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sabato 12 giugno 2021

Problemi di base amorevoli (pavesiana bis) - 644

spock

“Un uomo non rimpiange per amore chi l’abbia tradito, ma per avvilimento di non averne meritato la fiducia”, C.Pavese?
 
“Amore è desiderio di conoscenza”, id.?
 
“I grandi poeti sono rari come i grandi amanti”, d.?.
 
“L’amore è la più a buon prezzo delle religioni”, id?
 
“I libertini sono sentimentali”, id.?

“Chi non ha avuto sempre una donna, non l’avrà mai”, id.?

spock@antiit.eu

Ecobusiness – le colonnine elettriche rendono il 200%

Il cornoletame e altre suggestioni della biodinamica saranno finanziate dal governo al pari delle colture biologiche, se la legge approvata al Senato a fine maggio passerà alla Camera. L’Accademia dei Lincei ha protestato con veemenza contro l’estesione dei benefici alla biodinamica – “il Paese di Galileo può finanziare pratiche magiche?”. Ma la senatrice a vita Elena Cattaneo, farmacologa, ha esteso lo stigma anche alle colture biologiche, scrivendone sul “Venerdì di Repubblica” del 28 maggio: “Dai no vax agli ogm, quante bugie!”.
Il business del momento in Borsa sono le colonnine di ricarica elettrica per automobili – le società delle colonnine di ricarica: Tesla, la tedesca Ionity, la cinese Qingdao, le americane EVgo, ChargePoint e Blink, per l’Italia Enel. McKinsey stima nel decennio un investimento per la rete di ricarica pubblica fino a 180 miliardi di dollari, per le colonnine pubbliche e per quelle private. Di cui 50 nei soli Stati Uniti.
McKinsey dà pure un Tsr astronomico per le società della mobilità elettrica: di be un 187 per cento nel 2020, una remunerazione quasi doppia del prezzo iniziale (il Tsr, total shareholder return, somma all’aumento di valore del titolo l’eventuale dividendo).

La peste siamo noi

“La peste è fra noi perché è già da sempre in noi. Noi siamo la peste e l’antidoto alla peste. L’infezione e la cura. I vettori del contagio e il vaccino”. È condizione vitale: “Solo dove c’è esposizione alla furia devastante del microbo c’è vita”. Sopravvive “colui che è immune”. Di più, “essenza della civiltà è l’immunità”. Ma come si distribuisce l’immunità, con quale criterio? “Sembrerebbe difficile poter indicare altro che il caso. O tutt’al più la selezione naturale”. Un ordine dunque, seppure disordinato (irregolare) e incolpevole? Ma ipostatizzando un procedimento, la selezione naturale, che è invece manipolabile?
Non si finirebbe con gli interrogativi, la trattazione è densa, elaborata. Fluente: la peste, “questo non-senso, è il senso”. La riflessione che meglio di tutte avrebbe dovuto accompagnare la pandemia, un anno e mezzo ormai di sensi di colpa e di incertezze – trascurata dall’editore, si sarà dimenticato di averla in catalogo, dalla critica, dai media, che non amano riflettere?  Partendo da Lucrezio – ma già Omero apre l’“Iliade”, il poema della luce,  con la peste.
“Colpa e destino” è il sottotitolo. Sviluppato in un’introduzione concettosa sui due termini. In Jaspers, che la nozione di colpa provò a formulare, non in senso biblico, in quello storico e politico. E in Heidegger, che la risolve-decolpevolizza in destino. Qualcosa non funziona, nota Givone: “felix culpa”, il peccato originale, è “l’ossimoro più improbabile”, da Agostino a Kant. “Che cos’è la colpa tragica, o amartia, di cui il peccato originale sarebbe a suo modo la traduzione?” Un non senso: “Per un verso colpevolizza e per l’altro assolve colui che ne è portatore”. Altra è la tradizione greca: si parte dall’adikia, l’ingiustizia di Anassimandro, e si arriva alla colpa, di genere e personale. “«La peste sono io!», esclama Edipo”, che “definisce se stesso «male dei mali, male che genera male ed è generato dal male»”. Questo è il “luogo del tragico, in quanto è il luogo della responsabilità e della libertà” – “mentre in una visione materialistica e naturalistica la coscienza, ammesso che si possa parlare di coscienza, è passiva”, deve giusto accomodarsi alla necessità e pagare il debito, “in una visione mitico-religiosa, cui la tragedia sofoclea rimanda, la coscienza è invece attiva: responsabilità e libertà le appartengono”.
Lucrezio viene all’inizio, imposta l’avvertenza, e ritorna, in esteso, alla fine. In sintesi: “Per Lucrezio la natura è difettosa e quindi colpevole… Esatta allegoria della colpa incolpevole è la peste”. Lucrezio come già Tucidide, e prima ancora Sofocle.
Si comincia con i romanzieri, Cormac McCarthy, “La strada”, e Jack London, “La peste scarlatta” – prima della quale, nel 2013 (“era l’estate del 2013 quando scoppiò la Peste”), ce n’era stata una, la “peste Pantoblast”, nel 1984: la data orwelliana era già romanzata. Ogni autore è lungamente analizzato, con non poche sorprese. Segue Camus, lungamente. Che Givone pone sotto l’influenza di Melville - Moby Dick, il Leviatano. Una anamnesi, inoltre, proponendo del racconto di Camus in contrasto con quanto oggi si vive, si è vissuto, nei lockdown, la stanchezza nell’immobilità, anche del desiderio, anzi proprio del desiderio. La peste, scrive Camus, “è poca cosa”. Anche nella sua peste la vita si oscura e si opacizza. Ma è un grilletto, argomenta Givone, un incentivo: “Riattiva la memoria, acuisce il desiderio”.
Seguono la peste in Artaud, nel “teatro della crudeltà”, la Nazi-Peste, analizzata nella forma della peste linguistica, repertoriata da Viktor Klemperer nella grossa ricerca “L.T.I. Lingua Tertii Imperii”, la “banalità del male” come spiegata da H.Arendt all’esterrefatto Gerschom Scholem, il “Sogno di un uomo ridicolo” di Dostoevskij, molto Manzoni, del romanzo e della “Storia dela colonna infame”, Leopardi (il “choléra” a Napoli), Berni, E.A .Poe, anch’esso analizzato in lungo, il Puškin della pièce “Festino in tempo di peste”, Mary Shelley dello sfortunato “L’ultimo uomo” – la peste era tema diffuso a Londra nel primo Ottocento, Byron, “Darkness”, Percy B. Shelley, “The revolt of islam”, e altri – e gli illustratori, tra essi William Blake.
Si finisce con Boccaccio. E poi di nuovo Lucrezio, a lungo.      
Sergio Givone,
Metafisica della peste, Einaudi, pp. 205 € 22

venerdì 11 giugno 2021

Se Tesla strapazza Volkswagen – la bolla di Borsa

Tesla l’8 gennaio, due anni dopo la quotazione a Wall Street, valeva 802.6 miliardi di dollari – dietro solo Apple, Microsoft, Amazon e Alphabet (Google). Un mese dopo, in quattro settimane, aveva perso 234 miliardi di capitalizzazione – cioè qualche milione di investitori aveva perso su Tesla 234 miliardi – quotando 574 miliardi, e a tale livello è rimasta – oggi 583 miliardi.
Ai 583 miliardi di oggi, Tesla è comunque quattro volte Volkswagen, che oggi vale 136 miliardi di euro – 165 miliardi di dollari. Tesla, che impiega 20 mila dipendenti, ha chiuso il 2020 con un fatturato di 26 miliardi di dollari e perdite per 144 milioni. Volkswagen, con 671 mila dipendenti, fatturava 252 miliardi di dollari, dieci volte Tesla, con 12 miliardi di profitti.

Milano degli untori

Si ripubblica un saggio di dieci anni fa, premiato dal milanesissimo Bagutta, di un lombardo milanesizzato  contro Milano, e non ha la punta polemica, pamflettaria, che si avvertiva alla prima lettura. Non è un prodotto della superbia intellettuale, né dell’età, Stajano va per i novant’anni, né naturalmente degli sdegni da talk-show, da piccolo teatro, ora in uso. Non è uno scrittore che vuole dire male di Milano, è un milanese sdegnato che prova a darsi conto – che si analizza, si spiega. Perciò, forse, più malinconico.
È un itinerario storico che Stajano percorre. Implacabile, un elenco di “ombre”, di turpi eventi, comportamenti, attitudini. Ma da teste pietoso, anche se arrabbiato, non da censore, da maestro di scuola. Dal lazzaretto della peste al fascismo, che fu milanese più che romagnolo, alle caserme di tortura repubblichine, al terrorismo nero (piazza Fontana), al terrorismo rosso, con le sagome delle vittime disegnate sul selciato al gesso bianco. Una città che Stajano vede sempre lucente come la vedeva Bonvesin de la Riva, con i suoi canali argentei, ma incontra cupa e aggressiva. Leghista. Senza più borghesia dopo che non ha più fabbriche e operai. Di una ricchezza perfino spropositata, nei servizi, come le tv di Berlusconi, che si alimenta di happy hour tanto vanitosi quanto vuoti, insapori. E corrotta, corruttrice.  
Il titolo era, e resta, minaccioso: Milano è la città degli untori, non della peste.

Corrado Stajano, La città degli untori, Il Saggiatore, pp. 232 € 19

giovedì 10 giugno 2021

Ombre - 565

I superricchi americani possono non pagare le tasse. Qualcuno anzi, p. es. Bezos, il più ricco di tutti,  può andare in credito d’imposta. Non se ne discute però negli Stati Uniti, dove tutto è materia di scandalo, questo no – ovvero sì, ma solo in chiave anti-Trump. Ora che i dati sono stati pubblicati da una talpa, l’Agenzia delle Entrate americana è furibonda: è stata violata la privacy. Indaga su chi ah pubblicato i dati, e minaccia querele contro il sito che li ha pubblicati, ProPublica. Gli Stati Uniti sono proprio un altro mondo: la ricchezza è il segno della grazia – forse hanno letto Max Weber, o Lutero.
 
Va Kamala Harris, la vice-presidente americana che si vuole molto di sinistra e molto di colore, non essendo né l’una cosa né l’altra, in Guatemala, e dice secca alle masse che premono sul Rio Grande: “Non venite, sarete rimandati indietro”. Anche la sinistra in America è tutto un altro mondo.
 
Amara è gli arresti, dopo avere infangato mezza Italia, per la serie scandalo scaccia scandalo. Ma nell’ottica sinistra-destra,  che quindi ancora c’è in ambito giudiziario. Zitti e mosca sulla Procura di Milano, arresti su quella di Taranto. Anche perché in qualche modo l’avvocato via Taranto può sporcare Casellati e Salvini. Ma dimenticando che il suo intermediario presso i poteri pubblici, un agente di Polizia, veniva da sinistra. Non è giustizia, ma è informazione: per chi, chi ci crede?
 
Scandalo scaccia scandalo si può dire così: i giudici si divertono, “se ne strafottono” direbbe il cinico Camilleri, tanto non sono responsabili. Ma perché le polizie e i giornali ci impiegano tanti agenti e giornalisti? Per non fare (prendere i delinquenti) e dire il resto?

Liberescion

Li volevano liberare i russi

E poi gli americani

Con gli italiani zelanti,

questi poveri afghani

in burnous o caffettani

come bestie in cattività

al circo equestre


Ammainabandiera triste in Afghanistan dopo l’Irak. Due guerre, con moltissime spese e anche morti per nulla. Perché non si esporta la democrazia. Se non in ambito culturale democratico, dove cioè la parola significa qualcosa. Perché le differenze culturali, come ora si vuole chiamarle, esistono. Negarle, per di più con i bombardieri, di che cultura è espressione?
 
La “naturalezza” dell’assassinio della ragazza pakistana di Novellara da parte di genitori, padre e madre, e di zii e cugini “normalissimi”, lavoratori, pacifici, dice quanto le differenze culturali ci siano e pesino. Fino al punto da “giustificare” un assassinio a freddo, senza provocazione o lite, e per motivi banali. Negarle non solo è stupido, è dannoso – alle stesse comunità che si pretende di standardizzare.
 
Sabato 29 si va al Sud tutti insieme, sembra un sabato di agosto, settecento km. continuamente affiancati. Sabato 5 giugno il percorso inverso va in solitario, c’è pure il rischio di addormentarsi per la guida senza problemi. Appena liberi, un’ubriacatura – è pure vero che il 2 giugno quest’anno è stato propizio per “ponti”.

Brusca libero, in una residenza protetta, con una congrua pensione,  tutto a carico dello Stato (residenza, protezione, pensione), fa impressione. Ha 64 anni, di cui 25 passati in carcere, ma solo 4 al carcere duro, dopo avere ucciso, dice lui, 150 persone (e le stragi, ne era specialista, si contano per uno?), quasi tutte con modalità crudeli. Si dice: ha contribuito a battere la mafia? Quale, quella dei perdenti?
 
La Barbera fa, su “Lotta Comunista”, un parallelo singolare fra il match Usa-Cina di oggi e quello Inghilterra-Germania dell’“Imperialismo” di Lenin, che sfocia nella Grande Guerra. Lo stock cinese di investimenti all’estero è passato nei vent’anni 2000-2020 dall’1 per cento al 30 per ceto di quello americano. Sommando a quello targato Pechino l’investimento estero targato Hong Kong la percentuale è del 50 per cento. Bene, è la percentuale che aveva raggiunto Berlino nel 1914 nei confronti dell’imperialismo inglese dominante: “La Germania guglielmina aveva circa la metà dello stock di capitali all’estero della Gran Bretagna”. Da qui la guerra?
 
Si va al salvataggio (il quinto, il sesto) di Alitalia, non ché d Mps, e di Ilva, col riacquisto, a carissimo prezzo, almeno tre volte quello della privatizzazione, di Austostrade: la legislatura marcata dal partito 5 Stelle sarà stata, all’insegna del “nuovo”, quella marcata dall’assistenzialismo puro e semplice, dagli assegni ex-invalidità ai salvataggi senza più.

L’America triste

Il titolo orginale è “Mare of Eastown”. Mare Sheehan, una dolente Kate Winslet, è il detective di una piccola città della Pennsylvania, dice la tramina, che indaga su un omicidio, nel mentre che cerca di puntellare la sua vita traballante.
Bene, cioè non è questo il punto – la  serie, nei primi due numeri, “Miss Lady Hawk in persona” e “Padri”, si annuncia robusta, per la “presenza” di Kate Winslet e per la singolare serie di interni piccolo borghesi, nel senso dell’arredamento e in quello delle abitudini familiari. Lo schema è sempre quello: si va per colpevoli evidenti mentre si sa che il vero assassino è, dev’essere, un insospettabile. Ma il contesto è mutato, in questa come in altre serie da qualche anno – come del resto nei film di Hollywood, magari girati da registi di origine asiatica o latinoamericana: è un mondo grigio e piatto, in qualche modo sporco, anche quando si pensa pulito e felice. E non c’è un senso etico della vita, non c’è il buono distinto dal cattivo, tutto è in qualche modo sporco, per essere squallido.
È il rovesciamento dell’American Dream. Che si poteva pendere come una mutuazione delle forme espressive europee, italiane, postbelliche, del neorealismo. Che significa anche un cinema al rispamio, non costoso. Ma è – è evidente anche dagli Oscar, che da qualche anno non premiano che lo squallore, visivo e morale – un fatto culturale e forse epocale: dell’America che non crede più a se stessa, al destino manifesto, e per reazione si lascia cadere a terra, si avvoltola nel letame.    
Una produzione Hbo. Craig Zobel è il giovane regista, Brad Ingelsby l’ideatore e produttore della serie.

Zobel-Ingelsby, Omicidio a Eastown, Sky Atlantic

mercoledì 9 giugno 2021

Letture - 459

letterautore

Dialetto – La lingua della “grande poesia”, per Cesare Pavese, “Il mestiere di vivere”, 5 ottobre 1943 - nella fase in cui il dialetto è la lingua. Tradito in questa funzione quando è stata “scoperto” e eretto a lingua: “Il secolo scorso condusse a termine il tradimento del dialetto scoprendolo e assegnandogli un posto accanto ala lingua letteraria Così il dialetto finì di perdere quella sua all-pervadingness sottesa a tutti gli sforzi letterari in lingua”, che da tempo si veniva disseccando, nel rigore accademico: “La grande poesia era cresciuta su un terreno di lingua e dialetto indifferenziati, il volgare”.
 
Disinformazione
– “Alcibiade tagliò le orecchie al suo bel cane e lo mandò sulla piazza, dimodoché il popolo chiacchierasse di questo lasciandolo in pace nelle sua altre attività” – Montaigne, ”Saggi”, Oscar, 1109
Follia – È solo umana. Così riflette un personaggio di Scerbanenco, il romanziere, il paracadutista Ulissi di tutte le guerre: “Ciò che distingueva l’uomo da qualunque altro essere vivente era la capacità di follia. Solo l’uomo può essere folle, e anche ludicamente, serenamente folle. L’animale può essere furioso di rabbia ma non folle, razionalmente folle”.  Quindi: “La follia è il segno d’onore dell’uomo”
E ancora: est gradus ad folliam.
 
Giornalismo
– “Eingesendet”, inviato, da un lontano Concerto di Capodanno a Vienna: ¨Polka veloce di Johann Strauss, dedicata ai giornalisti, del cui appoggio c’è sempre bisogno” – presentatrice alto-atesina.

Salvemini, giornalista, aveva “l’abominevole giornalismo italiano” - cit. da W. De Mauro, in “Pasolini: cronaca giudiziaria”, 253.

Grecia e Roma – La Grecia è un’isola, spiega Gertrude Stein (“Autobiografia di A lice B. Toklas”) a Bertrand Russell, discorrendo di istruzione: “L’Inghilterra che è un’isola ha bisogno della Grecia che fu o potrebbe essere stata un’isola. In ogni caso il greco è essenzialmente una cultura isolana” – diverso il caso per l’America, continua: “L’America ha bisogno essenzialmente di una cultura continentale che è di necessità latina”.
Odissea – “Tutte le maniere di vedere il mondo sono buone, purché si torni”, anche dai lager di Hitler - Nicolas Bouvier, “L’uso di mondo”, 1953, a proposito di un’ebrea macedone, “una ragazzona spessa e rossa, piantata su larghi piedi nudi”, che è stata internata tre anni a Ravensbrück, il lager nazista femminile, orgogliosa di essere stata in Germania e di parlare tedesco.

Proust – Si direbbe scrittore “cattolico” – più di scrittori “cattolici” per etichetta, tipo Mauriac: ha riferimenti morali, rituali e religiosi unicamente cattolici, e più, e più sentitamente oltre che a proposito, di scrittori per definizione “cattolici”- Riferimenti non biblici, nemmeno evangelici (ma un po’ di vangelo c’è qua e là), eminentemente rituali (culti, chiese, santi, sacramenti, pratiche), ma sentiti, non d’accatto. Questo risalta nella brevità degli inediti, abbozzi di racconti, che ora si pubblicano sotto il titolo “Il misterioso corrispondente”: nell’economia ristretta della scrittura i riferimenti sono molteplici e, soprattutto, giusti. Anche sentiti, senza l’abituale distacco ironico. Nelel formule di rito, nei rinvii contestuali, nelle interrogazioni sulla vita, a partire dalla felix culpa (il peccato originale), nel ricorso frequente all’angiologia, inferno compreso. Con frequentazione di autori (Ernest Renan) anche condannati  Tutto opera sua, o dei licei che ha frequentato benché laici, essendo cresciuto e educato in ambiente agnostico, anzi areligioso.  

Scandinavi – Si tende (tendono?) a isolarsi, fuori dal contesto europeo, dentro il quale pure si suppone siano cresciuti e si siano sviluppati, con letture, viaggi, adattamenti. Da Andersen, Strindberg e Ibsen fino a Hamsun e compreso lo stesso Bergman, il regista: non se ne dicono o sanno collegamenti, formazioni, interessi, anche solo curiosità, rispetto a mondi altri, eccetto un po’ di russi.
Si discute ora, politicamente, se la Russia sia europea. Mentre si dà per scontato che gli scandinavi, danesi compresi, lo siano a tutti gli effetti. Ma non c’è aspetto della cultura russa, poesia, prosa,  filologia (filosofia no, ma i russi non “sono” filosofi), pittura, architettura, che non sia o non ambisca a essere europeo.  Non si conoscono invece, non si indagano, attaches europee degli scandinavi. Gli ultimi re di Svezia, non solo la regina Cristina, sono di casa in Italia. Il regnante Carlo XVI Gustavo è italianista perfetto. Come il suo nonno, Gustavo Adolfo,  che da ultimo si poteva incontrare, riservato ma semplice, a pasteggiare da “Cesaretto” a Roma - al tempo successivo. quando era retto da Crocetta e Luciano - come con un avventore qualsiasi, alla table d’hôte per singoli, ottantenne ben eretto, riservato ma non muto).

Shakespeare L’ “Enrico VI” Pavese legge come un romanzo, “uno dei più raccontati e ricchi lavoro di Shakespeare”. E si chiede: “Possibile che sia il suo primo dramma?”. Ha già tutta la “lingua tragica” di Shakespeare, “dalle volate retoriche alle saporose uscite popolari”. E “abbonda di vivissime descrizioni di gesta e di casi”, sempre illuminati dal wit. “È multicolore: le guerre in Francia, con avventure estere (la duchessa d’Auvergne, la Pucelle); gli intrighi e le fazioni in casa, con tumulti (Cade); le guerre feroci con tradimenti e alti e bassi e fughe (foresta in Scozia)”. Con un eroe per ciascuna delle tre parti: Talbot, York, Warwick, il soldato eroico e semplice, il pretendente capace e perseverante, il soldato eroico e politico”.

Tedeschi – Hanno metodo ma non organizzazione, insiste Gertrude Stein (“Autobiografia di A lice B. Toklas”): “Gertrude Stein era solita infuriarsi quando gli inglesi parlavano di organizzazione tedesca. Insisteva che i tedeschi non hanno organizzazione, hanno metodo ma non organizzazione”. Non sanno applicare il metodo, insisteva, perché “non sono moderni, sono un popolo arretrato”.

Viaggio – “Il viaggio fornisce occasioni di sgranchirsi, ma non – come si credeva – la libertà”, è una delle tante riflessioni in tema di Bouvier, scrittore di viaggi, “L’uso di mondo”: “ Fa piuttosto provare una sorta di riduzione; privato del suo quadro abituale, spogliato dalle abitudini come da un voluminoso imballaggio, il viaggiatore si trova riportato a più umili proporzioni”. Ma con qualche vantaggio: “Più aperto anche ala curiosità, all’intuizione, al colpo di fulmine”.
“La mobilità sociale del viaggiatore gli rende l’oggettività più facile”, ancora Bouvier, nei confronti della comunità d’origine. Il viaggio è in effetti nella diversità. “La virtù di un viaggio”, ancora Bouvier, “è di purgare la vita prima che di guarnirla”.

letterautore@antiit.eu

C’è poco da ridere

Un bizzarro ottimismo si diffonde. Che è il motivo per cui il governo Conte è stato licenziato: il Quirinale, il Pd, Renzi e buona parte degli stessi 5 Stelle erano sbigottiti dalla superficialità dell’ex presidente del consiglio. L’economia si è già ripresa, si dice, s’intende. Il Recovery Fund risolve tutto. Mancano 500 mila lavoratori – mentre si discute solo di riaprire i licenziamenti.
Il governo Draghi è nato per questo, per fronteggiare una crisi, non una vaporosa resurrezione. L’ex presidente della Banca Centrale Europea lo ha anche detto al Parlamento: il virus “ha colpito l’economia italiana più di altri paesi europei”. Abbattendosi peraltro “su un paese già fragile dal punto di vista economico, sociale e ambientale”. Debolissimo nei miglioramenti produttivi nell’ultimo ventennio, negli investimenti. Cosa già molto nota, ma anch’essa trascurata: nei vent’anni del Millennio il pil italiano è cresciuto di un quinto rispetto alla Spagna, e di un quarto rispetto alla Germania e alla Francia – è cresciuto solo del 20-25 per cento facendo 100 la crescita delle maggiori economie europee.
Il virus non ha migliorato la prospettiva italiana, malgrado l’entusiasmo con cui sono accolte le previsioni di una crescita economica quest’anno del 4-5 per cento. Il Nord Europa torna ai livelli 2019 già quest’anno. La Francia nel primo trimestre del 2022. La Spagna e il Portogallo a metà 2022. L’Italia tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023.  Perché il pil è crollato in Italia nel 2020 molto più che nel resto della Unione Europea: dell’8,9 per cento, a fronte di un calo medio Ue (Italia compresa) del 6,2 per cento. .
Né cambia le prospettive italiane l’Europa, col Recovery Fund. Generoso e tutto, ma non è manna dal cielo, per ingrassare le vacche. È un “contratto”, con impegni precisi, che l’Italia sottoscrive con l’Unione Europea, che le crede – perlomeno se lo propone – ed è per questo prodiga. Un “contratto” che impegna l’Italia nel suo stesso interesse, a migliorare cioè la produttività e la competitività. La impegna, cioè la obbliga. L’Italia deve riformare le procedure giudizarie civili e commerciali, deve darsi regole semplici in materia di investimenti, e di investimenti pubblici in particolare, deve dare un minimo di produttività alla Funzione Pubblica, e semplificarne le procedure  (non si possono aspettare autorizzazioni 24 mesi, e nemmeno 12,  e nemmeno 3 – non oltralpe).
L’Europa non chiede la luna, per una volta. Nessuno stringe l’Italia alla gola. Vuole il suo bene. Ma l’Italia dei giudici e dei media non lo sa, apparentemente, o non gliene frega. È per sano scetticismo, non per italofobia, che l’“Economist”, pure in tutto e per tutto in sintonia con Draghi, lo ha chiamato “un’illusone”. Per l’Europa, per i mercati, per la stessa Italia – inguaribile?

Il mondo di oggi cinquant'anni fa

Preceduto dall’entusiasmo di Emmanuel Carrère, dickologo da sempre (ne ha fatto uno dei suoi personaggi dal vero, “Io sono vivo, voi siete morti”), con il blurb “coraggio amici, leggete Ubik: è il libro di un uomo che ha visto Dio”, la nuova traduzione si propone di “un romanzo psichedelico che ha cambiato  la fantascienza”. No, l’ha fatta prospettivistica, futuribile. Perché c’è tutto. Tutto quello che allora, 1969, non c’era, ma Dick ha saputo “prevedere”.
Carrère ricorda che un anno dopo ricevette una telefonata da Timothy Leary, il guru degli psichedelici “liberi e creativi”, che chiamava dalla stanza d’albergo di John Lennon in Canada, dove i Beatles erano in tournée. Entrambi strafatti, Leary e Lennon, ma capaci di dire che avevano  appena letto “Ubik” e ne erano entusiasti. Ma anche questo è inesatto: “Ubik” non è il libro dell’ “acido” – acido lisergico (sostanza cui si devono molte vittime, p.es. Carlo Rivolta): Dick andava avanti nella sua sterminata produzione letteraria, a volte per giorni e notti di seguito, con le anfetamine, non con le droghe pesanti - e comunque con dosi di anfetamine meno pesanti di quelle di Sartre (avrebbe preso l’acido una sola  volta, così diceva, per fare l’esperienza). Scrittore che si voleva amato, e quindi, perché no, scrittore-scrittore come forse non ce n’è stati altri nel secondo Novecento, col sedere attaccato alla sedia, senza bisogno di essere legati. Uno molto saggio in realtà, malgrado il ritratto demoniaco di Carrère: la morte è l’unica certezza, la fede è il miracolo della costanza.
Detto dell’infatuazione di Carrère, il quale, ora lo sappiamo, s’infatua di personaggi mediocri (compreso se stesso ultimamente), Dick procede a ritmo confusionale. Però divertente. Di un divertimento soprattutto verbale. Ubik, anglolatino per ubiquo, è la scansione reclamistica di ogni capitolo: lo spray deodorante è Ubik, Ubik è “il modo migliore di chiedere una birra”, è Ubik “il caffè istantaneo doppia fragranza” - e sarà la salvezza, l’essere-tutto. In un mondo popolato da precog, precognitivi ma non troppo: psi, telepati, e mille polizie. Molto americano, soprattutto le polizie, ma anche contemporaneo, perfino visionario. Si va sulla luna, e si ritorna. C’è già, 1966-69, internet, “macchina omeodiana”. C’è skype, macchine si muovono a pannelli solari, ci sono motori di ricerca, si ricerca digitando sigle.
Un divertimento sessantottesco. Liberato, da ogni schema di genere. Si ascolta la “Missa sollemnis” di Beethoven, seguita dal “Requiem” di Verdi, versetto per versetto – ricordando, al culmine dell’azione, che Toscanini usava cantare alle esecuzioni con i cantanti. Fidel Castro è già “moneta obsoleta”, ora c’è Walt Disney. C’è il consumismo, scandito capitolo per capitolo dagli Ubik. Con i bitcoin: “Con del denaro che non vale niente si acquistano articoli che non valgono niente” – si chiamano più onestamente “poscrediti”.
La filosofia, verso il fondo, con abbondanza di Platone, è semplice: “L’io contiene – non il ragazzo – ma gli uomini precedenti”. Non una grande filosofia come si vede, “la storia è cominciata tanto tempo fa”. Quanto al futuro, si può credere al “Libro tibetano dei morti”, chi lo impedisce, alla reincarnazione.
Nella nuova traduzione di Marinella Magri (Fanucci, che pure aveva e ha in catalogo una sua traduzione, con ottima introduzione di Pagetti, ha ceduto i diritti?): c’è sempre qualcosa da migliorare nella prosa di Dick, che è piuttosto trascurata.
Philip K. Dick, Ubik, Oscar, pp. 252 € 13,50

martedì 8 giugno 2021

Le quattro mancate modernizzazioni del miracolo cinese

Nel 2018 la Banca Mondiale ha calcolato che in Cina si produceva il 28 per cento del valore aggiunto industriale mondiale, negli Stati Uniti il 17 per cento, come nella Unione Europea, in Giappone il 7 per cento, in Corea del Sud il 3, come in India. Una quota, quella cinese, negli ultimi due anni verosimilmente aumentata, malgrado i paletti posti da Trump.
Le stime precedenti hanno visto per un secolo gli Stati Uniti al primo posto, con percentuali diverse a seconda dei diversi calconi degli economisti, ma tutte elevate. Lo storico belga-svizzero dell’econmia del Terzo mondo Paul Bairoch ha cacoallo che nel 1913, prima della Grande Guerra, gli Stati Uniti producevano già il 32 per cento del valore aggiunto industriale mondiale, la Germania il 14,8 per cento, la Gran Bretagna il 13,6, la Russia l’8,2, la Francia il 6,1. Alla vigilia della seconda  guerra mondiale, nel 1937, lo storico tedesco-britannico dell’economia Hal Hillmann attribuisce agli Usa il 35,1 per cento del valore aggiunto mondiale, all’Urss il 14,1 per cento, alla Germania l’11,4, alla Gran Bretagna il 9,4, alla Francia il 4,5 e al Giappone il 3,5 per cento.
C’è stato il sorpasso della Cina sugli Stati Uniti. In termini quantitativi. E come potenziale – come Kissinger, “Sulla Cina”, scriveva dieci anni fa: “Per la prima volta l’America si confronta con un paese che possiede capacità economiche comparabili e ha un passato storico di grande abilità negli affari internazionali”.
La leadership produttiva di Pechino nel mercato mondiale è confermata dalle esportazioni industriali. La Cina è passata dal 4,7 per cento del totale dell’export mondiale nel 2000 al 18 per cento nel 2019. Più della Ue, che aveva in precedenza il record, contenuta nel 15 per cento, il doppio degli Stati Uniti (9 per cento), tre volte il Giappone (4,7 per cento). In parallelo sono esplosi gli investimenti diretti cinesi all’estero, passando da 28 miliardi di dollari appena nel 2000 a 2.100 miliardi nel 2019, il 6 per cento degli investimenti diretti all’estero nel mondo – l’11 per cento aggiungendo i 1.750 miliardi di investimenti targati Hong Kong. È dunque cinese la leadership mondiale dell’economia – è il “millennio cinese”?
È un miracolo certamente, prodottosi in trent’anni o poco più, dopo la svolta impresa al partito Comunista Cinese da Deng Hsiao Ping con le Quattro Modernizzazioni. Dalle quali escluse nel 1989, col massacro di Tienanmen, quella politica. Ma è un miracolo dalle quattro incognite. La prima è Tienanmen, la mancata modernizzazione politica. La seconda è lo stesso “passato storico di grande abilità” di Kissinger, che in effetti è rimasto inalterato, ma più che abile (diplomatico, equilibrato) è imperiale (espansivo, esclusivo). Ed è “cinese”, cioè Han: un rullo compressore delle altre nazionalità del subcontinente, già del Tibet come ora degli Uiguri, e in quanto cinese sta  macinando Hong Kng, vuole farlo presto di Taiwan, e in prospettiva guarda alla terza Cina, a Singapore . La terza incognita, alle altre due collegate, è che il miracolo cinese si fa a spese dello sfruttamento di mezzo miliardo o poco meno di lavoratori, senza orario e con paghe basse. E quasi tutti immigrati: nel dato ufficiale, dei censimenti decennali, la popolazione urbana rsult a passata tra il 2000 e il 2020 da 456 a 902 milioni, cioè è raddoppiata, mentre quella rurale diminuiva in proporzione. Immigrato significa, in base alle leggi del vecchio comunismo dirigistico cinese, senza diritto alla residenza, e quindi alla sanità, agli assegni familiari e all’edilizia pubblica (c’è mezzo miliardo di sans papiers in Cina, di “invisibili”). 
La quarta incognita, e quella che più conta, è che il miracolo cinese è dovuto alla globalizzazione. La quale è una ricetta americana per la gestione degli affari, attraverso delocalizzazione e licenze che garantissero maggiori e anzi enormi profitti. Se, per ipotesi, contingenti e dazi dessero più profitti agli americani, grandi e piccoli (i piccoli risparmiatori che beneficiano dei grandi dividendi), la globalizzazione finirebbe. Senza difese, o possibilità di rappresaglie.
Le maggiori incognite sono tuttavia quelle interne. La Cina è sempre un sistema politico comunista, rigido, senza nessuna flessibilità o modernizzazione. Di cui nessuna teoria politica avalla la durata, se non sotto coercizione. Lo sviluppo dell’economia autoportante – cioè non quello “terzista”, del “lavoro per conto”, come è all’80 per cento quello cinese - necessita di stabilità. Altrimenti i capitali e i mercati scompaiono in un lampo. 
 



Forte dei Marmi d’inverno, o il vuoto delle pulsioni

Un normale inverno di una normale Forte dei Marmi, ricca e protetta, si trasforma in un incubo attraverso i dispositivi di sicurezza. Un modo ingegnoso, attuale, ed economico, di mantenere la tensione per un paio d’ore. Nulla di terrificante, il Forte è bello e lindo anche d’inverno, ma perché la ragazza delle prime immagini vaga di notte pesta e tramortita alimenta molti sospetti e sensi di colpa.
Da un romanzo di Stephen Amidon, l’autore de “Il capitale umano”, trasposto ancora una volta in un ambiente italiano. In questo caso con un regista anch’esso americano, Chelson (“Serendipity”, “Shall we dance?”), che è autore anche della sceneggiatura. Incredibilmente verosimile e anche veritiero il quadro d’assieme che fa da teatro alla vicenda:  sistemi di sicurezza controllati da remoto (da proprietari che svernano alle Barbados), il business immobiliare, la scuola, di scrittura.
Un racconto di vita ordinaria, dalle sfaccettature drammatiche su toni sommessi: i ragazzi ubriachi, la verità (grigia) delle crisi matrimoniali, la candidatura a sindaco (Maya Sansa irriconoscibile, perfetta), la scuola di scrittura ((Silvio Muccino, anche lui perfetto), la violenza sui bambini che non fu violenza, se non per le turbe genitoriali, le fobie che producono devianza, l’alcolismo, devianza minima e irrimediabile.
L’apparato della sicurezza invadente dice che non c’è sicurezza, non contro le debolezze umane. In un racconto vivace, tenuto assieme dalla fisicità non bella di Marco D’Amore.
Peter Chelson, Security, Sky, Now tv

lunedì 7 giugno 2021

Ecobusiness

Il futuro della mobilità elettrica è con le batterie allo stato solido: più stabili e sicure di quelle ora in uso, agli ioni di litio, e più performanti in termini di durata e di tempo di ricarica.
Le batterie allo stato solido dovrebbero ricaricarsi all’80 per cento in metà del tempo richiesto da quelle al litio ora in uso: dodici minuti.
Le batterie allo stato solido non saranno disponibili prima del 2025, forse nel 2024.
Il digitale, internet (mail, tweet, post, instagram, facebook,  e soprattutto lo streaming e le videochiamate), è il più grosso inquinatore atmosferico - dopo agricoltura, che inquina l’aria, oltre che l’acqua. Consuma per le sue macchine risorse deperibili – minerali rari. Ed è un moltiplicatore delle emissioni di CO2.
La Bbc calcola che ogni utente digitale produce mediamente 414 kg. di anidride carbonica l’anno. “Il digitale inquina il doppio del trasporto aereo”, il ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani.
Internet è il quarto inquinatore al mondo, dopo la Cina, l’India, gli Stati Uniti (Global Carbon Project).
“Nel 2040 l’impatto del digitale equivarrà al 14 per cento delle emissioni globali di CO2”, Giovanna Sissa, “Il computer sostenibile”.
Nel 2020 l’uso di internet è cresciuto del 40 per cento. Per effetto della pandemia. Ma un’abitudine al consumo duratura si potrebbe essere generata, indipendentemente dai lockdown.

Il Regno delle polemiche

“Breve catalogo delle imposture neoborboniche” è il sottotitolo. Non suona bene: imposture magari sì, ma neoborboniche? Non c’è un neoborbonismo: chi difende i Borboni, chi li rivuole, chi vuole – al Sud – un’Italia divisa? Si oppone un neoborbonìsmo al leghismo, ma è una comodità giornalistica, superficiale. Il leghismo è ben solido e portante, dei Borboni a nessuno gliene frega nulla, né Palermo si vede con Napoli, o viceversa – per non dire dei calabresi, stretti nella morsa tra siciliani e napoletani, quanto invadenti, forse più dei lombardi: quando si va nel particolare non ci sono unità meridionali, “neoborboniche”, che tengano. Mentre restano, sempre impervi, i due nodi dell’Italia unita: la questione meridionale e il debito estero. Create da subito, due problemi, poi irrisolti, per centosessant’anni.
Armino, polemista, argomenta contro il vittimismo meridionale, che fa della “questione meridionale” una “questione settentrionale”, creata dall’unificazione. Gli argomenti non gli mancano – come non mancano a quelli che elegge come fronte avverso, Alianello e Aprile. Ma alcuni punti non sono polemiche, sono fatti.
Il Regno era liberticida. E il resto d’Italia, e l’Europa?
Le vittime della guerra al banditismo, 1861-1865 furono poche: poche migliaia, briganti inclusi. Ma l’unica documentazione di quella guerra, quella di Molfese, “Storia del brigantaggio dopo l’unità”, basata sull’archivio della commissione parlamentare d’inchiesta del 1863, dà “centinaia di bande, troppe per non poterle dire una reazione popolare, e decine di migliaia di morti e esecuzioni “ufficiali” - è una ricerca del 1966, quella di Molfese: perché non si aprono gli archivi militari, i dati non ci sono, non ci sono più?
Il Sud non era ricco sotto i Borbone: checché voglia dire, è vero. Era anche male amministrato – anche se si ricostruiva dopo i terremoti, in anni e non in secoli, e i poveri erano assistiti. 
La questione meridionale è vecchia, secondo l’analisi più persuasiva, dello storico dell’economia Cipolla: è venuta accumulandosi per un millennio, tra un Nord industrioso e banchiere e un Sud acculato alla rendita agricola, dei padroni - eredità del primo regno del Sud, quello normanno, i decantati Figli del Sole essendo baronali. Ma le tasse unitarie, fino al macinato, le politiche doganali, e le infrastrutture postunitarie hanno penalizzato il Sud. Sempre per restare col pavese Cipolla. Che vedeva nella Repubblica un principio di riequilibrio. Una trentina d’anni fa sì, poi no, al contrario: nell’Italia leghista al Sud è andata sempre peggio - al meglio è stato cancellato, dalle politiche nazionali e dalla sussidiarietà, accasciandolo semmai sotto antimafie di ogni tipo.
Il Sud resta come arena dello scandalismo nazionale. Le mafie. La corruzione. Come già “l’Affrica” dei buoni piemontesi. E il banditismo, e la guerra al banditismo. Mentre è solo manzoniano, al primo capitolo, “un vaso di coccio in mezzo a tanti vasi in ferro”. Anche solo delle polemiche – non c’è altro Sud: un punching-ball per polemisti. È rimasto come tema editoriale, il Sud si vende, ma bisogna dargli addosso. Nel nome, certo, dell’informazione, la verità, la giustizia, dei belli-e-buoni. Altrimenti “non fa notizia”.
Armino, ingegnere ed economista di Palmi trasmigrato in Piemonte, uno dei fondatori di Sel nel 2009, Sinistra Ecologia e Libertà, a Rivoli nel torinese, poi ritornato in Calabria, diviso tra Palmi (circolo “Antonio Armino”, esponente dell’azionismo meridionale) e Reggio (associazione La Scintilla, rivista “Sud Contemporaneo”), è già autore, con Tonino Perna, oggi vice-sindaco di Reggio, sociologo emerito a Messina, non dimenticato creatore del Parco dell’Aspromonte, di un “Ritorno al Futuro. Manifesto per l’Unità d’Italia” che un po’ contraddice (riconosce) la polemica. Una delle tante pubblicazioni di questo suo decennio calabrese. Ma un testo che programmaticamente (“la fulminea scomparsa di quello che era anche il più antico fra gli stati pre-unitari resta un campo d’indagine storica non ancora sufficientemente esplorato” – con più di un’apertura di credito verso le “incomprensioni” meridionali) contraddice la polemica di oggi. 
Tra i tanti suoi bisogni, il Sud ha anche quello di uscire dalle polemiche.
Pino Ippolito Armino, Il fantastico Regno delle Due Sicilie, Laterza, pp. 144 € 14

domenica 6 giugno 2021

Partecipazioni Statali, a perdere

Ritornano le Partecipazioni Statali. Lo Stato ha ricomprato Autostrade e Ilva, nella prospettiva di un utile, essendo aziende che stanno sul mercato – che possono lavorare in attivo – ma a costi elevati, più di quanto aveva incassato alla privatizzazione, quando erano in forte sviluppo. E si aspetta che prenda in carico del tutto Mps e Alitalia, due aziende senza futuro.
Il ritorno delle Partecipazioni Statali avviene tipo Efim, l’ultima finanziaria creata dal vecchio sistema delle aziende pubbliche, come raccolta di aziende in crisi. Senza un progetto, prendendo tutto come viene. Senza nemmeno un calcolo dei costi, per non dire dei costi\benefici. E in un’ottica di salvataggio, non di chiusura e rilancio.
Si prende Alitalia. Altrove i vettori aerei “nazionali”, le società europee di trasporto aereo,  che hanno avuto problemi come l’Alitalia, di costi eccessivi in un ambito molto concorrenziale,  hanno scelto il fallimento o quasi e si sono rigenerati: l’ex Sabena, l’ex Swissair, British Airways con Iberia. Alitalia, malgrado l’iniezione di miliardi pubblici, e l’azzeramenro di altri miliardi degli investitori, rassicurati a suo tempo dal ministro del Tesoro Tremonti, è sempre in forte perdita, e incolmabile.
È la situazione tipica che “The Economist” in edicola dice non “una atmosfera sana per la creazione di imprese”.

Cronache dell’altro mondo - ufuesche (120)

Ritornano gli Ufo. Con molti crediti. Della Nasa, della Nsa, l’organizzazione della sicurezza nazionale, e del presidente Obama. Da più parti si chiede il riconoscimento ufficiale che gli Ufo esistono, anche se non se ne conosce la natura e la provenienza.  
Tutto si può raccontare nei giornali americani, che si pregiano della Verifica dei Fatti. Gli Ufo non solo, ma anche il dialogo con i morti, per il quale si spendono due miliardi l’anno, e qualche resurrezione.
Il giudice di San Francisco ha autorizzato l’uso delle armi d’assalto a tiro rapido (l’AK-47, l’AR-15, armi a ripetizione senza rinculo tipo kalashnikov), finora escluse dalla portabilità fuori casa, senza restrizioni. Il dvieto è incostituzionale, secondo il giudice distrettuale Roger Benitez: il divieto dei fucili d’assalto va contro il secondo emendamento, che riconosce il diritto alla difesa, con il possesso di armi da fuoco. Il fucile d’assalto è uno degli “ordinari fucili moderni popolari” – “un’arma di difesa utile per proteggere la propria abitazione e la propria patria”.

Giallo d’assalto, contro Castro

Uno Scerbanenco di destra, senza veli, anema e core. Con un personaggio tutto muscoli e ardimento , cui prometteva “una lunga serie” (la morte interruppe il proposito qualche mese dopo, nel 1969, il romanzo uscirà postumo nel 1970): “il parà italiano Ulisse Ursini”.
Ulisse non è solo un parà, alto due metri, che Livorno rifiuta perché è “chiuso e difficile”, e inguaia le minorenni. È uno che vuole l’azione, non un futuro o un posto - non lascia mai la Luger di papà. E la cerca al bordello, dove altro, e tanto lamenta e argomenta che si fa arruolare da una puttana vergine col Movimento Cuba Libera. Come il cocktail, ma di puri e duri – alla donna i castristi hanno ucciso il fratello, dopo averlo dissanguato con trasfusioni assassine. Insomma, tutto l’armamentario della guerra fredda, tra succhiatori di sangue.
Una scelta programmatica, rara in Scerbaneno, fin dall’esergo: “Anche oggi esistono i soldati di ventura,\ come nei secoli passati:\ questa è la storia di uno di essi”. Ne vuole costruire uno. Cui affiderà anche una filosofia, anche questa inedita nel narratore alluvionale, ma ben “sistematica”: “Ciò che distingueva l’uomo da qualunque altro essere vivente era la capacità di follia. Solo l’uomo può essere folle, e anche ludicamente, serenamente folle. L’animale può essere furioso di rabbia ma non folle, razionalmente folle”. Con richiami all’onore. Per l’entusiasmo di Pinketts, che presenta il volume, e assicura: ho impiegato otto anni a pubblicare il primo libro, mi hanno definito “giallista”, alla “Lady Agata (senza l’h, n.d.r.) Christie”, poi cannibale, poi pulp, poi noir, mentre ero solo un lettore ammiratore di Scerbanenco, della sua Milano ricca e violenta.
Qui la violenza c’è. Con gli ideali invece della ricchezza – Ulisse è un volontario, non un mercenario, un volontario dell’azione. E l’azione non manca, movimentatissima: ogni capitolo una nuova avventura, con scazzottature, fughe, inseguimenti, oppure scontri ad alto livello, a Washington.
Il racconto “Lupa in convento”, scritto a Poschiavo, già in Svizzera, nell’aprile 1944, si allega come contraltare a questo inno alla violenza: è un lugubre racconto di guerra, di morte. Di brutalità, nell’ebetudine: la guerra, nel mentre che Scerbanenco la vive, non ha senso. “Lupa” è l’ultima delle vivandiere rimaste, che muore di sfinimento mentre muoiono i soldati che ne abusano, cantando le canzoni della truppa. Un racconto svelto e grottesco, raggelante.
Giorgio Scerbanenco, Al servizio di chi mi vuole. Lupa in convento, Garzanti, remainders, pp. 267 € 4,16