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sabato 6 luglio 2024

Cinquant’anni fa l’anno dell’Europa

Il 1974, cinquant’anni fa, era stato dichiarato da Kissinger, neo segretario di Stato, “l’anno dell’Europa”. E intendeva: di fare i conti con l’Europa. Con l’Europa reduce dallo shock petrolifero – domeniche a piedi, ascensori fermi, mini-lampade, mini-riscaldamento, e prezzi alle stelle – l’inflazione durerà un decennio, in Italia al 20 per cento e più.
Lo shock petrolifero Kissinger aveva programmato con insistenza. Come richiesto nel 1970 dalla banca dei Rockefeller, il cui esponente politico Kissinger aveva appoggiato prima  di – e contro – Nixon, di cui era ora il consigliere più apprezato. Un suo aiutante, “esperto energetico”, quando era alla Sicurezza Nazinonale, James Akins, presenziava alle assise arabe spiegando ai modesti sceicchi, grati di tanta considerazione, che stavano svendendo un tesoro. E allo scià di Persia con lfidando la famosa considerazione: “Un litro di benzina, bene deperibile, costa meno di una bottiglia di acqua minarale”. Ai Congressi Arabi del petrolio, con cui i principati si gingillavano per non sapere che fare (il petrolio era in mano alle compagnie), specie a quello del 1970 in Kuwait, dal 16 al 22 marzo, Akins meravigliò anche i più nazionalisti. Che poi erano uno solo, Abdallah Tariqi, ex ministro dello stesso Kuwait, già dimissionato - voleva nazionalizzare le compagnie. Tariqi subodoro' un tranello: a Akins che invitava a "fare la guerra all'Occidente" obiettava accigliato: "È una provocazione, vogliono mettere il nostro petrolio fuori mercato".
Lo shock petrolifero, si ricorderà, venne in contemporanea con la guerra dello Yom Kippur, con cui l’Egitto, sbaragliato sei anni prima in sei giorni, si riprese in un fiat il Sinai. Un Blitzkrieg siro-egiziano di cui l’America “non sapeva niente”, di piano, progetti, nemmeno dello schieramento di truppe, che fu massiccio, malgrado i tanti satelliti spia già in orbita.
L’Europa unita non piaceva in America. Kissinger ironizzava: “Quale numero di telefono devo fare se voglio chiamare l’Europa”?  Mentre del suo presidente Nixon si faceva sapere che nello Studio Ovale, cioè con i suoi collaboratori, parlava in questi termini: “Non sanno chi sono e non vanno d’accordo. Dobbiamo continuare a lavorare con i vari governi, e non con quell’idiota (“jackass”) che sta a Bruxelles”. C’era dispetto per i progetti allora europei di una politica mediterranea, o come si diceva euro-araba. 

Ma a Parigi il governo non sarà di Le Pen

Su  577 seggi parlamentari in Francia solo 76 sono stati vinti al primo turno. Di questi 38 lepenisti.
I lepenisti sono la metà degli eletti con più del 50 per cento, ma sono solo 38. Domani al secondo turno vincono le “desistenze”, gli accordi fra fra due o tre candidature ammesse al ballottaggio per favorirne una. Nessuno ha fatto desistenza a favore del Rassemblement National, del partito lepenista.
Si parla tanto di trionfo, e di Le Pen al governo a Parigi, che si mette in braccio a Putin, e fa crollare le Borse. Ma domani parte sfavorita. Si sono fatti 218 accordi di desistenza. Ma quasi tutti fra macroniani e Fronte Popolare – qualcuno fra le componenti del Fronte, che è variegato. Se i macroniani e i frontisti andanno a votare – e ci andranno, sono molto motivati - è questo fronte che avrà vinto domani sera, non Marine Le Pen.
Il fatto è talmente accertato - temuto- che Macron, dopo le desistenze,  si è affrettato a precisare che non ci sarà un governo di sinistra lunedì. Si è affrettato giovedì, lunedi aveva chiamato al “fronte unico contro la destra”.
Presidente della Repubblica, Macron è preoccupato di assicurare la stabilità (credibilità) finanziaria della Francia. E del resto i macroniani sono di destra anche loro, anche se si vogliono liberali e non nazionalisti. Né ha lasciato insensibile Macron la richiesta, già emersa nel Fronte Popolare, di dare le dimissioni per rifare subito le presidenziali – col Fronte Poplare ancora caldo, e Macron non rieleggibile.

Viva l’uninominale secco – f.to trasformismo

Giovedì la Gran Bretagna ha votato, venerdì c’era già il governo. Meraviglia, plausi, compiacimenti, “questa sì che è democrazia”,”rispettato il voto degli elettori”, “pragmatismo ed efficienza”.
Efficiente il governo inglese non è, non molto. Ed è anche vero che con il 34 per cento dei voti si può ottenere – il laburista Starmer ha ottenuto – il 65 per cento dei seggi. Ma allora: il collegio elettorale uninominale secco (chi ottiene pù voti è eletto, anche col 25 o 20 per cento, e senza recuperi, regionali o nazionali) è un bene? E perché avere un partito che vince le elezioni, con un primo ministro designato in anticipo, non sarebbe un bene? Ed è un bene che un partito come l’estrema destra di Farage abbia solo cinque seggi, pur essendo stato il terzo partito per numero totale di suffragi?
Ha votato solo il 50 per cento, il 7,5 per cento in meno che nel 2020. Starmer ha ottenuto 412 seggi su 650 aumentando i voti rispetto al 2020 di appena l’1,6 per cento, di niente. I conservatori hanno avuto 121 deputati con il 23,7 per cento dei voti. I LiberaralDemocratici hanno avuto 72 deputati con il 12,2 per cento dei voti. L’estrema destra di Farage solo 5 con il l4 per cento.
È giusto? È ingiusto? È un sistema elettorale, navigato, non contestato, come tutte regole del gioco. Da noi si chiama fascista il premierato, che un partito vada alle elezioni con un programma e un indizio di governo. Oltre Manica si vota per avere un governo. In Italia la governabilità è odiatissima. Le elezioni sono per boiardi, piccoli, anche piccolissimi – anche non corrotti. Non più solo fra democristiani, che si litigavano per programma (come tuttora usa fra Renzi, Calenda, Letta, Franceschini, etc.).
In Gran Bretagna si premia il governo invece del trasformismo. È più democratico il trasformismo – il parlamentare è solo con la sua coscienza, e con gli “elettori che rappresenta”? Ma la coscienza non c’entra, il trasformismo è solo opportunismo.

Il cervello a molla

“Tra fine Settecento e inizio Ottocento la scienza comincia a indagare la riproducibilità dell’essere umano, sia per via biologica (gli esperimenti sull’elettricità, Galvani e Volta), sia per via meccanica (gli automi, le bambole animate).
“Tale idea si riflette in letteratura: il “Frankenstein, or The modern Prometheus (Frankestein o il moderno Prometeo, 1818) di Mary Shelley è un ponte tra il gothic novel, in cui il fantastico e l’occulto contaminano di notturno la rappresentazione della realtà, e un nuovo atteggiamento che assegna alla scienza le potenzialità del meraviglioso…. inaugurando simbolicamente e concretamente il genere della fantascienza”. Che però si vuole scienza. “È un fantastico di tipo nuovo quello che si coagula nelle forme riconoscibili del romanzo di Mary Shelley e che emerge in modo diffuso nel primo scorcio dell’Ottocento. In Germania, in particolare, dalle macerie del romanticismo la tensione verso il meraviglioso emigra verso ciò che nella cultura dell’epoca possiede statuto di centralità rispetto ai movimenti anche convulsi che caratterizzano l’evolversi del secolo: la logica scientifica e le sue ricadute attraverso le innovazioni tecnologiche".
Un “processo di rivolgimenti e sussulti”. Nel quale “tuttavia, i vecchi dèi fanno fatica a morire. La creatura artificiale nel corso dell’Ottocento e per buona parte del Novecento viene rappresentata come inferiore all’umano. Proprio Frankenstein è un’epitome di questa tendenza: la Creatura è irrimediabilmente assegnata al rango di monstrum, pur in presenza di qualità intellettuali e morali che ne fanno per molti versi un uomo ideale”.
Ed ecco la differenza, la novità, che c’era già: “Ma si tratta dell’uomo ideale dell’Illuminismo, l’uomo‑macchina che nel proprio principio giustifica la possibilità di essere costruito e riprodotto come qualsiasi meccanismo automatico, e anzi portato a perfezione ben al di là di quelle che sono le caratteristiche umane". Una “prospettiva implicita nella celebre formulazione di La Mettrie, che retoricamente si chiede: «Occorre  altro  [...],  per  provare  che  l’uomo  non  è  che  un  animale, ossia un insieme di molle che si caricano tutte le une con le altre senza che  si  possa  dire  da  quale  punto  del  cerchio  umano  la  natura  abbia cominciato?». E continua: «Se queste molle differiscono fra loro non è che per la sede e per il grado di forza, e mai per la loro natura: e di conseguenza l’anima non è che un principio di movimento, o una parte materiale sensibile del cervello che si può, senza tema di errore, considerare come una molla…”
Ecco da che nascono le castronerie che offre Chatgpt: è una molla? Le scienze neurologiche non hanno progredito molto da La Mettrie - ora si aspettano molto, anche loro, dalla fisica quantistica....: il grande interrogativo rimane sempre la coscienza.
Una riflessione sulle “Notti fiorentine” di Heine, il poeta tedesco che si fece francese. In rete il saggio appare sotto titolo e sinossi in inglese. 
Alessandro Fambrini, di Seravezza, è ordinario di Letteratura tedesca a Pisa.   
Alessandro Fambrini, Simulacri imperfetti, corpi mortali e creature immortali
, ojs.unica.it, libero online

venerdì 5 luglio 2024

Ombre - 727

Menano i tedeschi, organizzatori dell’Europeo, nei primi minuti, per impedire alla Spagna la solita partenza fulminea, ai polpacci, alle caviglie, ai piedi, e niente ammonizioni. Al 7’ esce il primo spagnolo acciaccato, e niente. Il primo cartellino arriva al 30’ – subito compensato da uno, inesistente, a un calciatore spagnolo.
La Germania poi non demerita, pur perdendo (la partita sarà stata la vera finale del torneo, fra due squadre bellissime  negli ottavi e in questa sfida). Ma non c’è onestà nel calcio.
 
I mercati hanno festeggiato martedì il voto francese: temevano il Fronte Popolare, non il fascismo. Soprattutto stavano col fiato sospeso le banche, benché il Fronte fosse sponsorizzato dal loro uomo di fiducia, il presidente Macron. Che ora, fatti gli apparentamenti con il Fronte, per raccogliere qualche voto ai suoi residui candidati promette: “Il governo mai col Fronte Popolare”.
 
Alle europee “prima che si aprissero le urne la Cei e la Comece (vescovi dell’Ue) hanno dispensato univoci consigli agli elettori in Italia e negli altri 26 Paesi interessati” - Filippo Di Giacomo, “il Venerdì di Repubblica” . Però. Esito? “Il successo elettorale di tutti i firmatari del Manifesto Pro Vita&Famiglia. E il flop quasi totale dei cattopiddi sostenuti dai vescovi”. Però.
Poi si dice che il cattolicesimo è dei pecoroni – la libertà, anche di pensiero, si vuole laica, al più protestante.
  
Dice l’ovvio Mattarella a Trieste: “Un governo non ha poteri senza limiti”. C’è la Costituzione. Ma ci si aggrappa a tutto – “i paletti del Colle”, “monito di Mattarella”. In mancanza di argomenti – se non è ignoranza? È come il fascismo in agguato, nel 2024.
La verità è che Mattarella lo dice perché ha intenzione di promulgare la legge sul premierato, se si farà.
 
Il presidente americano non connette (lo sanno i suoi interlocutori, lo sapeva il giudice che lo ha interrogato), ma non si pone un “problema Biden” oggi, solo chi sarà il nuovo presidente. Strano modo di affrontare i problemi. Specie per un giornalismo che si celebra per l’intelligenza e l’onestà. L’America non ce la racconta più giusta?
 
Hanno più pagine sul problema Biden “la Repubblica” e il “Corriere della sera” che il “New York Times” o il “Washington Post”. Pagine di nessuna utilità (informazione) del resto: molto “colore”, la moglie, la sorella, località e problematiche connesse ignote ai più, e ininteressanti. Provincialismo? Così masochista? C’è un allarme sotterraneo da disinnescare?
 
Dovendo in qualche modo coprire le castronerie di Conte, “compagno” del Campo Largo, il capo di ben due governi del primo Mattarella, Gramellini dice che ok, ma il ministro Sangiuliano è peggio. C’è una logica gramelliniana?
 
Verderami insiste, le prove del complotto di Scalfaro contro Berlusconi sono ora due: c’è quella, indiretta, di Lamberto Dini, sempre sul “Corriere della sera”, lunedì, dopo quella del cardinale Ruini. Ma niente, non interessa a nessuno.
 
Non si dimette Spalletti, l’allenatore della vergogna, filosofeggiando. E non si dimette Gravina presidente della Federazione Calcio, che ha fallito già il Mondiale 2022. Uno che si paga lo stipendio del presidente della Repubblica, 240 mila euro. E presiede all’incredibile giustizia di Chiné&Co., per cui, condannata la Juventus, si può fare a meno delle plusvalenze fittizie più corpose, vedi Osimhen, anche di indagare. Una Federazione di mutuo soccorso, per gli amici.  
 
Faceva senso vedere l’impegno e l’applicazione dei calciatori della Svizzera, kossovari, serbi, turchi, africani, sudamericani per lo più. Di un paese che si pensa non tenero con gli immigrati – le memorie vanno a Nino Manfredi, “Pane e cioccolata”. Che invece collaborano tra di loro, e soprattutto si impegnano. Mentre l’Italia è ferma alla Bossi-Fini, “abbasso lo straniero”. Che ci mette vent’anni per avere al cittadinanza, se gli va bene – se ha battuto qualche record sportivo. L’Italia ha molti punti deboli, ma quasi tutti se li è creati e se li crea. La stupidità non ha limiti?


Si sono pagati fino a 500 euro per la partita Italia-Svizzera a Berlino, oltre il viaggio e l’alloggio. Da tifosi da curva, non da tribune. L’Italia allora non è in crisi, l’Italia che non gioca.

Il “Corriere della sera” dà spazio al cardinale Becciu. Che sarà pure un criminale ma il Tribunale di Pignatone che l’ha condannato era osceno. Almeno in questo Becciu ha ragione: Pignatone – altra scelta personale del papa (anche Pignatone massone?)  – torna a Pio IX. All’infallibilità del papa, che ha condannato il cardinale motu proprio, fuori e prima del Tribunale.
Però, l’infallibilità è di Pio IX, ma dopo Porta Pa: c’entra anche qui la massoneria?
 
Nella vicenda Becciu sono entrate due donne in età. Una accusatrice, e una (probabile) profittatrice. Una volta i parroci, quando le beghine (allora si potevano chiamare così) li importunavano con accuse e vendette, le sospendevano dalla confessione - e quindi, allora, dalla comunione. Le sospendevano dai sacramenti. Oggi, certo, è l’era dei social, e dei diritti, il papa si tiene aggiornato: bisogna avere un pettegolezzo più di ogni altro.


Emoziona tutti a questo Europeo Cristiano Ronaldo, che segna, non segn, piage di vergogna, corre e salta a quaranta anni   tifosi e giornalisti. Mentre era antipatico quando giocava nella Juventus, non ai tifosi, che riempivano gli stadi per vederlo, ma ai Gianni Brera di ringhiera - quantum mutati ab illo.

Giallo morto

Titolo suggestivo, poiché c’entra il giornalismo, quello scandalistico e quello d’inchiesta – ugualmente assassini. Ma le morti alla fine vanno per una mezza dozzina. E con stravolgimenti caratteriali poco comprensibili.
Una lettura impervia. Ma non per questi motivi, il giornalismo, i morti, i personaggi. Si gira pagina per finirla.
C’è anche un’altra location, Madrid in aggiunta alla Barcellona solita di Petra Delicado, l’ispettore domina. Che è una bella sorpresa, molto lodata (in chiave antisecessione?), per la provincialotta catalana. Ma non aiuta.
È che ci si mette troppo, con paginate ripetitive che non si sa se saltare. Si vede che il giallo popolare, di cui Giménez-Bartlett è regina, richiede molto rigaggio inutile. Come stai? Come sto? Il panino, la birra, il churro, la tapa, e il whisky naturalmente, ogni poche pagine.
Il modello – la colpevole - sembra Agatha Christie, dello schema Poirot, "Sfida a Poirot", il mondo è pieno di brave persone che fanno brutte cose: delle molte parole, e delle tracce irrintracciabili, se non per l’esito finale. Ma senza le caratterizzazioni della Christie, o allora tiepide. E, appunto, stravolte.  
In aggiunta lo stucchevole “corretto” dell’epoca, fine Novecento: la borghesia, i conti truccati, la Svizzera, e il
body-caring, il primo street food.  
Alicia Giménez-Bartlett,
Morti di carta, Sellerio-Corriere della sera, pp. 351 € 9,90

giovedì 4 luglio 2024

Memoria divisa della Liberazione – o la storia che non si fa

Feste qui e là dell’Anpi, corone, “Bella ciao”, discorsi dei politici locali che si dicono di sinistra – questa settimana con richiamo al rinato Fronte Popolare francese, da noi Campo Largo. Si celebra la Liberazione come un rito, come una  Festa dell’“Unità” quando c’era “L’Unità”. Come una dichiarazione di vivenza della sinistra, che però altrove non si vede – a meno che non siano di sinistra il reddito di cittadinanza, e il Superbonus superregalo per chi ha casa.
Ottant’anni di celebrazioni e non una vera storia della Liberazione. Se non quelle celebrative della Resistenza, dei vari Bocca, Franzinelli, Marcello Flores, Oliva, perfino Monelli - sulla traccia di Roberto Battaglia (già in stampa il 15 aprile 1945, per “l’insolente felicità di unn«partigiano nato»", come dice la bandella della riedizione recente, Il Mulino).
Solo memorie grate, di imprese grandi e piccole. Mentre la Liberazione è complessa. Per le ragioni inviduate da Claudio Pavone, lo storico che fu da ragazzo nella Resistenza, presto dimenticate, della guerra civile – riprese anche queste in chiave divulgativa, anche qui da Franzinelli, con Pansa e altri giornalisti. Mentre è una memoria divisa, ancora oggi. Specie in Toscana e in Emilia, nelle aree del lungo fronte dell’inverno 1943-44, dopo il semi-fallimento dello sbarco di Salerno (solo alleviato dall’insurrezione di Napoli), e la ritardata lenta risalita degli Alleati.
All’Elba e in Versilia, per dirne una, arrivarono per primi i “francesi”, con piccoli mezzi da sbarco. Sull’isola il 17 giugno 1944, con la cosiddetta Operazione Brassard, sulla costa qualche settimana dopo, per affiancarsi, anticipandola, alla risalita degli angloamericani – con le residue truppe italiane. “Francesi” ma di fatto truppe senegalesi e marocchine. Cui il comandante, il generale poi maresciallo Jean de Lattre de Tassigny diede due giorni di libertà di saccheggio. Di cui la memoria ancora persiste: furti di oggetti preziosi, masserizie, alcol, e stupri, di chiunque capitasse a tiro – l’Elba ne ha contati “oltre 200”.
In Versilia e sulle Apuane non se ne parla ma le memorie sono cupe più che festive. Si celebra Sant’Anna di Stazzema dove il torto era ben diviso dal giusto – era dei tedeschi. E si trascurano stragi di eguale entità, Vinca, Forno – dove la memoria è “divisa” (chi ha pagato per la Resistenza?). E la Liberazione con libertà di saccheggio – la memoria è indelebile. Senza contare gli odi interfamiliari, tuttora persistenti, nell’aretino, anche in riguardo alle stragi naziste, di San Polo, di Cavriglia (Meleto Valdarno, Castiglione de Sabbioni).

Cronache dell’altro mondo – di magliari (277)

“Alan Todd May si faceva passare per un magnate petrolifero, si è insinuato nell’alta società di West Palm Beach, e ha truffato i ricchi residenti per milioni.
“Per i suoi nuovi conoscenti era Jacob Turner, un buontempone dalle mani bucate che aveva fatto fortuna col petrolio. Di fatto era un evaso, da una prigione federale dove scontava vent’anni per una frode petrolifera che gli aveva fruttato milioni. L’ultima di una serie trentennale. Ma non ha avuto difficoltà a convincere i residenti dell’alta società di West Palm Beach, Florida, che era «uno dei grandi archetipi americani: il petroliere texano, aggressivo, carismatico, e sfrontato
»”.

Cominciò con una donna di mezza età, “Maria”, “un’elegante vedova, dall’occhio penetrante”. Che tuttora lo ammira: “Una figura imponente, con un bellissimo ventre”. Anche se si accompagnava a un amico inseparabile, Kevin Alvarez, “piccolo e insignificante”.
La storia è lunga, quarant’anni di false “convenzioni”, per organizzazioni o cause inesistenti, e una società petrolifera per grossi investitori che non aveva il petrolio – una società di impiegati “quasi tutti omosessuali”. Con molte carcerazioni, in vari stati.
Quella seguita alle truffe di West Palm Beach è da lui contestata in giudizio – “non erano truffe”.
("The New Yorker”)

Gadda disappetente

L’anticipazione di un inedito, che il Gabinetto Scientifico Letterario Vieusseux pubblica nel prossimo numero del suo quadrimestrale: una cronaca sportiva, dell’ing. Gadda.
Un testo non firmato e non autografo, ritrovato fra le carte di Alessandro Bonsanti, grande amico, direttore e editore di Gadda, ma attribuito con certezza allo scrittore lombardo. Sulla base di una sua lettera a Bonsanti.
Il settimanale pubblica sotto il titolo “A Firenze la cognizione del dolore”, redazionale, la ricostruzione che della natura e l’itinerario dell’inedito fa Giuseppe Nicoletti, emerito di Letteratura Italiana a Firenze. Ma non c’è nessuna sofferenza, e nemmeno entusiasmo.
Un curiosità, per amatori. Gadda ininteressato ininteressante, insolitamente. Descrive la parata del calcio in costume a Firenze. Non la “partita”, una battaglia a torso nudo, manesca ma senza colpi proibiti. Non lo scontro fisico, limaccioso, violento, che è il calcio storico (così esumato nel 1930, anche allora era in voga l’italianità), che le foto a corredo del testo documentano, ma gli addobbi, i costumi, i colori, i fiocchi e le galette: la processione. Senza mai un guizzo. Un Gadda per una volta inespressivo, non umorale. Nessun dolore e anche nessun dispetto, non un ghigno - e nessun desiderio.
Carlo Emilio Gadda, Calcio in costume, “Robinson” 30 giugno € 1

mercoledì 3 luglio 2024

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (564)

Giuseppe Leuzzi

La Ue pare sia arrivata alla 14ma ondata di sanzioni contro la Russia, senza vincere nessuna guerra. Le sanzioni come le “grida” del romanzo di Manzoni? Ma stupidità non è. Non sarà che si fa di tutto, cioè niente, per un megastipendio, tra il ricchissimo-carissimo Lussemburgo, Strasburgo con diaria per l’ottima cucina, e Bruxelles dove comunque non si mangia male. Questa Ue che si vuole nordica non si sarà meridionalizzata, “checcozalonizzata” – per il “posto”?
 
Denuncia il “Resto del Carlino” il caso di un immigrato a Reggio Emilia “a un euro l’ora”. Di “padrone straniero”. E il suo “caporale”? Sicuramente un calabrese. Anche un siciliano andrebbe bene. Perché non se ne fa il nome? Privacy?
  
Tema del libro di Tony Blair, “On Leadership”, con cui esordisce l’annunciata Silvio Berlusconi Editore di stampo socialdemocratico, è: “Si trovano nel mondo paesi con la stessa più o meno popolazione, le stesse risorse, lo stesso potenziale, e tuttavia alcune fioriscono, altre affondano. Perché? Semplicemente perché alcuni hanno leader che capiscono i principi del buon governo, e altri no”. Semplice, in effetti.
 
Si fa caporalato e precariato dappertutto in Italia, al Centro e al Nord con finte cooperative, al Sud con l’impiego diretto dei braccianti per il pomodoro e le arance, colture povere. Ma la cosa è solo del Sud, anche se l’abbandono disumano di Satnam Singh è avvenuto a Latina, da parte di uno non stupido o balordo. Ed è naturalmente fatto di mafia. Che c’è, ma questo non esime i restanti tre quarti d’Italia – oppure sì, la mafia assolve?
 
“Al Nord servono entro il 2040 due milioni di stranieri in più”, calcola la Fondazione  Nord-Est. Cioè dei padri della legge restrittiva che regola l’immigrazione, all’entrata e dopo, per venti-venticinque anni. Una lunga penitenza per chi vuole lavorare.

La buona coscienza si vuole innocente: è la forza del Lombardo-Veneto, molto devoto in effetti, in chiesa e in prefettura, la buona coscienza.
Anche il caporalato, basta farlo con le regole, in buona coscienza.
 
Dei quattro allenatori italiani di Nazionali all’Europeo 2024 – oltre Spalletti - Montella, Marco Rossi, Tedesco e Calzona, gli ultimi due sono meridionali. Di un’area, Sud e Isole, che ha un terzo della popolazione e solo due squadre in serie A, Napoli e Cagliari – quest’ultima col punto rimediato da Ranieri all’ultima gara. Due squadre su venti. 
C'erano più squadre solitamente del Sud in A, Bari, Palermo, a lungo anche Catania, Messina, Regina, Catanzaro, Crotone. Poi, quando il calcio è diventato professionale, gestionale, il Sud è sparito.
 
Sudismi\sadismi
“Calabria, Campania, Sicilia e Puglie, le regioni più colpite dal lavoro irregolare”, comunica regolarmente l’Inps. Poi si guardano i numeri del fatturato (giro d’affari del “lavoro nero”), e per il Sud vengono calcolati 23,7 miliardi su 68, cioè un pro quota analogo al peso della popolazione (al Nord-Ovest si calcolano 17, 3 miliardi, al Centro 14,5 e al Nord-Est 12,5) Anche del totale dei “lavoratori in nero”, calcolato in 3 milioni, al Sud e Isole si imputa il 37,2 per cento.
Il lavoro nero è un problema, sotto tutti gli aspetti, ma perché imputarlo al Sud? Per assolvere il resto d’Italia.
Il Sud come un punching-ball, a disposizione di chi passa. O come una penitenza, nella (vecchia?) confessione, che libera dal peccato.
 
Il Nord bocciato in matematica
L’Italia è attardata, l’Italia è ferma all’Ottocento, la scuola non forma i tecnici, il modello di formazione è quello umanistico, residuo o legato del Sud. E poi si legge: “Pordenone. Maturità, «strage» di insufficienze alla prova di Matematica”, nei licei scientifici. Cioè:¨Nell’80 per cento delle classi ci sono state insufficienze nella seconda prova, quella che per i licei scientifici vedeva al centro la matematica”. Si legge solo nel “Gazzettino” - forse per questo Gian Antonio Stella, il protoleghista del “Corriere della sera”, si è astenuto quest’anno dalla solita filippica contro le maturità al Sud - filippica peraltro pericolosa per la Matematica, le squadrette calabresi, per esempio, vincendo tutti i tornei internazionali, checché ne dica l’Invalsi, basta fare la preparazione giusta (che certo non è semplice, se si guarda al patatrac che ha fatto Spalletti in Germania - sembra li avesse allenati a perdere).
Al liceo Grigoletti “in una classe solo due sufficienze” – “in altre classi della provincia di Pordenone il 77 per cento degli studenti non ha raggiunto la sufficienza”, con voti anche “minimi”.
Il fatto magari è accidentale – magari nella provincia di Udine i risultati sono stati migliori. Oppure: perché non dire che la “linea della palma” ha infettato anche la scuola?

 
Supersu(b)dole
Il neo sindaco di Bari ha per prima cosa nominato un assessore alla Felicità. E uno alla Bellezza.
La fantasia non manca, si dice. O non è per alleviare la disoccupazione al Sud? Di amici?
Il neo sindaco, mezzo Democratico e mezzo 5 Stelle, non ha nominato un assessore al Paradiso (che si può fare, è corretto, il paradiso è anche mussulmano) perché doveva nominarne due? O perché ancora giovane, sessantenne? Il tempo non gli mancherà.
 
A conclusione  della sua spericolata “filosofia meridionale” – “il pensiero che si è messo a indagare le radici della vita”, Giordano Bruno e Giovanbattista Vico all together now – Biagio de Giovanni constata e azzarda: “Il Meridione d’Italia è stato il protagonista di queste avventure del pensiero, l’ambiente dove esse sono nate. Forse, si può fantastiscare, la sua relazione con una riedizione della «Magna Grecia», diffusa nel tempo, nascosta, sempre nel tempo, da mille sterpaglie, ritornata in campo in un pezzo d’Italia carico di problemi e ritardi”. Sterpaglie era Elea vicino Paestum, a un pellegrinaggio, ciò che ne restava della città della Scuola Eleatica, Parmenide, Zenone – le sterpaglie poi le hanno tagliate.
 
Cronache della differenza: Milano
“Passa per essere la città più viva d'Italia, ma quanto è vivibile Milano?”, Luca Mastrantonio.
Ma “passa” per chi?
 
Della partita con l’Albania, aperta da due interisti con un autogoal “assistito”, da record negli annali, i giornali milanesi, “Corriere” e “Gazzetta”, celebrano l’“Italinter”. Con 7 e 8 in pagella agli interisti (7 a Bastoni, quello che ha fissato l’Italia nel record del ridicolo)  - e 6 a Chiesa, l’unico che aveva giocato, reo juventino. Di Milano non c’è da fidarsi, nemmeno ora che da borgo di provincia si pretende metropoli. 
 
Calderoli, il bravo dentista che ha disegnato le duecentocinquanta pieghe, o sono milleducentocinquanta, dell’autonomia differenziata, lo scioglimento dell’Italia, l’eroe del Lombardo-Veneto, ha vissuto in effetti eroicamente a Roma Ladrona vent’anni fa in una villa-castello (imitazione), a 10 mila euro, al mese. Non si finisce mai di stupire – la secessione sarebbe in effetti il solo rifugio.
 
Che il Lombardo-Veneto proponga ormai da mezzo secolo i Calderoli, Zaja, Bossi, Fontana, Formentini, Gallera, è motivo di meraviglia. Ma non per il Lombardo-Veneto, che a ogni evidenza non li soffre, anzi li tiene per buoni. Bossi fu promosso da Milano 1, il Quadrilatero, dei “ricchi-intellettuali-e-belli”.
 
“Ortomercato di Milano: da caso a laboratorio di integrazione sociale” – “Il Sole 24 Ore”: “Circa 6500 facchini nordafricani e del Bangladesh assicurano il funzionamento di una maxistruttura che serve 10 milioni di clienti l’anno”. Un elogio quindi. Della città, da parte del suo giornale. Come a dire: quanto siamo bravi con l’“integrazione”. Dopo aver voluto, e tuttora imporre, una legge Bossi-Fini anti-immigrazione.
 
Ljuba Rizzoli non è la solita attricetta jugoslava che cattura il riccone. È nata Maria Luisa, a Milano. A Cazzullo sul “Corriere della sera” confida le prime esperienze: “Studiavo a Voghera dalle scuole agostiniane. Il mio professore di scienze si era offerto di accompagnarmi a casa in macchina. Si fermò in un bar per offrirmi una cioccolata. Con la complicità della barista mi chiuse in una stanza”. Esito: “Gravidanza extrauterina, emorragie interne, infezioni”. Fu operata “dal padre dell’uomo che mi aveva violentata”. Oggi 92nne, la cosa deve essere avvenuta attorno al 1950. Bell’ambientino, sollecito, di ipocrisia.
 
“Gomorra”, un libro anti-Napoli fatto, letteralmente, a Milano, programmato, documentato e anche riscritto, rivela al “Corriere della sera” il direttore generale di Mondadori, Francesco Anzelmo, all’epoca redattore incaricato della collana “Strade Blu”. Intestato al napoletano Saviano. Promosso a letteratura da Goffredo Fofi, di Gubbio. L’unità d’Italia.
 
“Moda e Caporalato”, rivela un’inchiesta del “Sole 24 Ore” di Ivan Cimmarusti e Sara Monaci: “Ordini per migliaia di capi mal pagati”. Eserciti di clandestini, per lo più cinesi. I migliori marchi vi fanno ricorso. Il problema è che si fa senza meridionali di mezzo. Il giornale non fa i nomi, ma le “ditte” di “caporali” dice di Gallarate, Trezzano sul Naviglio, Milano Bicocca – se fossero meridionali lo sapremmo.

Però, che dire, è ben fatta, ben organizzata cioè, la lavorazione caporalesca del made in Italy a Milano: si scelgono i cinesi, che sono laboriosi, e tacciono – non sono gli africani rompicoglioni, europeizzati, non si lamentano, non si sindacalizzano, non si dichiarano nemmeno, non “esistono”. Con quei nomi, poi, che sono tutti uguali.

leuzzi@antiit.eu

Il presidente Scalfaro, golpista con le mani giunte

Libro regalato, perfino cellofanato?, e per questo non letto? Fino all’intervista allo stesso “Corriere della sera” del cardinale Ruini, il 16 giugno, che confermava a Verderami quanto lo stesso giornalista aveva scritto in questo libriccino d’occasione due anni fa, nell’intervallo fra la prima e la seconda presidenza Mattarella. Che nel 1994 l’allora presidente Scalfaro aveva deciso di buttare giù il governo eletto Berlusconi e per questo aveva chiesto preghiere e un aiutino al cardinale, in quanto presidente della Cei, e al Vaticano, nella persona del segretario di Stato Sodano.
Non è la sola sorpresa. Il volumetto è fatto di tanti medaglioni quanti sono stati i presidenti, ognuno immortalato anche da una vignetta di Giannelli, per metà a opera di Elisabetta Rosaspina e per metà di Francesco Verderami. E nel ritratto di Scalfaro che fa Verderami c’ è anche altro. Il presidente beghino, che pregava sempre per tutti e a tutti chiedeva di pregare per lui, e non poteva cominciare la giornata senza la messa (in Cina si era portato un cappellano militare, che gliela officiava in albergo), tradiva tutti. Avallò il golpismo della banda Borrelli, col rifuto di firmare, in obbedienza all’ingiunzione del Procuratore milanese, la riforma del finanziamento dei partiti - che agli amici invece aveva detto cosa buona e meritevole. Per conto suo bloccò l’inchiesta sull’“uso improprio”, quando era all’Interno dei “fondi neri” dei servizi segreti, col famoso “Non ci sto” – “uso improprio” che c’era stato, non contestato. E non solo mandò a casa comunque Berlusconi, lo aveva fatto anche con Ciampi: “Nel gennaio del 1994 scioglie le Camere malgrado il governo Ciampi abbia ancora una maggioranza”. Un eccesso di potere da Regina Coeli.
Un aureo libretto. Di ritratti d’archivio, di cose note (a parte il golpismo di Scalfaro), ma di tratti  deliziosi, specie quelli di Rosaspina, in punta di penna. Cominciando da De Nicola, il presidente che “a forza di tirarsi indietro fece molta strada” (Domenico Bartoli). O da Einaudi con le sue precoci delusioni da giornalista. Più politici, quelli dei presidenti più vicini a noi, di Verderami.    
Venanzio Postiglione,
Il Colle d’Italia, “Corriere della sera”, pp. 95 pp.vv.

martedì 2 luglio 2024

Se la destra dilagante in Europa è fascismo

Fronte Popolare e Grande Capitale uniti in Francia contro il Popolo, detto spregiativamente fascista. Non è una novità, non in Francia: è il modulo per cui da quarant’anni si elegge il presidente - che in Francia ha tutti i poteri, molti di più che nel presidenzialismo per eccellenza, quello americano. Ma fa speciale impressione oggi.
Le Borse non a caso ieri hanno festeggiato, soprattutto i titoli finanziari – perfino lo spread  Btp-Bund è tornato a calare, dopo l’improvvisa impennata nella campagna elettorale voluta da Macron. Temevano il Fronte Popolare, una vittoria delle sinistre. La prevedibile “coabitazione” di un governo di destra popolare con la destra finanziaria di Macron non impensierisce, anzi - del resto le due destre condividono molte cose, su immigrazione, islam e perfino la finanza pubblica.

Un voto, quello francese, di contraddizioni. Una destra che si fa sinistra, contro una destra concorrente, eccetera. La Francia ci ha fatto l’abitudine – ci vive, di contraddizioni. Il problema è che questa destra ora è europea (perfino inglese), e altrove non ci sono “fronti repubblicani” da crearle astutamente contro – senza considerare l’opportunità, e la democraticità, di questi schieramenti artefatti.
Questo sito segnalava venerdì l’assurdo di non considerare in Europa l’ondata di destra se non bollandola di fascismo. Neppure nelle forme di Giorgia Meloni, che ha dato prova di europeismo, e di equilibrio – conti pubblici, questioni sociali, questioni produttive -, specie a fronte del populismo invasivo, bestiale, della legislatura a cui è succeduta. È in effetti un assurdo storico, e  anche politico. D’immediata evidenza, senza bisogno di ragionamenti. L’economia europea ristagna, da quasi vent’anni ormai. Mal guidata dai governi di Germania e Francia. E da Bruxelles, loro espressione - ha subito inaridito la voglia di novità (NextGenerationUe) del dopo-covid. Attanagliata dalle politiche mercantilistiche (bottegaie) e dall’alterigia di Francia e Germania e relativi feudatari. La produttività è ferma. La redditività è prossima a zero, sia nelle produzioni primarie (agricole) sia nei servizi. L’euro si tiene alla pari col dollaro – politica di prestigio della Bce? - ma il potere d’acquisto scema. Questo non è fascismo, se non per chi, per così dire, ha lo sguardo annebiato – verrebbe da dire: fascista. Al punto di non vedere che la destra lepenista ha avuto domenica il voto operaio.

Un monumento a Roma monumentale

Morte è vita. Passione è corruzione. Senza prevenzioni, neanche etiche. Di soldi, di sentimenti. Ma senza filosofie, non dette.
Greenway ha voluto, nella maturità, 1987, ricreare le sensazioni di ebrietà, stordimento, del suo primo soggiorno a Roma, a 17 anni. “Ero studente d’arte, e studiavo la pittura del Rinascimento”, ha spiegato, ma Roma, dove passò tre-quattro mesi, lo stordì con l’architettura – le architetture, di fatto, lungo 2.500 anni.
La meraviglia qui impersona in un architetto, americano, che arriva a Roma, con la moglie incinta, per organizzarvi una mostra dei progetti di Boullée, l’architetto neoclassico francese del Settecento, che pensava e disegnava “romano”, monumentale. Salvo scoprirvisi affetto da tumore al pancreas, incurabile – l’abbaglio di Roma è irriproducibile, irripetibile.
Una trama come un’altra per raccontare le sensazioni della prima visita. Della monumentalità, plurimillenaria, ineguagliata. Qualcosa, intende Greenway, sempre sorprendente.
Un racconto di immagini, monumentali, più massicce che ieratiche.
Peter Greenway, Il ventre dell’architetto, rassegne varie

lunedì 1 luglio 2024

Secondi pensieri - 539

zeulig


Anarchia
– È individualista, tanto quanto (forse di più che) socialista. Oggi, dismesse le bombe e le fiamme, si copre dei “diritti”. Troppo spesso involuti e artefatti – specie quelli linguistici.
 
Siamo anarchici, poiché, Arendt l’ha intuito, “il peggior nemico dell’autorità è il disprezzo”. Contro l’ipocrisia più che contro lo sfruttamento. Siamo cioè paretiani, contro la pluto-demo-crazia, la forma mista di dominio dei “produttori”, accorta impostura, la plutocrazia dei ricchi e la democrazia dei lavoratori alleate contro la rivoluzione. E per questo, se la libertà è snobismo, stupidi, a meno di continui penosi correttivi: il tipo radical tory, tra Sorel e Pareto, socialista e perfino marxista reazionario.
 
Carpe Diem – Cioè il miracolo: il giorno, il momento, il tempo non tempo. Confligge con la realtà ma esiste, è con noi, passa con noi. Non si sa come né perché, ma ci siamo, momento per momento.
 
Hegel - Si può dire di Hegel, il Sistemista, che fu nitido teorico del fascismo – del fasciocomunismo: il Partito Interprete della Storia, l’Intellettuale Collettivo, il buon Funzionario. Che è anche il Funzionario del Partito di Togliatti, l’interprete collettivo, del partito Bolscevico.
Non era Zdanov, cioè Stalin, che liquidava Hegel quale ideologo della reazione feudale contro la Rivoluzione?
 
Intellettuali – Minosse e Solone facevano le leggi. Oggi le fanno i negozianti, gli industriali, i banchieri, i coldiretti, e le influencer. Le masse cioè. Echi distratti di conversazioni e letture si affastellano a confondere la riflessione mai realizzata sul proprio ruolo nel mondo. Nell’impeto del momento, che vuole l’intellettuale integrato, parte di altri insiemi, men-tre rifiuta ogni integrazione, il lavoro, il partito, l’epoca.
Il tradimento degli intellettuali, ha scritto Popper al Times letterario, “consiste nel loro tentativo romantico di essere più intelligenti della ragione stessa e di elevare il romanticismo da filosofia della nostalgia a filosofia del potere”. E gli intellettuali che non tradiscono? “Vive là un amico delle lampade e delle civette”, così lo scrittore Landolfi ne fa l’apologo: “Vivono, essi, per carpire una nota a un frusciare di foglie o un segreto a una rupe rugosa; soffrono e sperano nascostamente tutto il loro tempo per una tenue, piccola idea senza importanza, un’idea fissa; arrossiscono come fanciulle e un nulla li appanna....”. Celebre pezzo di un ignoto ai più, dopo aver faticato la vita su una parola, una virgola, erudito, poeta, poliglotta, narratore, sospetto per l’origine ciociara e l’amore del casinò.
Non ha ragione l’intellettuale se non romantica. Oscuramente, per il rifiuto che gratifica più dell’intelligenza, il rifiuto dello sfruttamento e della guerra, anzi del mondo, per l’entusiasmo, per l’odio. È così che l’amore di sé e dell’umanità si trasforma in disegno di potere. Che è duro. Anche se è, nell’immediato, il partito. Ha il sapore aspro, malgrado le cautele retoriche, della violenza. E comporta la perdita dei fini. L’intellettuale non può che essere contro, l’intellettuale onesto. Impaziente, assoluto. Come la verità, più di Dio.
A lungo l’intellettuale  non ha avuto radici, un vagabondo, di casa mutevole dove curiosità e speranza lo spingevano. Viaggiavano i filosofi antichi, e quelli cristiani, e i poeti: Lullo, Dante, lo stesso pantofolaio Petrarca. È il qalendar persiano, di cui l’Iran ha perduto la memoria, W. Ivanov ci ha lavorato quarant’anni per darne una spiegazione, variamente tradotto outlandish, scholar-gipsy, uccello migratore, benché viva nella sua poesia, insiste Henri Corbin, “libero come il vento”, uno che “non dorme due notti nello stesso posto”.
L’intellettuale ha ora invece l’intelligenza del sentimento - il rivoluzionario è intellettuale, diceva Hobsbawm, storico compagno. Ma se organico al partito doveva essere politico, prudente. Si evince da Gramsci, e l’opinione è consolidata in Occidente a partire dalla Riforma protestante, conclusa dalla Riforma cattolica a Trento, che fu concilio di storici e letterati, con alcuni teologi.

L’intellettuale è solo. Nel Manoscritto trovato a Saragozza, libro pieno di donne ardite, si dava centocinquant’anni fa la scansione temporale dell’OPERA dell’uomo, perfetta, compiuta, in ore lavorate, giorni, settimane, mesi, anni e abitudini. A conclusione dell’OPERA c’era l’isolamento. L’insoddisfazione di tutto, e di sé.

“Non ci lasciano spostare un sasso”, lo constatava già Machiavelli.
 
Mito – Un’altra realtà. In realtà è una fuga, un exemplum, una cartina di tornasole.
Una bene, un male: si vive di miti perché si è scontenti del reale.
Il mito è un rifugio. Ma il mito depaupera, diminuisce, involgarisce il reale - non crea scontentezza più che ridurla, ammansirla, rivoltarla?
 
Realtà - L’epoca va vista forse riflessa, per speculum, ma per quello che è – non sempre si può essere fuori della storia. L’uomo einsteiniano, il cui mondo muta per un battito di ciglia, vive al modo che nel cinema si dice in soggettiva, spostandosi con la realtà che si sposta. Ogni traccia, tradizione o resistenza sopravvive residuale, l’inconscio, il Super-Io, l’in-natismo, vittime neonate della dinamica permanente, la Forma o Figura totale dei gestaltisti e dei conservatori rivoluzionari, salvandosi morfologicamente, quale figurazione di un insieme precario. Italo Calvino l’insta-bilità figura in un’ottica catastrofista, del mondo che si vede “precipitando dalla tromba delle scale”. Ma questa attitudine, che è ovviamente vi-sione e programma di vita, una debolezza comporta: vivere l’effimero del sistema disordinato in modo ancillare. Instancabilmente aderire di volta in volta a ogni fenomeno, per curiosità inesausta, per inclinazione sponta-nea, quasi lascito di altra vita, all’ignota filosofia bramanica che da sem-pre recepisce, rovesciata, l’ottica einsteiniana, della coincidenza di ogni cosa. Che non è indifferenza, certo, ma partecipazione operosa.
 
Verità - La ragione – la coscienza? - è uno strumento e non un fatto. Ti può dire di andare da qui a lì, ma non come, e in realtà nemmeno dove. È uno strumento a disposizione di chiunque, per qualsiasi turpitudine.

zeulig@antiit.eu

La verità sull’Ucraina non si può dire

Carlo Rovelli, opinionista insigne al “Corriere della sera”, è duramente declassato oggi: niente prima, confinato alla p.43, e taglio basso, sotto un titolone sul festival “Passaggi” (“Assaggi”), una di quelle pagine che si “saltano” - buone per tenere su la pubblicità. Perché? Per due motivi, anzi per uno. In una riga dice che “le grandi potenze non tollerano missili nucleari troppo vicini”. E in un’altra che dice che “la cosiddetta rivoluzione di Maidan” in Ucraina nel 2014, è “giudicata diversamente da parti diverse”. Che sono cose che si sanno, ma non si devono dire? Per un motivo? Per un ordine? Di chi? Di che?
L’insigne fisico vuole dire che la guerra in Ucraina ha dei precedenti e dei motivi. E che la fine della guerra passa per l’Ucraina stessa, che l’ha cominciata.
E si è dimenticato il terzo punto – o l’articolo è stato tagliato, “per motivi di spazio”? Che l’Ucraina a un certo punto, sempre nel 2014, ha sconfessato gli Accordi di Minsk che aveva appena firmato, per l’intermediazione del presidente francese Hollande e della cancelliera Merkel, sull’autonomia “di tipo Alto Adige” per le regioni orientali (Donbass), a larga presenza russa.

Il democristianesimo zavorra d’Italia

Bisogna dare ragione a Feltri, questo sito argomentava qualche giorno fa. Bisogna dargliela ancora una volta, quando sberleffa il ruolo insulso di Tajani, vice-presidente del consiglio,  ministro degli Esteri e capo di Forza Italia, la forza italiana dei Popolari europei, nella decisione brutale dei suoi “amici” tedeschi, olandesi, austriaci, etc., che hanno escluso l’Italia dopo il voto europeo da tutto. Del resto Feltri dice a Tajani quello che Mattarella aveva già detto, seppure non nominativamente.

Meloni in questa stagione politica di destra era simpatica per questo – lei non lo sa ma è così:  aveva cominciato a dire le cose come stanno, il famoso apologo del “re è nudo”. Senza più melassa. Ma subito ora Tajani impone la linea: accontentiamoci, qualcosa ci daranno. Questioni di metodo? Saggezza politica? Procedure occulte e irresponsabili? No, siamo tutti amici.

Questo “europeismo” dell’Italia è tra le cose rendono l’Europa antipatica. Basta darle uno strapuntino, essendosi dimenticati di invitarla a pranzo, si accontenta facile. E obbedisce – abbozza, come si dice a Roma. Politiche, progetti, strategia? Ma de che – sempre a Roma?

Una melassa tanto più insidiosa perché ambivalente, di destra e di sinistra: va bene per tutti gli abiti che l’Italia indossa – che poi sarebbe uno solo, quello democristiano, ora “popolare”. Per Prodi e per Berlusconi, ora Tajani.

E così, alla fine, in pochi è vero, abbiamo votato per dare un posto a un amico di Tajani. Anche a un amico-nemico, per esempio Enrico Letta. Purché della stessa famiglia e mentalità.

Un altro Putin

Un libro-intervista americano di quasi 25 anni fa, 2000, quando Putin era la “speranza” della Russia e non il Nemico – l’anno prima a sorpresa capo del governo e ora addirittura presidente della Repubblica. La ricostruzione di una vita e di una carriera fino ad allora – fino alla sua scelta nel 1999 da parte di Yeltsin per il governo - insignificante, si direbbe. Se non per la singolarità del personaggio, che veniva dal nulla. Tra le difficoltà estreme del padre-soldato, fino all’invalidità, e della madre sola durante l’assedio di Leningrado, senza protezione dalle bombe e senza cibo – la madre fu anche data per morta. E una vita grama dopo: a trent’anni, funzionario del Kgb, sposato, con una figlia, conviveva con i genitori, in 27 mq., balcone compreso – ma senza finestre, solo due prese di luce alte sui muri. L’adolescenza col mito del Kgb, neanche lui sa spiegarsi il perché, tutto è burocrazia, e la pratica dello judo, di cui fu anche campione regionale – il judo e non il karate, precisa, sport per signorine.
Le testimonianze della maestra, della moglie, di un paio di amici non illuminano questa esistenza grigia. La scelta di Yeltsin, inspiegata, nasce forse dal fatto che da collaboratore stretto e vice del sindaco riformista di San Pietroburgo Sobchak non aveva rubato e aveva combattuto le mafie. Yeltsin era del resto imprevedibile - temendo Sobchak come concorrente politico, di successo, ne aveva scelto la controfigura.
Un’intervista modesta, scolastica. Di poco aiuto per capire il Putin al potere – un’esperienza successiva. Se non per un paio di osservazioni che oggi sembrano strane. Critica aspro la pratica del Kgb, quando i dissidenti organizzavano una manifestazione, di anticiparli con una contromanifestazione, per ingannare i giornalisti e i diplomatici allertati dai dissidenti. La persecuzione di Sakharov dice crude, brutale. I cinque anni, 1985-1990, passati nella Germania Democratica rivisti come un incubo, “uno Stato totalitario”, cioè stalinista, assetto che “la Russia aveva accantonato da trent’anni” – il quinquennio è anche quello della perestrojka , della liberalizzazione in patria. E la considerazione è ripetuta che le guerre vanno combattute ma non risolvono. Un altro Putin, che l’Occidente ha sbagliato a inimicarsi – di Clinton ha solo apprezzamenti, di Bush jr. allora al potere rispetto. Importante come immagine che Putin  proiettava di se stesso per il pubblico americano. Pragmatico, non ideologico, nemmeno nazionalista: si direbbe senza progetto, salvo salvare la Russia dalla dissoluzione del post-sovietismo, tra le miriadi di piccoli nazionalismi e di mafie. Un realista? La pagina del colloquio con Kissinger, a San Pietroburgo per la Fondazione da lui creata con Sobchak per favorire gli investimenti, è da antologia.
Con molte foto della famiglia di origine, e della propria.
Vladimir Putin, First Person,  Public Affairs, pp. 207 €12,60

domenica 30 giugno 2024

Letture - 553

letterautore
 
Antologie
– Francesco Ambrosoli, milanese, classicista, professore, cattolico, che aveva stroncato la “Crestomazia” di Leopardi perché non aveva tenuto conto di un certo Perticari e invece aveva dato spazio ad Alessandro Verri, pubblicò a sua volta, nel 1831, un suo proprio “Manuale di letteratura italiana”. Che Giulio Bollati, “L’invenzione dell’italiano moderno”, dice” pregevole lavoro”, archetipo delle “odierne antologie per i licei” - ma Bollati scriveva nel 1968.
 
Blurb – “Simenon mette in scena, alla sua maniera, il rapporto complesso tra un assassino in fuga e il suo segretario” – la casa editrice Adelphi si adorna di questo blurb , a firma Maurizio Cucchi, sul “Robinson”.  Cioè, dovremmo comprarlo?
 
Dante
– Ma, poi, dopo il tanto parlare di Maometto e i suoi viaggi (Asìn Palacios, Maria Corti et al.), resta che Dante ben conosce  Ulisse, anche senza aver potuto leggere l’“Odissea”. E quindi, perché no, la “Nekyia”, la lunga scena al canto XI del poema omerico in cui Ulise va nella terra dei morti e vi incontra le vittime dei trapassati. Sui quali Omero esercita, anche lui, il suo giudizio – Minosse è miglior legislatore, eccetera.
I poemi omerici non erano disponibili, ma di Ulisse c’è molto in Ovidio, Cicerone, Seneca, Orazio, e nei romanzi medievali.
 
Un tessitore e un colorista. E un anarcoide. Per il su maggior lettore russo, Osip Mandel’stam, “Conversazione su Dante”: “Il linguaggio poetico è il tessuto di un tappeto con molteplici orditi che si distinguono  l’uno dall’altro soltanto nella coloritura dell’esecuzione…. Molto prima dell’alfabeto dei colori di Rimbaud, Dante ha coniugato il colore con la pienezza fonica del discorso articolato. Ma lui è un tintore, un tessitore. Il suo, di alfabeto, è quello dei tessuti fluttuanti, tinti con polveri colorate, pigmenti vegetali. Il manufatto tessile in Dante è la massima tensione della natura materiale  in quanto sostanza definita dalla sua colorazione. E quello della tessitura è il lavoro più vicino alla pregevolezza, alla qualità”.
Dante è anche contro ogni determinismo, meccanicismo, sia pure solo il segmento causa-effetto: Dante “provava ribrezzo per il principio di causalità”.
 
Donna mussulmana
– Prospetta ancora reazioni analoghe a quelle registrate novant’anni fa, ottobre 1933, a Mosca dal poeta Osip Mandel’stam nella “ottava” n. 3 – nella traduzione di Serena Vitale: “Farfalla, donna musulmana,\ avvolta in un lacero sudario,\  creatura di vita e di morte,\ così grande – tu, vera!\ Enormi baffi mordieri\ e capo nascosto nel burnus.\ Sudario svolto come vessillo,\ ripiega le ali, ho paura!”.
 
Fallaci
– Sfacciata, nuda, la vuole Ljuba Rizzoli, vispa novantenne, in un’intervista senza veli con Cazzullo sul “Corriere della sera”: “Era sfacciatissima”. Invitata dai Rizzoli a Cap Ferrat,  corteggiava il marito: “Faceva il bagno in piscina nuda, abbracciava Andrea, andava in giro con lui mano nella mano… Una sera eravamo a cena al Pirate, e notai che Oriana puntava un ragazzo, Samir. «Guarda che quello lo devi pagare», la avvertii. Ma la Fallaci s’impuntò e lo ebbe, gratis”.
 
Goethe
– “Che cosa gli dava tanta gioia in Italia? La popolarità e il carattere contagioso dell’arte, la vicinanza dell’artista alla folla” - Osip Mandel’stam, “Giovinezza di Goethe”.
 
Gomorra
– “Fu portato da Helena Janeczek”, spiega di Saviano Francesco Anzelmo, ora direttore generale Mondadori, a Paolo Di Stefano sul “Corriere della sera”: “All’inizio fu presentato a Edoardo Brugnatelli e a me, che seguivamo la collana ‘Strade blu’ (una  collana di “autori originali e innovativi”, n.d.r.). Arrivò Saviano con una borsa piena di giornali locali della provincia di Napoli e ci illustrò il funzionamento della criminalità organizzata, i sistemi di comunicazione interna eccetera”. “Il libro era già scritto”, chiede Di Stefano. “Non ancora. Si decise poi che doveva essere un libro di narrativa non fiction e quindi se ne occupò Franchini”, responsabile per la narrativa italiana.
 
Italiano – “Un deserto di parole vane” agli albori dell’Italia? Troppo complicato s’intendeva nel primo Ottocento, dopo essere stato lingua franca (per dotti e per gente comune) fino al Cinquecento – lambiccato. Nella famosa lettera a Gino Capponi del Capodanno 1825 Igino Giordani lamenta “quel detto ingiusto di molti stranieri ed italiani, che per imparare la nostra lingua  bisogna in un deserto di parole vane perdere assai tempo”.
 
Kafka – (Fellini) “considerava Kafka molto chapliniano” - Sergio Rubini intervistato da Antonio Gnoli sul “Robinson”. Rubini aveva recitato per Fellini in “Intervista”, dove una troupe giapponese arrivava a intervistare il grande regista mentre sul set dirigeva “America” di Kafka, che naturalmente non  stava facendo. “Qualunque cosa volesse dire”, commenta Rubini della messinscena, “mi pare colga un punto importante: la comicità di Kafka è l’altro lato del tragico”.
 
Malaparte – Ljuba Rizzoli nell’intervista con Cazzullo sul “Corriere della sera” il 27 giugno ricorda di averlo incontrato con Arturo Tofanelli, all’epoca suo fidanzato, il direttore di “Tempo Illustrato”, per il quale Malaparte teneva la rubrica famosa dei “Battibecchi”: “Curzio Malaparte non mi piaceva. Andammo nella sua famosa villa di Capri. Era agitato, nervoso, violento. Si chiedeva: Dio sarà così stupido da farmi morire morire?”. Malaparte era malato e morirà di cancro.


Non notizie –Sono affliggenti, ma non si schiodano, nessuno può. Gamberale racconta su “7” di Dagospia che al festival “Procida racconta” racconta della premiata Paola Turci che ha lasciato la sposa Pascale per per un nuovo flirt, “un’attrice  di vent’anni”, spiega la scrittrice, “di cui (oltre all’età e alla professione) sbagliano anche il cognome”. Che è invece una signora quarantenne, che Gamberale conosce personalmente, “impiegata di banca”, nonché “responsabile dei social” della scuola di scrittura dove Gamberale insegna, che si è trovata per caso su quel palco, frastornata, dopo avere partecipato alla festa in piazza “con il suo amorevole fidanzato”.
 
Olocausto - “Il film di Liliana Cavani fu un trauma”, Charlotte Rampling ricorda con Valerio Cappelli sul “Corriere della sera”, a proposito del “Portiere di notte”, 1974: “A lungo non seppi nulla dell’Olocausto, se ne cominciò a parlare solo negli anni Settanta”.
Calvino parlava di Primo Levi nel 1962, scrivendo alla fidanzata, come di “un outsider”, “un chimico”, che ha scritto un libro sulla sua esperienza di guerra.
 
Presentazioni – Paolo Giordano introduce Jon Fosse a Milano, al Teatro, al festival La Milanesiana, per l’ennesima presentazione del nuovo libro del Nobel, “Un bagliore”, e per il conferimento della Pergamena della Città di Milano. E si dice particolarmente colpito dall’espressione: “E cadde il silenzio”. L’“evento” – la presentazione – era intitolata tra settimane fa, in onore dell’ospite?, “Il Bagliore della Timidezza”. Ma Fosse, discreto italianista, capito l’apprezzamento, si schermisce in inglese: “Il merito dev’essere del traduttore. Non uso un linguaggio fiorito”, cioè figurativo, proverbiale. 
E il silenzio cadde sull’assemblea – il Piccolo di Milano è piccolo per modo di dire, ha un migliaio di posti (è forse la sala più grande in Italia, più dell’Argentina di Roma).

Fosse, dice lo specialista di letteratura norvegese Giuliano D’Amico, “combatte con la scrittura”.

 
Russia – Hermann Hesse nasce in Germania, nel Württemberg, di madre nata in India, figlia di missionario pietista, e di padre russo, Johannes Hesse.
 
Tebaide – C’è una letteratura della tebaide, dei monaci nel deserto, in cui H. Hesse si cimenta, nota Cusatelli nella prefazione a “L’uomo con molti libri”, a proposito del acconto “Hannes”. Una “reviviscenza”: “C’era già stata”, nell’Ottocento positivista, “tutta una letteratura di Tebaidi, con gli esempi francesi di Flaubert e di Anatole France” – “la disposizione primitivistica e l’abrogazione dei parametri spazio-temporali”. In quello, si può aggiungere, che sarà chiamato “decadentismo”, in opposizione allo scientismo dominante.

letterautore@antiit.eu

Ma l’Italia ha sconfitto i pubblicitari

La cosa più incredibile, dell’incredibile match ieri sera, è stato su Rai 1, a partita già inoltrata, il passaggio dei tanti superspot pubblicitari, creati sulla simpatia con cui l’allenatore e e la squadra sono stati accolti e seguiti da tutti i media. Un po’ obbligati dalla natura dei soggetti-servizi pubblicizzati (TeamWork, Tim), un po’ non, basati unicamente sulla rappresentatività – quello del ministero dell’Agricoltura, sull’“italianità” dei prodotti agroindustriali. Tutti allegri e incensanti, tutti proposti dagli inserzionisti con ampiezza di mezzi (tanti “passaggi”), sicuri della presa.
Il calcio decisamente non è una cosa seria, ha ragione l’allenatore (defenestrato) della Juventus Allegri. Sarà un business, ma – in Italia – da perecottari: chi altro ci impegnerà i suoi investimenti pubblicitari?       
Svizzera-Italia 2-0
, Rai 1