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sabato 25 giugno 2011

Consigli da Londra, la Milano inglese

Due o tre giorni di attacchi all’Eni, grazie alla pronta disponibilità della Procura milanese, per il gas di Kashagan nel Kazakistan, poi più nulla. Solo sul”Corriere della sera”, non sul “Sole 24 Ore” né su “Repubblica”. Con accuse tanto gravi quanto confuse. È stato un tentativo di speculare sul titolo? È stato un attacco all’ad di Eni Scaroni, in favore di un candidato che ancora non sappiamo? Tutto è possibile, ma accusare l’Eni di corruzione in Kazakistan e in Iraq, dove tutto si deve comprare, è soprattutto un tiro mancino. Tanto più che il dossier girava da tempo, prima ancora della supposta indagine della Procura milanese, e si dava per scontato che fosse opera dei concorrenti del gruppo italiano, Shell o Bp, che in Kazakistan e Iraq evidentemente pagano gli interlocutori sbagliati.
Non è per caso che l’Eni è rimasto per sessant’anni alla porta in Iraq, feudo (ex) britannico – benché avesse perfino congegnato la fornitura di una centrale atomica a Saddam Hussein (poi distrutta da Israele). E non è il solo caso in cui Milano, e il “Corriere della sera” in particolare, fanno da cassa di risonanza agli interessi britannici. È prassi normale amplificare ogni critica, buona o cattiva che sia, dell’“Economist” e del “Financial Times”, i giornali delle banche britanniche, contro la finanza pubblica o società italiane. Siamo entrati ultimamente su spinta milanese in una guerra, alla Libia, che si sa montata di sana pianta dai servizi britannici, con proprio uomini sul terreno, e molte armi – la Francia ha preso l’iniziativa contro Gheddafi per non farsi scavalcare dalla Gran Bretagna.
Non c’è scandalo, Nel senso che non è una novità. “Consigli da Londra, la Milano inglese”, titolava un mese fa il “Corriere della sera”. Era sembrato un eccesso, forse ironico, di provincialismo. Ma potrebbe ben essere la verità: si fanno gli affarucci, non dichiarati, non onesti, a Londra come a Milano. Ma Milano non “vende” nulla a Londra, né dritte né dossier velenosi, mentre se ne fa terminale. E fa riemergere l’ombra di quando, nel 1960, lo stesso “Corriere della sera”attaccava, per la penna illustre di Indro Montanelli, l’Eni coi le carte fornite dai servizi segreti francesi (questa è storia, fanno male i biografi di Montanelli a non tenerne conto): In particolare Montanelli attaccò personalmente il presidente dell’Eni Enrico Mattei, che poco dopo farà una brutta fine.

Il mondo com'è - 66

astolfo

Civile – In politica ultimamente la connotazione viene opposta al potere: la società civile allo Stato, i diritti civili di Carter alle democrazie popolari. Mentre tradizionalmente, in Hobbes, in Kant, e fino a Hegel e Marx esplicitamente, civile era proprio la società politica, contrattuale, in opposizione alla naturale, primitiva, selvaggia. Ma già il primo Rousseau, nella sintesi del “Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza”, aveva rimescolato i termini: la società politica sorge, sulla base del contratto sociale, come superamento della società civile, litigiosa, divisa, e ritorno allo stato di grazia naturale. Gramsci fa grande conto della società civile, ma come fatto sociale culturale (della formazione, del consenso), in contrapposizione al politico (della coazione). L’accezione attuale, in Italia, è Marx: il luogo dove si formano i processi di conoscenza e azione, di realizzazione, la struttura sociale, mentre lo stato è un cappello che si mette in necessario. Un rovesciamento di Hegel, e anche di Rousseau.

Guerra – Non fa più notizia, come una qualsiasi altra attività burocratica, che si svolge con noi, per noi, a spese nostre, ma non ci riguarda. L’Italia ha fatto più missioni in Libia, cioè bombardamenti, che qualsiasi altro paese della coalizione Onu: lo dice il ministro Usa della difesa ma non interessa nessuno in Italia, la notizia non viene commentata e neanche diffusa – e del resto viene dagli Usa giusto come rilievo statistico. Due o tre squadriglie ogni giorni di equipaggi di cacciabombardieri indossano la tuta da combattimento, vanno a Tripoli, sganciano le bombe, fotografano il danno, rientrano, e si rimettono in libertà. Nel vuoto. Il pilota, già soggetto privilegiato della mitografia bellica, è una sorta di bellonauta da playstation, senza nemmeno un vero volto.

È scaduta anche ogni tensione etica legata alla guerra, sui limiti e lo scopo della guerra, la congruità degli ordini, la loro eticità. Forse era scaduta già mentre si celebrava Norimberga, non si è mai potuto accertare la congruità del bombardamento atomico del Giappone. Ma se ne parlava, il Giappone considerando un’anomalia in una guerra sicuramente difensiva, e in una condotta della guerra, quella anglo-americana, tutto sommato limitata benché “totale e a oltranza”. Ora l’argomento risulta strano.

Meticciato – È celebrato ormai stabilmente come incontro di culture, e quindi come arricchimento. L’elogio più celebre resta quello di Senghor nella famosa antologia della Poesia nera africana del 1948, con la prefazione di Sartre, che scrisse per l’occasione il saggio altrettanto famoso “Orfeo nero”, sul razzismo antirazzista, ma la tesi dell’incontro ha una consistente tradizione e dottrina – anche razzisticamente, come incontro di energie vitali diverse. Dopo che per secoli si era sottolineata invece la differenza, fino a stabilire una profusa classificazione, nominale e anche ordinale, degli incroci: mulatto, quarterone, ottavino.
Il fatto è però sempre stato limitato al bianco, europeo, americano, col nero. Più specificamente all’uomo bianco con la donna nera. E ultimamente non tiene conto di differenze che invece possono agire in senso inverso, di un meticciato in cui la parte “bianca” è cioè succedanea all’altra, che non necessariamente è nera. In particolare con gli anglo-indiani, dell’Ovest (West Indies) e dell’Est, e con gli anglo-pakistani, o anglo-mussulmani in genere. Un grande anglo-indiano dell’Ovest, V.S.Naipaul, premio Nobel, viene così a tenere comportamenti che nessun bianco terrebbe: sulle donne, sugli ebrei, sugli africani. Salman Rushdie, per la cui immortalità con la condanna dei “Versi satanici” è morto il suo traduttore giapponese, mentre l’editore norvegese e il traduttore italiano, Ettore Capriolo, sono stati selvaggiamente feriti, con gravi danni fisici e psicologici, non ha mai speso una parola d’interesse, se non di compassione: un’altra mentalità? Mentre a Londra l’oltranzismo degli islamici inglesi che occupava le piazze bruciando libri già venti ani fa, contro Rushdie, è arrivato a far saltare, per puro odio, la metropolitana di Londra nel 2006 con tutti i passeggeri. Una Maïwenn, regista del film “Polisse”, che per conformismo è stato premiato a Cannes – il conformismo del politicamente corretto: premiare una donna bisogna, tanto più se algerina, seppure a metà – dice a “Io Donna”: “Scusate se non mi ricordo di Riccardo Scamarcio”, col quale ha girato il film. È un’altra tipo di donna, figlia di un’attrice algerina molto bella che però per il successo ha dovuto puntare tutto sulla figlia. Questa non è “un’altra storia”, ma anche lo è.

Obama – È l’outsider per eccellenza, senza pedigree, senza passato personale, giusto giovane, magro e un po’ nero. La figura dell’outsider non è nuova nella politica americana, e riattiva d’ordinario la fiducia nell’America, nella democrazia, nell’individualismo. Mentre sono presenze irrilevanti, tanto che non si riesce a percepirne l’irrilevanza. Come mascherine sempre rinnovate, di cui un artista che fiuti i tempi sa adeguare i tratti, su un corpo immutabile.
Il presidente americano è un imperatore, si dice, seppure a termine. Ma non c’è un Napoleone nella serie ormai lunga di presidenti americani, né un Cesare, un generale che sia anche fine politico, o uno dei tantissimi, buoni e cattivi, imperatori romani: proprio per essere al’aria del tempo, il presidente americano è uno che non lascia traccia. Se osa lo uccidono: Lincoln, Kennedy, Robert Kennedy, lo stesso Reagan.
La democrazia non ha bisogno di eroi, si dice anche. Ma di governanti che governano sì. Ora dov’è il governo negli Usa? A lungo è stato nel Pentagono. In questi decenni di globalizzazione è nelle banche, innegabilmente.

astolfo@antiit.eu

venerdì 24 giugno 2011

Firenze gotica per morti gay, in serie

Un thriller gotico più che un giallo. Pieno di morti e di sangue, tra le ombre sinistre di una Firenze tanto decantata quanto incupita. Singolarmente “scorretto”, poiché molta omosessualità, di uomini e donne, fin dall’infanzia, porta sconfinata violenza. Giuttari sarà per questo popolare negli Usa e in Germania. Ma i gialli, non è bene rileggerli.
Michele Giuttari, Scarabeo

Viaggiare (in Italia) è inutile per Benjamin

Benjamin a vent’anni è narratore piatto come nelle prove della maturità, “Infanzia berlinese”, “Einbahnstrasse”. Il viaggio è come in terra incognita, dove tutto non va bene per essere diverso – ma anche gli alberghi tedeschi, di cui il diario abbonda, non sono granché.
Walter Benjamin, Il mio viaggio in Italia. Pentecoste 1912

giovedì 23 giugno 2011

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (93)

Giuseppe Leuzzi

Che fine ha fatto la Variante di Valico?
Perché si parla tanto (male) della Salerno-Reggio Calabria e per niente della Variante di Valico? Di cui pure si sa che è stata cominciata nel 1997, è costata finora tre miliardi più del previsto, è lunga appena un’ottantina di chilometri, e potrebbe essersi persa nel nulla.
Che cos’è la Variante di Valico?
E il passante di Bologna?
Perché Autostrade paga un indennizzo ai Comuni della Variante di Valico per l’incomodo, tanto che non sanno più come spenderlo, e non paga niente ai Comuni della Salerno-Rc?
Tra Bologna e Firenze devono transitare una buona metà, se non due terzi, degli italiani in marcia su gomma, per esempio gli autotrasporti. Che vedono in quel tratto saltati tutti i piani orari, per imprevisti di cui non si riesce a tenere il catalogo. Ma non se ne sente parlare. Basta invece un tratto anche breve a una sola corsia sulla Sa-Rc per imbufalire i pochi viaggiatori, siciliani per lo più con qualche calabrese. Le bestemmie sulla Sa-Rc fanno oscurare il cielo. Se il viaggiatore è un emigrato, nella civile Padania o nella civilissima Europa, le invettive riempiono i siti in rete, le lettere al direttore, e ora anche i romanzi. C’è un perché? Questi viaggiatori, benché emigrati, disprezzano se stessi – il razzismo è come la servitù, sono contagiosi.

Antimafia
La Procura di Palermo dice che Saverio Romano, un signore siciliano che è diventato ministro di Berlusconi, non è mafioso, ma “potrebbe diventarlo”. La Procura di Catania rinvia a giudizio 53 su 55 imputati di mafia, escludendo il presidente della Regione Lombardo, che nel frattempo si è messo col partito Democratico, e suo fratello. Due pesi? No, due Procure criminali: la giustizia politica è il crimine peggiore.

Milano
Pisapia proietta in piazza il suo consiglio comunale, offrendo anche il risotto. Meno male che succede a Milano, così non possiamo lamentarci.

Il “Corriere della sera” trova martedì eccessivo il neo sindaco: “Ha esagerato coi toni cupi, dipingendo Milano come una città sfiancata, frustrata e spenta”. Ma anche il giornale è entusiasta del “tifo da stadio per Guliano Pisapia, diventato in pochi giorni un’icona del civismo e della democrazia partecipata”. È democrazia partecipata il megaschermo con risotto, per “pensionati e attivisti”, come dice la cronaca. Il civismo invece lo stesso giornale lo sostanzia di “veleni e zero tolleranza per l’ex sindaco Letizia Moratti”. Cioè: piazzale Loreto non fu un caso, Milano sempre vuole dire “io non c’ero” – la capitale morale di che?

Arbasino vuole le divisioni e l’odio del vicino connaturate all’Italia, e cita nel suo amarcord di domenica sul “Corriere della sera” le tante infamie sparse da Dante su città e popolazioni. Vuole dire che Bossi è come Dante?
Ma Dante sparlava anche di Firenze: quand’è che Bossi parlerà male di Milano?

Bossi: sembra di sognare.

Spassosa, anche grazie ai refusi, lode di Bocca a Bossi l’originario – uno che voleva fare “l’elettromedico”, cioè il medico col laser, “nell’équipe del professor Zuffi a Varese” (che non è mai esistito, dicono le cronahe, né a Varese né altrove), e studia il cuore “alle altre temperature”. A Bossi cioè quando non si era messo “assieme a Berlusconi e alla sua democrazia autoritaria”, nel 1993 - ma non fu nel 1993 che Bossi si mise con Berlusconi?
Bocca incontra Bossi e ne rimane fulminato – come del resto tutta Milano 1, quella che fa i giornali, le banche e l’opinione cosiddetta pubblica: “Non è stato, come si vuol far credere, un tradimento di classe, un avventurismo politico. Semplicemente ci sono state parti della borghesia che hanno visto nella Lega, se non l’uscita, un correttivo alla politica dominante delle clientele corrotte”. Nella Lega? “Nella prima amministrazione leghista di Milano”, continua Bocca, “entrarono medici, urbanisti, sociologi”. Perché, ci fu una seconda? Né si ricordano “medici, urbanisti, sociologi” nella giunta Formentini, forse scaldavano il posto. Stavano lì, dice Bocca, per “non passare per i partiti e per i loro appetiti”. Mangiavano direttamente?

Leonardo, che Milano ha coltivato, la migliore Milano, del Milan, dell’Inter, se ne va. Senza discutere, vuole solo andarsene. Non saluta nemmeno. Milano è stupita. Ma solo Milano.
Se ne va anche Eto’o, che purtroppo non si può dire un mercenario.

“The man who screwed an entire country”, l’uomo che s’inculò un paese, è il titolo grazioso dell’“Economist” per un’inchiesta sull’Italia. Condotta da un bel giovane che il “Corriere della sera” e l’ineffabile Severgnini subito incensano. Tradotta con riverenza e pubblicizzata dall’“Internazionale”, una rivista che pure non può permettersi tanta costosa pubblicità sui quotidiani. Una cosa che l’“Economist” non oserebbe per il Botswana. Ma a Milano buggerare si conferma normale.

I referendum hanno portato alle urne tutte le regioni, anche quelle che votano per il governo, in testa gli amministratori locali: si tratta di ricostituire la piccola rendita delle forniture di acqua, così essenziale, rinegoziando appalti e concessioni. I più animosi sono stati i buoni amministratori leghisti: è proprio vero che la Lega non si perde un alito di vento. Non per nulla è, all’origine, lombarda.

Il “Corriere della sera” propone un programma di buongoverno a Pisapia sotto il titolo: “Consigli da Londra, la Milano inglese”. A firma di Severgnini, che a Londra dice di essere di casa.

Napoli
“Essendo alga all’acquario” a Napoli, la poetesa Jaqueline Risset annota in più punti ella sua raccolta “Il tempo dell’istante”. Un’esperienza che ne trasfigura la visone-.. della vita: “”Questa sera\ nel corpo d’un’alga\ all’acquario\ a Napoli\ j’ai vécu:\ vita vegetale\ ma respirando la carne dell’acqua nutriente\ respiro leggero”. È un complmento: la città ha tante materialità, aggressiva, oppressiva,ma ha (ancora9 questa immaterialità.

Si indaga Bisignani – che è quello che è e tutti conoscono, su piazza da almeno quarant’anni- per indagare in realtà Alfonso Pepe. Per vendetta, perché era un sostituto Procuratore legato al procuratore capo Cordova. Che i napoletani hanno cacciato da Napoli, perché voleva sapere troppe cose.
Si è indagato Pepe con ogni mezzo illegale. Facendolo poi accusare dallo stesso Bisignani, ossia dalla sua fidanzata Valanzano, ex collaboratrice di Pepe. Furbizia? Tricchebballachhe? No, turpitudine. Totale. Evidentemente protetta – ma si sa che questi giudici amministrano soprattutto il ricatto.

Il consiglio comunale in Galleria. A mezzogiorno, senza l’aria condizionata. Applaudito dai “pensionati e i militanti”, riferisce commosso Giangiacomo Schiavi sul “Corriere della sera”, oltre che dai turisti giapponesi. Una congregazione del genere a Napoli non si è mai raccolta, che pure sempre s’innamora alla follia dei divi, col caldo che fa a fine giugno. Nemmeno per Maradona, per dire. Milano è invidiosa anche di Napoli?
“C’è attesa, curiosità, voglia di essere coinvolti (anche nella distribuzione del risotto omaggio offerto da un ristorante in piazza san Fedele)”, attesta il “Corriere della sera” del consiglio comunale a Milano: Napoli ha da imparare.

Con De Magistris Napoli si è assicurato un forte ariete per dare la colpa “agli altri”. Il neo sindaco ha fatto in fretta a riempire la città d’immondizia. Dopodiché ne ha dato la colpa al governo.

La prima decisione della giunta De Magistris a Napoli è “termovalorizzatore mai”. Il giudice mantiene gli impegni.
Ma non si può dure che non sia previdente: l’impegno fa prendere e annunciare dal vice Caputo, che il Mattino chiama “comunista gentile”, ben voluto dai parroci. Non si sa mai che la Procura cambi, e invece del gentile procuratore Lepore ne venga un altro. Si tratta infatti di un favore alla signora Marilù Faraone Mennella, sposa dell’ex presidente della Confindustria D’Amato, che su terreni del termovalorizzatore ha in progetto una valorizzazione immobiliare plurimiliardaria, NaplEst.

Viaggiando sulla Roma-Napoli, 180 km. di autostrada vigilato dal sistema Tutor, sulla seconda corsia a 130 km. l’ora, si viene costantemente sorpassati da grandi macchine tedesche coi vetri schermati che spariscono in un baleno – a 180, a 200 km. l’ora? Sono macchine ministeriali che vanno d’urgenza? E vanno tutte a Napoli? O semplicemente non pagano le multe?

Dacché la stazione di Mergellina non è più in uso, per andare nelle isole, Capri, Ischia, bisogna scendere alla Centrale, e da lì in tassì farsi portare all’imbarco degli aliscafi. Ma Da Roma almeno un paio di trasportatori hanno prosperato imbarcando i viaggiatori su grossi pullmann che li portano direttamente agli imbarchi. Napoli è proprio infetta?

leuzzi@antiit.eu

La ventura di essere lieve in più lingue

Sono poesie scelte dalle ultime pubblicazioni di J. Risset, tradotte da lei stessa. Mantenendo il mistilinguismo che caratterizza l’originale, con inserzioni di italiano e inglese. È il privilegio del traduttore, quando di più lingue è padrone – e una gioia incontenibile, anche se rara: il caso più illustre è Joyce – cui Jacqueline Risset ha dedicato il suoi primi studi, al Joyce “italiano”, che partì dalla coda “parlata” e non tradusse ma scrisse. Risset lo pratica a ragion veduta.
Ma è felice e insieme infelice sorte, avere più culture. Infelice perché oggi isola. Invitando a disperdersi, nella moltitudine moltiplicata delle possibilità, invece che a scegliere e a investire, operosi, progettuali, determinati. Riproduce in micro la dépense primitiva, una condizione isolante nell’età dell’accumulo – del tempo senza tempo, dei punteggi per la carriera. Il mistilinguismo, che è l’approdo della condivisione delle culture, diventa un po’ palude, l’angoscia del traduttore letterato, l’abbondanza-mancanza di parole, perché chi possiede più lingue continuamente inciampa in cose “che rifiutano di lasciarsi tradurre”: Jacqueline Risset stessa lo annota, la traduttrice-creatrice della “Divina commedia” in francese, che ha vissuto questa ventura. Che è biunivoca o bidirezionale: come alcune cose in francese vanno dette in italiano, o in inglese, così traducendosi in italiano la poetessa non può privarsi di un’espressione francese.
Ma sono molti i segni di questa raccolta, operata dalla stessa autrice tra le poesie date a stampa negli ultimi venticinque anni (la sua prima raccolta risale al 1971, “Jeu”). Le variazioni sottili (trasmutazioni) dello spazio e del tempo in “Essere alla finestra a Roma”, su fatti e detti di forte impatto, etico, visivo, ne sono la cifra e la misura. Lieve è la cifra delle voce: “Voce che crede\ esser nata dal nulla\....\ voce di puro futuro”. La meraviglia di vedere in una Roma “di oriental zaffiro”, nella piscina della Nocetta, “un giovane mostro con volto di vecchio\ (che) nuota piangendo”.
L’istante del titolo, e dell’ultima raccolta antologizzata, “Les Instants”, col maiuscolo, è anche, se non di più, una presenza in realtà. Talvolta costante, perfino oppressiva, altre labile. Fuggitiva, ma così è del tempo, che fugge comunque, anche tra gli “istanti”. “Lampo”, la prima poesia di questa raccolta, del 2000, l’avvicina a un’altra lettura curiosamente contemporanea e visiva, quella dei “ricordi” sorprendenti di Jacqueline de Romilly (“Les Révelations de la mémoire”) - filosofici questi ma della stessa natura, la sorpresa.
“Les Instants” è d’altra parte tra i pochi esempi di poesia civile francese del Novecento(o bisogna già dire del Duemila) – e, dopo Pasolini, rara anche in Italia. Ma su tutto prevale la ricerca e il diletto del suono, che sovrastano anche i ricordi e le emozioni. Mallarmeano questo, indotto probabilmente dalla pratica di Jacqueline quale traduttrice, di assonanze, risonanze, dissonanze (“terre\mère, tâche\cité, le fer e le verre). Intessuto dei sogni della successiva pratica surrealista-analistica: le inversioni, i giochi di parole (infime\infame, la planète bleu-bleutée, la haute atmosphère). I sogni come dissoluzione della realtà, o meglio composizione dell’irreale, dei “concetti (che) sono nuvole” (p.25).
Della nuovissima fisica francese quella, del Nobel Charpak: “The Shape of Sound”, del poema con questo titolo dedicato a Jakobson e Gertrude Stein, è la forma della storia nel suono. E della letteratura, Jacqueline Risset ha ottimi antenati. Di Flaubert e di Proust oltre che di Mallarmé, ma anche della fisica del letterato Rouseau, testimonial inatteso pure Chateabriand: il senso, il sound, e la sua forma (la “musica”). È anche il vissuto del traduttore, le parole trasformare in parole.
Jacqueline Risset, Il tempo dell’istante, Einaudi, pp.193 € 14,50

mercoledì 22 giugno 2011

Benjamin esorcizza coi sonetti l’attrazione della morte

Un decennio sotto la soggezione di Heinle, poeta più giovane di due anni, che Walter Benjamin conobbe nella primavera del 1913 all’università di Friburgo, e dopo un anno si uccise con la fidanzata Rika Seligson per lo sconforto, pochi giorno dopo l’inizio della guerra. Benjamin ne curerà la memoria per un decennio, scrivendo sonetti, settantacinque in tutto, in tre raccolte, fino al 1925. Dieci anni di sortilegi in realtà, in funzione apotropaica. Molti di questi sonetti, soprattutto della prima raccolta di cinquanta, hanno andamento canzonettistico – i Lieder, quando non sono sull’amore, sono sulla morte. Altri vagano in affanno, incerti, concettosi
Altri sonetti qui inclusi, sono sul matrimonio con Dora Kellner, che per Walter aveva divorziato da un precedente marito, Max Pollak, ma poi ne era stata lasciata per la scultrice Jula Cohn – una infatuazione di pochi mesi: dopo i sei sonetti in suo onore Walter la lascerà per Asja Lacis (nel mentre che andava in vacanza, a Ibiza e altrove, con le provvidenze di Gretel Karplus, amica molto intima moglie del futuro curatore della sua memoria Theodor W. Adorno – se andava a San Remo, invece, stava dall’ex moglie Dora, nella sua pensione Villa Verde).
È un’edizione un po’tirata via. Un’introduzione criptica di Rolf Tiedemann spiega che “le poesie dedicate alla morte dell’amico poeta rappresentano contraffatture capovolte dei componimenti della «stella del patto» di George, ma anche del «settimo anello»”. Si tratta della raccolta “Il settimo anello”, 1907, dove Stefan George celebra a più riprese l’amore del giovane Maximilian Kronberger, e della successiva “La stella del patto”, 1914, tutta centrata su Maximin. Non era un rapporto gay, quello di George con Maximilian-Maximin, da lui avvicinato per strada sedicenne, bensì platonico, pare, di guida spirituale ed estetica. Ma quando Maximin morì, due anni dopo, il poeta a lungo non se ne dette pace. Nella seconda raccolta, sempre in onore di Maximin, George ipotizza allo scoppio della guerra una società non più militarista e materialista.
Nulla di tutto questo in Benjamin. Che era molto socievole, se non un chiacchierone, e non era malato di “cenacolite” o cenobitismo: non ambiva a circoli chiusi, eletti, né a rapporti esclusivi, ancorché platonici. Il rapporto, non lungo, non specialmente intimo, con Heinle, lo opprimerà per dieci anni per l’angoscia della sua morte, risentita come una minaccia incombente sul proprio equilibrio: leggendo la raccolta, non si trova un altro filo. Benjamin, che non scriveva poesie, diventa poeta quando Heinle si suicida. È la sua maniera di reagire allo sconforto, spiega al grande amico di una vita Gershom Scholem. E questo farà: i dieci anni di sonetti in morte di Heinle, un amico fra i tanti ma suicida “per nessun motivo”, hanno soprattutto la funzione di scongiurare un cedimento, una tentazione analoga – “la fatica lieve dell’ora della morte”. La stessa socievolezza ha in Benjamn la funzione di allontanare la malinconia. La scelta del sonetto, forma da polire, di applicazione costante più che d’invenzione, confluisce in questa lettura, come un esercizio di attenzione prolungato, un’operosità scacciaumori – sarà per questo che i sonetti sono secchi?
Di Heinle, e del rapporto con Benjamin, Tiedemann fornisce un ritratto in appendice (che debutta con un refuso: “Quando nella primavera del 1923”, che è invece il 1913). Un rapporto di pochi contatti, non sempre concordi. Benjamin ne ama le (poche) poesie che gli capita di leggere – che però non sembrano granché, almeno quelle qui riprodotte da Tiedemann. E ne patrocina un paio di volte la collaborazione a “Der Anfang”, che però gliela rifiuta. Dal ritratto di Tiedemann sembra di arguire che Heinle abbia lasciato le sue carte a Benjamin, dato che questi “nel 1933, al’inizio dell’emigrazione, dovette lasciar(l)e a Berlino”. Ma Benjamin ne parla poco, a parte i sonetti. Di una conferenza su Heinle tenuta nel dicembre 1922 a Heidelberg dice che era “un lavoro svogliato” – caduto per di più “nell’incomprensione e lo snobismo” dei frequentatori del salotto di Marianne Weber.
Walter Benjamin. Sonetti e poesie sparse, Einaudi, pp. 228, € 15

Letture - 66

letterautore

Camilleri – Esercita, ne ha quasi l’ansia, una curiosa forma di correttezza politica: la sua militanza comunista dai diciotto anni nel 1943. Nella lunga conversazione con Francesco Piccolo, che segue a “La tripla vita di Michele Sparacino”, la esercita in confronto al padre. Che invece era stato fascista, e non se ne pentiva. Nella stessa intervista spiega l’ordine maniacale con cui scrive, ogni “Montalbano” di 180 cartelle word, divise di 118 capitoli di 10 pagine l’uno, e ogni racconto di 24 cartelle, divise in 6 capitoli di 4 pagine. Ma manifesta una paura invincibile, sebbene non “corretta”, della giustizia, specie del giudizio dell’opinione comune.
Anche di De Gasperi ha una visione da compromesso storico. Lo vede che scrive il “discorso splendido” di Parigi alla conferenza di pace (“Sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me”) “la notte avanti, con Togliatti, Nenni, Sforza, che gli dicevano: «Leva la virgola, sposta la parola», eccetera”. E fa rivivere al padre in punto di morte la scena in era stato promosso capitano per meriti di guerra: “Era agli ordini di Emilio Lussu. Lui era Lussu, e io ero lui. Urlava: «Tenente Camilleri, non faccia il coglione, si defili!»”. Ma Lussu era tenente (di complemento), sarà promosso capitano al congedo. Ed era inquadrato in una Brigata Sassari, costituita su base regionale, di sardi in prevalenza contadini e pastori.
Nessuna commozione invece quando Alicata, funzionario Pci, “chiude” “il Politecnico”, rivista Einaudi, per ripicca contro Vittorini. Camilleri aspettava la pubblicazione di alcune sue poesie sul “Politecnico”, promessa da Vittorini, e non tenendosi dalla gioia era andato per questo a Milano. Vittorini l’aveva visto volentieri, in quanto siciliano, ed era andato con lui a passeggio e a pranzo. Una giornata insomma memorabile. Al termine della quale Vittorini dà a Camilleri “l’Unità”, con “l’articolo di Alicata”. Ed è tutto.
Un mondo, insomma, di destra. La stessa concezione che Camilleri ha del Pci e del movimento è di destra: del galantomismo, per l’ordine e il coraggio. Il che non vuol dire che lui stesso non possa essere stato del Pci fin da ragazzo, come pretende: il Pci si riconosce anche in Malaparte e Montanelli, perfino in Longanesi. È possibile. Ma, scrivendo, Camilleri privilegia di fatto la verità: la spia è nell’assenza del “tutto mafia”, l’idiozia del Pci che lo ha sradicato presto dalla Sicilia.

Conan Doyle - Ernst Bloch, in “Tracce”, 45 (“Nobile apparenza”), ne fa il testimonial del ruolo scambievole, “con violenza”, tra innocenza e salvezza e i loro opposti - o dell’eterogeneità dei fini nella storia? A proposto di una delle tante cause umanitarie nelle quali C.Doyle s’impegnò, l’affare Slater, per il riconoscimento dell’innocenza del condannato, in quanto scrittore “altrettanto famoso da qualche tempo per la sua nobiltà di giurista al servizio del diritto”. Bloch ne rileva l’impegno disinteressato (“l’umanità tutta nuda, senza alcun secondo fine, senza nemmeno delle ragioni politiche come nell’affare Dreyfus”) e oneroso (“ha consacrato sforzi, sacrifici, appelli, voci fantomatiche di ogni sorta”) per la liberazione di un innocente ai lavori forzati da oltre vent’anni. Il quale però, una volta liberato e risarcito, è irriconoscente, si fa fotografare da ricco uomo soddisfatto sui rotocalchi, e pensa agli affari suoi. Mentre a C. Doyle non resta “che la noia della moralità o il disgusto d’aver lottato per un ecce homo e vinto per un uomo d’affari”. Allora fa il conto di quanto ha speso per la liberazione di Slater e glielo manda. Slater risponde che non gli ha chiesto nulla e quindi non gli deve nulla. “E così Conan Doyle ha denunziato il suo Florestano, trascinando davanti ai tribunali colui che aveva strappato ai tribunali, per mandarlo, invece che ai lavori forzati, alla prigione per debiti”.

Tanto impegnato nella società quanto trascurato nella scrittura. Sempre trasandata, squilibrata, tirata via. Questo c’entra nel successo di S.Holmes? Altiero Spinelli, “La goccia e la roccia”, 97, deriva dall’esperienza una verità utile: “La via «razionale» dell’osservare, astrarre, scoprire concordanze, ecc., è un’ingenua sciocchezza. Il linguaggio mitico è una necessità”.

Il “metodo” di Sherlock Holmes è già in “Tristram Shandy”, VI, 5: “Vi sono mille spiragli attraverso cui l’occhio penetrante può scoprire di primo acchito l’animo di un uomo”.
L’induzione invece Bacone, “Cogitata et visa”, XIV. (p.80), riporta a Platone: “Platone è il Maestro dell’induzione. Ma ha condotto solo indagini vaghe, ricavandone forme astratte”.

Gelosia – Non c’è nelle scrittrici. Che anzi professano, e fanno professare alle loro personagge si può dire? si dirà), che non solo non praticano questa passione ma ce l’hanno in odio.

Giallo – Ha la forza, in ambiente borghese e razionale, della demiurgia. Ogni vicenda sta in piedi anche senza il detective, Sherlock Holmes, Poirot, Maigret, Marlowe, Montalbano. Ma è un altro romanzo, come ce ne sono tanti, d’amore, d’avventura, di costume, storici. Il demiurgo fa la differenza. Anche se non risolve (non più nel noir): misura gli eventi, li spurga, li devitalizza. È il dentista.

Giallo è anche “Thérèse Desqueyroux”, e “Nodo di vipere”. Perfino “I promessi sposi”: uno aspetta di vedere che fine fanno i cattivi. O “L’uomo e il mare”, o opere altrettanto statiche, liriche. Le poesie delle ninfe, gli inni omerici….La differenza è che nel giallo non c’è altro.

Pound- Kerouac alla prima pagina dei “Sotterranei” inquadra così i suoi amici e se stesso: “Sono hips intellettuali e sanno tutto su Pound”. L’inglese sarà stata nel Novecento la lingua più innovativa e espressiva in letteratura – benché semplificata nel lessico, malgrado l’incredibile innovatività che varia perfino anno per anno – con strategie espressive continuamente rivoluzionate, da Joyce a Beckett, da V. Woolf a Faulkner, da Hemingway a Burroughs e Kerouac, dalla ripresa del monologo sterniano, sia pure nella terza indiretta, (V. Woolf, Faulkner, Carson McCullers, Salinger, Foster Wallace) all’asintatticità di H. Miller, alle innumerevoli variazioni degli scrittori in inglese dei cinque continenti, dagli anglo-indiani al russo Nabokov, grazie a Pound. Prima era la lingua più stabile, perfino addormentata. Anche rispetto alle lingue e letterature ancorate per programma all’accademia, come in Italia o in Spagna. L’impulso al cambiamento fu opera (teoria e pratica) di Pound, con costanza, con sacrificio – Pound ha molto dato a T.S.Eliot, Joyce, Lowell, W.C.Wiliams, gli stessi G. Stein e Hemingway, ma non ha debiti (mentre riconosce nella corrispondenza la generosità di Yeats e Ford Madox Ford).
Pound paga la sua “follia”, come l’ha definita il tribunale Usa, antiamericana e antisemita alla radio di Mussolini dopo il 1943, ma è il rivoluzionario del Novecento, l’unico di successo. La rivoluzione del Novecento, in mezzo a tante catastrofi, la guerra di trincea, l’Olocausto, l’atomica e lo sterminato libro nero del comunismo, è quella che ha rivoluzionato il concetto stesso di catastrofe, e Pound più di altri ne è l’artefice – per “altri” intendendosi Majakovskij genialissimo, Joyce, Beckett e i tanti epigoni americani.

Molti poeti americani furono filofascisti. Oltre T.S.Eliot, Cummings, espulso dalla Francia nel 1940 per disfattismo, Lowell, grande ammiratore di Hitler, Pound, antihitleriano ma fascista.

Edward W. Said, “The Mind of Winter. Reflections on mind in exile” (“Harper’s Magazine”, settembre 1984), un breve saggio di sette pagine sulla “mente in esilio”, ne fa l’“esiliato volontario”. Chi si sradica per una maggiore libertà. Come Joyce, Beckett, Nabokov – o Dante e Petrarca, la tradizione è lunga.

Settecento – Il secolo dei lumi è singolarmente scatologico per voler essere realista (razionale): le lettere di Mozart, quelle di Voltaire, quelle della Isabelle di Borbone-Parma, e perfino del moralista Federico il Grande di Prussia. Oltre alle tante scritture pornografiche. Sade estremizza una realtà.

Versi satanici – Ricorrendo i vent’anni della fatwa di Khomeini contro i “Versi satanici”, Marco Ventura ricorda sul “Corriere della sera” il 15 giugno che per il romanzo di Rushdie fu ucciso il traduttore giapponese e furono feriti il traduttore italiano, Capriolo, e l’editore norvegese, con danni gravi, fisici e psicologici. Che Rushdie non fece nemmeno una telefonata a Capriolo. E che “migliaia di manifestanti” a Bradford e Londra cosparsero di paraffina e incendiarono i libri di Rushdie. Ma l’etnocentrismo e l’imperialismo (il fondamentalismo islamico è una forma di etnocentrismo e imperialismo) Ventura dice sempre europei. Oggi e non cent’anni fa – mondo remotissimo alla velocità attuale della storia. Del cristianesimo e non dell’islam fondamentalista. “Negli stessi anni in cui respingevano i ricorsi contro Rushdie perché offendere l’islam non è reato,”, scrive, “i giudici inglesi condannavano chi offendeva il cristianesimo e vietavano la visione di film blasfemi su santa Teresa d’Avila”. I giudici inglesi forse no. Comunque, non è possibile confondere Khomeini con l’islam.

letterautore@antiit.eu

lunedì 20 giugno 2011

Per ogni P2 una Pn vincente – o Bisignani spione di se stesso

Le cimici in casa di Bisignani, chiacchierone incontenibile, non sono una trovata degna di Woodcock. Neanche di Napoli, che è ben sottile. Sono gli sbirri spioni a cercare i Woodcock, magari dopo una spiata? Perché allora Woodcock non ci fa sentire le cimici in casa di una puttana? Magari di una escort?
Una P 4 composta di quattro persone, poi, non è una cosa convincente. Di cui due, le antenne della loggia, sbirri semplici. Giudice Woodcock, che cosa ci nasconde? Si sa come vanno queste cose: per ogni P 2 o 4 che salta c’è una P n che si impone.
A meno che Luigi Bisignani non sia la testa, oltre che la coda, del serpente. Non per la moda dell’autoattentato – quella è roba milanese. No, proprio per voler essere a capo dell’Italia dei segreti, non da ora. Per averci provato, magari anche dentro i servizi veri, sicuramente da fuori, in proprio, anzi per esserci dedicato, con costanza. Non sarà per caso che abbondano le articolesse di chi assicura “io lo conoscevo bene”. E tutte ne fanno un Talleyrand e un Fouché insieme, perfino un altro Andreotti. Oppure i giornalisti solo conoscono le anticamere delle anticamere? Più che altro s’immaginano cose – discariche, su cui ributtare le turpitudini e ripulirsi.
Luigi ha sempre avuto il gusto del protagonismo segreto, da quando aveva vent’anni e faceva il praticante all’Ansa, che si aureolava segretario o confidente di ministri, cardinali e banchieri. Poiché è ormai indubbio che c’è un Grande Orecchio che ci controlla, con un elenco e un calendario dettagliati di vittime e scandali, Gigi potrebbe avere realizzato il suo disegno giovanile, raccogliendo infine tanti nomi che contano nella sua agenda parlata, al telefono - il giudice Woodcock potrebbe in realtà entrarci poco, lui è uno che si diverte, sa stare alla superficie.

Problemi di base - 64

spock

Abbiamo salvato le acque da Mosè?

Perché le Gradi Firme, Arbasino, Citati, Turani, lasciano “la Repubblica”? Non è mica l’Inter.

Perché ciò che va bene in Germania non si può fare in Italia? La Germania è meno democratica? Il Censore Unico non lo permette?

L’Italia fa il massimo sforzo contro Tripoli per avere più case da ricostruire? Più bombe e missili da sostituire? Per non venire meno alla storia?

Obama fa la guerra a Gheddafi come Reagan la fece a Granada? E perché la tira in lungo?

Nella guerra di Sarkozy è l’Italia che soprattutto ha bombardato e bombarda la Libia. Lo dice il governo americano, ma non è una notizia in Italia: c’è un Censore Unico?

Perché le bombe intelligenti non beccano Gheddafi e la fanno finita?
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“Gheddafi usa gli stupri come un’arma di guerra”, denuncia infine Hillary Clinton. Dopo aver preso il viagra. Ora, gli stupri mancavano, anche questo sito l’aveva denunciato. Ma gli Usa perché ci governano con così poca sottigliezza?

spock@antiit.eu

domenica 19 giugno 2011

Tributo, con epicedio, a Foucault

Per i sessant’anni della Bur i primi quattro capitoli di “Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane” con cui Foucault nel 1966 si instaurava interprete del mondo. Un’opera molto settecentesca, di sapere totale, che seguita alla rivelatrice “Storia della follia nell’età classica” (1963) e anticipava la “storia della clinica” (1969). Una lettura fantastica di Velasquez, “Las Meninas”, la prosa del mondo, il “Don Chisciotte” col Cartesio delle “Regulae” e l’inizio della “rappresentazione”, e infine sotto il titolo “Parlare”, la nascita del commento e la grammatica, con l’articolazione, la designazione eccetera. Qui con una formidabile, benché breve, introduzione di Maurizio Ferraris. Che ci fa scoprire Foucault come Molière aveva edotto Monsieur Jourdain, che tutta la vita aveva parlato la prosa e non lo sapeva.
Foucault sta in mezza paginetta, spiega Ferraris, in due coup de théâtre: “L’uomo non è che un’invenzione recente («a pagina 395 dell’edizione originale», dice Ferraris, ma anche subito per la verità, alla settima pagina della prefazione dell’autore che questa edizioncina omette), una figura che non ha nemmeno due secoli, una semplice piega del nostro sapere” – nostro, di chi? E: “Come è venuto può anche andarsene, scomparire”. Va e viene per le evoluzioni dell’epistème, l’organizzazione del discorso. L’uomo insomma è un po’ suicida, come vuole l’epistème del momento.
C’è una (non voluta?) ironia nella nota di Ferraris. Che è un epicedio, seppure entusiasta. Per un fuoco d’artificio spento, già cenere, volatile: tanto ingegno in Foucault che sembra quello che è, tanto brillante (piena di sé) quanto inerte e inutile. Un testamento, già alla fioritura. Ma tutto questo succede tardi per questo libretto, dove invece Foucault cavalca pieno di sicurezze, come un cavaliere della vecchia epistème. Forte anche della sua stessa ironia – l’attacco della voluminosa ricerca è: “Questo libro nasce da un testo di Borges; dal riso che la sua lettura provoca”, ha provocato in Foucault.
I meriti di Foucault non sono da dire. A distanza colpisce pure la rilettura pionieristica del secondo Cinquecento, che è quasi tutto italiano: Cardano, Campanella, Cesalpino, Aldrovandi, Porta. Con una conclusione però da philosophe del Settecento: “Il sapere del XVImo secolo si è condannato a non conoscere mai altro che l’identico”, attraverso cataloghi, elenchi, enumerazioni, e la “categoria, fin troppo illustre, del microcosmo” – che ora è in auge proprio in Francia. E con scorciatoie mozzafiato, per il lato ripido della montagna, nel cap. centrale, “La prosa del mondo”: Dopo lo stoicismo, il sistema dei segni nel mondo occidentale era stato ternario, dato che in esso venivano riconosciuti il significante, il significato e la congiuntura (il τύγχανον in greco). A partite dal XVII secolo, in compenso, la disposizione dei segni diverrà binaria, definendosi, con Port Royal, attraverso il legame di un significante con un significato”. Alcune diecine di “cose” in sei righe. E la “cultura occidentale moderna” si caratterizza per “il fronteggiarsi di poesia e di follia”? Col supporto di un Cartesio minore, anch’egli tardo cinquecentesco, quelle delle “Regulae” – il secondo Cinquecento sarà, come vuole Foucault, ripetitivo, ma è azzardoso. Per non dire delle etimologie, puro Settecento. Foucault trae da Le Bel, “Anatomie de la langue latine”, una Roma composto da ro-, forza, e –ma, grandezza. E il rosso trova nell’abate Copineau, “Essai synthétique sur l’origine et la formation des langues” “vivo, rapido, violento allo sguardo” nel segno –r. E il rosso in greco, russo, polacco, catalano che fanno a meno della –r (o il giapponese, chissà, il cinese?). Il Settecento laborioso ha prodotto tanto, a vuoto, quasi come il secondo Cinquecento. E il secondo Novecento in Francia, bisognerà cominciare a dire. Ma l’“archeologia del sapere”, che invenzione! L’archeologia è semplice, è ciò che “sta sotto”. E “Le parole e le cose” è in fondo “l’ordine in base al quale pensiamo”. Ma bisognava pensarci, con animo sgombro.
Michel Foucault, La prosa del mondo, Bur, pp. 1658, € 4,90

Il complotto perfetto di Baldini

Il penultimo atto, previsto, calato a freddo come una mannaia, senza preavviso e senza nemmeno “ah” “oh!” o altri segni di meraviglia, è l’assunzione da parte di Franco Baldini in persona, questa volta, della direzione generale dell’As Roma. L’ultimo sarà tra quindici giorni (ma già si dice tra un mese e mezzo), il passaggio dell’As Roma al Baldini medesimo, tramite DiBenedetto o altra fantomatica cordata di copertura. Con la copertura, questa non fantomatica, di Unicredit, dove sanno che i banchieri non possono osare, rischiano una brutta fine. Sempre a opera dei soliti noti, la congrega magari non qualificata ma potente, almeno nella stampa italiana, che in passato aveva fatto balenare altre cordate di innominati russi, svizzeri o arabi. Sempre nello studio esclusivo Tonucci ai Parioli.
Con che soldi Baldini si prende la Roma è irrilevante. Già non ce ne sono molti in ballo, se non i crediti di Unicredit. E poi è certo che alla penutima o ultima ora gli appigli non mancheranno per non pagare niente: perdite e debiti sopravvenuti, patrimonio sopravvalutato, etc.: le vie sono infinite per prendersi l’As Roma, una società quotata in Borsa e già amòiamente svalutata dal suo possessore Unicredit, senza sborsare un euro.
Si conclude come previsto una delle tante operazione di destabilizzazione dell’Italia operate da Londra – la prima fu Calvi, l’ultima è ancora in corso, l’attacco alla Libia. La teoria del complotto è vera e falsa, come la teoria contraria al complotto, e dunque seguiamola fino in fondo. Londra punta sull’Italia al solito come churchilliano “membro flaccido” dell’Europa pendulo nel Mediterraneo, nella sua costante guerra di posizione per l’indebolimento della “fortezza Europa” e per l’arricchimento della City. Le cui prospettive si sono moltiplicate a dismisura con Maastricht, con l’adozione cioè di cambi fissi e immutabili nell’euro, assortiti da “criteri di adeguamento” che consentono le più sfrenate incursioni. Ciò è solo evidente per chi legge l’“Economist” e il “Financial Times”, che peraltro non dissimulano di lavorare per la City e le banche.
Come c’entra Baldini in questo complotto? Tutto c’entra, gli spioni non vanno per il sottile. E la Toscana ha molti precedenti di quinte colonne delle osservanze londinesi. Che altro titolo ha Baldini di fare il direttore generale della Nazionale inglese di calcio, la gloria della nazione? Uno che non sa nemmeno l’inglese. Prima. E dopo il disastro l’anno scorso al Mondiale del Sud Africa? Capello ci ha titolo, poiché è l’allenatore che ha vinto di più, ma Baldini? Perché Baldini è quello che ha disastrato il calcio italiano, lui e non l’arbitro fallito Nucini, e forse invidioso (testimone inattendibile al processo a Napoli): l’ha fatto con perizia, e con alleanze forti con gli ambienti più corrotti (e per questo ricattabili) del calcio. Fino a mettere fuori corso la Juventus e il Milan, che davano fastidio ai club inglesi nelle coppe – è nelle coppe che c’è il business, nei premi e le scommesse.
Di Unicredit dice tutto, della pusillanimità se non della complicità, una vendita che è stata imposta ai Sensi per fare cassa e si conclude invece senza alcun introito e anzi con un credito ulteriore a questo fantomatico DiBenedetto (cioè a Baldini?). Ribattezzato pomposamente “credito al compratore”, come se fosse gergo tecnico della grande finanza Usa – come se le banche americane prestassero soldi a chi non ne ha, ma nella colonia Italia tutto si beve.
Baldini ha lavorato da sempre alla destabilizzazione del calcio, dapprima come una talpa poi come un bulldozer. E dal 2006 si è applicato con costanza a una serie inverosimile di attacchi all’As Roma, sulle quotazioni della società in Borsa, e sulla gestione della famiglia Sensi. Con un’antenna certa, almeno una, all’interno di UniCredit, che gli teneva bordone per la inverosimili cordate – tutte comunque certificate, anche quelle senza nome, dalla fratellanza della City. E con l’ausilio determinante di quattro-giornalisti a Roma, che l’hanno sostenuto a occhi chiusi e contro ogni evidenza – il segno più certo della loro non astratta militanza: un giornalista vero si pregia di avere, ogni tanto, dei dubbi.