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sabato 15 gennaio 2022

Immigrazione, crescono gli abbandoni

Immigrati arrivano e immigrati se ne vanno. Il numero è cospicuo in Germania, dove viene contabilizzato, ma succede anche altrove, Italia compresa. Se l’impressione è data dagli sbarchi, dalle rotte balcaniche clandestine, dai campi profughi, ce n’è anche uno non visibile ma che riduce di molto i saldi dell’immigrazione in Europa. Tanto che gli arrivi, meno i partenti, sono inferiori all’offerta, di lavoro immigrato. Oggi e ancora di più in prospettiva, stante l’“inverno demografico” che affligge l’Europa tutta. 
Per la Germania esistono statistiche accurate, con numeri considerevoli. Secondo l’Iab, l’istituto di ricerca dell’Agenzia del lavoro, nel 2020 sono arrivati un milione di immigrati, ma 750 mila se ne sono andati. Il saldo resta sempre positivo, di 250 mila nuovi immigrati, ma a fronte di 400 mila che sarebbero stati necessari in base alle offerte di lavoro.  
In Italia il “decreto flussi” 2021 ha raddoppiato, a 70 mila nuovi ingressi, il dato medio di 30 mila degli ultimi anni del decennio 2010. Ma l’Istat valuta in 400 mila i posti di lavoro vacanti a fine settembre 2021.  
In Francia “Le Monde” valuta negativamente l’opinione prevalente sull’immigrazione, dominata da “questioni «identitarie» e «securitarie»”, anche a seguito degli attentati islamici particolarmente efferati nel decennio scorso. A fronte invece di una crescita della manodopera qualificata nel decennio grazie all’immigrazione dei paesi anglofoni, che il quotidiano valuta del 10 per cento in Gran Bretagna, Australia e Canada, e del 7 per cento negli Stati Uniti – a fronte di un 3,5 per cento in Francia. 
Anche dal punto di vista economico, del calcolo, l’Europa dovrà dotarsi di una politica dell’immigrazione. Con partenti controllabili, e sicuri di trovare un’occupazione. 


Parabola del figlio, uomo come me

La riscoperta di un narratore umbratile, degli anni 1920-1940,  tanto da dileguarsi anche dalla memoria, con questo breve racconto esumato dal lascito al fondo Vieusseux. Di un narratore e poeta ai suoi anni molto stimato negli ambienti fiorentini, delle riviste “Solaria”, “Pan”, Letteratura”.
Il fondo Vieusseux censisce 450 autografi di testi narrativi, teatrali, poetici di Loria, e una vasta serie di traduzioni, cinquanta di testi di Bernard Berenson, e una quindicina di altri autori. Altri autografi loriani al Fondo Vieusseux sono alla sezione intitolata ad Alessandro Bonsanti e alla sua rivista “Letteratura”.
Un muratore in bilico su un tetto, per riparare il camino, avverte con l’età l’insicurezza e un po’ di vergini. Finché “il rumore di una finestra aperta lo sorprese e gli fece rivolgere lo sguardo alla facciata. Era apparsa nell’inquadratura una donna tutta nuda”. Curiosità, sconcerto. E la vista del figlio, venuto con lui a reggergli la scala, che, “immobile come un alberino coperto di cenci grigi”, dal prato anche lui “guardava la donna nuda”. La finestra si richiude, il ragazzo scompare dentro un boschetto, il muratore scende rapido a cercarlo, immaginandolo in intimità, seppure fugace, con la bella donna alla finestra – “rassegnato ad ascoltare la pudica menzogna di un altr’uomo come lui”.  
Arturo Loria,
Il muratore stanco, free online

venerdì 14 gennaio 2022

Cronache dell’altro mondo – di colore (165)

La cantante Nadine Sierra, nata in Florida da padre portoricano e madre portoghese, ricorda su “la Repubblica” una cena in America “con una ricca sostenitrice del teatro d’Opera”. La signora “ce l’aveva con la «feccia» portoricana”. Nadine le ha fatto presente di essere di padre portoricano. L’effetto è stato che “mi ha indirizzato uno sguardo vuoto, evitando di rivolgermi la parola per il resto della serata”.
Hanya Yanagihara, scrittrice americana, spiega a Anna Lombardi sul “Venerdì di Repubblica”: “L’idea degli Stati Uniti come di un luogo che accoglie tutti è solo un mito”. Yanahigara, figlia di migranti nippo-coreani alle Hawai, è romanziera affermata negli Usa, il suo ultimo romanzo viene promosso in contemporanea mondiale (per l’intervista con Lombardi ha ben quattro pagine, benché abbia da dire poco), e dirige da cinque anni, ne ha 47, un supplemento del “New York Times”, “T Magazine”, per “una lettura sofisticata”, di musica, arte e moda.
Yanagihara vive a New York, dove è passata di successo in successo, da ventisei anni. “Non la amo”, dice, “la vita è orribile”.  
Per prima cosa il nuovo sindaco di New York, Eric Adams, democratico, poliziotto pensionato, secondo sindaco afroamericano della città della mela, dopo David Dinkins trent’anni fa, ha nominato una afroamericana a capo della Polizia, e suo fratello Bernard, poliziotto pure lui pensionato, vice-capo - ma con lo stipendio di 240 mila dollari l’anno.
Per seconda cosa il sindaco Adams ha annunciato un’ordinanza per dare il diritto di voto amministrativo a 800 mila residenti senza cittadinanza
.  

La tolleranza può essere oppressiva

La tolleranza come un altro modo della repressione – nella terminologia italica il paternalismo. Marcuse interviene nell’ambito della critica allora in corso del riformismo, che veniva denunciato dalla New Left come una forma della repressione e non una via di liberazione.
Riletto come vuole la riedizione, come un’anticipazione del conformismo dei social, sotto la veste ribellistica, sarebbe interessante, ma non ne ha il respiro: i social non sono “riformisti”, sono il bar Sport. A un certo punto, Marcuse individua il problema quale si pone oggi: “Entro la democrazia affluente prevale la discussione affluente, ed entro la struttura stabilita essa è tollerante in larga misura. Tutti i punti di vista possono essere ascoltati, i comunisti e i fascisti, la sinistra e la destra, il bianco e il negro, i crociati dell’armamento e quelli del disarmo. Inoltre, in dibattiti strascicati senza fine, l’opinione stupida è trattata con lo stesso rispetto di quella intelligente, la mal informata può parlare quanto quella informata e la propaganda cavalca al passo con l’educazione, il vero col falso”. Ma non lo risolve: la gente, si limita a dire (Marcuse risulta qui fare appello alla “gente”, senza le virgolette, ma nel suo caso l’inglese people s’intende popolo) deve essere in grado di scegliere, autonomamente, eccetera.
Tema del saggio, partendo da Stuart Mill e dall’intolleranza – “l’intolleranza ha rimandato il progresso e ha provocato massacri d’innocenti per centinaia d’anni” – è: e la tolleranza? “Ci sono condizioni storiche in cui la tolleranza impedisce la liberazione e moltiplica le vittime che vengono sacrificate allo status quo? La garanzia indiscriminata di diritti politici e libertà può essere repressiva?” La risposta ovviamente è sì. Ma dopo mezzo secolo non è persuasiva – la democrazia, per quanto mal funzionante, non è una dittatura, un regime, o uno sfascio. Anche se gli abusi sono possibili, e anzi si vedono, soprattutto nel ganglio delicato della formazione dell’opinione pubblica, del giudizio di ognuno.
La conclusione, se non lo sviluppo, è netta e, questa sì, critica di assetti oggi perfino esageratamente veri, con le tante correttezze minoritarie e iperminoritarie con cui si esercita la tolleranza - ci si gingilla a copertura di un assetto affaristico, distruttivo. Con l’esito, non surrettizio, di relegarla a un’iperrealtà imbelle, e insieme di promuoverne il rifiuto. “La pubblicità dell’autorealizzazione” promuove “un’immediatezza” che è “cattiva immediatezza” (Hegel): “Incoraggia il noncoformismo e il lasciar fare in modi che lasciano interamente intatti i motori reali della repressione nella società, che anzi rafforzano questi motori sostituendo le soddisfazione della ribellione privata e personale” alla “esistenza politica”. La conclusione è paleomarxista ma evidente: “La tolleranza che fu la grande meta dell’era liberale viene ancora professata”, ma il processo economico e politico è soggetto ad un’amministrazione onnipresente ed effettiva in accordo con gli interessi predominanti”. A quello che si dice - si diceva? - il pensiero unico, degli affari. 
A cura di Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio, un saggio, ripreso da “Giovane Critica” del 1967, parte del volume “A Critique of Pure Tolerance”, 1965, un titolo che vuole ripetere Kant, di Barrington Moore jr., H. Marcuse e Robert Paul Wolff. Un volume composto di tre saggi, “Al di là della tolleranza” (Wolff), e “Tolleranza e Scienza” (Barrington Moore jr.), prima di questo di Marcuse – che in originale è titolato “La tolleranza repressiva”. Dell’edizione di Mughini è rimasto, oltre l’incerta traduzione, un rimando a una p. 82, che nell’edizione originale corrisponde alla seconda pagina del saggio, la 6 di questo estratto.
Herbert Marcuse, Critica della tolleranza, Mimesis, pp. 44 € 3,90

giovedì 13 gennaio 2022

Ombre - 596

“Omicron infetterà un europeo su due”, dice il dirigente Oms col suo inglese alla Sturmtruppen, intimidatorio, minacciosissimo. Cioè? Avremmo potuto risparmiare sui vaccini.

Peggio, rilancia il dottor Fauci, col suo ghigno: “Omicron infetterà tutti”. Vuole dare ragione ai no wax, un colpo al cerchio e uno alla botte.

 

Non basta: “Dubbi nel Cts sul bollettino quotidiano”, Non dice la verità?

“Report dei contagi ogni sette giorni”, il governo ci pensa”. Cioè, abbiamo sbagliato, per due anni?

 

Ottanta contratti al Comune di Roma dopo le Feste, è la seconda iniziativa del nuovo sindaco di Roma, a tre mesi dall’insediamento. Che altrimenti si è illustrato solo per un premio ai netturbini se non “si ammalavano” durante le Feste. Contratti a termine, ma per una spesa di 4 milioni l’anno – da aumentare a 6,5, con altri trenta contratti annunciati. A persone di nessun titolo, nemmeno di studio, né qualifica, nelle segreterie degli assessorati, in qualità di consulenti e …: ex consiglieri comunali Pd, ex presidenti e ex consiglieri dei municipi, candidati non più eletti, volontari del Partito. Con

 

Arrivato al dunque, alla cancel culture come cancellazione della storia e quindi della cristianità, papa Bergoglio si è inalberato: “In nome della protezione della diversità, si finisce per cancellare il senso di ogni identità”. E: “Si va elaborando un pensiero unico, costretto a rinegare la storia, o peggio ancora a riscriverla in base a categorie contemporanee, mentre ogni situazione storica va interpretata in base all’ermeneutica dell’epoca, non l’ermeneutica di oggi”. L’ermeneutica? Per il resto la scoperta dell’acqua calda. Ci voleva così tanto?

Si vuole la cancel culture progressista? È così difficile d ire baggianata una baggianata, purché si dica progressista?

 

Si sprecano gli elogi funebri per Silvia Tortora, che molto aveva lavorato per la riabilitazione del padre, il famoso presentatore Enzo Tortora, ingiustamente messo alla gogna e carcerato. E si deprecano pentiti e giudici che lo perseguitarono per sconti di pena e carriera. Ma non se ne fanno i nomi, che invece sono importanti. Si può perseguitare a piacimento, anche da camorristi.


Con Tortora furono arrestate il 17 giugno 1983 altre 845 persone, tutte affiliate secondo la Pubblica Accusa alla Nuova Camorra Organizzata. Di queste 144 sono risultate omonimi, 65 sono state prosciolte in istruttoria, 266 assolte in tribunale, di cui 107 con formula piena.

 
Del caso Tortora si tace anche tutti i magistrati coinvolti, Procuratori e Giudici, furono assolti dal Csm il 4 novembre del 1989. Tutti. Nemmeno una censura, una possibilità di errore, niente. 

Partite Iva attivate e subito cassate, imprese di prestanomi, manodopera in nero, fisco inesistente: 35 mila casi sospetti di imprese cinesi denunciati in dieci anni. La Guardia di Finanza denuncia anche mette “il rischio cinese”, di concorrenza sleale e di monopolizzazione dei mercati. Con che esiti? I giornali no, ma qualsiasi esercente sa bene di che si tratta.

 

“Dietro il sistema delle partite Iva c’è una movimentazione enorme di capitali”, sempre la Guardia di Finanza delle imprese cinesi. Dietro le partite Iva fasulle. “Il 99,6 per cento delle segnalazioni appartiene alla categoria «riciclaggio»”  - “il restante 0,4 per cento alla categoria «terrorismo»”. Niente di meno. Ma facciamo finta di nulla.

 

Fanno giocare poco Dybala, perché chi ha avito il covid ha difficoltà a recuperare il fiato e i muscoli di prima. Dybala come altri, Ibrahimovic, anche se, certo, ha 41 anni, e molti altri, specie nelle squadre dove si corre molto, come l’Atalanta. Ci si ferma a Dybala perché fa senso vederlo in panchina, mentre sul campo non c’è nessuno che minimamente lo eguagli. E allora si crea un problema di contratto, come se non ne avesse uno – a quest’ora sarebbe in un altro club, no? Perché non si dice la verità? Che si conosce anche in abbondanza dall’atletismo americano e inglese. È talmente semplice.

 

“la Repubblica” celebra il veloce passaggio del “New York Times” al digitale: 1.700 giornalisti che offrono mille piattaforme per mille domande-richieste-mercati e nicchie. E nello stesso giorno aumenta il prezzo da due a tre euro. È invidiosa del “New York Times”, vuole affrettare il passo? Ma chi ancora compra il giornale non va a sfogliarlo su internet, in sommario per giunta.

 

Il “Morandini” del cinema premia per il 2021 Moretti, “Tre piani”, e segnala due docu-film. Escludendo Sorrentino, “È stata la mano di Dio”. Morando Morandini non c’è più, ma Zanichelli è sempre trinariciuto.

Cronache dell’altro mondo – settempiici (164)

L’inflazione negli S tati Uniti è aumentata di nuovo del 7 per cento a dicembre.
Il numero dei contagi da coronavirus continua a crescere di 700 mila casi al giorno in tutti gli Stati Uniti.
Il 7 gennaio la Commissione del Congresso che indaga sui fatti del 6 gennaio 2021 ha chiesto la testimonianza del capogruppo dell’opposizone (repubblicana) alla Camera dei Rappresentanti – per poter arrivare a mettere sotto accusa l’ex presidente Trump.
La rivista “The Atlantic” ripropone “Ceremony”, di Marmon Silko, pubblicato nel 1977, “una sensazionale inquietante meditazione su un paese pieno di fantasmi”.
“The Atlantic” propone il romanzo di Silko “entro una lista di sette storie di fantasmi che hanno superato la prova del tempo”.
E nella rubrica “Parole crociate” propone un “7 – orizzontale, sette lettere”: “una ditta di abbigliamento che ha preso il marchio dall’art style di Barbara Kruger” (la risposta, per chi ne ha la curiosità, è “Supreme”) .

La morale del figlio sacrificato

Il famoso poemetto “If”, di precettistica al figlio già adulto, “un piccolo tr attato, scritto in poesia, sull’educazione”. L’edizioncina si segnala per il saggio di Vittorino Andreoli che lo inquadra. Nell’etica positivista di fine Ottocento, di cui Kipling era, come ogni vittoriano anche di fuori via, imbevuto. E per rispecchiare, bizzarramente, la pedagogia di cui Kipling era stato vittima da bambino e poi ancora da adolecsente. Separato dai genitori a sei anni, mandato dall’India a fare le scuole in Inghilterra, insieme con la sorellina di due, pensionanti di famiglie che avevano l’obbligo, pedagogico, di non familiarizzare con i bambini affidati. Poi per un anno con i genitori in India, che a questo punto è già per lui una favola. Quindi di nuovo solo con la sorella n Inghilterra, per completare gli studi, altri sette anni. Quando torna a Lahore, avendo lasciato il college, a diciassette anni, è infine felice. Una liberazione. Scrive e pubblica poesie e racconti, affascinato dalla città, “quella meravigliosa, lurida, misteriosa collina di formiche”. L’anno dopo rientra anche la sorella. A ventun anni viene iniziato alla Massoneria, la “loggia madre”. A venticinque fa un giro del mondo e si stabilisce a Londra – a 42 anni, nel 1907, sarà Nobel.
A 25 anni Kipling ha già avuto bisogno di un’autobiografia. Dove racconta normalità immonde: “Uscendo una volta dalla chiesa, ho sorriso… Fu riportato alla signora Sarah”, presso la quale alloggiava, “e fui punito”. Annota Andreoli: “Confesso di avere letto queste pagine incredulo di come potesse essere l’educazione nella capitale dell’Impero britannico”. 
Quando invece pensa al figlio, e a come preservarlo e sostenerlo, gli indirizza questo poemetto, giustamente famoso per l’impianto e lo svolgimento, la scansione, la musicalità. Ma improntato alla durezza. Argomentato come possibilità (“Se”) e non come precetto, ma di un condizionale imperativo. Sono peraltro molte le condizioni da adempiere per “essere un uomo”.

Andreoli lo dice un modello pedagogico inclusivo, applicabile anche all’autore, del sapersi rendere protagonisti della propria esistenza, i dubbi e le difficoltà prospettandosi come possibilità - si vince, ma si può perdere: “Questo umanesimo mi affascina forse perché oggi fatico a trovarne traccia e vedo dominare le inimicizie, le lotte, persino all’interno delle famiglie, per non parlare delle guerre tra le comunità e tra i popoli”. Il “se”, dunque. E l’attesa: non “in tono fatalistico o passivo”, nota sempre Andreoli, ma “il segreto per cui, nella crescita, vale più l’attesa che l’azione” – precetto e metodo specialmente utili “in questo mondo riempito di tempo reale, che vuole dire dell’immediato, favorito dalle macchine (i computer)”.
Il precetto è semplice: avere fiducia in se stessi, anche nelle disgrazie. Curiosamente però, certo non per lo psicologo, manca l’affettività, la cui assenza è stata particolarmente sofferta nell’infanzia e la prima giovinezza dallo scrittore, le emozioni, i sentimenti: Kipling ripete col suo proprio figlio l’esperienza da lui sofferta. E si spingerà qualche anno dopo - il poemetto fu pubblicato nel 1910 - a volere a tutti i costi nel 1914 il figlio, appena diciassettenne e comunque riformato per problemi di vista, arruolato in guerra, nella quale verrà ucciso, senza speciale gloria, pochi mesi dopo.  
Rudyard Kipling,
Sarai un uomo, figlio mio, Garzanti, pp. 61 € 4,90

mercoledì 12 gennaio 2022

L’Europa e l’Ucraina

L’Ucraina 2022 come Cuba sessant’anni fa. Geograficamente non sembra la stessa cosa, ma lo è, anzi l’Ucraina è più vicina alla Russia di quanto Cuba lo sia agli Stati Uniti. Politicamente invece non è la stessa cosa, non c’è una guerra in atto, per quanto fredda. Oppure sì? E contro chi? Militarmente lo è: i missili Nato non sono diversi da quelli di Krusciov. La grande differenza è che l’Ucraina è in Europa – come la Russia del resto.
Un’altra similitudine s’impone. La Russia oggi come la Serbia nel 1999, solo rovesciata. Allora, si trattò di amputare la Serbia del Kossovo. D’imporre alla Serbia l’indipendenza di una sua piccola parte, il Kossovo, controllata da un mafioso, Hashim Thaçi. Il parallelo si rovescia perché l’Ucraina ha di russi una cospicua parte, un quinto della popolazione, che non chiede l’indipendenza – non l’ha chiesta fino ad ora, anzi fino al 2014, quando fu dichiarato il monolinguismo ucraino. Oltre che per il fatto, che non si può cancellare con una manifestazione “arancione”, che l’Ucraina tutta è un paese che fa parte della Madre Russia, nella tradizione. Shevchenko, sicuro ucraino, è di lingua madre russa - parla anche ucraino, ma male. Erano ucraini ancora ieri molti grandi russi: Gogol, Bulgakov, Babel, Maleviç, Nijinski - e Breznev. È difficile che diventi una base di missili contro la Russia. Anche perché, se abbaia, non morde: un intervento russo in Ucraina c’è già stato, nel carnevale del 2014, con l’annessione della Crimea, tutta russa, e di Sebastopoli, la base navale russa nel mar Nero.
La storia degli slavi è piena di guerre intestine, tribali o di religione. Con il Kossovo, e ora con l’Ucraina, questa tradizione bellicosa è stata assunta in tutta evidenza in un Grande Gioco. Che Gioco? Una guerra tra gli Stati Uniti e la Russia? Naturalmente no. E allora?
Contro l’Europa
L’Europa è assente dalla questione, che si sta giocando ben dentro l’Europa. A sua colpa. Si potrebbe pensare per un sano attendismo: non sapendo bene di che si tratta tra Washington e Mosca, prende tempo. Di fatto, però, l’Europa paga il conto: la guerra non guerreggiata, da otto-nove anni, è tutta a carico dell’Europa. Che ha bisogno di assicurarsi il gas russo a scadenza di decenni, e di molto petrolio, e vorrebbe poter beneficiare del grande mercato russo per i suoi manufatti e servizi, e invece deve imporre sanzioni economiche, sempre più stringenti – ormai siamo al terzo o quarto rinnovo.
Tutto questo è noto, perfino a Bruxelles. Ma non se ne esce. Come mai? L’Europa è da qualche tempo, dall’egemonia merkeliana, fuori da ogni manifestazione d’interesse ai suoi confini. In Ucraina come in Libia. O in Siria. E nella Turchia corridoio e mercato della Grande Immigrazione dall’Asia. Ma con l’Ucraina è disattenta in modo particolare. Dopo aver provato, con la presidenza Hollande in Francia, a diventare protagonista. Nel “formato Normandia”, il gruppo di lavoro a quattro, creato da Hollande con Germania, Ucraina e Russia nel 2014, a margine delle celebrazioni dello sbarco in Normandia, per cercare un accordo per la parte russa dell’Ucraina. Tanta buona volontà che ha dato l’anno dopo gli accordi di Minsk, per uno statuto di autonomia del Donbass russofono. Rimasti però lettera morta. Perché?  
La Russia nella Nato
Come già la guerra alla Serbia nel 1999, la crisi ucraina è palesemente imposta all’Europa. Finita la presidenza Clinton in America, di un presidente azzoppato (lame duck) dal solito scandalo, e quindi alla ricerca di diversivi, con la presidenza Bush jr. si era giunti all’opposto, a prospettare l’ingresso della stessa Russia nella Nato. In un’ottica di difesa comune contro il terrorismo islamico, ma in un quadro ben più vasto e di radicale revisione storica – la Russia è bene parte dell’Europa. Un’intesa si ebbe al vertice Nato di Pratica di Mare a fine maggio 2002, cui Putin fu invitato. Ancora nel 2011 si teneva un’esercitazione militare congiunta Nato-Russia. Ma con la presidenza democratica di Obama il clima era di nuovo allo scontro - tra Nato e Russia i contatti continuano, ma burocratici (una riunione è in corso anche oggi). Con l’Europa già eclissata, come al tempo di Clinton.
Obama, come Clinton del resto, è popolare in Europa. Ma più di Clinton ha lavorato per affossare ogni velleità di Fortress Europa, di un’Europa autonoma: in Libia, in Siria, sul progetto di libero scambio (la Transatlantic Trade and Investment Partnership). Biden è partito offrendo a Putin nel primo incontro a metà giugno un vertice con la Nato in formato Quint (Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia). Ma il suo partito evidentemente gli ha imposto un ripensamento.

La religione del Sud, cupa e comica

Nuova versione di Gaja Lombardi Cenciarelli, discorsiva, semplice – come lo è il linguaggio originale, seppure risalente al 1952. Titolo che si è imposto in italiano con il film che ne ha tratto John Houston nel 1979, ripreso dalla prima traduzione, Garzanti, 1985, di Marcella Bonsanti - il titolo originale è “Sangue saggio” (Wise blood). Introdotto da Elena Varvello – che riprende molto la presentazione di Fernanda Pivano all’edizione 1985.
Il “wise blood” del titolo, il sangue saggio, è quello del predicatore nipote di predicatore che, contro fornicazione e blasfemia, si fa apostolo di una “Chiesa della Verità senza Gesù Cristo Crocefisso”, nel Sud bianco – “Gesù è un trucco per i negri”. Scritta a 25 anni, pubblicata a 27, nel 1952, la novella fa di Georgia e Tennessee un ritratto forse più vero di quello socialmente impegnato di Faulkner. Su un’aneddotica esile, con personaggi di scarto, ma non eccentrici: in molti al Sud della Bible Belt si vogliono religiosi senza Dio, migliori.
Scene e ritratti di superficie, ma per ciò stesso a tutto tondo. Invece dell’approfondimento psicologico. Personalizzati. Ognuno si definisce per ciò che dice e fa. Una scena apparentemente di esterni, che però è viva, resta viva. Flannery o’Connor si è imposta come personaggio, invalida, cattolica, corrispondente acuminata, morta giovane. Ma riemerge per la scrittura, anche di realtà minime, perfino triviali.
“La religione del Sud, è qualcosa che, come cattolica, trovo penosa, commovente e cupamente comica”, scrive in una lettera (raccolta nell’epistolario “Sola a presidiare la fortezza”). Da qui la sua stessa definizione di “romanzo comico”, che dà come chiave di lettura alla riedizione del 1962: “L’ho scritto con allegria e dovrebbe essere letto, se possibile, allo stesso modo. È un romanzo comico su un cristiano malgré lui”. Su un fondo drammatico, che tiene su l’aneddoto: “Non avendo nulla che corregga le proprie eresie, la gente le elabora drammaticamente”, aggiunge.
Flannery O’Connor, La saggezza nel sangue, minimum fax, pp. 203 € 17

martedì 11 gennaio 2022

Secondi pensieri - 469

zeulig

Arte – Invera la storia? Si potrebbe argomentare che non c’è storia – narrazione, analisi, interpretazione, assunzione anche (precettistica) - senza arte. Senza l’invenzione, programmatica e poi esplicativa – un’attività in entrambi i casi sempre logica. E in una fase può essere. L’arte può essere passatista, ma è sempre innovativa, in quanto indaga e fa emergere leggi della Forma inconsulte, nuove, diverse, “uniche” anche, nel senso dell’approccio alla verità - che è immutabile e variabile, multiforme anche. In teoria (all’aspetto) una confutazione della storia, una contrapposizione. Ma, curiosamente, lo fa per sottomettersi alla storia.
Senza la storia, l’arte più innovativa e meglio riuscita sarebbe inerte. Nella storia, d’altronde, l’arte esprime le sue potenzialità più remote, perfino ignote (involontarie, non volute). È il caso per esempio di Dostoevskij, del suo pensiero politico regressivo, anzi reazionario, che però esprime in forme quando di più rivoluzionarie (personaggi, azioni, gli stessi “messaggi” di cui abbonda). O di molto figurativismo in opposizione all’astrattismo, al non figurativo – più pregno di segni e significati del più elucubrato astrattismo.   
     

Censura – Quella perfetta si elegge a non censura. In un breve scritto del 1967, “Per una guerriglia semiologica” (ripreso in “Il costume di casa” e ora incluso in “L’era della comunicazione”) Eco delineava – e rigettava – la possibilità che il bombardamento mediatico, specie a opera di fonti irrilevanti o minime, potesse condizionare il pensiero e le azioni, senza appello possibile, o resistenza. Uno scenario che alcune critiche della società di massa prospettavano e che Eco giudicava “apocalittico”. Ma è quello che succede ordinariamente con i social e le media communities oggi, mutata la temperie culturale, politica. Che possono promuovere quello che in teoria censurano, escludendo programmaticamente e anzi combattendo i cospirazionismi – “contenuti ingannevoli”. Esercitano cioè la vera censura, inappellabile: è vero complotto il loro “complotto”, l’intervento censorio senza appello. Il massimo di libertà, fino alla licenza, erotica, politica, blasfematoria, insultante, col massimo di chiusura, inappellabile, insindacabile.
Twitter non dà la ragione del blocco di un tweet o la cancellazione di un account. Blogger, questa piattaforma, la dà ma senza possibilità di dialogo.
Un caso: “Abbiamo ricevuto una richiesta di revisione per il tuo post intitolato "Paghe basse e precarie addio, è un’altra globalizzazione". Abbiamo stabilito che viola le nostre norme e 
abbiamo annullato la pubblicazione dell'URL 
http://www.antiit.com/2018/01/paghe-basse-e-precarie-addio-e-unaltra.html
rendendolo non disponibile per i lettori del blog.
Perché la pubblicazione del tuo post del blog è stata annullata?
I tuoi contenuti hanno violato le nostre norme relative a malware e 
virus”.
Perché è una censura? La ragione è falsa: avendo pubblicato oltre 12 mila post su blogger l’amministratore del sito non può essere ritenuto un hacker. È compito della piattaforma rilevare e eliminare malware e virus. E: “Abbiamo ricevuto una richiesta” che vuol dire? Da chi e perché? Ma con la “comunità”, come blogger si definisce, non si può interloquire.
P.S. - L’esempio può non risultare probante, denunciando forse solo una contorsione avvocatesca, come è l’uso nella pubblicistica americana, più che una volontà censoria. Il “team” della piattaforma infatti conclude: “Per pubblicare nuovamente il post, aggiorna i contenuti per fare in modo che aderiscano alle Norme della community di Blogger”. Il malware è un contenuto?
Ma è indicativo del modo di funzionare dei social: tassativo, senza rimedio.
 
Europa (Occidente) – Discuteva vent’anni fa nel progetto di Costituzione se chiamarsi cristiana oppure no. Non si chiamò cristiana, a opera di grandi laici quali Giscard d’Estaing e Giuliano Amato, personalità guida della Convenzione referente, e non si chiamò del tutto, il progetto di Costituzione essendo stato subito bocciato, per prima dalla laica Francia. Pochi anni dopo l’Europa non c’è più, nella politica internazionale, comprese le sue proprie frontiere, l’Ucraina, la Siria, la Libia, nella cultura, e perfino negli affari, pur essendo, in teoria, la seconda potenza economica del mondo. Per motivi altri probabilmente - la regressione politica, le discrasie dell’euro, bizzarramente ritenuto inerte, la diversità di tradizioni e costumi più forte delle convenienze. Ma il concetto di Europa, o Occidente, combacia col cristianesimo per molti aspetti. Per quelli formativi, e quindi costitutivi: la concezione del progresso (del tempo, del futuro), della perfezionabilità, anche a costo del sacrificio, e quindi della scienza - dell’innovazione se non del metodo scientifico. Che sono gli unici fondamenti su cui l’Europa-Occidente ha prosperato. Si deve arguire che l’Europa scompare con il cristianesimo – la tesi di Baget Bozzo, il teologo prestato alla politica?
 
StupiditàNelle analisi, poche, alla fine la stupidità è assolta: è un fatto linguistico. Lo è Giufà, lo sono i luoghi comuni di Flaubert, il totalitarismo di Adorno, il signor Chance di Kosinsky (“Oltre il giardino”), il complottismo di Eco e Sciascia. Ma su questo terreno con vicende alterne. È una difesa, secondo Barthes: “Bisogna sentirsi stupidi per esserlo di meno”. Anche “naturale”, con Kundera. Ma per lo più sotto attacco: “Imbecilli”, dice Flaubert, l’idiota di casa, “sono quelli che non la pensano come voi”. O Clitandro delle molieriane “Donne saccenti”: “Avete capito male, malissimo, e io vi sono garante\ che lo stupido saccente è stupido più d’uno ignorante”. Ma la materia attrae, e del resto Pascal voleva stupido Montaigne, perché si dipingeva pieno di saggezza – come Pascal. 
 

Notevole Deleuze: la bestia, bête in francese, non è soggetta alla stupidità, bêtise. La stupidità è una sorta di basso continuo, a leggere Deleuze, specie in “Nietzsche e la filosofia”, qualcosa che sta lì in agguato e s’impone in mancanza dell’intelligenza. Un’analisi semplice, quella che manca oggi nell’interminabile dibattito sula stupidità prevalente, assorbente, dei social, i blog, i gruppi, le comunità - del chiacchiericcio. La stupidità di Deleuze è una costante, di cui l’intelligenza deve sempre liberarsi - il suo reagente, si direbbe: “È una struttura del pensiero come tale e non un modo di ingannarsi”. Ed “esprime in linea di principio il non-senso nel pensiero”. Non è un errore: “Vi sono pensieri imbecilli, discorsi imbecilli che sono costituiti per intero da verità”. False - Deleuze le dice “basse”, in linea con Nietzsche in guerra contro la “bassezza” dell’epoca - o volgari, che pescano nel fondo, i resti, la zavorra – il trionfo nietzscheano dello schiavo, eccetera.

Notevole anche la conclusione di Adorno e Horkheimer alla “Dialettica dell’illuminismo,” l’opus magnum cui avevano lavorato durante la guerra, al sicuro negli Stati Uniti: la stupidità è la chiocciola che si ritrae di fronte all’ostacolo, un riflesso nervoso, la paura diventata stabile: “Il simbolo dell’intelligenza è l’antenna della chiocciola ‘dalla vista tastante’, che le serve anche per odorare. L’antenna si ritira subito, davanti all’ostacolo, nella custodia protettiva del corpo, torna a fare una sola cosa col tutto, e solo con estrema cautela si avventura di bel nuovo come organo indipendente. Se il pericolo è ancora presente, torna a sparire, e l’intervallo fino alla ripetizione del tentativo aumenta”. La chiocciola procede, cauta ma intraprendente, come l’intelligenza, che Adorno e Horkheimer vogliono curiosa. Se respinta, l’intelligenza si demoralizza – la chiocciola si desensibilizza – e finisce nell’insensibilità: “La sensibilità della chiocciola è affidata a un muscolo, e i muscoli si allentano quando il loro gioco è impedito. Il corpo è paralizzato dalla lesione fisica, lo spirito dal terrore”. L’analogia è forzata, ma la direzione sembra inappellabile: “L’animale diventa, nella direzione da cui è stato definitivamente respinto, stupido e schivo”. Definitivamente o parzialmente: “La stupidità è una cicatrice”, anche “impercettibile, una piccola callosità, dove la superficie è insensibile”, ma “le cicatrici” creano deformazioni, e “possono creare ‘caratteri’, duri e capaci, possono renderli stupidi”. L’intelligenza-curiosità vuole rischio, il rischio fa paura, chi si ritrae nel guscio resta stupido.

Anche il “transpolitico” di Baudrillard prometteva bene. Che sa di “trans”, senz’altro: la stupidità è “l’anomalia, ossia una difformità senza conseguenze, senza più alcun carattere di sfida o di trasgressione” - siamo tutti trans-stupidi, sulla via di?).

zeulig@antiit.eu

Alla conquista della spezie della noia

L’occupazione di un pianeta polveroso, che produce una “spezia”, una sostanza in grado non si capisce bene di che cosa, forse di prolungare la vita. Un rifacimento del tentativo di Dino De Laurentiis di cavalcare nel 1984, dopo una lunga complicata preparazione, il successo stellare di “Guerre Stellari”, bissato da Spielberg con “E.T. l’extraterrestre”. Con David Lynch alla regia, e con Silvana Mangano, José Ferrer, Sting (sic!), Max von Sidow. Un tentativo finito in un flop che fece epoca.
Due ore e mezza, poco meno, di una guerra insostenibile, di facce per lo più. Soprattutto di quella monoespressiva di Chalamet, il protagonista di cui si celebra il rito di passaggio, alla maturità. Asssortite da effetti speciali digitali da teatrino dei pupi – un capolavoro al confronto i mostriciattoli di Carlo Rambaldi per il fallimento di De Laurentiis. Un niente che ha raccolto in due mesi 400 milioni di dollari. Pochi al cospetto dei tre miliardi di “Guerre stellari”, del primo di una serie, molti per l’investimento: il successo della stagione, tanto che è già partito il seguito.
Decisamente, il millennio è partito male, senza idee e senza fantasia. Con scene e immagini da poco, vedi “Il trono di spade” prima di questo “Dune”, e sceneggiature di personaggi triti e frasi fatte. L’avventura nel cosmo - che non avrà luogo, a differenza della scoperta dell’Africa - è l’unica residua fantasia?
Denis Villeneuve, Dune, Sky Cinema

lunedì 10 gennaio 2022

Cronache dell’altro mondo – complottarde (163)

A un anno dall’assalto al Congresso dei manifestanti pro-Trump si cerca di fare di Trump il capo dell’insurrezione. Di un attacco preordinato: un complotto di Trump contro le istituzioni democratiche. Vi sono impegnati il partito Democratico, svogliatamente, e con impegno i media –
  tv, giornali, social. Gli stessi che criticano la psicosi debordante del complotto.
Negli anni 1960 tre film di largo pubblico, con ottimi attori e registi di fama, “Il dottor Stranamore”, di Kubrik con Peter Sellars, “Sette giorni a maggio”, di John Frankenheiner con Burt Lancaster, Kirk Douglas, Ava Gardner, Martin Balsam et al., e “A prova di errore” (“Fail Safe”), di Sidney Lumet con Henry Fonda e Walter Matthau - rifatto per la televisione nel 2000 - prospettavano un colpo di mano militare contro i egoverno degli Stati Uniti. Erano di dopo l’assassinio di Kennedy, ma prima dell’avvento di Nixon – che con Kissinger e il Watergate avrebbe saturato l’opinione del golpe. “Sette giorni” e “A prova di errore” erano derivati da romanzi del 1962.

La dittatura della comunicazione

Si risistemano gli scritti d’occasione di Eco, da lui già raccolti sotto vari titoli (“La bustina di Minerva”, “Il costume di casa”, “Sette anni di desiderio”, etc.), per tema. A cura di Anna Maria Lorusso.
Il primo testo, del 1967, si impone per l’attualità. Eco richiama “i critici più severi della cultura di massa”, tema allora in grande spolvero, “che avevano affermato: «I mezzi di massa non trasportano ideologie: sono essi stessi una ideologia»”. Affermazione che Eco ricorda di avere detto in un suo libro “apocalittica”. Poiché “sottintende questo altro argomento: non importa cosa direte attraverso i canali di comunicazione di massa; nel momento in cui il ricettore è attorniato da una serie di comunicazioni che gli arrivano da vari canali, contemporaneamente, in una data forma, la natura di queste informazioni ha pochissimo rilievo”. Non si saprebbe descrivere con maggiore precisione il quadro attuale, dei social. Eco non condivideva Marshall McLuhan, “il messaggio è il mezzo di comunicazione” – “apocalittico”. Oggi - ma già ieri - realtà.
Curiosa, nello stesso scritto, un’altra anticipazione. A proposito delle teorie cospirative che già negli anni 1960 attanagliavano l’America. Con una serie di film, di grandi registi con grandi interpreti, di successo, su tentativi di colpi di Stato. “In tutti e tre i film”, nota Eco, “i militari non cercavano di controllare il paese attraverso la violenza armata, ma attraverso il controllo di telegrafo, telefono, radio e televisione”. Non attraverso i giornali, si noti. Una dimenticanza? È possibile, perché oggi i giornali fanno una cosa e l’altra: fustigano la mentalità complottistica, dei no wax, dei trumpiani, degli evangelici, nel mentre che denunciano complotti dei no wax, dei trumpiani, e perché no delle chiese, in materia di elezioni, aborto, covid e vaccini.
Ora bastano gli organi d’informazione, non c’è bisogno dei generali. Nella forma surrettizia della censura - a opera cioè degli stessi “organi d’informazione”, come dire la censura perfetta. Oggi i film sono sullo strapotere dei media, “Il quinto potere”, “Tutti gli uomini del re”, e numerosi altri, ma soprattutto “The Post” di Spielberg, che rivede l’epopea di “Tutti gli uomini del presidente”, 1976 - in effetti un po’ ridicolo a rivedere, benché recitato da grandi attori: un po’ vecchia vita dei santi.
Difficile anche togliersi di dosso il pondo dell’informazione in questi due anni ormai di pandemia: aggressiva, invadente, avventata, confusionaria. Eco, che scrisse sempre sui giornali, restò fino all’ultimo perplesso, fino al suo ultimo romanzo, “Numero zero” – il settimo, numero perfetto?
Umberto Eco, L’era della comunicazione, la Repubblica-l’Espresso, pp. 143 € 9,90

domenica 9 gennaio 2022

Problemi di base intelligenti - 679

spock


Perché porsi il problema se la macchina può risolverlo?
 
L’intelligenza artificiale come suprema forma di uguaglianza?
 
È l’intelligenza l’opposto della stupidità?
 
È intelligenza conoscere la stupidità?
 
Tutto è puro per i puri, tutto è sciocco per gli sciocchi?
 
Quanto è intelligente l’intelligenza artificiale?

spock@antiit.eu
 


Alla ricerca del paese perduto

Abbandonato all’improvviso dalla giovane moglie, l’istitutore Adem molla gli ormeggi. Si licenzia dalla scuola e si fa barbone errante, muto, negli occhi tutte le pieghe del paese, la città, la campagna, i deserti, di fatto nella Mitidja, la vasta piana collinare alle spalle di Algeri. Tra i “dimenticati della terra” di Frantz Fanon. Ma un mondo ancora civile, accogliente, che ospita e nutre l’errante. Malgrado i malversatori. Un vecchio cieco lo ipnotizza col canto. Uno psichiatra, quando lo Stato benevolente decide di ricoverarlo, lo cura con Gogol e Puškin. Ma più fa l’umanità dei poveri e degli esclusi. Un nano lo salverà a più riprese, lettore di Lutero, Claudel e monsignor Knox (anche “di alcuni dei suoi romanzi gialli”), poeta a tempo perso, un bambino abbandonato cresciuto dalle suore, che gli hanno insegnato come la scrittura sia il proprio dell’uomo, e non il riso.
Siamo nel 1964-1965, all’indomani dell’indipendenza gloriosa. Con la corruzione che già s’impone alla rivoluzione, al presidente Ben Bella. In un’Algeria ancora tribale, nelle sue espressioni migliori di giustizia e di solidarietà. Paese già d’elezione dei pied-rouges, i giovani europei che sfuggono la naja facendo i cooperanti, pensosi in assenza di un mestiere. Un mondo composito, con cui Adem, uomo di città, comunica “col silenzio e con le assenze”.
Lo scrittore franco-algerino porta avanti la sua narrazione dell’Algeria dell’indipendenza, dopo “Le Baiser et la Morsure”. Con un viaggio tra gli umili, il “sale della terra”. Un ritorno alle origini, un tentativo di dissodare umori giovanili perduti. Una ricerca, breve, del paese perduto. Un “viaggio al termine della notte” per molti aspetti consolante, nella desolazione. Che si apre infine alla speranza – la riedizione tascabile contiene “una fine alternativa inedita”. Mettendo assieme arabi e cabili, mussulmani e cristiani, senza identitarismi, in un paese liberato che potrebbe essere diverso, amministrato almeno decentemente, se non bene.
Yasmine Khadra, Le Sel de tous les oublis, Pocket, pp. 281 € 7