambiguo come al solito ma divertente, e si dà ragione a Simone Weil.
 “Pochissime persone hanno suscitato il mio interesse allo stesso grado. La sua innegabile bruttezza faceva spavento….”. E così via: “Riusciva seducente per un’autorevolezza dolcissima… Nera sempre, nei vestiti, i capelli come ali di corvo…”. Con frecciatine disseminate a far leggere la sua propria cerebrale trattazione dello “sradicamento”: “Il pensiero di Simone Weil non è saldo”, “il pensiero (è) intricato di Simone Weil”, e se una coerenza s’intravede, “sfuggiva all’autrice”, il pensiero delle radici “è bizzarro”, “non è chiaro”, “il vigore dell’espressione, se ne vela la fragilità, non può farlo che per un istante”, di “zelo fuori misura”, una “oltranza autoritaria”, che “può giudicarsi odiosa, ovvero immorale (rasentando l’immoralità dell’hitlerismo)”. Nientedimeno. Anche se solo, certo, “per effetto della passione” - per dire Simone Weil una poveretta, un po’ scema.
Illiberale
L’ideatore e curatore dell’antologia, Roberto Peverelli, accenna a scusare Weil per le pessime condizioni di salute e gli anni della guerra. Ma sullo sfondo di quelli che dice “tratti soffocanti e illiberali della nuova Europa sognata nell’«Enracinement»” - “La prima radice”. I “Quaderni” di appunti di Simone Weil rileggendo come ora si leggono i “Quaderni neri” di Heidegger, alla ricerca dello scandalo, anche se lei precisa che sono “riflessioni appuntate in fretta, senza ordine e senza seguito”. Non una compilazione inutile, però – inutilmente polemica.
Vista come l’antologia la presenta, la sintesi storica di Simone Weil è opinabile, in dieci righe veloci del “Quaderno X”: “Gli ebrei, questo manipolo di sradicati, hanno causato lo sradicamento di tutto il globo terrestre”. Attraverso il cristianesimo, che la Chiesa ha sradicato dalle sue origini. Attraverso l’illuminismo, che “ha accresciuto ancora infinitamente lo sradicamento attraverso la menzogna del progresso”. Con la conquista coloniale. Col capitalismo e il totalitarismo. E con gli antisemiti, che “naturalmente propagano l’influenza giudaica”. Ma i fatti ci sono tutti, questa sintesi della storia non è sbagliata. E gli ebrei sono tali in quanto biblici: testimoni, araldi, della Bibbia.
Il problema di Simone Weil è la Bibbia. Non da antisemita ma da studiosa delle religioni. La lettura della Bibbia era per lei “atroce”. Per i delitti e le infamie che celebra: “Tutto è macchiato e atroce, quasi secondo un disegno, a cominciare da Abramo”, che esordisce prostituendo sua moglie. Ma è una lettura fortemente “ricostituente” della Bibbia, benché rapsodica. Non da marcionista, di chi la rifiuta. È anche una lettura comune, la Bibbia è poco digeribile. Ed è consueta tra i classicisti. È per esempio quella di Ernst Bloch, che il monoteismo dice “enoteismo” - “non ancora in favore di un monopolio che dica il nostro dio è unico, ma in gradazione ascendente: il nostro dio è il più forte in mezzo agli altri, che, malgrado la loro esistenza, restano impotenti” – prima “che il Dio della Bibbia si differenzi dai «falsi dei»”.
Passione per il Cristo
La sua ragione e la sua analisi costante è che il Dio ebraico è del Potere e non della Passione. Altra lettura non eccezionale, né antigiudaica. Il paradigma è semplice. Può essere errato, ma per chi crede non è offensivo: “Perché la Passione fosse possibile”, la Redenzione, “era necessario che l’idea dell’Incarnazione riuscisse estranea a Israele. Così come a Roma”. Le due autorità della Passione-Redenzione, gli “esecutori volenterosi” del disegno divino: “Non esiste vita spirituale senza l’Incarnazione”, e romani ed ebrei “furono forse gli unici due popoli a ignorarla”. Molto forte, ma molto condiviso tra gli studiosi. Delude Simone Weil? Ma allora con tutti gli ascendenti. Farne un’ebreaccia antisemita è un esercizio non piccolo di antisemitismo.
La compilazione in se stessa, tematica, dei “testi anti-giudaici”, pone automaticamente Simone Weil nel campo antisemita, seppure dell’odio-di-sé, e più in anni di persecuzione degli ebrei. Ma “L’amore di Dio e l’infelicità”, letto tra le “Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu”, dalle quali è estratto, non ha nulla di antigiudaico. Lo stesso il brano successivo, “Israele e i gentili”: vi si condanna Mosè, ma anche la Chiesa, “modellata sulla santità di Israele”. A opera di san Paolo, che era un ebreo convertito, ma pure di sant’Agostino – “Cristo ha insegnato esattamente l’opposto di sant’Agostino”. La lettura di Mosè, ricorrente, non ha nulla di blasfemo ed è anzi storicamente inoppugnabile.  La lettura di Noè è rispettosa e anzi santificata. Anche “I tre figli di Noè e la storia della civiltà mediterranea” - certo non è “uno dei saggi essenziali per comprendere i motivi dell’antigiudaismo della Weil”, come vuole Peverelli, né ci si vedono “caratteri e limiti di fondo del suo lavoro teorico”. La lettura atterrita della Bibbia al “Quaderno X” chi non l’ha fatta? Gli “Appunti sulle relazioni originarie fra cristianesimo e religioni non giudaiche” non mostrano alcun pregiudizio. Non è sbagliato, e anzi filologicamente solo corretto, contestualizzare Israele nel Mediterraneo, con l’antico Egitto e con Platone – anche con Erodoto: è la lettura forse più vivificante, oltre che corretta, nel quadro della storia delle religioni. Chiudere la raccolta con Giniewski, e con Bataille dà il senso della compilazione. Volere che tutti (gli altri) siamo antisemitì è come con le antimafie, che tutti (gli altri) fanno mafiosi - comprese le antimafie.
Che dirne? Che questo “antigiudaismo” di Simone Weil aiuta a non rifiutare la Bibbia – un neo marcionismo – ma a leggervi dentro. Simone  Weil ha un’immedesimazione totale, una fusione, col Cristo, più se possibile di ogni altro mistico conosciuto. Ma questo non è antigiudaismo, e non è una colpa. 
Simone Weil, Il fardello dell’identità. Le radici ebraiche, Medusa, pp. 128 € 16




martedì 29 marzo 2016

Il mondo com'è (255)

astolfo

Anschluss – Nel 1933 Vienna proibiva il partito nazista in Austria. Anzi, per proteggersi dalla minaccia tedesca, il cancelliere Dollfuss abolì di fatto anche il Parlamento, trasformando il suo governo in un semitotalitarismo, stile fascista. L’anno dopo fece dichiarare il suo partito l’unico legale, e strinse un patto con l’Italia e l’Ungheria, i Protocolli di Rioma, a difesa dell’indipendenza dell’Austria. Al ritorno fu assassinato in un tentativo di colpo di Stato dei nazisti austriaci. Mussolini  mobilitò al Brennero a difesa dell’indipendenza dell’Austria. Ma il successore di Dollfuss, Schuschnigg, mantenne una politica di autonomia. Fino al marzo 1936: dopo che Hitler ebbe compiuto senza reazioni internazionali la rimilitarizzazione della Renania, Schuschnnig si preoccupò di venire a patti. A luglio l’accordo era sancito: Austria indipendente, ma senza processo agli attentatori di Dollfuss e con un governo di coalizione coi nazisti. A luglio l’accordo era fatto.
A marzo 1938 Hitler entrava a Vienna acclamato. Senza reazioni importanti, anche se i trattati di pace del 1919-1920, sia con la Germania che con l’Austria, esplicitamente proibivano l’annessione dell’Austria alla Germania.

Germania – Il nazionalismo vi è indomabile. Tenuto in soggezione in quanto aveva confluito nel nazismo, il suo demone ha fatto presto liberarsi di nuovo dopo la riunificazione. Ha radici complesse e resistenti, solide, molto più del fondamentalismo hitleriano.
Non si fa abbastanza caso della “rivoluzione conservatrice” che animò il primo dopoguerra tedesco, di Jünger e Thomas Mann fra i nomi più celebri, con Carl Schmitt e Heidegger, che non si possono rubricare perché compromessi con Hitler. Mntre si tace della immensa pubblicistica contro i “trattati periferici parigini”, i trattati di pace di Versailles e viciniori, recepiti come “iniqui” da tutti gli studiosi tedeschi di diritto internazionale e di filosofia del diritto. La materia del revanscismo è enorme: gli sfollati dalle regioni orientali annesse alla Russia e la Polonia: Prussia, Slesia, Galizia; i bombardamenti, al fosforo, a tappeto, sterminatori: la resa incondizionata; lo stesso tribunale di Norimberga. E si accresce con tempo - una montagna vulcanica..

Ha come inno nazionale un inno austriaco. L’inno nazionale che la Germania Federale ha adottato, il “Deutschland über alles”, o “Das Lied der Deutschen”, il canto dei tedeschi (alla terza strofa, che canta “Unità, giustizia e libertà”), è stato scritto dal poeta August Heinrich von Fallersleben nel 1846. Ma l’inno è famoso per la musica di Joseph Haydn, composta molto tempo prima naturalmente, quasi cinquant’anni, nel 1797, e accompagna un “Kayserhymne”, un inno all’imperatore d’Austria Francesco II.

Il razzismo è indubbiamente scienza tedesca, per quantità se non per qualità. Ma molto”Mein Kampf” Hitler tirò fuori da “The passing of the Great Race”. Non di una corsa, automobilistica o podistica, ma della “razza grande”, nordica., dell’eugenista americano e famoso Madison Grant, che fece le leggi per l’immigrazione negli Usa, a danno dei latini, gli slavi e gli asiatici neri, contro la misgenation, e altre per la morte misercordiosa degli incapienti.

Erik Wolf, “Richtiges Recht im nationasozialistiche Staate”, 1933, sistemò definitivamente le razze tedesche: la nordica, la falica, la dinarica e l’alpina. Alle proteste del Sud della Germania aggiungendo successivamente un quinto elemento, mediato dalle pratiche eugenetiche, di miglioramento della razza. Wolf passerà dopo la guerra per resistente, della Chiesa Confessante evangelica.

Germanicità -  I tedeschi Graziadio Isaia Pascoli, “Archivio glottologico italiano”, 1873, così magnificava: “S’invidia ai tedeschi, non già un interesse privilegiato, non già una dottrina che in ogni parte soddisfaccia, ma quel felicissimo complesso di condizioni, mercé il quale nessuna forza rimane inoperosa e nessuna è sprecata, perché tutti lavorano, e ognuno profitta del lavoro di tutti, e nessuno perde il tempo a rifar male ciò che è già fatto e fatto bene. S’invidia la densità meravigliosa del sapere, per la quale è assicurato, a ogni funzione intellettuale e civile, un numeroso stuolo di abilissimi operai”. Certo, gli mancava una “dottrina che in ogni parte soddisfaccia”.
Anche gli ebrei professi, nota Klemperer in “LTI”, parlavano il linguaggio che sarà di Hitler. È con la sconfitta del 1918, e la parallela insorgenza del sionismo (fino ad allora austriaco, anzi viennese) in Germania, che “i Tedeschi e gli Ebrei Tedeschi cominciarono ad allontanarsi gli uni dagli altri”. Un allontanamento di cui Klemperer fa lungamente la colpa a Herzl, fino a imputargli un linguaggio che Hitler avrebbe copiato, sia pure mediato dalla sua Austria, dalla koiné austriaca – con un che di astioso per uno studioso del linguaggio: come se il fondatore del sionismo lo avesse amputato della patria tedesca.
“La lingua è più del sangue”, è assioma del filosofo Franz Rosenzweig. Più che ogni altra difficoltà dell’esilio, Hannah Arendt lamenterà ripetutamente l’amputazione della lingua, della madrelingua tedesca – oltre che ipotizzare, per liberare la Germania dalla Colpa, la seconda guerra mondiale come “una forma di guerra civile che abbraccia la terra intera” (in un saggio che intitola “Sulla rivoluzione”).

È ammirato anche Primo Levi, “Lo scoiattolo”, elzeviro della “Stampa”: “È incredibile la diligenza con cui i filologi tedeschi del secolo scorso hanno scavato nelle radici dell’italiano, dei suoi dialetti, e le sue parlate anche più riposte”.
Nella normalità dell’abominio – violini, cori, teatro, aiuole e davanzali fioriti – mancava anzi questa di Primo Levi (“Lo scoiattolo”, in “L’altrui mestiere” – ora in “Ranocchi sulla luna e altri animali”): la gabbia degli scoiattoli. “Ho incontrato pochi scoiattoli nella mia vita”, premette Levi, “qualcuno nei boschi”, come tutti, o “nei parchi di Ginevra e Zurigo”. Quelli che ricorda sono altri: “Altri ne ho visti in prigionia, ma non apparivano meno vivaci né meno allegri dei loro colleghi della foresta. Erano una dozzina, rinchiusi dentro una grande gabbia”. Nella grande gabbia una più piccola, la “«gabbia di scoiattolo», cioè cilindrica, appiattita e ad asse orizzontale, senza sbarre da un lato e liberamente girevole attorno all’asse medesimo”. Insomma, curatissima. Fatta apposta per i giochi degli “animaletti”, che Levi ricorda “visibilmente compiaciuti”.

Kissinger – Molto deve a Carl Schmitt, che non nomina. La teoria dell’equilibrio – da studioso del Congresso di Vienna. Il sistema delle sovranità nazionali, o della pace di Westfalia che lo incoronò, per un paio di secoli governò l’Europa. E da ultimo – dal 1975 - e tuttora il multipolarismo. Che è la teoria dei Grossraum, dei grandi spazi, di Schmitt - “Grossraum gegen Universalismus” è un suo titolo, e di gandi spazi è piena la sua opera. Sempre scettico, per omissione, della guerra giusta che sembra infiammare gli americani, e comunque ne è lo strumento, l’asse della  pax americana.

Multipolarismo – È la teoria dei “grandi spazi” di Carl Schmitt, dei Grossraum. Che così sintetizza nel “Nomos della terra”: “Un pluralismo di grandi spazi, in sé ordinati e coesistenti , di sfere di intervento e di aree di civiltà potrebbe determinare il nuovo diritto internazionale della terra”. Materia di buon numero di saggi del 1939-1940, quando la Germania aveva vinto la guerra. Ma derivata dalla Dottrina Monroe, lo stesso Schmitt suggerirà dopo la guerra – con una punta di perfidia verso l’inviso occupante americano – nello stesso “Nomos della terra”, p. 311.
Si direbbe la dottrina dei vincitori, delle potenze.

Occidente – È americano. L’“emisfero occidentale” di Jefferson era declinato in opposizione all’Europa delle monarchie e degli assolutismi. Perpetuatasi, si può dire, ancora di quasi due secoli, fino al 1989, quindi Jefferson aveva ragione di cautelarsi. Occidentale si voleva la nascente America nei confronti dell’Europa, alla centralità europea allora dominante, nella cultura, gli affari, le politiche dominanti nel mondo.

astolfo@antiit.eu

La massa delle idiozie

Il libro di una vita – 38 anni per scriverlo – che è involontariamente una celebrazione del potere, inattaccabile, immutabile. Per di più in seicento lunghe pagine – Canetti è prolisso, ma qui va oltre. Partendo da tutte le nozioni di massa: i cristalli di massa, i simboli di massa, la massa aperta, la massa chiusa, le masse doppie, la massa aizzata, la massa in fuga, la massa festiva, la massa invisibile (i morti)… Ma non per ridere, è un trattato.
E i simboli? Fuoco, mare, fiume, pioggia, vento, sabbia, foresta, grano, mucchi, tesori.  Una piccola massa è la muta – di uomini, non dei lupi. E le mute che fanno? Si organizzano in religione. All’inizio, insomma, è la massa – Canetti ha fiducia nella massa.
Finché non vengono le masse nazioni, e allora la storia si complica.  Ma Canetti la risolve con la famosa inflazione in Germania, che non poté per questo non diventare nazista. Di analogo spessore i simboli nazionali: mare per Inghilterra e Olanda, montagna per la Svizzera, torero per la Spagna, la rivoluzione per la Francia, l’esodo per gli ebrei, foresta-esercito per la Germania – per l’Italia nisba, niente simboli, ci ha provato con Roma ma non ci riesce.  
I secondi sei capitoli, sulle articolazioni del potere, sono meno capricciosi. Ma sono una celebrazione e non una critica. Una grossa fatica, per tradurlo e imporlo, e un errore, di Furio Jesi.
Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi, pp. 615 € 15

lunedì 28 marzo 2016

Secondi pensieri - 256

zeulig

Castità – È sotto giudizio – quando non è semplicemente trascurata – perché indurrebbe alla pedofilia. Benché abbia una forte tradizione, e anche un fondamento. La deposizione del seme ha – figurativamente, potenzialmente – in germe la creazione. Un di più di energia vitale rispetto alle componenti fisice: chimiche, meccaniche, caloriche. La  castità sarebbe – era dai tempi di Platone, e anche da prima – un di più rispetto alla stessa creatività: il seme, liberato nel corpo invece che espulso e trapiantato, vi inietta un surplus di energia. La castità ancora Simone Weil definisce nei “Quaderni” (al “Quaderno X”) “captazione di energia superiore”. 

Cosmopolitismo - È in crisi, da Kelsen a Kant, e a Spinoza. È in crisi storicamente, ma si direbbe per la dottrina della crisi – quando non si sa che altri pesci pigliare, o per voglia di decomposizione.
Più specificamente in crisi in Europa, ma non solo. Controverso e contestato anche come semplice ideale, dai particolarismi trionfanti, etnici, religiosi, anche nazionali, per quel poco che resta delle nazioni – della sovranità nazionale. Sotto la generica forma onnicomprensiva delle “radici”.
È uno sviluppo che Carl Schmitt aveva paradossalmente previsto – paradossalmente, cioè da antipatizzante. Criticando Kelsen negli anni 1920, concordava sul crollo imminente, già in larga parte avvenuto, del jus publicum europaeum come diritto degli Stati, delle sovranità nazionali. Ma mentre Kelsen se ne augurava il crollo, in favore di un’utopica Cosmopoli universale, Schmitt vi vedeva semplicemente l’obliterazione della “messa in forma della guerra”. Nella duplice funzione che aveva esplicato dal Seicento a tutto l’Ottocento: di superamento dei conflitti confessionali e civili, e di delimitazione della conflittualità esterna. A favore di una guerra senza limiti e senza reali obiettivi – il giusto e l’ingiusto sono variabili.

Creazione – È nello stato delle cose, nell’infinità dello spazio e del tempo. È costante, non inerziale (panteista). È ciò che la mistica e Einstein vivono ed esprimono, la discesa di Dio – l’infinito esiste, giacché si concepisce.
Si dice che l’uomo non è una freccia e non può procedere in verticale, solo in piano. Ma è grave, non greve. E può procedere in soluzione di continuità, sempre – attardato ma non impedito dalla memoria, la tradizione, lo stesso innatismo. Mentre Dio è comunque uno che può, e forse deve, discendere.

Diavolo – È scomparso da poco. L’ultima strega condannata a morte in Europa sarebbe Anna Göldi, giustiziata nel 1782 in Svizzera. Quindi quasi due secoli e mezzo fa. Ma altre condanne si registrano, e molti fanno risalire l’ultima al 1895, a Tipperary, in persona di Bridget Cleary. Dopo aver prosperato per secoli che non si possono dire retrogradi, da fine Quattrocento in poi – e più, nella trattatistica e nella pratica, nel Seicento secolo scientifico. A lungo, fino al primo Novecento, è stato di casa nelle campagne, nelle fiabe dei fratelli Grimm. E di fatto oltralpe.

Ernst Bloch, “Die Angst des Ingenieurs”, ne collega la scomparsa alla tecnica – all’elettricità: “Il diavolo era ancora un pezzo dell’antica Iside, cioè della natura demoniaca; al contrario il niente, dietro la meccanica, o il mondo che nessuna mediazione collega all’umano, non è altro che la casa dei morti, in cui l’uomo è interrato vivente”. 

Incarnazione – È il mistero dei misteri, forse più della Resurrezione. Ma non esiste vita soprannaturale senza una Incarnazione – la Resurrezione è invece bene (o prassi) comune, quasi quotidiana.

Infelicità – È il Male. Era, ora è tema disatteso in quanto tale: la felicità è pompier, l’infelicità è quasi un minimo denominatore comune, un abito ordinario, dell’uomo evoluto, lasciato a se stesso – si connetteva al dolore fisico e alla morte, con la depressione e gli stati catatonici passa perfino inosservata, uno stato “normale”. È tuttavia uno sradicamento dalla vita, uno stare all’orza e all’onda, nel risentimento – si può veleggiare e surfare felici. Cioè nel senso di una felicità quasi dovuta.
Se ne fa una ragione l’uomo evoluto cioè laico, evoluzionista, seppure non se la spiega. Mentre la combatte il credente, contro ogni ragionevolezza o evidenza, e sempre con qualche risultato, persino nella miseria fisica, nell’abbandono, nell’inedia. Felicità e infelicità sono un fatto di fede?   

Matrimonio L’idea ne è semplice – lo era con Lucrezio, prima del sacramento e dell’istituzionalizzazione: due vogliono diventare uno, nell’unione carnale. Che si può dire anche affettiva, ma di natura semplice, tale da potersi sciogliere senza danno, se si sta al presupposto.  

Natura – È madre, matrigna? È multigender, e indifferente, molto poco materna. Indecisa, incerta, confusionaria, senza neanche indole magistrale, senza indole.

Nazione-Stato – Si svuota per la sovranazionalità, il fondamento della pax americana che viviamo. Unitamente ai particolarismi insorgenti, etnici, economici, territoriali. Sull’indebolimento del cristianesimo, che era il suo fondamento: “La perdita di prestigio del cristianesimo”, argomentava Georges Bataille (“La vittoria militare e la bancarotta della morale che maledice”, in “Critique”, settembre 1949), “ha lasciato lo Stato pericolosamente solo”.
Bataille va più in là: ipotizza che Stato e Chiesa si tengano l’uno con l’altra. Fu il cristianesimo a operare lo “sdoppiamento”, scrive. Ma a fini unitari: “Quell’unità di comunicazione che è il bene, divenne da una parte la Chiesa e Dio e dall’altra lo Stato e la Nazione, entità tutte quante improntate in primo luogo al perseguimento dell’interesse (del bene comune)”. Divise, cioè, ma improntate al bene comune. Tesi suggestiva ma ardua. Lo Stato, più che la Chiesa, vaga oggi alla ricerca di un fondamento, una ragione di essere. Ha perduto la difesa, aveva trovato un sostituto nel benessere sociale. La crisi fiscale gli ha sottratto anche questa funzione, gli resta la giustizia – che però non è bella, e non è nemmeno buona.

Nudità – Si lega all’osceno, o quanto meno all’erotico. Mentre stava per la verità, nella Bibbia e in altri testi antichi. Nudi erano Adamo e Eva prima del peccato. Si denuda Noè, l’uomo puro - anche per la liturgia cristiana, dove l’arca è assimilata alla croce – che aveva salvato il genere umano dalla distruzione. Fisso alla nudità, oltre che alla povertà, del Cristo sulla croce è san Francesco d’Assisi, e anche san Giovanni della Croce. Molte mistiche contemplano (rivivono) la nudità del Cristo.

Umano – È l’uso della natura, il rimaneggiamento. Nella magia come nella tecnologia. Non c’era la fissione atomica, nemmeno la radio e l’elettricità, prima dell’uomo, nonché i manufatti in pietra, e tutti quelli in legno e fango che non hanno resistito al tempo. L’umano è anzitutto tecnologico? 

zeulig@antiit.eu 

Il romanzo delle parole

Anche il padre della premio Nobel fu volontario Waffen-SS a 17 anni, come Grass, che aveva preceduto Herta Müller a Stoccolma. E lo rimase tutta la vita, quando ai matrimoni si poteva sbronzare gratis: aveva un repertorio sterminato di canzoni nazi. Herta Müller comincrà a scrivere al ritorno dal suo funerale. Per poterlo raccontare, per raccontare il padre: “Un paio di giorni dopo cominciai a scrivere, anche se non ne avevo avuto l’intenzione e la letteratura non rientrava per nulla nei miei progetti”. E da allora sempre: “E siccome lo scrivere si era introdotto in questa maniera, io fin dall’inizio, e poi sempre di nuovo, ho scritto di mio padre”. Senza nostalgie. Anche se la scrittrice lo sa: “Le ferite, bisogna confessarselo, sono e rimangono legami, impetuosi e spietati”.
I temi sono i soliti delle sue narrative. Le ignominie del comunismo di cui non si parla. Il poeta rumeno tedesco – del Banato come Müller - Oskar Pastior. La madre buona tedesca: rinchiusa un giorno alla caserma di polizia, finisce per farne la pulizia. E il ricordo costante di sé bambina che pascola le mucche: “Anche qui”, dice a Stocolma, “come tante altre volte, io sto accanto a me stessa”. Che la decisione fece poi ferma di andarsene in città, e il distacco definitivo: “Il villaggio mi appariva sempre di più come una cassa in cui si nasce, ci si sposa, si muore. Tutta la gente nel villaggio viveva in un tempo vecchio, nasceva già vecchia. Prima o poi bisogna andarsene se si vuole diventare giovani, pensavo”.
In una prosa sempre tragica, di un’esperienza forse tragica, e quasi allucinata, anche in queste testi  (auto)celebrativi, in occasione dei tanti premi che hanno onorato la scrittrice, dal Nobel in giù, o di convegni di cui è relatrice. In dissidio col comunismo non solo, e con la Romania, la lingua rumena, ma anche con “i miei cosiddetti conterranei del Banato”, la “minoranza tedesca” che “nel 1960 e nel 1970, e fin negli ani successivi” continuava a cantarsi gli inni nazisti. E con la stessa Germania dell’accoglienza, fredda. Nonché con la letteratura.
Da qui la sua prosa impegnativa, molto “scritta”. Non anomala nella Germania del Novecento ma insistita, una cifra indelebile. Cercata a volte nel vocabolario, ma scolpita per sintagmi: una narrazione di parole. Qui il fazzoletto (una sorta di copertina di Linus), la neve (tradimento), il vitellino neonato (idem), il nonno che non muore per quindici anni, il camion (“un corpo tanto grande e un cuore tanto piccolo”), la fame negli occhi.
Qui, oltre che distanziarsene, recupera infine il rumeno, forse pacificata: in un saggio che magnifica Maria Tănase, giovane vecchia cantante di talento musicale naturale, finisce anzi per comparare il linguaggio rumeno favorevolmente contro il tedesco, funzionale e brusco questo, immaginativo e creativo quello. Con la citazione di molta poesia – che si legge piacevolmente nella traduzione abilissima di Margherita Carbonaro. Nell’ignominia del comunismo manca però, con Pastior, di cui ha fatto il romanzo, “L’altalena del respiro”, il dramma vero. Nel 1945 ottantamila giovani tedeschi rumeni del Banato furono deportati per ordine sovietico, in ritorsione per la guerra nazista, in Ucraina, nella zona carbonifera del Donbass, oggi semiannessa dalla Russia, per cinque anni, tra gli stenti e il gelo. Tra essi il diciassettenne Pastior e la ventenne futura madre della scrittrice. Con Pastior, perseguitato in Romania come poeta tedesco, per di più omosessuale, e ritrovato in Germania dopo l’emigrazione semiforzata, Herta Müller scrisse la storia romanzata di quella deportazione. Poi, nel 2010, dopo la morte del poeta, viene a sapere che era un IM anche lui come tanti altri scrittori, Inoffizieller Mitarbeiter, un “collaboratore informale” della polizia politica di Ceausescu, di fatto non tanto  informale, avendo un nome in codice, “Stein Otto”. Ma su questo non ha parole.
Herta Müller, La paura non può dormire, Feltrinelli, pp. 175 € 16

domenica 27 marzo 2016

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (280)

Giuseppe Leuzzi

Del “carici”, o raganella, si è persa perfino la memoria in una generazione o due. È – era - una ruotina dentata, di legno, che si fa girare a manovella, e urtare contro una lamella di legno robusto  sollevandola a ogni giro con uno scoppiettio a ripetizione, da jusatre per le feste e specie per le cerimonie pasquali legate alla Resurreziolne. Dario Fo ne attesta l’uso a Pasqua anche nei suoi borghi in Lombardia, in “Dario e Dio”,  dove ricorda, p. 123, l’“andare di casa in casa con le raganelle durante i giorni della Passione a scacciare il diavolo”.

“Si è perso il Milan. Il silenzio della società non è un bel segnale per il futuro di Mihajlovic”. È un
titolo di quando? Del 6 ottobre 2015. Milano sempre si assolve: la colpa è degli altri.

Giorgio Romanelli denuncia al “Corriere della sera” il disastro della Milano-Torino fino a Novara, in rifacimento da quindici anni, e interminata, tra deviazioni e restringimenti, benché breve e in pianura. Elogia al confronto la Salerno-Reggio Calabria, che ha lunghi tratti montagnosi, con decine  di lunghe gallerie, e 45 km di viadotti, uno dei quali, di 1.160 m., dice il più lungo d’Europa. Ma senza esito: non un articolo sulla Milano-Torino. Mentre piove sempre sulla Salerno-Reggio. In omaggio alla libertà d’opinione.

Il mito nordista del Nord
Il Nord nasce col razzismo. Spiega e fonda il razzismo. La lunga ricerca sul “mito del sangue”, sul razzismo, che Evola fa nel libro così intitolato, è anche una ricerca del mito del Nord. In tutte le sue componenti – che nell’Otto-Novecento tedesco sono state moltissime. La trattazione di Evola suona prolissa e ripetitiva tanto è lunga, di storici e antropologi: Herder, Fichte, Gobineau, Düring (e lo stesso critico di Düring, Karl Marx), Hans F.P. Günther, Hermann Wirth, F. Ludwig Clauss, psicoantropologo, Franz Bopp, Theodor Poesche, Karl Penka, Friedrich Lange, Ludwig Woltmann (“I Germani e il Rinascimento in Italia”, 1905, che si annette il Rinascimento, e tutti i personaggi storici da Dante a Garibaldi e Cavour, fa tedeschi di nome, è tuttora edito in tedesco), Gustav Friedrich Klemm, Alfred Weber, Heinrich Driesmans, Oskar Lange, Christian von Ehrenfels, Joseph Ludwig Reimer (“La Germania pangermanista”, tuttora in edizione), Merkenschlager, Boehm, Von Leers, l’olandese Herman Wirth, lo svizzero Bachofen - per quanto altrimenti benemerito.
Una produzione sterminata, instancabile, anche se con poca fantasia: dalla “vagina nationum” all’origine “polare” delle razze. Con, in alternativa, i fantomatici “ariani”, di cui i popoli nordici sono la sola espressione, benché quelli fossero meridionali, quasi dell’equatore, e un po’ neri. E con classificazioni interminabili in tipi e sottotipi al limite della demenza. Per concludere con la “religione nordica” di Rosenberg, Hauer, von Reventlow,  Bergmann. O quella laica di Water Darrè, “Contadinato quale Fonte di Vita della Razza Nordica”.
Fa lega con lo stimato Darrè l’antropologo Ludwig Wilser che introduce nella scienza tedesca, dice Evola, “il mito «nordista», che poi troverà ampi sviluppi”, nel 1899, direttamente, senza menarla sulle origini. Sulla base di “una antica tradizione lombardo-bizantina, secondo la quale la Scania – la Scandinavia – sarebbe stata una vagina gentium, un focolare di popoli” eletti – “tutti gli Arîi sarebbero scesi dalla Scandinavia”, non più dalle montagne indo-iraniche. Il capolavoro di Wilser,
“Origine e preistoria degli Arî”, 1899, ancora circola in Germania. Spiega che le culture pre-greche, l’assira, l’egizia, la cretese, devono tutte a vene di sangue nordico. Mentre la civiltà persiana, quella macedone e quella romana, ne sono il trionfo, su razze e culture aborigene deboli. Si legge come si vede “Il mio grasso, grosso matrimonio greco n. 2”, in cui per il nonno tutto è dovuto ad Alessandro Magno, e lui stesso. Ma non per ridere, come uno sfoggio di scienza.
Un lavoro di propaganda più che di studio e di scienza – di studio piegato alla propaganda. Non si tratta delle qualità, o di un modo di essere, di uno o più popoli del Nord. È un lavoro comparativo: la connotazione, costante, quasi uno slogan, è che il Nord è migliore del Sud. La Germania lo è, come popolo puro, originario, eletto. Da sola o in uno con i popoli del Nord, comunque “germanici”. Dalle Svalbard a Trondheim e alla Bretagna.
Era la Germania che si voleva affrancare dal Sacro Romano Impero, e quindi doveva crearsi un nemico nella latinità e abbatterlo. Ma con una pugna costante su tutto il fronte culturale -  ne fu espressione anche il Kulturkampf, la lotta bismarckiana contro la confessione cattolica nella stessa Germania. Dagli effetti “mitici”: convinti, dominanti, incontestabili.

Il Nord del Sud
A lungo fu Nord pure il Sud. Il mito del Nord trionfando quale proiezione dei desideri del Sud, la forza applicata all’industria, la perseveranza, il senso civico e della giustizia, cui la fortuna si piega. C’è un desiderio di modelli, forse di padroni - nessun dubbio anzi, ma non si può dire, la servitù volontaria vuol’essere incerta.
A un certo punto Giuseppe Sergi, siciliano di Messina e fine folklorista, scoprì che gli europei in blocco vengono dall’Abissinia. Giunti in Europa, presero due direzioni, il Nord baltico e il Sud mediterraneo. Quelli del Sud, dice Sergi, “per parecchio tempo dovemmo difenderci dai barbari ariani”. Sembrava una conciliazione e invece manteneva, seppure sottile, la distinzione.

Il Sud del Sud
Il mito del Sud -  mito deprecativo: del Sud retrogrado, selvaggio, inferiore, delinquente - è opera in Italia del Sud, prima e prevalentemente. Del folklorismo, e dell’antropologia, discipline più spesso, se non quasi solo, applicate al Sud. In senso forse innocente, con intenti presuntamente di ricerca, ma devastanti. Nel Sette-Ottocento e anche di recente.
La lista è lunga di studi e studiosi applicati alle origini e le tradizioni del Sud – molto più estesa di quella applicata alla Padania, per dire, o alle Italie alpine. È che resta insito, presunto e ovvio senza nemmeno professarlo, nelle scienze umane il metro valutativo, di un più e meno, di un meglio o peggio, e per l’etnologia e l’antropologia più che per le altre discipline. Che in Italia si prestano subito - e anzi lo fondano e lo rafforzano – al “divario” tra Nord e Sud, due categorie, si penserebbe per un vero studioso, piuttosto vacue.
Il Sud è terreno preferito di questi studi perché, si penserebbe, più ricco di tradizioni diverse. Ma non è così. La Padania, per dire, o le valli alpine devono avere, a naso, tradizioni ben più radicate e complesse. Ma solo il Sud è materia di studio – di oggettivazione. E l’effetto è devastante. Valga per tutti la produzione di Ernesto De Martino, antropologo napoletano stimato per i suoi studi sulla magia, ai quali aveva titolo come qualificato studioso delle religioni. Sulla magia in Italia, ottimo tema. Che però lui indaga al Sud. E nemmeno indaga: fissa e sanziona. Anche se sono pratiche inesistenti, echi di echi letterari vecchi di secoli. Si rileggono con sgomento i suoi capolavori, “Sud e Magia” e “La terra del rimorso”, che fissano e censurano pratiche inesistenti, forse nemmeno come semplici giochi di società, dalla jettatura, alle diavolerie. Napoli fissando sulle magherie, che è la città più “metropolitana” d’Italia, innovativa in tutti i sensi, inclusa la violenza urbana. O il Salento in una civiltà rurale primitiva, mentre è stata greca ed è avanti a tutti nella protezione paesaggistica e ambientale.G oethe era di diverso avviso: “Più si va verso Nord”, diceva, “più aumentano le fumisterie e le stregonerie” – compreso il malocchio, si sa.

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La scienza rianima i fantasmi

All’epoca della tecnica ritornano i fantasmi? La ragione e la luce artificiale li avevano scacciati, la scienza senza frontiere li ripropone. E c’è ancora di più bizzarro: il filosofo marxista li vede riproposti della coscienza del ricercatore, da un abito mentale.
Tre brevi testi d’epoca, in cui la produzione era “borghese”, la scienza era borghese – e le SA venivano di notte, per “il delirio antiebraico e antisovietico”. Col gusto narrativo che ancora tiene in vita l’utopista materialista. E in questa vena l’angoscia del ricercatore prende corpo, di fronte alla novità che egli stesso ha realizzato: il vecchio fantasma del golem che sfugge di mano, dell’apprendista stregone, etc. Antiche paure, di quando ancora c’era l’oscurità, al più rischiarata da una candela. E il mondo scacciava i diavoli di casa – il mondo transalpino, andrebbe aggiunto, che è quello che Bloch descrive: “Un contadino su tre aveva il suo coboldo in casa”. Epoca non remota, se era materia del “Visionario” di Schiller, del “Titano” di Jean Paul. Che ora – 1920-1930 – la tecnologia liberata risuscita: “Un Edison è da avvicinare più a un dottor Faust che a un Herbert Spencer”. La magia, allontanata dalla ragione, ritorna con la scienza?  
Ernst Bloch, L’angoisse de l’ingénieur, Allia, pp. 71 € 6,50