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sabato 10 dicembre 2011

La nuova battaglia d’Inghilterra

Senza Stukas né V-2, ma con altrettanta determinazione, è di nuovo in corso la battaglia d’Inghilterra. Condotta questa volta, altra novità, con la Francia al fronte – ma non è proprio una novità, si potrebbe dire Napoleone e Hitler uniti nella lotta.
Sapremo lunedì se la salva europea ha abbattuto la perfida Albione - se il pacchetto Merkel-Sarkozy rassicura i mercati. Ma è dubbio: di veramente nuovo c’è che questa volta la Germania è tutti noi. Anche se non del tutto – nemmeno questa è del tutto una novità: anche la Germania di Hitler fu tutti noi, non bisogna dimenticare, benché gli storici lo facciano, gli anni radiosi della vittoria, fino al 1942 incluso, a Alamein e poi a Stalingrado. Ma c’è, come dire, un visto da sinistra e un visto da destra, accentuato, anche qui. E rovesciato: la sinistra è per la Germania, la destra no. Il perché non si sa, roba da tifo. Ma quello che la Germania e la Gran Bretagna rappresentano e vogliono sì.
Martin Feldstein, l’economista di Harvard che fu il consigliere di Reagan, lo scriveva nel 1997, cioè quindici anni fa: “L’euro nasce per unire ma potrebbe dividere l’Europa”. I contrasti potenziali erano e restano forti. Grosso modo è lo scontro fra le posizioni di sempre: l’economia sociale di mercato, molto politica e dirigistica, della Germania, e il liberalismo, politico e di mercato, della Gran Bretagna. Con molteplici derive, in entrambi i fronti - Monti per esempio, che è tedesco a Londra e inglese a Berlino. Il liberismo ha provocato la crisi dei mutui fasulli, e lo sconquasso di questi quattro anni. Non una buona ricetta. La Germania vuole il controllo del Bundestag sui bilanci di tutte le economie europee. È un bene? No, nemmeno Draghi si sente di sostenerlo. Ma a queste condizioni accetta e salva l’euro, e quindi, da sinistra, le siamo riconoscenti.
La Germania vuole un mondo immobile, con il maestro di ginnastica a Berlino, con baffi e manubrio, molto posato Ottocento. Londra è invece per un modello elastico, che verrebbe molto utile – è indispensabile – nell’epoca della globalizzazione. Bisognerebbe non farsi male attaccando tropo forte – ci sono state guerre perdute vincendole.

Ecco l’Ue, a presidenza tedesca e senato a 26

Senza costituzione e senza una lingua comune, ma una Federazione Europea si può dire nei fatti, in un quadro ormai chiaro. Il potere esecutivo è tedesco, forte come nella costituzione americana, il presidente dell’Europa è il cancelliere. Gli Stati membri sono il potere cosiddetto legislativo, il Congresso. Un Congresso piccolo e produttivo, composto dai capi di Stato e di governo degli altri membri della federazione. Che si riuniscono una volta al mese, per un giorno o due. Un parlamentino, detto quindi Summit Periodico. I 26 capi di Stato e di governo si possono assimilare ai due senatori che la costituzione federale Usa garantisce a ogni Stato membro.
Come in tuta la sua storia, l’Unione Europea procede per fatti non dichiarati. Quando si forma un progetto e lo propone, esso viene regolarmente rifiutato, per solito dalla Francia – succedeva con De Gaulle, poi con Mitterrand e Chirac, ora con Sarkozy. L’Ue procede per strappi, o per fatti avvenuti. E così ora per il bilancio unico. Ma a questo punto anche con chiarezza: l’Ue è già una federazione di fatto, in cui il potere esecutivo è tedesco, e gli altri paesi hanno un potere parlamentare – è più esatto che dirlo legislativo: possono discutere i provvedimenti, e qualche volta adattarli, modificarli anche, in parte.
Si dice questa un’asimmetria, non potendola dire un sopruso. E dell’Unione Europea che è sempre stata germanocentrica. E s’intende l’asimmetria una strategia e quasi una colpa tedesca. Mentre l’Europa non poteva e non può che essere germanocentrica. Semmai con regole elaborate e accettate da tutti. È la Francia che ha sempre fatto da ponte e quasi da traino a questo germanocentrismo insindacabile – il famoso asse franco-tedesco. Con De Gaulle e con Mitterrand ben prima e con più autorevolezza che con Sarkozy.

Letture - 79

letterautore

Baudelaire – Proust ne parla molto, in tanti articoli della raccolta “Contro Sainte-Beuve” e nella “Ricerca”, in Swann” e in “Guermantes”: come di “spirito svelto, scarnito di luoghi comuni e sentimenti di circostanza”, dotato di”asciuttezza voluta”, insofferente del “sentimentalismo verbale di un’epoca precedente”. Tutto in positivo, è Baudelaire tutto il moderno: la ferita nella Storia in pieno Ottocento positivista, ottimista, progressista
Proust che con Baudelaire condivide l’attrazione-avversione per l’omosessualità: l’uno voleva intitolare “Les Lesbiennes” i “Fiori del male”, l’altro “Sodoma e Gomorra” tutta la “Ricerca”.

Singolare aridità (cecità) di W.Benjamin su Baudelaire, nel saggio e nelle annotazioni (“Parco centrale”, anch’esse ricomprese in “Angelus Novus”) e ne “La Capitale del XIX secolo”: un “tipo traumatofilo”. In rispondenza all’analogo abbozzo di Valéry, cui Benjamin si rifà. Baudelaire non è Victor Hugo – dovrebbe? Benché “superiore a Barbier” (che in effetti è esistito, un poeta Auguste Barbier). Un saggio che per metà è tematico: la folla (Engels, Hugo, Hoffmann, Poe, Gogol, Marx, Valéry e James Ensor), il gioco (Alain, Börne, Gourdon, esiste pure un Gourdon, Anatole France e Senefelder), le corréspondances, le memorie involontarie, il tempo naturalmente, l’impotenza, il mercato (l’arte “inseparabile dall’utilità”, del più fervido e precoce wagneriano…), la prostituzione (sic!). E per metà è su Bergson e Proust.
Baudelaire Benjamin lega a Nietzsche (è eroico “quasi quanto Nietzsche”) e a Blanqui. Con un imperativo: “Mostrare energicamente come l’idea dell’eterno ritorno penetra quasi nello stesso tempo nel mondo di Baudelaire, di Blanqui e di Nietzsche.”

Dante – Propagandista relisioso? Secondo Salvemini sì, c’è anche questo Dante: “Quale libro più della “Divina Commedia” si presterebbe a un’opera di propaganda religiosa?” si chiede in “Che cos’è la laicità” (ora in “La sinistra e la questione meridionale”). E: “Dante stesso non la concepì come opera di propaganda religiosa?”

Italiano – È una lingua morta”, Stendhal lo scriveva nel 1831. Aggiungendo che non capiva come ci si potesse esercitare a fare gli scrittori. E riferiva che Colletta, un generale, si era recato a Firenze per trovarvi una lingua in cui potesse scrivere – Stendhal conosceva anche Manzoni, ma come poeta di inni e tragedie.
Ora non più, ma la sterilizzazione è durata secoli. Per lo stesso fenomeno che sterilizza tuttora lo scrittore (l’intellettuale) sulle cose del paese. Il rifiuto della realtà, del mondo.

Poe – Jettatore? “Recentemente”, notava C. Alvaro su “La Stampa il 19 luglio 1926, è stata affibbiata a Poe “la qualifica di jettatore”. Con qualche sospetto anche su Hoffmann. “A furia di pensare cose terribili, divennero essi stessi terribili”, conclude Alvaro. Una metamorfosi (una logica) molto poviana.

Politicamente corretto – Viene dagli Usa per una ragione: l’egualitarismo. La forma estrema di uguaglianza, del linguaggio, fino all’insignificanza. Orwell non ha immaginato tanto nel suo Stato perfettamente ugualitario. Se c’è un paese ugualitario questo sono gli Usa, sono spietati.

Proust - Ha vissuto fino alla maturità, se non all’anzianità, autore di un epistolario in 28 volumi. Ed è stato dentro una guerra, combattuta per anni alle porte di Parigi. Non senza tracce. Che solo Ingeborg Bachmann rileva (“Il dicibile e l’indicibile”). Così come il fatto autobiografico, in tutti i romanzi della “Ricerca”. Bachmann ne fa Charlus, che forse è riduttivo. Ma in quanto homme traqué – tragico.
La maturità e la guerra in Proust, che soggetto.

Ha una nozione dell’amore che, approssimandolo all’onanismo, è come se lo condannasse a priori all’insoddisfazione. Proust vuole innovare l’amore, rispetto alle formule ripetitive del secolo romantico. E ne fa la cronologia: il colpo di fulmine, la cristallizzazione, l’indifferenza, l’abbandono. Ma in una prospettiva egotista: non sono lei o lui a determinare la qualità della passione, la sua forza, la sua durata, quanto invece la personale posizione o condizione del soggetto, il suo “piacere”. Che forse non è sbagliato ma non è nuovo, è Stendhal – sia la cronologia che l’egotismo. A opera di uno scrittore però che, a differenza di Stendhal, non è cool, e anzi fin troppo (romanticamente?) sensibile.
In un annotazione rivelatrice ripresa da Maurois in “Alla ricerca di Marcel Proust” Proust confina l’amore al “capriccio di un minuto”. Solo agli amori omosessuali riserva, come se fossero desessuati, il senso di ritrovamento che viene da lontano e il possibile appagamento (“l’essere che viene verso di loro arriva da molto più lontano che dal momento presente; era fidanzato con loro già dall’infanzia; apparteneva loro già prima di nascere…”). Degli amori omosessuali infelici e causa d’infelicità scrivendo poi le migliaia di pagine della “Ricerca” (originariamente da titolarsi “Sodoma e Gomorra”).
È così che alla fine tutti coloro che amano, in Proust, amano persone che non ne sono degne, Albertine per tutte. L’amore finisce infelice per definizione, come ogni passione, ogni forza che il dandy non domini, ed è inevitabilmente una sorta di suk dell’inganno, della delusione, fonte di angosce e pene. Finché il dandy non subentra con la sua arte dell’oblio, della memoria cioè selettiva più che involontaria, e la storia può ricominciare. Non un granché, rispetto alle mamme, e anche alle zie.

letterautore@antiit.eu

venerdì 9 dicembre 2011

La questione meridionale nacque con l’unità

Fondamentale, e “più nuovo” (sempre vero), il saggio sulla laicità, che non c’entra col titolo ma prende la parte centrale della compilazione: “Non dalla sola Chiesa cattolica noi dobbiamo affermare l’indipendenza dell’insegnante nella scuola pubblica, ma da tutte le chiese e da tutti i partiti politici”. Il resto non si può sintetizzare, è una pedagogia da leggere – “La scuola pubblica deve educare gli alunni alla massima possibile indipendenza da ogni preconcetto”, e “La laicità della scuola è l’educazione critica dei suoi insegnanti”.
“La questione meridionale” è un atto d’accusa perfino violento all’unificazione dell’Italia e al Nord. Curioso che il “Corriere della sera”, araldo del neo nordismo, se ne fregi. Stampando in copertina una non significativa citazione: “Mentre in Europa tutto è mutato, nell’Italia meridionale tutto è rimasto sempre allo stesso punto; e attraverso a mille tempeste la classe feudale è riuscita a tenersi a galla”. Salvemini si fa sempre valere come un fustigatore del Sud, dei latifondisti assenteisti e i galantuomini malavitosi – è troppo efficace per lasciarlo al Sud? Ma “La questione meridionale”, il saggio del 1898 che apre questa raccolta, è un feroce atto d’accusa alla “creazione del Sud” stesso. A opera di uno Stato pusillanime e corrotto, di una borghesia settentrionale avida, di una borghesia meridionale inerte o collusa – e non è una novità di fine Ottocento: le stesse cose diceva Pasquale Villari, alla cui scuola Salvemini si era formato a Firenze, nelle “Lettere meridionali” del 1862, all’indomani dell’unificazione. Una lettura che sconcerta per la sua attualità.
Gaetano Salvemini, La sinistra e la questione meridionale, Corriere della sera, pp. 147, € 1,50

Contro il matrimonio, e contro l’amore

Breve annotazione a margine del più corposo “Le paradoxe amoureux”, contemporaneo di questo pamphlet ma non tradotto. Che, dedicato a ben tre donne, confermava che il “filosofo, romanziere e polemista” Bruckner è contro il matrimonio non solo ma anche contro l’amore, recidivo. Contro ogni idea dell’amore - “All’amore una parola si addice, benché poco rispettabile: il mercato” (Bruckner è l’autore di “Luna di fiele”, che fu poi film di Polanski). Da moralista del Sei-Settecento, non ammodernato. Apparentemente con ottimi argomenti: si sposano in Europa oggi due terzi di quelli che si sposavano trent’anni fa, e la metà di quelli che si sposano divorzia. Questo però succede anche tra quelli che convivono e non si sposano. E tra quelli che fanno matrimoni combinati, nelle grandi comunità islamiche di Germania, Gran Bretagna e Francia. Che il problema non sia a monte, e a valle?
Siamo tutti americani, la felicità vogliamo dietro l’angolo, e l’angolo è l’ubiqua “crudeltà mentale”. Forse dovremo, come gli americani, ricomprare la moglie-marito ogni tre anni, come i mobili, uguali a prima. La felicità può creare molta infelicità. Ma se il mondo non morirà americano, è possibile, del matrimonio l’etica resta la fedeltà, l’immoralità è l’infedeltà. Che c’entra l’amore? Questo è solo l’argomento dei romanzi “francesi” o di costumi, già specializzati in adulteri e oggi in particolare negli adulteri di mariti con ragazze giovani. All’origine del matrimonio c’è la passione, ma la passione è per definizione incostante.
I sessantenni che si separano legalmente o divorziano ne sono la conferma statistica: è la fine dell’amore dell’amore, della coppia esclusiva, più spesso senza figli. Questi fallimenti sono ora il doppio rispetto a dieci anni fa, dice l’Istat, e nel 2009 hanno coinvolto tredicimila ultrasessantenni, ottomila uomini, cinquemila donne. Un divorziando su dieci ha quell’età. E il fenomeno non è solo italiano, anche Al Gore ha lasciato sua moglie, e la moglie di Schwarzenegger il marito: è la delusione dell’utopia più accattivante del Sessantotto, dell’amore per l’amore dei successivi anni Settanta.
Il polemista Bruckner ha naturalmente fiutato per tempo il fenomeno. Ma si potrebbe dire che ha perso l’occasione: lo tratta in riferimento alla tradizione, al vecchio matrimonio combinato o d’interessi. Tra l’altro, dice che il matrimonio d’amore ha portato “più” discordia all’interno della coppia rispetto al vecchio matrimonio, e come potrebbe? Finisce per questo per riproporre, seppure provocatoriamente come vuole questo genere di pubblicistica, il vecchio matrimonio delle intese familiari e patrimoniali. Ha tuttavia il merito di “porre il problema”.La coppia chiusa, anche riguardo ai figli, implica stress che possono essere insopportabili – così come non è la soluzione la coppia aperta, di chi pensa che si possa entrare e uscire in un rapporto familiare senza spese. Anche il tricamere sempre più piccolo, e il reddito costantemente incerto possono rendere intollerabile l’amore eterno, perché no? Ora, forse, se ne potrà parlare.
Uno che non ama l’amore in genere si tortura. Bruckner si vuole anche sociologo e maestro d’anime. E poi cos’è questa mania di fare libri, a un prezzo, di articoli di giornali? femminili.
Pascal Bruckner, Il matrimonio d’amore ha fallito?, Guanda, pp. 160 € 12

Il mercato di Cuccia, un falso

Cesare Geronzi fa dire a Cuccia, in un’intervista a Cazzullo sul “Corriere della sera”: “I bilanci di Berlusconi sono falsi”. Si trattava di portare Mediaset in Borsa e Cuccia riteneva che le antenne e l’audience non valessero niente. “Quanto vale un’antenna?”, gli fa dire Geronzi, “Un’antenna non è una ciminiera, non ha sotto un opificio”.



Geronzi fu un fedelissimo di Cuccia in vita – che lo colmava di affetto. E d’altra parte quello che dice è vero, Cuccia non capiva nulla di economia: l’avviamento, il prodotto, il mercato, la qualità, la fidelizzazione. Chi ha vissuto l’inverosimile vicenda Montedison, che Cuccia ha fatto durare trent’anni e nella quale ha fatto profondere all’Eni almeno ventimila miliardi di lire, lo sa: Montedison era un totem, un gigante economico nel senso di centro di potere, mai un’idea di valorizzazione, o di salvare il salvabile, sfiorò Cuccia. O l’Olivetti, una vicenda meno conosciuta ma più scandalosa. Nel 1962, quando Roberto Olivetti elaborò il concetto e i sistemi del futuro personal computer e dell’informatica, Cuccia irrise al progetto quasi fosse una follia. Quando l’Olivetti non era diventata che un guscio vuoto vi fece sprecare dentro migliaia di miliardi.



Cuccia non era, e non è, solo a Milano però. Il politburò del “Corriere della sera” titola: “Quando Cuccia mi disse: i bilanci di Berlusconi sono falsi” come se Cuccia fosse un partigiano antiberlusconiano della prima ora...

Il lavoro nero effetto della legalità

I due terzi buoni dell’evasione fiscale sono dovuti, scontata la retorica, al lavoro nero. Il restante terzo è dovuto all’inimmaginabile complicazione e confusione dei regolamenti fiscali. Che una sola ratio ammettono: essere fatti per facilitare il contenzioso - anche se gli innumeri e incomprensibili decreti fiscali non sono “grida” manzoniane, Equitalia arcigna è dietro l’angolo.
Il lavoro nero è in parte a vocazione criminale, la perpetuazione dei benefici del mercato nero postbellico in produzioni paralegali o illegali: la copia, il furto, il prodotto adulterato, il prodotto scaduto. Ma in buona misura è obbligato. Può accadere al Sud di dover operare al nero, anche contro il rischio di infortuni o incidenti sul lavoro: la collaboratrice domestica, il custode, il bracciante o si pagano in nero o se ne deve fare a meno. Vogliono essere pagati in nero piuttosto che con i contributi e quindi con l’assicurazione Inail. Potendo contare sulle indennità di disoccupazione o sulle forme restanti di pensioni d’invalidità. Ma più perché altrimenti non lavorerebbero.
Le regole di mercato uniche in tutto il paese rendono il lavoro troppo costoso nelle aree a reddito modesto. Molte attività, se si remunerassero secondo le regole, non verrebbero messe in atto. Il fisco nazionale (da nazione ricca, con le aliquote più alte del mondo), il mercato nazionale del lavoro, legale e contrattualistico, e il mercato nazionale delle retribuzioni, mettono fuori mercato il lavoro in un’economia che, pur facendo parte di un sistema nazionale, ha uno standard di vita diverso, a livelli di reddito più bassi, e notevolmente meno caro. Bisognerebbe adottare gli standard di vita - le comparazioni internazionali fra i diversi livelli di reddito - anche all’interno delle economie nazionali, e adattarvi il lavoro e il fisco. La stabilità, cioè, la retribuzione e gli oneri sociali per il lavoro, e i parametri fiscali. In assenza di questa flessibilità, a entrambi i capi del filo, tra utente e lavoratore autonomo, si crea un mercato del lavoro a livello più basso, cioè nero. Con un nugolo di transazioni quotidiane incontrollabili, non passando per la banca. Un mercato parallelo che coinvolge anche tutto il lavoro autonomo, di idraulici, elettricisti, pittori eccetera. A tariffe più basse, senza l’Iva, e senza gli oneri di fatturazioni, partite Iva, commercialisti.
Ci sono tante forme di lavoro. La legge lo dice unico, ma il mercato si regola diversamente: alcuni mercati dl lavoro possono esistere solo fuori della legge. Il fenomeno è macroscopico a Napoli, dove nessuno dei lavoratori autonomi vuole “essere messo a regola” – e dove il “lavoro che manca” è il posto pubblico, e i “disoccupati organizzati” sono delle cosche politiche. Un fenomeno che è ora alla seconda potenza: immigrati che lavorano in nero, commercianti o manovali, pagano in nero artigiani napoletani e personale domestico locale (soprattutto per la custodia e la prima alfabetizzazione dei bambini).
A Napoli è peraltro incomparabile l’organizzazione del mercato parallelo, di beni copiati o rubati, un modello che meriterebbe utili adattamenti nel mercato legale. Altrettanto dettagliato, se non di più, del mercato legale. Con filosofie manageriali estremamente flessibili: integrazione verticale, orizzontale, a stella, per contiguità, monopolismo. E una rete d’incroci, marciapiedi, ponti, spiagge, uffici, stazioni, sottopassaggi, per un esercito di ambulanti clandestini, senza identità o senza licenza, che sono tanto più difficili da occultare in quanto il magazzino si portano dietro in sacchi e borsoni. I margini sono più ristretti che nel mercato legale, e tutto vi è più arduo e gravoso. Ma un mercato senza deposito e senza rese è l’ideale di ogni commercio.

giovedì 8 dicembre 2011

Proust mistico, Ingeborg religiosa

O dell’avvenenza dell’intelligenza: queste lunghe conversazioni radiofoniche, su Musil, Wittgenstein, Simone Weil e Proust, scritte tra il 1952, a ventiseienni, e il 1958, che si penserebbero indigeste, sono fedeli, brillanti e convincenti. Anche a una rilettura, un ottimo invito, persuasivo, a chi non conoscesse quei grandi nomi. Ingeborg era molto più della bella Bambola – la ninfa egeria? – che faceva innamorare i letterati tedescofoni ai congressi.
Di Musil rileva “la felicità dell’infelicità che conferisce distanza dal proprio tempo”. Di Wittgenstein spiega in breve: “Il tacere negativo sarebbe agnosticismo – il tacere positivo è mistica”. Un filosofo che demanda alla filosofia “un compito paradossale: l’eliminazione della filosofia” . Per tentare, “come Spinoza”, di “liberare Dio dalla macchia dell’appellabilità”. Di Simone rintraccia subito la “via negativa, che allontana da Dio”, al fine “non di stare di fronte a Dio, nel dubbio o nella fede, come individuo, come persona, bensì di sperimentare la grazia in quanto esistenza nuda e cancellata”.
Scrivere nel 1954 di Simone Weil semisconosciuta per un largo pubblico è già un’impresa memorabile. Di più in quanto Ingeborg manifesta in proprio, tra S.Weil e Wittgenstein, un’insospettata sensibilità religiosa. Di Proust dà pochi tratti, ma incisivi, “positivista e mistico” – “questo positivista che non si concede sguardi al di là del dato concreto” più di tutti anela alla-alle resurrezione-i. La “Ricerca” è “opera dura, tragica e rivoluzionaria”. Dell’omosessualità a vario titolo deprecata. Della guerra, che “ha esercitato un effetto profondo e sorprendente sul romanzo di Proust e ne ha quasi mandato all’aria il progetto iniziale”. E della maturità, o della fine di un’epoca: “La maturità lo rende misantropo”.
Inbeborg Bachmann, Il dicibile e l’indicibile

Chi tocca i camorristi muore

La cattura del superricercato Zagaria è coordinata da Vittorio Pisani ma non si dice. Non si deve dire. Perché Pisani l’anno scorso, appena catturò l’altro superricercato Iovine, fu dimesso da capo della Mobile a Napoli e allontanato dalla città, su iniziativa della Procura di Lepore, dalla giudice Maria Vittoria Foschini. Che l’accusarono di avere troppi contatti coi camorristi. Infatti, come si sa, i capi della camorra si catturano con lo Spirito Santo.
“Se (Pisani) è estraneo, come dice, alle accuse, lo proverà davanti a un giudice terzo”, dice Lepore , dopo averlo allontanato, cioè condannato. Le prove contro Pisani sono le dichiarazioni di un camorrista “mezzo” pentito, uno dei Lo Russo. Lepore soave è corroborante: testimonia che nulla è impossibile nella vita, nessuna ambizione.
Un romanziere supporrebbe che i giudici hanno allontanato in fretta Pisani perché non catturasse anche il compare di Iovine, Zagaria. I due avevano organizzato e capitanavano la camorra di “Gomorra”. Della quale i Lo Russo un po’ sono affiliati e un po’ concorrenti. Ma Lepore su questo non ci lascia sperare molto, purtroppo? E la giudice Foschini appartiene alla nobiltà napoletana. Magari lo hanno fatto a questo scopo ma non lo sanno.
C’è da dire che non era la prima volta, un anno e mezzo fa, che i giudici avvertivano Pisani, era la terza. Ma Pisani imperterrito ha continuato ad arrestare i camorristi. Un po’ se l’è cercata - chi l'Chi tocca i camorristi muore
La cattura del superricercato Zagaria è coordinata da Vittorio Pisani ma non si dice. Non si deve dire. Perché Pisani l’anno scorso, appena catturò l’altro superricercato Iovine, fu dimesso da capo della Mobile a Napoli e allontanato dalla città, su iniziativa della Procura di Lepore, dalla giudice Maria Vittoria Foschini. Che l’accusarono di avere troppi contatti coi camorristi. Infatti, come si sa, i capi camorra si catturano con lo Spirito Santo.
“Se (Pisani) è estraneo, come dice, alle accuse, lo proverà davanti a un giudice terzo”, dice Lepore, dopo averlo allontanato, cioè condannato. Le prove contro Pisani sono le dichiarazioni di un camorrista “mezzo” pentito, uno dei Lo Russo. Lepore è corroborante: testimonia che nulla è impossibile nella vita, nessuna ambizione.
Un romanziere supporrebbe che i giudici hanno allontanato in fretta Pisani perché non catturasse anche il compare di Iovine, Zagaria. I due avevano organizzato e capitanavano la camorra di “Gomorra”. Della quale i Lo Russo un po’ sono affiliati e un po’ concorrenti. Ma Lepore su questo non ci lascia sperare molto, purtroppo? E la giudice Foschini appartiene alla nobiltà napoletana. Magari lo hanno fatto a questo scopo ma non lo sanno.
C’è da dire che non era la prima volta, un anno e mezzo fa, che i giudici avvertivano Pisani, era la terza. Ma Pisani imperterrito ha continuato ad arrestare i camorristi. Un po’ se l’è cercata. Che lChi tocca i camorristi muore
La cattura del superricercato Zagaria è coordinata da Vittorio Pisani ma non si dice. Non si deve dire. Perché Pisani l’anno scorso, appena catturò l’altro superricercato Iovine, fu dimesso da capo della Mobile a Napoli e allontanato dalla città, su iniziativa della Procura di Lepore, dalla giudice Maria Vittoria Foschini. Che l’accusarono di avere troppi contatti coi camorristi. Infatti, come si sa, i capi camorra si catturano con lo Spirito Santo.
“Se (Pisani) è estraneo, come dice, alle accuse, lo proverà davanti a un giudice terzo”, dice Lepore, dopo averlo allontanato, cioè condannato. Le prove contro Pisani sono le dichiarazioni di un camorrista “mezzo” pentito, uno dei Lo Russo. Lepore è corroborante: testimonia che nulla è impossibile nella vita, nessuna ambizione.
Un romanziere supporrebbe che i giudici hanno allontanato in fretta Pisani perché non catturasse anche il compare di Iovine, Zagaria. I due avevano organizzato e capitanavano la camorra di “Gomorra”. Della quale i Lo Russo un po’ sono affiliati e un po’ concorrenti. Ma Lepore su questo non ci lascia sperare molto, purtroppo? E la giudice Foschini appartiene alla nobiltà napoletana. Magari lo hanno fatto a questo scopo ma non lo sanno.
C’è da dire che non era la prima volta, un anno e mezzo fa, che i giudici avvertivano Pisani, era la terza. Ma Pisani imperterrito ha continuato ad arrestare i camorristi. Un po’ se l’è cercata. Chi Chi tocca i camorristi muore
La cattura del superricercato Zagaria è coordinata da Vittorio Pisani ma non si dice. Non si deve dire. Perché Pisani l’anno scorso, appena catturò l’altro superricercato Iovine, fu dimesso da capo della Mobile a Napoli e allontanato dalla città, su iniziativa della Procura di Lepore, dalla giudice Maria Vittoria Foschini. Che l’accusarono di avere troppi contatti coi camorristi. Infatti, come si sa, i capi camorra si catturano con lo Spirito Santo.
“Se (Pisani) è estraneo, come dice, alle accuse, lo proverà davanti a un giudice terzo”, dice Lepore, dopo averlo allontanato, cioè condannato. Le prove contro Pisani sono le dichiarazioni di un camorrista “mezzo” pentito, uno dei Lo Russo. Lepore è corroborante: testimonia che nulla è impossibile nella vita, nessuna ambizione.
Un romanziere supporrebbe che i giudici hanno allontanato in fretta Pisani perché non catturasse anche il compare di Iovine, Zagaria. I due avevano organizzato e capitanavano la camorra di “Gomorra”. Della quale i Lo Russo un po’ sono affiliati e un po’ concorrenti. Ma Lepore su questo non ci lascia sperare molto, purtroppo? E la giudice Foschini appartiene alla nobiltà napoletana. Magari lo hanno fatto a questo scopo ma non lo sanno.
C’è da dire che non era la prima volta, un anno e mezzo fa, che i giudici avvertivano Pisani, era la terza. Ma Pisani imperterrito ha continuato ad arrestare i camorristi. Un po’ se l’è cercata - che ha detto che lo Stato è uno?

E per chi va a puttane la ghigliottina

Si scriveva dieci anni fa, succedeva a Londra:
“Jeffrey Archer, scrittore di successo, vicepresidente dei conservatori, è condannato a quattro anni di carcere duro per essere andato a puttane. Senza ironia: l’opinione pubblica inglese è sinceramente scandalizzata, e non dalla condanna.
“Vicenda esemplare, ma di quale virtù? Quale esempio dovremmo trarne, noi altri depravati e senza senso della morale del Resto del mondo. Ricatto, di una puttana, di un testimone. Diffamazione, dei giornali popolari. Corruzione, dei testimoni. E giustizia politica. È l’Inghilterra di sempre, violenta? È l’Inghilterra riformata, ipocrita? Tutt’e due. Il dialogo inglese è la boxe.
“Su “Repubblica” Paolo Filo della Torre racconta la vicenda distaccato, da uomo di mondo. Il “Corriere della sera” invece moraleggia con Cianfanelli. Spurgo piccolo borghese contro occhio di falco aristocratico? O moralismo di Milano, città così profondamente corrotta, che ricalca quello inglese? Almeno in una cosa i milanesi potranno dirsi, come ambiscono, inglesi”.

mercoledì 7 dicembre 2011

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (110)

Giuseppe Leuzzi

Non c’è sviluppo al Sud perché c’è la mafia, si dice. Oppure si dice che la mafia c’è perché non c’è sviluppo. Ma perché non sarebbe il dilemma tricornuto, che lo sviluppo è mafioso? Di mafia vera on quella selvaggia, analfabeta, alla Totò Riina.

Magna Graecia nunc deleta est” è già in Cicerone, “Laelius”, 4,13

Le disgrazie induriscono gli animi. Si può dire quindi un miracolo che ci sia ancora grazia al Sud.

Si può dire il Sud perfettamente democratico: anche il personale politico cambia sempre, il potere. Ma sempre in peggio – perché al peggio non c’è limite?

Deistorizzazione
“L’Italia divisa era stata un’espressione universale di vita”, scriveva Corrado Alvaro su “La Stampa” il 10 novembre 1932, “l’Italia unificata divenne una cattiva ancella di un falso europeismo”. Allora, e oggi?
“Basta guardarne le arti”, aggiungeva Alvaro: “Il pregiudizio di dover essere progredita e civile sul modello universale fu il suo intoppo”. Al meglio “amava istruirsi” sui romanzi francesi – ora i romanzi americani. Approdando ai “deliri borghesi di una letteratura sessuale e di atteggiamenti”. Ma anche la vita politica certamente non migliorò: “Come tutte le società povere, la nostra fu permalosissima”. E impunita: “Un poeta poteva scrivere «La nostra patria è vile!» impunemente”..

Pierre Bourdieu elabora il concetto di deistorizzazione in rapporto alla condizione femminile, o alla squalifica del povero. Se ne parla nella pubblicistica americana a proposito del Giappone dopo la sconfitta nel 1945. È la perdita di valore del passato per effetto di sconfitta, sottomissione, modernizzazione rapida, violenta, radicale. È il caso del Sud.
Se non conquistato, il Sud è stato improvvisamente acculato nel 1861 all’isolamento, l’aridità, l’inerzia – tra briganti e buone coscienze. Subito etichettati come atavismo: indolenza, omertà, immoralità.
Subentra così il disfacimento – poi si sarebbe detto destrutturazione, dei significanti, dei significati: la “follia” ne è un derivato non la causa. E la scomparsa dell’elemento oggettivo, l’invadenza di quello soggettivo. Che con la sua tarda “scoperta” quello ridurrà a robetta e ometti terragni, vetusti, isolati, senza storia (e quindi senza poesia). Oggi si sarebbe detto, in altro contesto, della deistorizzazione: la perdita di senso per effetto di una “colpa”, anche se non soggettiva, non propria, una tara.
La deistorizzazione può essere peggiore della non storia. Si può dirlo per diretta, lunga, approfondita esperienza terzomondista, del mondo arabo e dell’Africa. Il colonialismo, cancellando radicalmente con la forza, “crea” un’alterità nuova, la promuove, la sostanzia anche. Il neo colonialismo subdolo cancella blandendo, gesto per gesto, momento per momento, parola per parola.

Si può vedere tutto in chiave di Nord-Sud, è prospettiva fertile seppure non esaustiva: la voce, la pronuncia, la presentabilità, il salario, il costo dell’insalata, il costo del sangue. Non c’è più il Sud per esempio in tv, tra i presentatori, le presentatrici, gli ospiti, e chi c’è si camuffa o si prende in giro - Fiorello. Bossi e Milano hanno introdotto questa chiave, che consente buone letture.
Ora però Milano mostra di pentirsene, insomma la rifiuta. Afferma di non avere mai votato Bossi. Ma un effetto lo ha già ottenuto, se è quello che voleva: il Sud è chiuso in se stesso, oppure si camuffa.
Ne potrà uscire solo ricostituendo la dialettica Nord- Sud, la storia vuole una prospettiva (una misura, un termine di raffronto)..

L’odio-di-sé meridionale
Ne “La stella del Sud”, un elzeviro pubblicato su “La Stampa” poco prima di morire, l’1 giugno 1952, Corrado Alvaro delinea “una certa psicologia meridionale”, le cui manifestazioni, dice, “se mi sconcertano, non mi stupiscono mai”. Ne dà alcuni aneddoti. Il capo della rivolta di Caulonia (Pasquale Cavallaro, n.d.r.) che, compagno di scuola di Alvaro a Catanzaro prima della prima guerra, “scriveva versi patriottardi e sentimentali come molti meridionali, e andava, già da ragazzo, armato di un grosso bastone, minaccioso non si sa bene contro chi”. La difficoltà di aprire sezioni del fascio nei paesi meridionali, “perché portare la camicia nera è, nel popolo, un segno di lutto”. I fascisti di Reggio Calabria che nel 1924, quando vi pervenne, non si sa come, dopo il delitto Matteotti, la notizia che il fascismo era crollato”, subito organizzarono “una manifestazione di giubilo ch percorse la città inneggiando al crollo della dittatura”.
Ma inizia, da emigrato sul giornale di Torino, con un fatto preciso: “Quando ci si stupisce delle reazioni meridionali, che sono le reazioni di quel mal compreso proletariato che è la classe media, bisogna domandarsi come la informiamo…”. Il proletariato che è la classe media è una chiave della diversità del Sud. E più della Calabria, cui Alvaro effettivamente pensava. Dell’insocievolezza mitissima, quasi sdolcinata, che è una forma di misantropia, quindi di ripiegamento su se stessi, da un passato, una storia. Dell’odio-di-sé terribilista al di fuori della “famiglia”, degli affetti (comparaggi, amicizie).

Il peso di Verga, siciliano in cerca di successo a Firenze e a Milano, del successo trovato infine nell’ideologia dei vinti, è incommensurabile: tara la gioia, e quindi la voglia di essere e di fare, il famoso riscatto. È la fine del soggetto e della volontà: non c’è più pathos al sud, se non vittimista.
Questa ideologia arriva tardi nella letteratura del Sud, dopo l’unità. Con la napoletanità, i briganti, la mafia.

L’occhio del Sud è “molle”? Celebrando la donna romana, su “La Stampa” del 14 aprile 1926, Corrado Alvaro così la compone: “Sul suo viso i tratti si sono conciliati, le belle fronti rotonde dell’Emilia rispondono allo zigomo forte, perlaceo di Lombardia, lo scolpito labbro volontario piemontese risponde all’occhio mole del Sud”.

Milano
La mancanza di senso dello Stato è stata, è, assoluta in Berlusconi e naturale. I suoi avvocati ministri della Giustizia, il patrimonio non parcheggiato, le leggi comandate per sé. Senza jattanza. C’è mai stato un illuminismo lombardo? Un pensiero anche minimo di diritto pubblico? Se ne parla nei libri ma non si vede.

Un certo Orsi in primavera è nominato a capo di Finmeccanica. In autunno Orsi decide e subito attua il trasferimento da Napoli a Varese della direzione di Alenia, società di Finmeccanica.
Orsi è stato imposto della Lega. Dirigente di Alenia è la moglie di Maroni, la quale si trova meglio ovviamente a Varese, a casa sua. Tutto questo nel nella primavera-autunno del 2011. Dopo Cristo, non prima.
Il terribilista Stella di questo non s’indigna. Il “Corriere della sera” nemmeno.

L’architetto Boeri è criticato dalla giunta comunale di Milano, di cui è assessore alla Cultura e all’Expo, per una cosa che tutti sanno ma che nessuno dice: perché “troppo autonomo”, cioè disinvolto, nelle decisioni urbanistiche e negli appalti per l’Expo. Non per l’Ambrogino a Cattelan, o la sede del Museo d’Arte, o il blocco del centro alle auto contro lo smog, come si fa scrivere alle gazzette. Lui si dimette, il Pd, che l’architetto rappresenta, lo reintegra, ma riconoscendo che è giusto che le urbanizzazione dei terreni e gli appalti siano “collegiali”.
Normale amministrazione, si può dire. Succede in ogni Comune. Ma in genere i carabinieri vigilano: non a Milano? È singolare anche che di fronte alle tante voci, magari di appaltatori estromessi all’asta, perché no, uno di quei testimoni che le Procure volentieri aizzano e usano, la Procura di Milano non abbia aperto nessuna indagine. Per non dire dei giornali, dove lo scandalo a Milano naturalmente non fa scandalo.

L’irresistibile ascesa di don Verzé, dell’ospedale, dell’università, della fondazione, è avvenuta come in tutte le grandi aziende in Italia, tra mazzette imposte ai fornitori, e favori o mazzette ai politici che devono favorirne le pratiche – sennò, la burocrazia che ci sta a fare?
È possibile. È probabile. Ma Milano pretende di scandalizzarsi.
Poi sapremo che chi accusa don Verzé è a sua volta corrotto: bancarottiere, fallito, ricattatore. Il problema di Milano può anche essere questo: che è noiosa, ripetitiva.

È curiosa, se non altro perché contrasta col senso degli affari, la miopia locale, cittadina, urbana, rispetto al patrimonio pubblico, le chiese, le gallerie, i palazzi, le biblioteche, la Scala, il Touring…. Con le amministrazioni di ogni colore, centro, destra, sinistra. Tutto ciò che esula dal patrimonio personale non interessa.

In una corrispondenza per “La Stampa” nel 1939 Corrado Alvaro, che Milano affascinava, vi ha scoperto il karaoke: in molti locali la sera ci si esibisce cantando. “Milano è suggestionabile e volubile”, dice anche Alvaro. Che la “città operosa” peraltro mette sotto “il segno dell’eloquenza”. E in altra corrispondenza chiama “città volubile”.

Ha, cronica, la nostalgia dell’Austria – ora no, impegnata com’è ad assoggettarsi l’Italia, ma si può essere certi che la nostalgia riemergerà. Di un governo cioè clericale tollerante – come in confessionale (questa miscela i laudatores dicono di spirito liberale). O si può dire manzoniana in tutto, nell’impegno, poco e incostante, e nelle molte impazienze.

leuzzi@antiit.eu

Ombre - 111

“Famiglia Cristiana”, che ha condotto la crociata contro Berlusconi che andava a puttane, s’indigna ora contro Fiorello perché ha consigliato il preservativo. E se Berlusconi l’avesse usato, la condanna sarebbe stata doppia?

Grandi baruffe accademiche fra storici contemporaneisti – quelli che, col ministro Berlinguer, votarono per ridurre la storia al Novecento. Tra curatori in particolare del mussolinismo, su chi ha fatto l’edizione più corretta (meno scorretta) delle solite cose, i diari, le lettere, Badoglio e Graziani, Sarfatti e Petacci. Non c’è altro Novecento?

Il giornale spagnolo “El Paìs” saluta Monti in puro ispano-manzoniano: “Il tecnico che si appoggia a una frase come un bastone pronto diventare una spada”. O la Spagna è proprio quella del Manzoni?

Il sindaco di Treviso Gobbo arringa il Parlamento della Lega in dialetto veneto. Che i lombardi, irritati, non capiscono. Ma non è una farsa.

Si tira per la giacca il buon credente Monti per l’Ici sulle parrocchie, ma non si dice che l’esenzione fu voluta dallo stesso governo Amato che introdusse l’Ici nel 1992. Per gli immobili di tutte le attività sociali senza fine di lucro (assistenza, cultura, sport, etc.), per tutti i soggetti, le parrocchie come le fondazioni laiche e perfino quelle bancarie. Non per nulla qualche buontempone ha trasformato la sua casa in sede di Fondazione.
La cosa fu confermata quindici anni dopo da un governo Prodi di cui Bersani era ministro. Che (non) si fa per andare sul giornale?

La primavera egiziana è stata in realtà la consegna del potere agli islamici. Da parte degli Usa in primo piano, che pure non dovrebbero entrarci. Come in Iran, trent’anni prima.
Al tempo di Khomeini, nel 1978, gli Usa puntavano sull’islamismo in funzione antisovietica. Oggi antieuropea?

“È una pessima arte quella di dividere il paese tra reprobi ed eletti”, ammoniva Corrado Alvaro da Parigi per “il Mondo” nel 1923, riferendosi all’Italietta: “Da cinquant’anni ogni uomo che ha avuto un ruolo preponderante è stato bollato almeno una volta del marchio dei traditori: il solito viaggio dall’Altare della Patria alla Corte di giustizia”.
La giustizia politica sarebbe peraltro, per definizione, fascista.

Concita De Gregorio dice che il Pd ha deciso un anno e mezzo fa di far vincere la Polverini nel Lazio contro Emma Bonino per il Lazio per portare il suo Fini alla rottura con Berlusconi e all’asse col Pd. Fioroni obietta che questa non era l’idea del Pd ma dell’Udc. Tutti nobili strateghi.

Si discute perché Emma Bonino, che aveva stravinto a Roma, ha perso poi l’elezione nel Lazio con la Polverini. Mentre non c’è niente da discutere: la candidatura di Emma Bonino fu contrastata dal vicariato, in campagna elettorale fu criticata da Franceschini, Rosy Bindi e Fioroni, e per la campagna ebbe comunque un budget dimezzato rispetto a quello investito su Marrazzo. A Roma rese tutti i voti laici, anche di destra, ma non una buona metà di quelli del Pd.

Vaporizzati, scialla: Fiorello diventa, oltre che mattatore, comico, musicista, anche il glottologo dell’Italia 2011. Non ce n’è altra?

Il governo Monti si completa alla Ridolini. Con qualche ministro in più meravigliatissimo di se stesso. E qualche sottosegretario che nessuno sa chi sia, nemmeno l’interessato, Franco, Francesco, chissà. Ma nessuno ci ride, nei giornali, nelle tv, così libere. Nemmeno una battuta.

Si dice governo dei banchieri ma di più sembra un governo dei bancari. Per lo status professionale di molti dei suoi componenti, Passera, Fornero, in parte Gnudi, Ornaghi, lo stesso Monti e altri. E, di più, per la disciplina grigia, inconsapevole.

Di Massimo Ponzellini si trascura sempre di dire che è stato collaboratore e intimo di Romano Prodi. Prodi non fa notizia?

martedì 6 dicembre 2011

Standard and Poor’s federatore esterno

Standard and Poor’s federatore esterno dell’Europa non è una comica, è un fatto. E non senza ragione.
In attesa dei vertici europei di fine settimana Standard and Poor’s ha dunque annunciato che potrebbe declassare la Germania, il debito tedesco, la solvibilità tedesca. Da non credere ma potrebbe avvenire, è già avvenuto per gli Usa. Con una mezza novità, tuttavia: Standard and Poor’s ha fatto l’annuncio, dichiara, fa dichiarare inopinatamente dai suoi responsabili, per spingere l’Europa a prendere in fine settimana le decisioni tanto attese, una qualche forma di consolidamento europeo del debito – l’altra mezza novità è che analoga decisione prese per fare pressione sul Congresso Usa per analoghe decisioni stabilizzatrici.
È il segno della rete, della tela, della ragnatela, del mercato, che ha avvolto il mondo. Inopinatamente, nel segno della libertà.
Tutti regolano dall’esterno tutti: la Germania l’Italia (o i ridicoli Sarkozy-Merkel il ridicolo Berlusconi), gli Usa il mondo islamico, la Clinton Putin, Standard and Poor’s il Congresso Usa e la Ue. Non una novità integrale: è il modo d’essere delle relazioni internazionali. Nuovissima è la pretesa di farlo nel nome del diritto, delle regole. Che ognuno si surroga, chi può.
È il cosiddetto deficit di democrazia nel mondo delle tecnocrazie: non decidono i popoli né i governi, non decide la politica, decidono “i mercati”. Anche questo tema non è nuovo, giacché fu posto quasi un secolo fa, da destra (Jünger, Burnham), polemicamente. Ora s’impone senza limiti, e nel nome della libertà: non surrettizio né prevaricatore, ma dichiarato e giustificato.
La critica di un secolo fa fu liquidata come antirazionalistica. Ora la razionalità della tecnica si è dissolta, ma non la sua forza. Che configura nella fattispecie, nel diritto internazionale, una delle tante forme ora prevalenti del diritto di intervento, invece che del non intervento, come nuova base di quel diritto. E cioè una nuova forma della Forza. Questa avvolgente e subdola come prima, solo in attesa di un nuovo Hobbes.

Non c’è rimasto altro – l’euro fa dieci anni (2)

Una breve storia dell’Europa la ridurrebbe a un’unione economica in difetto di quella politica – non a suo completamento, ma per supplirla. Un moto a fisarmonica, tra un’apertura politica che si avvita retrograda su una chiusura economica.
Il mercato comune venne nel 1957 dopo il fallimento della Comunità di difesa nel 1954. Lo Sme venne nel 1978, dopo vani tentativi di creare una federazione europea. L’euro è ciò che rimane del Trattato di Maastricht vent’anni fa sull’Unione Europea, poi creata solo nel nome. Suo surrogato è l’euro, voluto da Kohl, il cancelliere tedesco, d’accordo col presidente francese Mitterrand per dare un’impronta alla storia.
Kohl, l’ultimo cancelliere politico tedesco, aveva già sfidato la Bundesbank e l’opinione tedesca sulla riunificazione, che volle alla pari fra tedeschi dell’Ovest e tedeschi dell’Est, un marco contro un marco, e non a uno contro due. Sostituì il presidente della Bundesbank, il liberale (conservatore) Karl Otto Pöhl, col fido Tietmeyer, buon cattolico, e lanciò l’euro. Tietmeyer tentò di mediare: lavorò a un vera unione monetaria con Francia, Benelux e forse Austria, e spiegò a lungo, con convinzione, che conveniva all’Italia restarne fuori. Ma Ciampi, e poi anche Prodi, vollero farne parte da subito.
La posizione della Bundesbank, che fa opinione in Germania e Angela Merkel deve fare sua, resta quella fortemente critica anticipata da Pöhl allo “Spiegel” un anno e mezzo fa: “La fondazione dell’Euro è radicalmente cambiata per effetto della decisione dei governi dell’eurozona di trasformarla in un’area comune. Questo è violazione di ogni trattato. Nei trattati che regolano l’Unione Europea si stabilisce esplicitamente che nessun paese è responsabile per i debiti di un altro. Ma questo è quello che stiamo facendo. Per di più, contro ogni buona regola, e contro un esplicito divieto del suo proprio statuto, la Banca centrale europea si è impegnata a finanziare gli Stati membri”.

Che avventura, Carmine, l’emigrazione

È la ripresa, ampliata, della prima edizione quasi privata, nel 1996. È il canzoniere dell’emigrazione “forzata”, e dell’amata Meike (Behrmann, sociologa allieva di Norbert Elias, coautrice nel 1984 con Abate, al suo debutto a trent’anni, in Germania, in tedesco, dell’importante saggio “I Germanesi”). Sono poesie civili, discorsive, come le prose che le intervallano, “proesie” le chiama l’autore.
Abate è egli stesso emigrato, anche se non per bisogno, e a lungo è stato autore tedesco, nel gruppo PoLiKunst, che quarant’anni fa riuniva in Germania artisti e scrittoi di 17 diversi paesi, che usavano il tedesco come lingua franca. Non è la stessa cosa dei tanti autori africani e asiatici che oggi, in Italia, scrivono in italiano, come Abate vorrebbe: l’emigrazione obbligata, per motivi politici o di sussistenza, è altra cosa, venire dall’Europa, sia pure dell’Est, non è come venire dall’Africa, e molti del PoLiKunst, Abate tra essi, si sono tranquillamente ridomiciliati al paese di origine. È qualcosa di simile, all’apparenza: un italiano può essere di casa ovunque in Europa, anche in Africa, mentre un africano deve avere grosse riserve di vitalità per ritrovarsi in Italia – non bisogna rubare la povertà ai poveri, la disgrazia, l’impossibilità di essere.
La raccolta si compone di quattro “Dimore”. Quella degli ultimi anni, 1986-1995, intitolata “Di more”, si compone di cantilene e filastrocche mistilingui. Dagli effetti sorprendenti – Mut, coraggio, è in arbëresh cacca…. Ma tutta la raccolta è, contro le intenzioni dell’autore, il segno più vero dell’emigrazione, che è avventura, dei giovani e forti, contro incomprensioni e solitudini, più che disperazione, e sempre è incontro di culture, di cui si tesse la storia. “Quel paese” che il padre di Carmine mitizza può essere quello d’origine come la Germania.
Carmine Abate, Terre di andata, Il Maestrale, pp. 154 € 14

lunedì 5 dicembre 2011

“Come tagliarsi una gamba” – l’euro fa dieci anni

L’1 gennaio l’euro fa dieci anni, ma lo celebra solo “Barbanera”, tra le ricorrenze obbligate. Era nato come una moneta salvaguardia, e ha provocati disastri. Meglio: era stato presentato in Italia come salvifico, risolutore di tutti i mali, altrove si sapeva cos’era e cosa minacciava. In particolare in Germania, dove la Bundesbank e le banche non lo volevano.
I primi dubbi erano nati in Italia sullo Sme, il progenitore dell’euro, il Sistema monetario europeo. I “cambi fissi ma variabili” dello Sme facevano impazzire il governatore della Banca d’Italia Baffi – fautore dei cambi flessibili, per sterilizzare l’effetto monetario, lo impatto del cambio sull’inflazione (il suo predecessore Carli, della generazione dei cambi fissi, era del resto rimasto a corto d’oro, avendolo dato in pegno alla Bundesbank). Ciampi, che presto sostituì Baffi, invece ne fu convinto sostenitore, al punto da rivalutare la lira su marco. Il bluff fu sgonfiato dallo speculatore Soros nel 1992, ma l’aggancio della lira al marco fu ripetuto. Al punto da accettare, per superare l’avversione della Bundesbank, un euro a due marchi.
La sopravvalutazione si voleva una camicia di forza e tale l’euro è stato, nient’altro: una macchina di sacrifici inutili. Prezzi raddoppiati, disoccupazione di massa, ristagno. Negli ultimi quattro anni anche un ombrello inesistente contro i rincari delle materie prime, energetiche, industriali, agricole. E da qualche mese un’ascia di guerra delle economie europee più forti contro quelle più deboli, da ultimo anche l’Italia. E così che l’euro è stato “come tagliarsi una gamba” per incassare l’assicurazione, quello che Alda Merini profetava, la poetessa.

Questa manovra può essere letale

Una manovra ragioneristica, che potrebbe però risultare letale. Monti ha colpito la domanda delle famiglie, che è stata finora l’unico volano attivo nel ristagno incombente. Con l’aumento delle imposte indirette e dell’Iva, ora più alta che nell’Ue, ha messo un dazio sul circuito produttivo nazionale rispetto alla concorrenza, oltre che sul potere d’acquisto dei consumatori. Il calo della domanda potrebbe far scoppiare la bolla immobiliare - un settore che per quasi quattro anni ha retto bene o male la crisi. Le conseguenze in questo caso sarebbero catastrofiche per il sistema finanziario nel suo insieme (privato e pubblico) e per le banche, oltre che per la domanda aggregata e quindi per l’economia.
Monti ha colpito i pensionati, i pensionabili, i salariati, e i possessori di una-due case, la forma di risparmio privilegiata in Italia. La fetta prevalente della domanda. Con un prelievo di due-tremila euro che al reddito fisso impone una revisione radicale delle scelte di consumo. Senza alcuna misura di riattivazione dell’economia: non sul mercato o sul costo del lavoro, non sulla produttività, non sul costo dell’energia, non sulla burocrazia, e nemmeno, a ben guardare, sulla fiscalità delle imprese – l’Italia resta il paese più caro e meno conveniente al mondo per investire. Ha colpito i commercianti al minuto con le aperture continuate, ma senza beneficio per nessuno.
L’unico obiettivo che si è posto Monti è di fare cassa, per venti o venticinque miliardi. Pur sapendo che il prelievo è inutile: a meno di interventi strutturali sull’economia, compresa l’economia pubblica (che non è i vecchi carrozzoni di Stato), le “manovre” (più tasse, meno spese) non risolvono nulla: questo è noto da quasi vent’anni, dal 1992. E che potrebbe essere gravemente dannoso: il rischio è consistente che blocchi la già debole economia. Senza alcun beneficio, Monti lo sa meglio di chiunque altro, per il debito pubblico, che continuerà a costare caro, più caro di prima, fino a che la Germania lo vorrà.

Il mondo com'è - 76

astolfo 
Civiltà – Lo scontro di civiltà è dottrina della Trilaterale, quindi di quarant’anni fa, e ancora prima della Nato. Il vecchio roll back dei fratelli Dulles riadattato all’epoca degli euromissili, o missili di teatro, insomma dell’Europa sotto un cielo stellato di razzi sovietici a testata nucleare multipla. E una riedizione del vecchio dubbio dell’Europa: che farsene della Russia. La Trilateral era nata per sostenere che le democrazie sono ingovernabili, giornali e intellettuali le insidiano - che già turbavano Churchill, “una banda di spietati professori dalla mentalità sanguinaria”. La Trilateral era dei Rockefeller, che si volevano capifila liberali del mondo libero, e lo storico Eugene Genovese diceva fascisti. Il suo teorico, Samuel Huntington, virò presto all’Occidente contro il Resto del mondo, un estremo tentativo di rigerarchizzare il mondo – poi soppiantato dalla globalizzazione – all’insegna della superiorità dell’Occidente. 

Democrazia – È oggi economica, fra gli interessi concorrenti, oppure non è. È marxismo allo stato puro.

Etica - La Trilaterale appena fondata si attivò quarant’anni fa sul fronte dell’etica: gli americani accusarono di corruzione gli altri, gli europei e il Giappone. Con molte carte e testimonianze al Congresso.

Islam – La primavera egiziana si risolve nella consegna del potere agli islamici. Un fatto non eccezionale: in un paese islamico l’opinione prevalente è islamica. Non fosse che il campio della guardia, dal bonapartismo laico nasseriano agli islamici è stata voluta e quasi imposta dagli Usa. In Egitto oggi come già in Iran nel 1978. A quel tempo gli Usa puntavano sull’islam in funzione antisovietica. Oggi, si dice, tentano un recupero dell’islam moderato, tra Turchia e penisola arabica. In funzione di stabilizzazione politica dell’area, tra il fondamentalismo minaccioso e una modernizzazione che non può che essere progressiva. Pur sapendo però che la Turchia ha ottant’anni di vigilanza militare sulla democrazia. Il califfo Omar, secondo lo storico egiziano Ibn al Qif-ti, fece bruciare la biblioteca di Alessandria ragionando: se i libri ripetono il Corano sono inutili, se se ne discostano sono blasfemi. Omar inebriava il rivoluzionario del 1789 Desmoulins: “Rese uguali tutti i musulmani come la tempesta rende uguali i naufraghi”. Bruciare la biblioteca, il primo irresponsabile olocausto, lo dice Jack London in “Rivoluzione”. L’islam vanta una tradizione di tolleranza. Non ha una chiesa e non ha avuto un’inquisizione. Alla cristianità invece si addebita l’intolleranza, con torture, roghi e proscrizioni di massa, anche la cristianità riformata. Ma non sono tradizioni, sono nomee, in urto con la storia. L’islam non accetta nulla del resto del mondo, dal quale peraltro prende tutto. Se ne può fare un bilancio, dopo oltre trent’anni di egemonia politica, in Asia e in Africa, all’insegna del khomeinismo. Non ha creato niente, non un po’ di libertà né il benessere, né il rispetto del mondo, o la benevolenza, e ha distrutto molto. Per primo la rendita del petrolio e del gas, che non è per sempre. Con la quale si è data l’illusone della ricchezza, ma sulla quale non ha costruito nulla, a parte le faraonate del Golfo. Non una società più giusta, né più solida, non più lavoro né un mercato, un processo di crescita integrata al mercato mondiale, svendendosi anzi a esso quale carne povera da fatica. Alimenta un mito di superiorità – la vecchia ricetta nazionalista dei “primati” in ritardo di un secolo - che sembra psicotico se non folle. Un fondo politico comune all’islam si può dire l’antioccidentalismo, una cultura, se non una strategia, nemica dell’Europa cioè e degli Usa. Non fosse che il mondo islamico, Iran compreso, finanzia la crescita e l’equilibrio finanziario di questo stesso Occidente, con i suoi fondi d’investimento – i cosiddetti fondi sovrani. Gli Emirati del Golfo in particolare e il Qatar, principati senza popolazione e praticamente senza ragione d’essere, avevano investito in Occidente a fine 2010 almeno 62 miliardi di dollari (metà di essi dal Golfo). In imprese e in banche. Che altrimenti sarebbero state sottocapitalizzate. Al momento delle sanzioni, a fine febbraio 2011, la Libia (il governo libico, non l’introvabile tesoro di Gheddafi) aveva investimenti di rilievo, tra il 5 e il 10 per cento, nelle maggiori aziende in Usa (tra esse Exxon, Chevron, Pfizer, Honeywell, Xerox, Halliburton), Gran Bretagna (Bp, Shell, Vodafone, Glaxo, Pearson – “Financial Times”, “Economist”), Francia (Edf, Bnp-Paribas, Alcatel, Lagardère), Italia (Eni, Finmeccanica, Unicredit), Germania (Siemens).O si può dire così: un islam monolitico avrebbe potuto investire nel grande capitale occidentale, per acquisirne i segreti, e al momento giusto colpirlo dal di dentro. Ma gli investimenti islamici sono solo alla ricerca di un rendimento.

Liberalismo – Tommaso d’Aquino è “il primo liberale della storia” per Lord Acton e von Hayek. Qualcuno tra i keynesiani sostiene anche che la “Teoria generale” è il “Summum Bonum” di san Tommaso.

Politica - Il duello dell’antichista Canfora con l’imperatore Augusto – che implacabilmente chiama Ottaviano – può spiegare il senso della politica. L’Ottaviano di Canfora è, forse, quale è stato: quasi cesaricida, triumviro furbo, monopolista della cultura (Virgilio, la Storia Augusta, la censura di Tito Livio… – qui i crimini sono infiniti, la cultura non avrà mai più altrettanto peso nella politica del mondo), implacabile coi nemici. È, cioè, tanto Stalin – e in questo un doppio odiosamato: Canfora da sempre aspetta la “riabilitazione” di Stalin e Togliatti. Ma se l’epoca augustea è l’età dell’oro della politica (la pace, la prosperità), allora la politica è un disegno totalitario, seppure accorto (lungimirante, benintenzionato). La philia, la reciproca fiducia fra i cittadini, è secondo Aristotele la base della buona politica.
Tasse – La tassazione progressiva non è recente. A Firenze ai tempi del primo Cosimo dei Medici i repubblicani la chiamavano “la scala”, o “la graziosa”. Ha natura politica ed è guardata con sospetto dalla scienza delle finanze, secondo la quale la tassazione proporzionale dà maggiori entrate. L’ultimo economista di sinistra, Giorgio Fuà, collaboratore di Adriano Olivetti, Enrico Mattei e Gunnar Myrdal, sosteneva che la proporzionale è anche più equa, non solo più produttiva – v. Fuà-Rosini, “Troppe tasse sui redditi”, Laterza, 1985. 

domenica 4 dicembre 2011

Quant’era noiosa l’amante Artemisia

Una pubblicazione accurata che emoziona per la cornice, la riesumazione degli archivi di casa Frescobaldi - all’ombra di Dino, il gentiluomo e ottimo giornalista cui il curatore Solinas dedica la raccolta. Le presentazioni e le note, dello steso Solinas con i ricercatori Michele Nicolaci e Yuri Primarosa, sono anch’esse fonte di sorpresa. Le lettere invece, noiose, pratiche, sgrammaticate e pure atteggiate, scurrili anche, ma nel senso dell’interesse micragnoso, nulla aggiungono al “fenomeno Artemisia”, anzi. Benché dirette a personaggi interessanti, all’amante Francesco Maria Maringhi, socio d’affari dei Frescobaldi, ai collezionisti cavaliere Cassiano del Pozzo e don Antonio Ruffo della Scaletta, e (una, già nota, non autografa nemmeno nella firma) a Galileo, protettore “di tutti li virtuosi” a Firenze alla corte del granduca.
La “pitturessa”, personaggio sicuramente di spicco per la vicenda personale, resta non eccezionale malgrado lo straordinario interesse di mercato degli ultimi anni - “diseguale, esigua” la dice Solinas. Le lettere la dicono di carattere non migliore delle offese che subì nella triste vicenda per cui è famosa, il processo per stupro contro il pittore Agostino Tassi nel 1611-12, quando aveva diciotto anni. Ritardi, rinvii, travagli, acciacchi e debiti non pagati, in un mondo peraltro dove nessuno sembra pagare l’affitto, non si parla d’altro, nell’arco di vent’anni.
Francesco Solinas, a cura di, Lettere di Artemisia, De Luca, pp. 160 € 20

L’euro è tagliarsi una gamba

Della tante plaquettes miste, con aforismi e raconti, che la poetessa disseminava da ultimo è la più viva. Ironica (l’uomo che mangia i poeti è l’editore, l’analista è come il barista de “il cliente ha sempre ragione”), narratrice “La gamba – l’euro è come tagliarsi una gamba… -, “Le ossa”), e al solito epigrammatica (“Niente costa così caro come essere poveri”, “scrivere vuol dire piacere di meditare sempre”), perspicace (la poesia, la scrittura), a disagio (nella casa, nel quartiere, con Chiambretti o con Costanzo). Con note autobiografiche di chiarezza sconcertante.
Alda Merini, L’uomo che mangiava i poeti, Acquaviva, pp. 85 € 9

J. Roth si chiamava Alvaro

Milletrecento pagine, in questa vecchia raccolta di Walter Pedullà e Mario Strati, ancora vive dopo quasi un secolo e alcune catastrofi. Alvaro si conferma scrittore unico, tra le due guerre, delle cose politiche e sociali, perspicace e sempre veritiero (onesto), come Joseph Roth. Anche se non ha avuto la stessa cura editoriale. Sapeva – e sa – molte cose di più su Parigi e la Francia, la Germania, l’Italia, le sue province, le sue città, Milano, Roma, Torino, e Carducci, d’Annunzio, molto Pirandello. Sempre ben sintonizzato: la fissazione germanica per i bracciali è segnalata nel 1930 (sono imposti ai mendicanti), Walter Benjamin è “critico acuto” nel 1929, Pasternak “miglior poeta russo” nel 1932, occidentalizzato, “francese”, “italiano”, Céline ha bisogno urgente di cose “supreme” (nel 1950 è “un fuggiasco logico e autentico”), mentre Hermann Hesse, considerato sorpassato negli anni Venti, vi si rimette in circolazione come Ferdinand Bruckner. C’è già Barrault. Con l’Europa delle patrie, “cioè degli eserciti”. E la lettura “settisiana” della Venere de Giorgione, “Johnny Stecchino” tal quale in una commedia di Peppino De Filippo, l’ozono, il bandito Giuliano che “non sarà preso vivo, possiamo starne certi”, gli illirico o albanesi di Calabria e Sicilia, o greci, “gli ultimi discendenti della cavalleria”...
Corrado Alvaro, Scritti dispersi

Secondi pensieri - 83

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Colpa – Si arriva alla deiezione per gradi. La buonissima repubblica di Weimar imponeva i bracciali già nel 1930, ai mendicanti.



Lettura – Fa parlare il silenzio.



È il primo cibo di ognuno nella via dell’autorealizzazione, quando uno comincia a dirsi “ma che sto facendo?”



La lettura non insegna, un libro raramente rende saggi, ma distende i nervi. La lettura è la dinamo del capitale, accumulando nella quiete energia e potenziale - il mito di Pandora è al capitale che si attaglia più che alle donne, che è creata folle, maliziosa e oziosa quanto bella, e tiene chiuso il vaso dei vizi e le debolezze.



Stavano gli emigrati alla stazione, la domenica a Colonia, a staggiare la Gazzetta dello sport, di cui avevano letto i titoli all’edicola, e passare l’interminabile riposo. L’identità è privilegio di chi legge: un manovale friulano a Colonia resta un manovale friulano a Colonia, ma leggere situa tra l’antico Egitto e la costellazione Andromeda, in ruoli ambìti, eroe, amante, artista, poeta, o anche traditore, in ozio. La lettura crea questo portento.



La lettura è un miracolo, si sa, che si ripete. Si può pensare un mondo senza libri, ce ne sono stati e ce ne saranno, ma non senza lettori. Che si tramutano allora in ascoltatori. Questo è il proprio dell’uomo più che il riso o il pianto, la voglia di farsi raccontare. Anche nelle disgrazie. Si legge moltissimo in guerra. Nel ‘29, nella Grande Depressione, Niente di nuovo sul fronte occidentale vendette in un anno tre milioni di copie.



Morte - Si muore della propria morte, si suole dire, nel senso che gli altri non incidono, odi, cattiverie, sopraffazioni, incomprensioni. Ma è vero anche nel senso che si può essere morti prima della morte, “morti dentro”. È il caso della cattiva filosofia, in genere egoista (iperindividualista): si muore nell’attesa della morte, nel rifiuto della morte, nel “discorso” in genere sulla morte.



Occhio – È il normatore. La realtà è quale appare – è vista: appare nel senso che è vista, non che emerge (dall’ombra, dalla luce, dalla terra, dall’acqua). Le forme, i colori, i volumi, l’ordinamento (prospettiva, sovrapposizione, cumulo, disordine). Ma di più la loro storicità: il loro modo di essere (che è sempre storicizzato, senza bisogno del -ci di Heidegger).



È all’origine (giudice) della gradevolezza-sgradevolezza. Dell’accettazione: epocale (gusto comune: il comune senso del pudore, etc.), sociale, estetica. È un effetto ben noto agli architetti dell’ambiente e del restauro: la storicità – l’esserci già stato – è privilegiata rispetto alla novità, che deve pagare un adattamento, il necessario adeguamento.



È il conservatore per antonomasia: una gigantesca, esclusiva, Direzione o Conservatoria dei beni architettonici, artistici, culturali, naturali, etc. . Il porto di Copenhagen non è offeso da due silos di 30-40 metri, che per i viventi sono parte del paesaggio, lo sarebbe se vi si costruissero anche delle abitazioni civili. Non lo è trasformando a uso abitativo, con altre escrescenze, i due ingombranti cilindri, poiché se ne mantengono i volumi, benché con molti spazi in più, e le forme. Il borgo di Santo Stefano in Sessania solo soffre un restauro conservativo che non ne elimina la storia (la natura, il senso) ormai secolare di abbandono, trascuratezza – è però vero che restauri con materiali moderni (cemento armato) ne avevano semmai accresciuto la trascuratezza, e non hanno retto al terremoto dell’Aquila, a differenza delle vecchia costruzioni: l’occhi era stato doppiamente buon giudice.



Psicologia - Fa buoni plot, e infatti imperversa coi romanzi gialli e familiari. Ma gira a vuoto. Moralmente è pericolosa, essendo rovesciabile, col buono che diventa cattivo, il cattivo buono e così via. Ma, peggio, è imprendibile e invivibile. Manzoni, ottimo storico di cose, la Rivoluzione, i longobardi, la peste, gli untori, sui tipi umani è ridicolo, lo spagnolo cretino, la donna bisodie, il prete affannato, un prete affannato?, il frate pio. Non per errore, Manzoni più di ogni altro letterato aveva pratica di mondo, ma per la poetica dei “modelli”. Poveri.



Rilettura - È il Rückblick, lo sguardo retrospettivo. Non l’esame di coscienza, ma un modo nuovo di rifare e ridire il detto e fatto. Anche perché non si cambia se non inventando. Spregiando l’ordinario, dove, Heidegger lo spiega bene, non s’inventa nulla, mancando il raffronto.



È una bilancia intelligente, selettiva cioè, con un fondo di giudizio. Anche a breve scadenza – la pressione del mercato, delle cose obbligate da leggere, oggi accorcia i tempi, non li allunga, a differenza dei vecchi consigli d’acquisto di amici e conoscenti. Per le opere letterarie e storiche, meno per la filosofia: le forme della narrazione sono più veritiere (hanno criteri di giudizio più severi o precisi)?



Di più ancora la rilettura è selettiva per le immagini, tv (sceneggiati, serial, talk show) e cinema: le immagini hanno margini di verità (verificabilità) ancora più severi?



Storia - La lettura della storia è la lettura di un romanzo, che s’abbellisce di cavalieri e belle dame, non di scorfane e sfigati. A nessuno piace rinunciare all’utopia, è la vita che fa aggio sulla morte.



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