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sabato 6 aprile 2013

Toscana rossa e povera

Per uscire da Pisa non ci sono segnali. Volete sapere dov’è l’autostrada per Roma, o per Genova-Milano? Non ve lo dicono. Una città con 50 mila studenti fuori sede. Massa ha il record assoluto e pro capite di perdite per una Asl – che ora pensa di colmare fornendo ai portantini una divisa invece di due. Livorno ha perso da alcune settimane le crociere (per le gite a Pisa, Siena. Firenze), dopo aver perso i containers, e non ha più traffico – era il primo porto italiano trent’anni fa.
Dovunque si guardi, la mitica Toscana riesce la regione peggio amministrata d’Italia. Fedelissima sempre all’ex Pci, ma per qualche ragione che non è la buona amministrazione. Perfino le due catene cooperative toscane della grande distribuzione, la Firenze e la Tirreno, vivacchiano: care, anguste, non ben servite, a fronte della Esselunga e delle catene francesi, il patrimonio indebolito in favore di speculazioni finanziarie finite in mezzi disastri.
Firenze ha perso il titolo di capitale intellettuale d’Italia, che raccoglieva studenti e studiosi di ogni disciplina. Aveva già perso ogni altra industria, e ora è una provincia dell’impero anche del vino, giusto un nome – il Chianti non è più da tempo “il” vino italiano nel mondo, e quel che ne rimane è “americano”. Prato aveva un’industria millenaria della lana e l’ha persa. Arezzo sta perdendo quella orafa.
Non c’è solo Siena nel disastro Toscana. Nella città del palio, è bene ricordarlo, l’università era fallita prima della banca: aveva raccolto i fuori sede di tutta Italia richiamati dal mito Toscana e rigettati da Firenze, ed è riuscita ad andare in amministrazione controllata. Firenze aveva rigettato gli studenti d’Italia per fare felici immobiliaristi e costruttori, l’università relegando in una sporca periferia.
Non c’è che Lucca che prosperi. Perfino nell’industria cartaria che la crisi del petrolio aveva condannato quarant’anni fa e ora è in grande spolvero. E nella sua porzione di litorale, la Versilia. Ma vota bianco.

La decrescita giornalistica

La “decrescita felice” di Grillo sembrerebbe una comica, una delle tante. Dal momento che i suoi deputati
cominciano a scoprire coi nostri soldi i ristoranti con le stelle – non necessariamente cinque, è vero. E gli altri invece soffrono la decrescita, ormai da alcuni anni, con sofferenza e lutti – ufficialmente i suicidi per disoccupazione, precariato, debiti, insolvenze con Equitalia, sono “meno di cento”, ma sono di più, molti di più. Invece i comici la prendono sul serio.
Questo è inevitabile, i comici sono all’ora di Grillo: non fanno ridere. Ma la scoprono anche seriosi i grandi giornali. I commentatori la raccomandano, e i “servizi” dei settimanali cominciano a spiegarci su cosa si può risparmiare. Il genere soffiarsi il naso con le dita per non sprecare i tempo. Ma l’arma totale è quella che non si dice: non comprare più il giornale. Il telegiornale basta, e l’informazione online. Con un decimo degli addetti. Le foreste della Scandinavia ricostituite vergini. E la liberazione dei marciapiedi dall’ingombro delle edicole.

La colpa di Chiara è della giustizia

Mohammed Fikri risponde per due ore e mezzo alle domande del Pubblico Ministero di Bergamo Letizia Ruggeri sul rapimento e l’assassinio di Chiara Gambirasio. Pur sapendosi da tempo che non c’entra nulla. Che le intercettazioni delle sue telefonate erano abusive, frutto di pregiudizio razziale. Che la trascrizione delle telefonate era falsa. Ma il gip così ha prescritto, Ezia Maccora: Fikri non c’entra ma fa indagato per favoreggiamento. Di chi?
Si dice che la giustizia è inefficiente. No, è malata.
Bergamo malata di razzismo è problema dei bergamaschi. Ma queste giudici bergamasche perché non incriminano gli autori delle trascrizioni e delle intercettazioni, invece di vessare un innocente e sprecare il tempo e il nostro denaro? Per razzismo le indagini sulla ragazza sono state condotte in maniera talmente assurda da superare ogni decenza.
E il Csm dell’abusivo Vietti – sta lì come uomo di Casini: non ha nulla da obiettare a indagini volutamente distorte?

Il regno comunista

Tre generazioni e sessant’anni di regno sono abbastanza per accreditare una dinastia? Ce ne sono state di più brevi, anche di più insensate – per esempio fra i papi, che in teoria non fanno dinastia non avendo figli. Quella nordcoreana è però unica in questo, che è una dinastia comunista. Poiché la cosa non si dice, è bene ricordarla. Kim Jong-un, che ora si agita per uscire sui giornali, è il figlio di Kim Jong-il. Che era il figlio di Kim Il-sung.
Il nonno Kim Il-Sung fu il fondatore della dinastia in qualità di capo del partito Comunista, dapprima come presidente del partito e primo ministro della Repubblica Democratica della Corea del Nord, fin dalla sua creazione nel 1948, poi come presidente della stessa Repubblica Democratica e segretario generale del partito dei Lavoratori, fino alla morte nel 1994. Fu Kim Il-Sung a invadere la Corea del Sud nel 1950, occupandola quasi per intero. Col sostengo dell’Urss e – ma controvoglia – della Cina. La Corea del Sud fu poi liberata dalle truppe americane, dopo una guerra di tre anni.
Nel 1994, alla morte di Kim Il-Sung, il figlio primogenito Kim Jong-il fu nominato segretario generale del partito dei Lavoratori, presidente del Comitato nazionale di Difesa, Comandante supremo dell’Esercito - il quarto più grande al mondo, dopo la Cina, gli Usa e la Russia. Dovette trattare la successione i generali, la dinastia non era ancora riconosciuta. Ma nell’aprile 2009 la costituzione fu infine emendata e Kim Jong-il nominato Leader Supremo.
Alla sua morte a fine 2011, invece, la successione fu familiare. Kim Jong-un fu proclamato Segretario Eterno del partito dei Lavoratori, e successivamente Presidente Eterno del Comitato Nazionale di Difesa. Il compleanno del nonno è festa nazionale, il 15 aprile, celebrata con grandi solennità. Erede designato era il fratello primogenito Kim Jong-nam. Che però si era fatto beccare a all’aeroporto di Tokyo senza visto, dove voleva sbarcare per vedere Disneyland, richiamo irresistibile.
Memorie in dieci volumi
Le relazioni con l’Italia sono oscurate dalla famosa eliminazione dell’Italia ai campionati del mondo di calcio del 1966. Al tempo di Kim Il-Sung erano però intense: il leader coreano invitava spesso ospiti italiani, non tutti del Pci, che normalmente tornavano ammirati – i coreani, come si sa, si dicono superiori ai giapponesi e anche ai cinesi. Rifondazione ebbe a lungo ammirazione per Kim Jong-il, fino a Bertinotti compreso. E numerose associazioni di base, anche sportive, ancora praticano il culto. Ma, a differenza della Cina di Mao, non ci sono reportage entusiasti dalla Corea del nord - non di leader politici, solo un paio di giornalisti.
Kim Il-Sung ebbe tuttavia le sue memorie tradotte e stampate in Italia, dieci volumi grandi. Probabilmente a spese sua, ma da un’editrice cattolica, la Jaca Book. Propagandavano l’ “Idea di Juche”, che non merita esplicitare – era un tempo in cui il terzomondismo impazzava, proponendo soluzioni improbabili sempre definitive, dalla Rivoluzione Verde di Gheddafi al Subcomandante Marcos e al chavismo.

Scrivere sull’acqua

Testi disparati, che la forza della vita unisce. Si direbbero una memoria familiare, ma sono di più. Della “vita come dono”, di chi morirà giovane. Racconti nostalgici della vita quale potrebbe essere. Che i ricordi e le fantasmagorie inframezzano di scorci lirici assoluti, benché in forma narrativa. Il ricordo grato di Claudio Magris in “Microcosmi”, della compagna di vita e di scrittura, quasi una coautrice, si doppia qui di una postfazione commossa e anche ammirata.
Sono prose particolari, oggi si direbbe “liquide”. Verde acqua è il “completino” con cui Marisa poté infine partecipare alla feste in casa delle compagne di scuola, lei profuga di Fiume rinchiusa da dieci anni in una sorta di albergo dei poveri a Trieste, il Silos. Fu una tragedia minore, tra quante infestarono il Novecento, quella degli sfollati fiumani, istriani e dalmati, in qualche modo accuditi dall’Italia (il rifugio analogo per i profughi di Pola, il Magazzino 18, è “celebrato” in una canzone di Sergio Endrigo, ed è andato quest’anno a Sanremo con Simone Cristicchi: il lutto è elaborato). E tuttavia è un sottofondo doloroso, che tanto meglio fa emergere l’impeto di vita.
Un completo, quello della prima festa, “che per me è ancora il colore dell’amore”. Marisa Madieri scrive così, semplice e inaspettata - una sorpresa alla occasionale rilettura. Della vita avendo percezione poetica. Nel senso del fare e del costruire (del divenire), non della staticità (passività) elegiaca e mimetica (metafore, similitudini, parabole). In comune coi poeti-poeti condividendo la passione (capacità) di fissare l’indefinito – o il divino, se lo si vuol dire: le ombre del tramonto, le velature dell’alba, le luci dell’aria e dell’acqua, pur traverso le enfasi (ipostatizzazioni) del ricordo. Ma senza il Grande Progetto (canzoniere, cantica).
Magris rileva la presenza ubiqua del mare in queste prose, dell’acqua. E evoca spesso Saba. E questo è: il mare come infinito senza senso, e insieme elemento liquido vitale. E la semplicità, l’immediatezza del segno – si può dire la semplicità di Saba, benché non presente alla scrittrice, meno il fondo filosofico (o non è la semplicità un tratto triestino, da Svevo allo stesso Magris?). Nella comune, sottesa, poetica mallarmeana, della poesia come “felicità di indovinare a poco a poco”, dove “suggerire è il sogno” – senza lo scacco che Mallarmé presuppone, l’impossibilità di definire l’indefinito, per orgoglio sistemico (il filosofo è luciferino, anche il poeta-filosofo).
Marisa Madieri, Verde acqua. La radura e altri racconti

venerdì 5 aprile 2013

Problemi di base - 138

spock

Perché non si è arrestata Ruby, in flagranza di calunnia? Boccassini, ancora uno sforzo!

E se Grillo fosse stato napoletano?

E se l’arresto di Nicastri fosse scattato subito in Sicilia, invece che dopo vent’anni? Quanti danni evitati, alla concorrenza, alla fiducia, all’intraprendenza.

Perché il Pd vuole distruggersi, l’ex Pci?

Perché il Pd vuole distruggerci?

Perché Bersani e Napolitano alimentano l’antipolitica, con rituali in cui non credono?

Perché Berlusconi è impresentabile e Lucia Annunziata no?

Perché Bersani copia da Berlusconi pure le fiche?

Sebbene, si suppone, senza colpa – o è un’aggravante?

spock@antiit.eu

L’Olocausto censurato

Un doppio romanzo-verità, per la storia che racconta, e per la censura che ha subito in Italia. Jan Karski (Kozielewski di suo vero nome) è un giovane ufficiale polacco, poi attivo nella Resistenza contro l’occupazione tedesca, che denunciò l’Olocausto subito, nel 1942. E ne scrisse anche, questo libro fu pubblicato negli Usa nel 1944. A lungo non creduto, negli stessi Usa che l’avevano accolto – anche per non turbare l’alleato Stalin. Strumentalizzato poi dai negazionisti, in quanto non parla di camere a gas.
La cosa passa oggi in subordine nell’economia di questa testimonianza, che si rilegge come un libro di avventure. Ma è una prova storica importante: non è vero che lo sterminio degli ebrei, a partire da una certa data della guerra, fosse sconosciuto, un segreto. Karski lo denunciò subito: il 10-12 agosto del ‘42 Witold Pilecki, della resistenza polacca interna a Auschwitz, ne diede testimonianza scritta, e lui diligente ne fece parte ai capi religiosi e politici in Occidente. Dove fu in missione, a Londra e a Washington, personalmente anche a Eden e al presidente Roosevelt. E dopo aver fatto un riscontro personale, in un lager vicino Lublino, camuffato da poliziotto, dove non trovò camere a gas ma vide dei vagoni ferroviari adibiti a forni, con uno spesso strato di calce viva.
La testimonianza di Karski fu ulteriormente documentata dalla Resistenza polacca a ottobre del ’42. Le Nazioni Unite dettagliarono lo sterminio a dicembre. Il New York Times ne aveva riferito il 30 giugno e il 2 luglio.
L’eccidio degli ebrei fu insomma un segreto alla Poe, bene in vista. Nelly Sachs sapeva nell’esilio a Stoccolma, nel ‘43, quando scrisse “il tuo corpo è fumo nell’aria”, l’epicedio per il “fidanzato morto”, il giovane che mai la amò. Malaparte, ospite gradito a Varsavia del “Re tedesco di Polonia” Hans Frank, lo diceva e lo scrisse nel ‘43, degli ebrei morti in massa, nel ghetto e fuori, per fame, impiccagione, mitra, dei vagoni piombati, delle ragazze ristrette nei postriboli. A fine ‘43 circolava in Svizzera un Manuale del maggiore polacco: Jerzy Tabeau, evaso da Auschwitz, vi stima in mezzo milione gli ebrei già eliminati nei lager. Ma la consegna è del silenzio: i russi, che liberano Auschwitz a gennaio del ’45, ne parlano a maggio, senza menzionare gli ebrei.
Ciò malgrado – la “prova” dello sterminio – il libro è rimasto clandestino in Italia. La Resistenza polacca era indigesta all’Unione Sovietica, al regime polacco, e evidentemente all’Italia, all’editoria italiana. Benché di sicuro effetto. E malgrado il patrocinio di Gustavo Herling, patriota polacco, ottimo scrittore, genero di Benedetto Croce.
Jan Karski, La mia testimonianza. Storia di uno Stato clandestino, Adelphi, pp. 448, ill., € 32

giovedì 4 aprile 2013

Sliding door – e Celestino Bersani fu statista

Immaginiamo che quaranta giorni fa, perdute le elezioni, Bersani si fosse rilanciato col governo. Intransigente ma rassicurante. Supponente anche, il suo idolo Montanelli, il “muso” di questa sinistra, avrebbe detto “turandosi il naso”, come Brandt fece con Kiesinger, o Angela Merkel con i Verdi (o i Verdi con la Merkel, se solo la sinistra si tura il naso). E avesse cercato il riscatto con un governo forte. Con decreti per la riduzione della spesa e delle tasse, per il pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione, e per la sanatoria degli esodati: Con una seria politica europea di bilancio. Con progetti già al primo o secondo voto in Parlamento per la riduzione dei parlamentari, delle spese dei partiti, del bicameralismo vuoto, e dei troppi parlamentini locali. Nonché, impossibile non è, un’iniezione d’intelligenza, anche modesta, alla burocrazia. Tutte cose semplici, e scontate, accettate cioè da tutti. A quest’ora sarebbe un leader politico di statura mondiale.
Invece si è imposto, e ci impone, l’afflizione. Si potrebbe dire, siamo in clima di rinuncia, un Celestino laico, uno che porta la croce del mondo, se non la cenere, ma se lo è, allora è da carnefice e non da vittima, seppure della sua debolezza. Le consultazioni bersaniane, così come i saggi a dieci giorni (+ 10?), sono il peggiore esercizio di antipolitica che si potesse escogitare, dannosissimo. In una col dibattito stucchevole sulle spese dei politici, una goccia. Per di più inconcludenti, con accuse e contraccuse fantasiose (“Diamo la politica in mano ai ricchi”, “la diamo in mano ai corrotti”…). Bersani pensa di sconfiggere l’antipolitica con l’antipolitica?

Che Manzoni e che Italia - e che Austria

“Sentii da Manzoni che l’Innominato è un Visconti, ed è personaggio verissimo”. Non è la sola sorpresa. Lo stesso Manzoni si ricorda in collegio a cinque anni - si spiega tutto. In una specie di porcilaia in Svizzera. È gallofobo quasi più che austrofobo. E piemontardo – a ragion veduta (sembra uno scienziato politico). Senza i pregiudizi anticavourriani dei liberalcostituzionali che sono la sua cerchia di amici. Spiritosissimo sempre, socievole, contro la vulgata. Anzi estremista, omplottista: il generale Ramorino, della “fatal Novara”, vuole venduto all’Austria, e la prova è che nei due mesi passati in prigione non volle ma cambiarsi (cioè: nascondeva nelle mutande il prezzo de delitto).
La raccolta è un tributo di Lorenzo Mondo al suo Manzoni, “di veduta fine, ammirata, leggermente maliziosa”. Un altro Manzoni. Ma “Ghita”, sorella di Costanza Arconati, di cui Mondo esuma i brani in qualche modo manzoniani del “Diario Politico 1852-1856”, soprattutto vi fa rivivere la rivoluzione italiana - “la” rivoluzione dell’Ottocento. Specie a Milano. Specie contro l’Austria – di cui ora imperversa la nostalgia: delle tasse, delle forche? Una celebrazione del centocinquantenario, anche se involontaria e in ritardo.
Margherita Provana di Collegno, Caro Manzoni, cara Ghita, Sellerio, pp. 149 € 12

Il mondo com'è (132)

astolfo

Confessione – L’anticlericalismo non registra un solo caso di prete che abbia tradito il segreto del confessionale. Per quanto li faccia cinici o corrotti. Anche tra gli spretati.

Una storia sarebbe facile, di un prete che utilizza la confessione per sue trame, di oscenità, o violenza, o d’interesse, ma non è stata scritta.

Conversioni – Sono degli spiriti eletti.
Sanno di accomodamento, opportunismo. A lungo furono quelle degli ebrei a cui era in qualche modo imposto di farsi cristiani. Ma se si guarda alla pratica, delle conversioni per esempio dall’islam al cristianesimo, e viceversa, si vede che fanno parte di un controllo accentuato di sé.
Abbandonare una fede per un’altra, sa però di controsenso.

Democrazia – Fiorì nella schiavitù, si sa ma si dimentica. All’origine, e nella sua migliore esperienza, quella ateniese, prosperò nel “gran buontempo” (Manzoni), perché i cittadini se la spassavano: la politica era la loro occupazione e il loro svago, non votavano per liberarsene ma per occuparsene più di ogni altro loro affare. In una città in cui gli schiavi erano trecentomila e i liberi ventimila.
Ma è vero che gli schiavi non si ribellavano.

Gesuiti – Il papa gesuita fa dimenticare di colpo il pregiudizio. È vero che è stato gesuita da adulto, non si è cioè formato alla scuola gesuita. Tuttavia, viene dopo un lungo papato, quello di Giovanni Paolo II, ostile ai gesuiti. Rosmini diceva che la colpa dei gesuiti era lo spirito di corpo – pur negandola, imputava loro una colpa.

Indipendenza – È il fatto più sovrastimato, dalla diplomazia, dalla storia, e dalla scienza politica. Manzoni ne dava un icastica rappresentazione, in conversazione negli anni dopo il fallimento dei moti del 1848-49 (come è riportata da Margherita Provana di Collegno nel suo “Diario”), dicendo “Stato indipendentissimo” il Piemonte: “Uno Sato piccolo non è mai indipendente, perché bisogna che abbia sempre lo sguardo di condursi in modo da non dare ombra e fastidio agli Stati di prim’ordine”, e “deve accettare consigli ma non esserne mai richiesto”.

Islam - Un tempo non remoto erano gli europei, gli italiani, che emigravano nei paesi arabi. Non sempre da colonialisti, in Egitto, in Libano, in Tunisia, in Algeria ci andavano da artigiani, lavoratori manuali.La geografia del benessere è mutevole.

Tra il fallacismo, o rifiuto netto, e l’integrazione rifiutata, per estraneità o disprezzo. La cittadinanza italiana per esempio è molto poco richiesta, rispetto a quella inglese, la francese, la tedesca, le più ambite in graduatoria.

Il problema con Ramadan, e con gli intellettuali come lui, per un non mussulmano e per i mussulmani democratici, è il loro revanscismo islamico. Il fatto che l’islam di cui si parla sia tra il khomeinismo, che l’ha generato, e il fondamentalismo nelle sue tante forme, ma tutte di orogine e ronfamenti arabi, che l’ha portato a conseguenza. L’esperienza è netta. Fino a Khomeini, 1978-80, non c’era alcun disagio per l’europeo nel mondo islamico, quello arabo compreso. C’era il problema Palestina, ma c’era da dopo la guerra. L’europeo era accettato, e accettava il mondo islamico nel quale si trovasse a vivere o operare.
L’Arabia Saudita, l’Oman e gli Yemen erano singolarità, sopravvivenze nel comune sentire, europeo e islamico. Delle borghesie urbane, ma anche del popolo e delle comunità remote: mai un cristiano si era trovato a disagio nella più sperduta periferia, e non per impersonare l’impero e l’autorità.
Questo avveniva anche nei tempi dell’indipendenza. Nessuna differenza di linguaggio e d’intenti, al Cairo, a Tunisi, in Siria, in Iraq, in Marocco. Neppure in Algeria la guerra di liberazione aveva prodotto rifiuti radicali. L’europeo non era straniero a Istanbul, non più che un islamico in una qualsiasi città tedesca dove i turchi fossero la prima minoranza.
Tutto è cambiato attorno al 1980, con la guerra civile in Libano, imposta da Siria e Israele, con Khomeini, con l’assassinio di Sadat e poi di Rabin, gli hezbollah, i talebani, Al Qaeda, i salafiti. Il vecchio, irrisolto, revanscismo arabo ha ripreso il sopravvento sulla linea del terrorismo.
Il rapporto si rompe perché l’islam abbassa la saracinesca. Non solo in forme violente. Nelle condizioni del vivere civile, delle donne, delle scuole, delle forme d’insegnamento, che è solo indottrinamento. A Istanbul la linea del velo monta di anno in anno in epoca recentissima. Ferma per anni a Bursa, ora morde Smirne e molte famiglie della stessa Istanbul.

Il duello tra Maometto e Carlo Magno è finito da tempo: il mondo arabo-musulmano non ha saputo penetrare in Europa, e ora non può. L’islam è debole, malgrado la demografia, sul piano religioso e su quello militare. Malgrado il fondamentalismo feroce e la bomba atomica, e anzi a causa di essi: si coltiva la dipendenza arabo-mussulmana, la si introietta, di fronte alla modernità, l’estremismo è una reazione. Altra cultura, molto più complessa ma senza complessi, quella persiana, e asiatica in genere di altre tradizioni.

Oriente - Metastasio era specialista, si può dire, di Medio Oriente, fu il primo. Con “Adriano in Siria”, “Alessandro nelle Indie”, “Achille in Sciro”, “Demetrio”, “Zenobia”, “Ciro”, “Artaserse”, “Didone” e “Catone in Utica”. Coi tanti Antigono, echi della maschia Antigone di Sofocle, e le Armide, Zaire, Zaide, Zelmire, Giuditte trionfanti, l’amante che lo taglia all’uomo era anche allora di grande effetto, grande invenzione l’Oriente di Metastasio. Che contagiò Mozart. Händel pure non è male, l’operista fluviale: “Almira”, “Radamisto”, “Giulio Cesare in Egitto”, “Alessandro”, “Siroe”, “Jephtha”, “Serse”, “Tolomeo”, “Esther”, “Berenice”.
All’epoca l’Oriente si vendeva a chili, anche a leggere: “Artameno il gran Circasso”, 8.500 pagine, dieci volumi, “Almahide la schiava regina” otto, “Ibrahim il gran Bassa” quattro. Il Medio Oriente era stato scoperto dal cardinale Federico, dotando l’Ambrosiana di caratteri arabi, ebraici, armeni, e di maestri di queste lingue.

Superpensioni – Le inventò l’onorevole Andreotti, nl 1972, quando infine arrivò a palazzo Chigi, seppure con un governichccio striminzito di destra. Ridusse il prezzo del sale e aumentò le pensioni. Non tutte, quelle dei superburocrati. Offrendo la pensione anticipata, ai quarant’anni, ai dirigenti pubblici: quindici anni di lavoro, studi universitari inclusi, e trenta, quaranta, cinquant’anni di pensione pagata, con una buonuscita di cento e duecento milioni, tre e sei volte lo stipendio dei pa-pabili. per indurli a profittare della pacchia.
Andreotti parsimonioso non lesinò coi prefetti. Una nuova casta costituendosi di prefetti giovani in rapida carriera, da allora sempre a lui fedeli, in ogni cambiamento.

astolfo@antiit.eu

mercoledì 3 aprile 2013

La sindrome recessione

Un portiere d’albergo a cinque stelle a Ischia, tanto efficiente da meritarsi la fedeltà all’albergo e l’amicizia personale della Cancelliera tedesca Angela Merkel, è stato licenziato. Tanti articoli strappalacrime sulla visita che la cancelliere gli fa a casa. Senza spiegare perché un grande albergo si priva di un portiere così bravo. Né quanti clienti hanno passato Pasqua a Ischia con Angela Merkel.
La storia strappalacrime era assortita da foto in costume della cancelliere che entra giovanile nella piscina termale, senza cellulite – storia e foto, cioè, sono stati forniti graziosamente dal servizio stampa della Repubblica di Germania, ma questa è un ‘altra storia. La recessione è la grande rimossa.
È la recessione più grave della storia d’Italia. E una che ha interrotto la corsa dell’Italia unita, un secolo e mezzo di storia, per portarsi alla pari con i paesi più ricchi, come dimostra lo studio della Banca d’Italia qui recensito. Ma per i giornali non esiste. Per i grandi giornali, è opportuno precisare: il “Corriere della sera”, “la Repubblica”, “La Stampa”, Il Messaggero”. Che si vogliono tutti, bizzarramente, di sinistra. Anche “Il Sole 24 Ore” ha difficoltà parlarne, e solo di recente, dopo che il presidente della Confindustria infine si è deciso a parlarne.
I segni evidenti, che tutti vedono, della recessione non mancano. Ci sono i licenziamenti, almeno un milione in un anno e mezzo – un milione e mezzo con gli “esodati” (licenziati anch’essi a tutti gli effetti: sono una categoria speciale solo per le alchimie Ue, un qualche trucco che consentirà di pagare loro una pensione prima dell’età legale). Con un ricorso eccezionale alla cassa integrazione, l’anticamera di altri licenziamenti. Un negozio su quattro chiude, e gli altri quattro sono vuoti. Ci sono italiani ora alla mense dei poveri, decine di migliaia, forse un centinaio di migliaia. Ci sono suicidi per debiti, un centinaio nel 2012. Non c’è lavoro per due giovani su cinque, e si riapre l’emigrazione qualificata, con perdita cioè di capitale umani. Per due famiglie su cinque le tasse si mangano il capitale – bisogna svendere il patrimonio per pagare le tasse. Si moltiplicano i piccoli furti, eccetera, di giovanissimi e inesperti, non del mestiere.
Un giornalismo anche solo popolare, scandalistico, ci troverebbe ampia materia. Invece non se ne parla. Perché il partito Democratico non ne parla? È una ragione, molti giornalisti sono burocrati Pd. Ma non basta. La recessione è stata provocata da Monti, per insipienza o per qualche recondita ragione. Si poteva quindi pensare il silenzio dettato dalla riverenza a questo esemplare dell’“Italia migliore” - milanese, bocconiana, eccetera. Ma Monti è in bassa fortuna – dopo averci liberati, bisogna dire meritoriamente, dei Fini, Casini e Montezemoli. È il partito della Germania? In parte sì, alcuni giornalisti di chiara fama sono al soldo di interessi tedeschi. Ma non, naturalmente, i de Bortoli, gli Ezio Mauro, i Calabresi che dirigono i grandi giornali. E allora?
È l’irrilevanza dei giornali. Il primo e più grande segno dell’irrilevanza della politica, prima e più dei Berlusconi e Bersani, in quanto opinione pubblica, che della politica è il cuore e il cervello. Un sorta di dimissione, di volontaria dismissione. Anche se, poi, la botte dà il vino che ha. Una sindrome, in cui il soggetto è vittima e carnefice: la sindrome recessione dell’opinione pubblica.

L’Italia s’è fermata

“Tra il 1896 e il 1992, con l’eccezione degli anni Trenta, l’Italia si è sviluppata più rapidamente dei paesi europei che a fine Ottocento avevano un reddito superiore al suo, realizzando nel gergo degli economisti una ‘convergenza incondizionata’. In questo arco di tempo il benessere degli italiani è cresciuto a dismisura in tutte le sue dimensioni. Perché l’Italia ha interrotto, in modo quasi improvviso, il percorso secolare di convergenza iniziato negli anni Novanta dell’Ottocento e realizzato con tanto successo soprattutto nel mezzo secolo postbellico?
“Sono domande che non tollerano risposte banali, costruite su pre-comprensioni ideologiche o culturali. A conclusione di una ricerca durata due anni alla quale hanno partecipato alcuni tra i migliori studiosi mondiali di storia economica, chi ha contribuito a questa ricerca non ha la presunzione di rispondere in modo soddisfacente. Il lavoro fatto si sostanzia di un gran numero di studi empirici che aggiungono molti nuovi dati e qualche nuova interpretazione alle conoscenze sin qui acquisite. Si tratta, soprattutto, di contributi su aspetti importanti dello sviluppo economico italiano che potranno, nel tempo e speriamo anche con il contributo dei colleghi stranieri, affinare risposte a queste domande, certamente destinate a sollecitare gli studiosi per molti anni a venire. Il lavoro fatto consente, tuttavia, di abbozzare una prima risposta”.
La risposta è questa. Dopo una “lunga rincorsa”, e malgrado il rallentamento degli anni 1970, l’Italia aveva agganciato i paesi ricchi: “Nel 1992 il pil per abitante italiano era pari a quello di Germania e Regno Unito”. Poi tutto crollò: produttività in soddisfacente, produzione in calo, deviata verso le produzioni leggere, a basso valore aggiunto, scomparsa della grande impresa. È la conclusione di Gianni Toniolo, economista alla Duke University, che ha curato questa ricerca della Banca d’Italia in veste di consulente.

Piccolo è brutto
I germi erano stati seminati prima. Nei termini di Toniolo: “A partire dall’‘autunno caldo’ e per tutti i difficili anni Settanta, si adottarono in rapida successione misure estemporanee di welfare e di indiscriminati sussidi alle imprese. Crebbe il peso delle micro-decisioni politiche nei processi di allocazione delle risorse, anche nell’impresa pubblica. L’inflazione a due cifre fu più elevata e durò più a lungo che nei paesi concorrenti. Riforme indispensabili delle quali si sentiva sempre più la necessità furono indefinitamente rinviate. La qualità della scuola peggiorò. I tempi della giustizia civile e amministrativa si allungarono. All’indebolimento dell’impresa pubblica si accompagnarono segni crescenti di debolezza della grande impresa privata. Il mercato del lavoro divenne più rigido”.
“Piccolo è bello” è uno dei tanti slogan con cui si copre la superficialità italiana. Ma l’effetto è disastroso. Toniolo: “Nel 2008 la dimensione media delle imprese italiane era la metà di quella media dei cinque maggiori paesi dell’Unione Europea. La grande impresa è la principale produttrice di ricerca applicata, con effetti a cascata sul resto dell’economia, è veicolo di investimenti diretti dall’estero, a loro volta tramite privilegiato del trasferimento di tecnologie. La diminuzione della capacità complessiva di ricerca e sviluppo, quando la produzione e adozione rapida di nuove tecniche è diventata più importante che per il passato,
non può che avere diminuito la capacità sociale di crescita del paese”.

La sopravvalutazione del cambio
Gli altri fattori dannosi sono noti in abbondanza: la spesa e il debito pubblici troppo elevati. Ma la Banca d’Italia ne ha, a sorpresa, uno non scontato – un altro dopo la liquidazione della grande impresa: la sopravvalutazione del cambio. Che portò alla svalutazione catastrofica della lira nel 1992. E alla sua sopravvalutazione, altrettanto catastrofica, nell’euro dieci anni dopo. Entrambi errori, è da aggiungere, della Banca d’Italia di Ciampi – Toniolo non lo dice, ma si sa.
Alla Banca d’Italia precipuamente si deve peraltro una serie di grandi riforme negli anni 1990 (ma a partire dal referendum sulla contingenza nel 1984, che Toniolo trascura), “in materia bancaria e finanziaria, societaria, di lavoro, di concorrenza”. Inoltre, fu attuato il più ambizioso programma di privatizzazioni europeo dopo quello britannico. In un decennio (1994-2004) il debito pubblico fu ridotto di ventidue punti percentuali”. Non è bastato.
Perché la causa principale è un’altra, che si continua a tacere: l’Italia fu bloccata non dalla contestazione (l’“autunno caldo”) né dal terrorismo, ma dal parlamentarismo. Dalla pratica di governare con intese di corridoio, per compromessi sempre riduttivi, e quasi sempre inapplicati. Un proverbio sudamericano dice che il paese va avanti di notte, quando il governo dorme. Ma un’economia avanzata, in un mercato concorrenziale e regolato, non vive senza governo.
Gianni Toniolo (Banca d’Italia), L’Italia e l’economia mondiale 1861-2011, online

La fine del parlamentarismo

Finisce nell’eccesso, come ogni bestia arrivata alla fine violenta, esagerando i suoi difetti: l’inconcludenza, l’irrilevanza. Il soggetto è il parlamentarismo, la deviazione patologica del regime costituzionale, della Repubblica parlamentare. Degli inciuci e degli accordi sottobanco. Della sopravvalutazione, anche, della propria funzione: segno ne è l’attorcigliamento delle Camere appena elette, grillini compresi, sulla riduzione del loro costo di funzionamento. Di cui poco o nulla importa al paese, che ogni mattina ha da affrontare i debiti, la disoccupazione e perfino la fame. Dev’essere una nemesi, o altrimenti il parlamentarismo dovremmo dirlo irriformabile: non si spiega altrimenti che un Parlamento appena eletto in una campagna segnata dall’insoddisfazione verso le beghe di partiti, non trovi altro da fare che ingolfarsi in queste beghe, ingigantirle - si parla di dieci, forse cento milioni di tagli… È una forma agonica, seppure lenta, lunga.
La crisi dell’Italia ha una sola causa. Precisa, e anche nota, a molti. Che però si tace: il parlamentarismo sterile, l’incapacità del Parlamento di fare vere leggi, opportuna, incisive, importanti. A partire dal 1973. Quell’anno Giulio Andreotti, liquidata la sua prima esperienza a palazzo Chigi con un governicchio di destra, si fece eleggere capo dei deputati Dc e in quella posizione si spostò a sinistra. Prese cioè a sopravanzare i socialisti, alleati di governo, con il Pci. Su pressione, si disse, del Vaticano - i socialisti ponevano problemi che i comunisti non ponevano: controllo delle nascite, aborto, divorzio, scuola laica, Israele. E a discutere ogni legge in anticipo col capogrupo Pci alla Camera, Pietro Ingrao.
Andreotti istituzionalizzò Istituzionalizzando la superfluità del lavoro parlamentare che già Moro aveva avviato, con regolamenti che rendevano impossibile alla Camera fare qualsiasi provvedimento dotato di tempestività ed efficacia. I governi intanto avevano così preso a operare per decreti, successivamente rinforzati dai voti di fiducia.
Era l’inizio di quello che Berlinguer dopo qualche mese chiamerà il “compromesso storico”. Su due fondamenti. “Una peculiarità radicata del socialismo italiano, una forte positività” è il non essersi mai “identificato con le socialdemocrazie europee di tipo tedesco o inglese”. Uno. Due: “È necessario operare per il superamento della divisione del mondo in blocchi e zone d’influenza”. Perciò “la via italiana al socialismo passa per un accordo con la Dc. Per un «compromesso storico» tra le forze che rappresentano la grande maggioranza del popolo”. La consecutio non era logica: la rivoluzione che passa per la Dc, e per un compromesso. Ma così incontrava Andreotti. Che invece aveva già trovato la formula giusta: “L’impegno reciproco a non compiere atti di reciproca ostilità”.
Il problema italiano nasce da questo spericolato onniparlamentarismo, dalla furbizia di Andreotti: la moltiplicazione del debito, la burocrazia ingestibile, le spese inutili, i privilegi della politica, l’incapacità di legiferare. Dibattiti estenuanti furono introdotti da Luciana Castellina e altri irriducibili su ogni minimo disegno di legge che non fosse negoziato col Pci. E il compromesso era sempre al ribasso. Craxi, che tentò di rompere questo compromesso legislativo, fu liquidato.

martedì 2 aprile 2013

Ombre - 171

Lo spread non vale, conta il rating, dice Fitch. Non serve sapere cos’è lo spread, il rating, e Fitch: sono tutti modi per fare denaro (conta solo il Dow Jones, e l’Ftse che ne è succursale: gli indici di Borsa angoloamericani). Ma ci governano. Il mercato esce distrutto da questa crisi, non c’è bisogno di un Marx.
Si capisce che ritornino con Grillo in auge le diffidenze contro le demoplutocrazie.

Nessuno compra più, neanche la pagnotta o l’insalata, si prendono in scadenza al supermercato a prezzo ribassato, e i negozianti trovano più conveniente tenere chiuso nel lungo week-end di Pasqua
È come la settimana lavorativa corta per salvare le imprese.

Si annuncia l’uscita in Italia delle famose memorie di Jan Karski, combattente della Resistenza polacca nella seconda guerra mondiale. Famose perché Karski rivelò e documentò l’Olocausto già nel 1942, in tempo reale. Si pubblicano in Italia dopo settant’anni di screening sul suo antistalinismo – Stalin era l’alleato di Hitler, ma è meglio non dirlo, in Italia no.

Totti dice che i giocatori della Roma sono migliori di quelli della Juventus. Una critica più radicale alla sua squadra e alla sua società non poteva dirla. Vuole prendersi la società?

Ma forse la Roma migliore della Juventus è solo una barzelletta di Totti. Che subito dopo è andato a perdere col Palermo – una squadra che non vince una partita non si ricorda più da quanto. A Roma si può dire di tutto.

Napolitano? Quasi Berlusconi. La tentazione è forte nel Pd, e nel duce vittorioso Bersani, di fare il Sansone. Allora, è vero che Pd sta per PdO, il partito dell’Odio?

Si celebra Orwell senza leggerlo, tanto la sua teoria dell’Odio è viva. Lo si celebra a denti stretti, in realtà contestandolo: Orwell è sempre colpevole in Italia di leso sovietismo.

L’ambasciatore americano Thorne insiste: invita in ambasciata una delegazione di 5 Stelle. Per dare corpo alle voci che 5 Stelle è al soldo della Cia? Ma Grillo accetta, ci va volentieri. E dunque? È un gioco della parti?

Ampio servizio del “Corriere della sera” sulla Lega giovedì, per dire che il partito milanese potrebbe “tornare decisivo”: “Lo scenario sarebbe quello di un esecutivo della «corresponsabilità». Avviato, magari, da una visita al bar dei senatori leghisti al momento della fiducia”. Non è un servizio per ridere.

In cinque articoli sulle dimissioni di Terzi mercoledì 27, il “Corriere della sera” non ha nemmeno cinque righe per le ragioni delle dimissioni. Che Terzi ha letto alla Camera. Solo pettegolezzi, ipotesi, e “indiscrezioni autorevoli” sullo sdegno di Napolitano. Fine regime?

L’ammiraglio Di Paola ha condiviso con Terzi la scelta di non far tornare i marò in India – poi fatta rimangiare da Napolitano. Ma non si dimette, e per questo viene osannato.

Si certifica il crollo del pil nel 2012, a meno 2,7 (ma il calo è superiore), un calo record in Europa e per l’Italia repubblicana. Un titolo a mezza pagina in pagina interna: poi dice che gli editori licenziano giornalisti.

Il mercato è il migliore dei mondi possibili. La crisi è la peggiore da un secolo? Non importa, al giornalista non è stato detto, lui resta sintonizzato sul mercato.
A Massa il partito democratico ha sede nel palazzo della vecchia Dc. Lo ricorda una targa d’epoca, tenuta accuratamente pulita. La verità delle cose.



Russell che Dio perseguita

“Manco di sentimenti religiosi”, dice Russell di se stesso. Su che basi? “La creazione del nulla è un fenomeno che non è stato ancora osservato. Pertanto, non c’è miglior ragione di supporre che il mondo è stato causato da un Creatore che di supporre che abbia avuto un’origine spontanea; entrambe allo stesso modo contraddicono le leggi causali”. E la causazione?
Contro Dio Russell ha molte pagine. Questa edizione comprende meno della metà del volumone “Dio e la religione” pubblicato vent’anni fa dalla Newton Compton - e ora anch’esso ripubblicato, segno che il filone ateista tira. Ma non si capisce perché il negazionista abbia bisogno di tante pagine. Ogni tema peraltro argomentando, a partire dal più celebre “Perché non sono cristiano”, paradossalmente al contrario. Non nel senso crociano del perché non possiamo non essere cristiani, ma in senso proprio, quasi teologico: ogni prova di Russell contro Dio, compresa la sua reiterata pretesa di non sapere che dirne, d non avere la prova della sua non-esistenza, sembra un discorso su Dio.
In dettaglio. Russell si vuole agnostico, contrario a ogni fede rivelata, e molto dubbioso sulla natura e la parabola di Cristo. Ma con argomentazioni cristiane – se non cattoliche. Non nell’islam né nell’ebraismo, per dire di due religioni in qualche modo note, le sue argomentazioni incidono: parla di cristianesimo, più che di fede religiosa, e a cristiani. L’obiezione maggiore a Cristo la fa da cristiano: quando rimprovera il Figlio di Dio di aver voluto, nella sua bontà, la dannazione eterna.
Anche gli argomenti sono bizzarramente ritorcibili. Per esempio il libero arbitrio: “Non vi è una netta linea di divisione tra l’uomo e il protozoo. Perciò, se diamo il libero arbitrio all’uomo, lo dobbiamo dare anche al protozoo”. Questa conclusione Russell la traeva nelle sue prime riflessioni, da adolescente, che questa scelta opportunamente tralascia, ma resterà tipica del suo modo di ragionare. Per esempio in tema di Causa Prima, nella conferenza “Perché non sono cristiano”: “L’idea che debba sempre esistere un inizio è semplicemente dovuta alla povertà della nostra immaginazione”. L’infinito, dunque, l’eternità? Che Russell detesta, e nel saggio di questa raccolta ne fa colpa all’idea di Dio.
Il saggio del titolo nasce dal fatto che all’epoca, 1930-1931, molti fisici e biologi avevano decretato morto il vecchio materialismo, e la religione in qualche modo più vera. Russell obietta discutendo o spiegando il principio d’indeterminazione (Heisenberg), per dire che non ha niente a che vedere col libero arbitrio. E con Dio? Più congruo è quando dice di “odiare” gli specialisti del divino. Qui non si saprebbe dargli torto, ma è un’altra cosa.
L’altro scritto famoso, “L’incubo del teologo”, attanaglia lo “specialista del divino” tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande. Irridendo all’uomo, a ogni uomo, quindi anche a se stesso, come a un “parassita”. Ma senza considerarsi in realtà tale, non lui, che ne scrive ridendo. E parassita di che? Anche del senso di mollusco, invertebrato, medusaceo. Per poi concludere: Dio è l’effetto del “potere che Satana ha sui nostri sogni”. Non è la stessa cosa?
L’insistenza maggiore, con l’effetto più curioso, di Russell è, fin dall’inizio della sua meditazione sulla religione, e cioè dai suoi quindici anni, da quando cominciò a studiare seriamente, sul libero arbitrio. Di cui fa una colpa al cattolicesimo, e a Dio stesso. O non un merito? L’argomento lo indigna fino a fargli dire sciocchezze. Per esempio che, mentre il libro arbitrio dei cani Pavlov ha accertato che è un riflesso condizionato (un’abitudine), per l’uomo non si sa. Ma non si sa giusto per la complessità del meccanismo, la scienza ne verrà a capo. Il che per un logico, sia pure matematico, è un’insulsaggine prima che un’insolenza. Il riflesso condizionato, aggiunge Russell a un certo punto trionfante, è stato documentato anche nei polli. E lo suppone nei bambini. Poprio così, nei bambini, pur avendo avuto qualche figlio da una delle tante mogli.
Un caso esemplare lord Russell sarebbe stato , per il suo vescovo Berkeley, di solipsismo, ossia di egotismo. O di riflesso condizionato - “la nostra concezione di Dio deriva dall’antico dispotismo orientale, ed è una concezione indegna di  uomini liberi”? Giulio Giorello, che presenta questa scelta, sembra prendere le distanze.
Bertrand Russell, Scienza e religione, Longanesi, pp. 190 € 16

lunedì 1 aprile 2013

Le Camerette tecniche

Dunque finisce con un presidente che, invece di nominare un governo, nomina due apparenze di commissioni consultive. Che non sanno cosa fare, ma hanno capito che devono far passare le due settimane che ci vogliono perché il presidente non possa più nominare il governo - le Camere saranno già all’opera per eleggere il successore. Finisce nella viltà una presidenza baldanzosa, e anche, si sperava, di buona politica – in linea certo coi tempi: se rinuncia il papa… (la “linea” piace sempre in certi ambienti).
Ci sarebbe da sorridere alla trovata di Napolitano, di instaurare due piccole “Camere”, di “tecnici” con uno spruzzo di politica. La scienza dell’economia – della gestione pubblica – non nacque del resto “camerale”, degli esperti nell’anticamera del principe? Ci sarebbe anzi da ridere, considerando che le Autorità a garanzia del mercato, di cui i più dei cameristi sono a capo, sono una della cause principali del disastro della funzione pubblica, per costo e inefficienza (subordinazione agli interessi costituiti).
All’apparenza sembra logico: non avendo le Camere vere espresso una politica, il capo dello Stato ci riprova en petit comité. Se non che si tratta in realtà di (piccoli) burocrati, che non faranno assolutamente nulla - è la sindrome Bondi che imperversa. Dunque è una logica di Pulcinella. Mentre la realtà è ben drammatica. Per la recessione che è spaventosa più che per lo spread e la cattiva Germania.
Il commissariamento
Si può dire – è lecito essere beffardi – anche il trionfo della politica come commissariamento, della politica sovietica. Facendo torto a Napolitano, che ci ha sbattuto contro una vita, e anche alla presidenza della Repubblica è stato ed è quotidiano rivendicatore delle ragioni politiche. Ma non del tutto. Anche lui come tutti è ormai succube, dopo un bombardamento ventennale, dell’ideologia della “società civile” figlia di Mani Pulite, il gentile golpe ambrosiano, della Borsa e delle banche, per cui un professore o un burocrate è meglio di un politico liberamente eletto. Succube del commissariamento sovietico in salsa ambrosiana, bancaria: non ci ha già dato il celebrato governo Monti dei professori e tecnici (burocrati: Grilli, Barca, Terzi, la ministra dell’Interno…)? Ma come a Monti ha sotteso un accordo politico di Grande Coalizione, così nella composizione delle Camerette ha usato il bilancino politico. 
Le due Camerette lasciano peraltro inalterato l’impasse politico che l’ex partito di Napolitano ha creato, e a cui lo stesso capo dello Stato, dopo aver resistito una vita, sembra adeguarsi all’uscita. Col supporto - maldestro forse più che opportunista - della residua politica laica, Sartori, Scalfari, Settis (tutti con la s?). Con la barzelletta che non ci può essere altro partito all’infuori di quello: l’ex Pci che ha fagocitato la Dc e governa con la corruzione, in grande e in piccolo, e non tollera altri partiti di massa, se non dicendoli ladri, concussori, mafiosi, trafficanti di droga, golpisti, pederasti, e ora puttanieri – senza senso del ridicolo, Sartori, Scalfari, Settis, e altri ascari affardellati? Dopo la catastrofe Monti, che altro ricino ci propina il popolo diverso?

La maledizione del sangue

Il sottotitolo potrebbe essere “I misfatti della consanguineità”, dei legami familiari, anche se senza colpe specifiche. Nella coppia la consanguineità fa inevitabilmente aggio sull’affetto (rispetto) reciproco, è “terzo incluso” della filosofia, anche senza volerlo. Lo stesso nella parentela e nella società.
Irène Némirovsky ne subì il pregiudizio nell’infanzia a Kiev, sotto forma di pogrom e isolamento, e poi sotto forma di diffidenza nella libera Parigi, fino alla denuncia e alla persecuzione razzista durante l’occupazione tedesca,. Per una “identità di sangue” che, senza pregiudizio naturalmente, era un animo buono, sentiva come una gabbia e un limite. Non per colpa ma per la forza dell’abitudine, del pregiudiziale “noi e loro”.
Il racconto è semplice, come sempre nella Némirovsky, è una cosa che tutti facciamo, abbiamo fatto. I fratelli che, come ogni domenica, si ritrovano con le consorti attorno alla vecchia madre, “provano l’indicibile fatica che s’impossessa dei membri di una famiglia quando si trovano riuniti insieme da più di un’ora”. Per quell’indissolubile legame che, pur in mezzo a esperienze e ambizioni diverse, li soggioga. Un piccolo spicchio, ma…, della commedia umana di questa scrittrice senza padrini (procuratori, esegeti, sistematori): la narrazione dei sentimenti della vita borghese, personale e di gruppo, con l’andamento ciclico della “Camera rossa”, senza colpa quindi per nessuno ma con la distinta malinconia della felicità sempre omessa, quasi rifiutata.
Irène Némirovsky, Legami di sangue, Elliot, pp. 93 € 9

L’Occidente saudita

Dieci anni di guerre di liberazione, dopo l’11 settembre, in Iraq, Afghanistan, Libia, tutto per l’Arabia Saudita. Per proteggere l’Arabia Saudita (con gli Emirati suoi satelliti, Dubai, Abu Dhabi, Sharja, e il Kuwait, il Qatar, Bahrein). Dalla quale provengono e sono finanziati, e dove si ispirano, i cosiddetti fondamentalisti. Che in parte sono terroristi, anche contro le moschee e la madressah, purché sciite. Sono infatti del ceppo sunnita, nell’accezione salafita. Che è lo stesso che wahabita, cioè saudita.
L’11 settembre fu un tentativo di rompere il legame di ferro tra gli Usa e l’Arabia Saudita. Gli Usa hanno reagito legando tutto l’Occidente, Israele compresa, l’asse di ferro. Da tempo avevano ceduto il Medio Oriente, con propaggini nei Balcani, e l’Africa sahariana all’espansione finanziaria e religiosa dell’Arabia Saudita, dal Libano al Nord della Nigeria. Dopo l’11 settembre ne hanno rinsaldato il dominio in Iraq e, ora, in Siria. Col sostegno da ultimo della Turchia, novella potenza economica, specialmente utile nel Medio Oriente mediterraneo, e nei Balcani, nell’ex Jugoslavia, in Macedonia, in Bulgaria. Poco conta che questa espansione, solitamente suadente, con moschee, scuole, campi da golf e da polo, impianti per l’irrigazione qualche autostrada dal nulla al nulla, per l decoro, si eserciti anche nel terrorismo anticristiano.
È un indirizzo irreversibile e inoppugnabile. La visita di Obama in Israele ha avuto uno strano effetto astigmatico, proiettando tutta la regione sotto l’ombrello saudita. Col consenso d’Israele, a lungo perplessa ma ora, all’apparenza, convinta sia nella destra che tra i laburisti. Pegno dell’alleanza è la “guerra all’Iran”. Che non è un pretesto, l’Iran persegue una politica di potenza regionale che può creare degli squilibri. Ma era stata dichiarata prima che l’Iran materializzasse questa politica con l’armamento atomico: l’Occidente - la Nato, l’Italia - è schierato in primo luogo per favorire l’islamizzazione turco-saudita.

Problemi di base - 137

spock
Perché le scimmie non parlano? Sembra semplice, sarà stato detto, e invece: perché non imparano le lingue?


Anche i cani, pure così omofili?

E gli uccelli: molti cantano, anche bene, perché non parlano?

Perché la parola sarebbe una semplice modulazione della voce?

Perché il Cristo, tanto buono, ha inventato la dannazione eterna?

O l’eternità non sarà un modo di dire della Bibbia, per dire un tempo lungo (tipo “sette volte sette”, tc,)?

Perché i santi fanno i miracoli, si vogliono contrapporre alle leggi di Dio?

È il prete il ministro del culto o il ministro di Dio (anche papa Francesco)?

Che fine ha fatto l’Agenda Rossa di Borsellino, perché la requisitoria Stato-mafia la trascura?

Perché Borsellino aveva tanti parenti?

spock@antiit.eu

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (166)

Giuseppe Leuzzi
Il Sud si vuole speciale

Viaggiando al Sud c’è questo di faticoso: che tutto vi viene rapportato, viene rapportato al Sud. Il resto delle incomodità, pochi alberghi e pretenziosi, ristoranti chiusi, da anni, gallerie e musei forse inesistenti, comunque chiusi, si compensa con le gioie inattese che il Sud sempre riserva, di attenzione, gentilezza, e residue bellezze, anche del paesaggio. Ma la continua commisurazione di tutto alla propria realtà è fastidiosa, “in Sicilia facciamo, in Sicilia diciamo, il siciliano è, fa, dice…”. E più per essere regionale, quindi doppiamente falsa, quasi che l’identità fosse amministrativa, di siciliano, o sardo, o calabrese, o lucano, o pugliese – ma in Puglia la pugliesità è meno assillante. Sicilia e Sardegna sono isole, qui la regionalità si può capire, ma tra quante differenze! E invece, anche nelle isole, per ogni argomento di conversazione, sia pure il cibo o la salute, un raffreddore, un’arancia, un fico secco, inevitabile sorgerà l’“in Sicilia”, l’“in Calabria”, il tarocco siciliano, il clementino calabrese, il mirto sardo, il miele…”
È la sindrome Terzo mondo, dei complessi d’inferiorità che si avvelenano ogni momento della vitta, sociale e anche individuale. È viaggiando per il Terzo mondo che la conversazione è sempre comparativistica. Doppiamente, anche lì, asfissiante, conoscendo come tantissime realtà “nazionali” nel Terzo mondo siano fittizie, a uso di astratte divisioni coloniali. In America Latina poi è asfissiante: non c’è altra conversazione possibile che un continuo rinvio al proprio pese d’origine, l’Argentina, il brsile, il Perù.
Era, perché il Terzo mondo è evoluto, marcia ora al cosmopolitismo americano. Nel Sud invece imperversa. A Sud di Napoli, bisogna dire - il napoletano ha da tempo smesso di dire “a Napoli lo facciamo meglio, o la facciamo peggio…”

La colpa è della Fiat
Nola è probabilmente una delle zone a più alta concentrazione mafiosa. Per via del mercato ortofrutticolo, e perché così è l’hinterland di Napoli – la città soffre effettivamente l’assedio di un hinterland infetto. Si viaggia sull’autostrada Caserta-Salerno col cuore in gola, dopo aver fatto qualche volta una fermata necessitata a una delle sue stazioni di servizio: sguardi indagatori e improvvisi silenzi - ogni forestiero-passeggero può essere uno sbirro – vi perseguiranno a vita. E se rifate la fermata per uno scrupolo di verità, per non voler recare pregiudizio alla Caserta-Salerno, gli stessi silenzi cupi e torvi vi seguiranno – e più se prolungate la sosta, per avere avuto per esempio bisogno impellente di un panino. Ma i giudici di Nola non se ne occupano. Si pensava anzi che non ci fossero giudici a Nola. Invece ci sono e ora hanno trovato finalmente di che occuparsi: di processare la Fiat. Non di Nola, non c’è la Fiat a Nola. Ma di Pomigliano. Che è a Napoli ma non vuol dire, l’azione penale non conosce limiti. Il giudice ha il dovere di perseguire i delitti, e i giudici di Nola vogliono mettere dentro la Fiat, altro che la camorra.

Dilaga il concorso esterno
Dell’Utri si becca l’ennesima condanna a Palermo opera concorso esterno in associazione mafiosa. Magari sarà mafioso, ma perché condannarlo per concorso esterno in associazione? Perché è un processo in cui non bisogna dimostrare nulla. Pio La Torre e Piersanti Mattarella erano contro questo tipo di “reato”.

La mafia è talmente evidente e impunita, c’è bisogno di un concorso esterno in associazione per punirla? I delitti di associazione sono anche l’ultimo rimasuglio dei delitti d’opinione.

Dell’Utri però non è mafioso, si sa. Perché allora a Palermo lo condannano? Per non condannare i veri mafiosi? Questo spiegherebbe perché i mafiosi non si processano più a Palermo da quando c’è l’Ersatz Dell’Utri e comodo punching-ball, e un’occupazione lunga del tempo – lo processano da vent’anni.

Perché la Sicilia – il Sud – ha questi giudici, menefreghisti al meglio, e queste polizie giudiziarie del tutto incapaci. Come si trova una prova del concorso esterno in associazione? Ma è lo sporto preferito dell’apparto repressivo. Mentre i mafiosi, impuniti, dilagano: minacciano, estorcono, incendiano, bombardano, uccidono anche, tranquillamente. Chi viva al Sud, leggendo i giornali del Sud, vive in un mondo governato da politici concorrenti esterni in associazione. E fronteggiare ogni giorno brutti ceffi che magari lo aspettano in piazza per entrare al bar, alla posta, dal ferramenta, insieme con lui per poterlo poi minacciare di concorrenza esterna. Sempre più spavaldi, che si prendono tutto, ora perfino le mance, sfottenti, liberamente.
I carabinieri, interpellati, rispondono: “Lo sappiamo chi sono, ma di che possiamo incolparli?”. Non c’è qui la concorrenza esterna - per i mafiosi, s’intende, non per i carabinieri?

Calabria
Ha rischiato di diventare feudo dei Borgia, i parenti del papa Alessandro VI, a fine Quattrocento – qualche traccia è rimasta nella serie tv di Neil Jordan sul papa Borgia e i suoi familiari. Per patrocinare il suo diritto al regno di Napoli, contro le pretese angioine (francesi), il papa chiese ottenne da Ferrante per il suo secondo figlio Giovanni (Dumas lo dice il maggiore, ma si sbaglia) il principato di Tricarico e le contee di Chiaramonte, Lauria e Carinola, per il figlio minore Goffredo la mano di donna Sancia, figlia naturale di Ferrante, col principato di Squillace e la contea di Cariati in dote. Ma neanche i Borgia fecero sul serio.

Il racconto “Una notte alla stazione” di Anna Maria Ortese (ora in “Silenzio a Milano””), ha un sarto calabrese che con la sua famiglia se ne riparte senza aver “visto” Milano. Dove erano venuti in cerca di fortuna. Uno dei figli, un bambinetto brutto, con le lenti, continua a chiedere: “Pa’, ma quando partiamo?”, “Subito figlio mio” “E a Milano andiamo?”, “Ci siamo già stati”. Per cui il padre si ritiene in obbligo di spiegare: “Dice sempre la stessa cosa, dice. Perché venimmo di sera, e di casa non è mai uscito. Del resto, nemmeno io l’ho veduta bene: dicono ch’è grande, piena di luci: è vero?”

Per spiegare la Mancia, Almodovar dice a La 7 che è come la Calabria. Non è vero, la Calabria è verde e fertile. Ma il carattere è duro, è vero – si diceva “testardo” – e portato con voluttà alle cause perse.
Non ha mai “fatto opinione” quanto per il caso Villella. Il brigante Villella. Il cranio di Villella. Se deve restare al museo Lombroso, di Torino, dov’era stato catalogato per gli occipiti criminali. O se non dev’essere esposto al suo paese natio.

Pane, marmellata, yoghurt: un italiano su tre se li fa in casa. È l’ultimo grido della moda – dell’attualità o stile di vita. Ma il pane quindici anni fa tutto San Luca o quasi, il paese della ‘ndrangheta, se lo faceva in casa. Lo facevano le donne, per scelta, e anche gli uomini. In forni restaurati o costruiti appositamente, non in vecchie case. I mafiosi precorrono le mode? No, le mode vengono dai paesi angloamericani: i mafiosi l’avevano saputo dai parenti in Australia e Canada..

“Non hanno la testa”, dicono i calabresi dei calabresi. “Non ha la testa” si dice di chi è stolido, o in senso più lato di chi non si applica. Dev’essere così, se si pensa a quante risorse naturali il Sud ha di più e meglio rispetto al Nord: fertilità, minerali, insolazione, perfino acqua buona, e beni culturali e naturali (paesaggistici) cresciuti nel tempo.

leuzzi@antiit.eu

domenica 31 marzo 2013

Il ritorno di Pinocchio (Grande Fratello) – Berlusconi 11

Ha rivinto le elezioni quando le aveva perdute, ha rifatto un partito che aveva appena disfatto, ha occupato i media appena dopo l’annuncio ufficiale, con comunicato scritto, che si ritirava a vita privata, e ripropone sempre operazioni semplici, due più due, tre più tre, dal risultato inequivocabile. Che per lo più lo fanno definire un populista, rendendolo quasi simpatico, lui che gareggia a farsi antipatico. È il Berlusconi Pinocchio. Chi l’avrebbe detto?
L’ha detto il capo dei socialdemocratici tedeschi, e poi se l’è rimangiato. E il “kapò” socialista tedesco Martin Schulz, invitato a Palermo per un week-end da Crocetta, che poi anche lui ha detto che non l’ha detto. Ma in Germania lo dicono spesso, da un decennio ormai, e anche questo lo rende quasi simpatico. A dicembre del 2003 un manifesto campeggiava a Berlino pagato da Dirk Rave per propagandare la sua ultima opera “Silvio Berlusconi”. Opera in musica, non robetta. Sottotitolo “gangster, italienischer” - di che prendere la lupara: il tipo preoccupante dunque del tedesco, questo Rave, precursore a suo modo dello spread, ma in fondo è solo un fisarmonicista.
Il manifesto ha dato da pensare a Suzanne Stewart-Steinberg, italianista, germanista, psicoanalista, americana d’Inghilterra. Che ci ha costruito sopra un corposo “Effetto Pinocchio”, sull’identità italiana come pinocchiesca. Una valanga, insomma.
Sarà vero, non sarà vero. Ma Berlusconi è senz’altro Pinocchio.La studiosa angloamericana lo appaia a Benigni, “anche lui recente interprete di Pinocchio e novello rappresentante di un’Italia infantile”. E questo non quadra, Berlusconi tutto sarà meno che infantile. Ma la studiosa insiste: “Benigni e Berlusconi si rappresentano costantemente come acerrimi nemici. Forse lo sono, ma, al di là della natura del loro rapporto, ciascuno di essi può essere considerato come un burattino che tira i fili dell’altro” - come a dire: se Berlusconi, che vince sempre, è Pinocchio, che saranno gli altri? E su questo forse non ha torto.
Berlusconi Pinocchio, dunque: inventivo, superficiale, furbo, svelto, imprevedibile, e alla fin in qualche modo salvo. E geniale? Un burattino non lo è – di Berlusconi non si potrebbe comunque dire, si offende la religione. È capace però di miracoli. E Berlusconi lo è: ha domato infatti la Lega e il Msi, due bruttissime bestie. Risolutore, a suo modo, nella posa del monello che dice il re nudo - nudo qui anche lui.
Ora c’è in ballo Grillo, che sembra pure peggio. E toccherebbe a Bersani di domare, Grillo interpreta i cattivi umori della sinistra. Ma, e se ci riuscisse di nuovo Berlusconi? In fondo è questa la grandezza di Pinocchio, che le combina sempre grosse e sempre, in qualche modo, gli vengono bene.
In questo quadro, recenziore, quello che tutti vediamo a occhio nudo ogni giorno, della politica spettacolo, in cui un Grillo si confronta con un Berlusconi e entrambi vincono la gara, Berlusconi per la verità si spiega per se stesso. Senza il naso lungo. Ha inventato la politica del “Grande Fratello”, di cui ha fatto uno spettacolo per la masse, di presunta verità, ci prospera, e ne paga le conseguenze. A danno, nell’un caso e nell’altro, dell’Italia, ma senza colpa specifica: non ha imposto il “Grande Fratello”, soprattutto non alla sinistra.   Ma è vero che, come Pinocchio, Berlusconi ha la capacità di rendere speciali le esperienze più ovvie, Per esempio di capitalizzare sull’odio. L’odio è la sua miniera, la riserva dei suoi reiterati successi campali: è facile distruggere un avversario che solo l’odio tiene compatto, basta attaccarlo – l’odio non cementa, è dissolutore.

Il giallo burla



Un giallo della non-scrittura. Della decostruzione della scrittura. A ogni passo un’intersezione, di tutto ciò che si potrebbe dire e non si dice, potrebbe essere e non è, potrebbe succedere e si omette, mentre nomi intervengono, se non personaggi, e ipotesi o fatti irrelati. L’esatto contrario della consequenzialità che il giallo vuole.
Dopo il successo inatteso, a sessant’anni, dell’“Autobiografia di Alce Toklas”, Gertrude Stein nell’estate del 1933 non sa che fare, e s’ingegna di scrivere un giallo, genere di cui si vuole cultrice. Così ricostruisce la genesi del racconto Benedetta Bini, riproponendo la sua lontana traduzione del 1986: “Scritto a colmare un esaurirsi della parola, a dirne quindi la morte”. Ma potrebbe essere, così sembra alla lettura, che si sia voluta divertire, dada quale è sempre stata, in anticipo e in ritardo: del giallo, della scrittura, della storia della letteratura.
Non divertente per il lettore - la ricerca letteraria non lo è, essendo fatta di buchi nell’acqua, mulinelli a nessun effetto, e Gertrude Stein è poi ricercatrice dilettante, e più per anticonformismo, da “amica di Picasso”, che per studio (ma il letterato d’avanguardia raramente è filologo, forse solo Pasolini, gli basta lo spirito d’avventura, e un po’ d’incoscienza). A meno che non ne sia complice. l’irrisione è passionaccia condivisa, cenacolare.
Gertrude Stein, Sangue in sala da pranzo, Sellerio, pp. 116 € 10