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sabato 20 dicembre 2008

Heidegger scolastico

Heidegger è stato buon cattolico, chierichetto come tutti, seminarista, quasi gesuita, professore di scolastica. Traccia indelebile. Si spiega che la prima eco egli abbia avuto dai teologi, i quali credettero “Essere e tempo” un appello a una relazione autentica con la morte, e l’ontologia, con più fondamento, un altro nome per metafisica. L’altra lettura fu quella fenomenologica: l’analitica dell’esistere, il tempo, l’angoscia, il si dice, la cura. Ma l’antropologia della coscienza, si disse, è proprio quello che Heidegger vuole rovesciare. Essendo ripartito, fatte tutte le tare, da Aristotele e dal principio di non contraddizione, dalla domanda che non è posta: “In quale modo dev’essere dimostrato ciò per cui nessuna prova è possibile?”
A prima vista Heidegger è il pagano moderno, che non sa e non vuole uscire dal mondo, dove situa pure Dio, che non nomina ma non rifiuta. È invece il chierichetto eterno – la sua Cura è don Milani, seppure americanizzato, “I care”. Al primo insegnamento a Marburg tenne un seminario su san Tommaso, De Ente et Essentia, in latino, ancora non lo spregiava, utilizzando il commento di Tommaso de Vio, il cardinale “Gaetano”. Le percezioni di Heidegger, disse Jaspers subito, sono mistiche, presentate speculativamente in parabola, immagine e poesia. Rosenberg lo inquisì, quello della razza pura tedesca, per gesuitismo scolastico. E sempre ha onorato senza riserve la filosofia aristotelica, cioè scolastica, “che ha da sempre pensato realisticamente”. Di cui ha tesaurizzato il linguaggio e la peculiare metafisica. Forse è qui la magia della sua oralità, che Hannah Arendt, innamorata devota, da giovane e per sempre, e Jeanne Hersch (“c’è nella sua esposizione un aspetto incantatorio, come una formula di magia, che fa salire gli spiriti tellurici e vi chiede di accoglierli”) attestano, nel fascino del predicatore - che bisogna immaginare agostiniano o domenicano, non un imbonitore.
Per essere buon scolastico manca a Heidegger l’Expositio super salutatione angelica. Gli manca anche il detto “ex nihilo nihil fit, et in nihilum nihil potest reverti”, niente viene dal nulla, né vi può tornare. Ma questo è voluto, per poter lavorare. Per il resto c’è tutto. Compreso il Cusano del Dio Presupposto: “Se ci si domanda se Dio è, si presuppone l’essere”. Elementare Watson. Ma poi Cusano, si sa, pretese di pesare il respiro. Da ultimo Heidegger non ha trovato “un compito possibile per il pensiero”, dopo cento volumi, di quattrocento pagine in media l’uno. Si è nascosto, insomma, pure lui, per l’eclisse della chiesa e del sacro.
Ma se l’evoluzione, l’ereditarietà e la curvatura dello spazio, invece che leggi di biologia o fisica, scienze rampanti, fossero chiamate enti o essenze, che siedono in qualche iperuranio e di là governano il mondo, non ci sarebbero novità. Heidegger stesso lo spiega di Einstein: lo spazio e il tempo che non sono niente in sé, ma esistono solo in virtù dei corpi e le energie che vi s’imbattono e degli eventi che vi si producono, sono già in Aristotele. E “ciò che è stato sarà” si trova nell’“Ecclesiaste”. L’Ereignis, il Logos o Tao tedesco, intraducibile, è l’inconfessabile Avvento. E si dice scolastico ma s’intende agostiniano. Per quel parlare di Dio per platoniche analogie tra divino e spirituale, che rimise in circolo l’apofatismo già cancellato da Cristo e i primi padri. La sua ontologia è metafisica semplice, derivata dalla teologia, nella formulazione ben nota dell’agostiniano Lutero: “Vivere non è essere devoti ma diventare devoti, non è essere sani ma diventare sani, non è essere ma divenire”. Un agostiniano insomma, benché disprezzi il latino come lingua filosofica – anche Kierkegaard lo disprezza, ma secondo lui filosofare si può solo in danese – in quanto lingua dell’innominabile Scolastica. Peccato, avrebbe letto in Cicerone che non c’è assurdità che non sia stata detta da qualche filosofo, lui che ora è filosofo solo per i latini. Anche Nietzsche si meravigliava che gli italiani amassero “il grigiore e ancora grigiore della nostra Scolastica tedesca”. Ma uno Scolastico senza Dio, com’è possibile?
La chiesa sembra voler uscire dalla catacombe, dopo il pontificato flamboyant del papa polacco – i polacchi sono combattenti, seppure a cavallo. Dal limbo dove la ributta il calderone spumeggiante del cosiddetto laicismo dei diritti, o liberale. La ragione semplificatrice, per intendersi, che l’Onu, l’Unesco, e altre assise severe dei diritti umani si arrogano e sventolano – il sesso libero, il sesso improduttivo, la buona morte, la famiglia allargata, frazionata, moltiplicata, il multiculturalismo, la bontà dei brutti-e-cattivi, l’essere che è il non essere, e questa è tutta la filosofia. La chiesa che ha il maggiore patrimonio estetico, pedagogico e politico del mondo, e anche in filosofia se la passa bene, ha la tradizione più forte, se non la più brillante.
Qui cinque filosofi morali si spalleggiano nel legare Heidegger alla tradizione, in una raccolta di saggi a cura di Aniceto Molinaro. Timidamente, più che altro danno l’interpretazione fenomenologica dell’epistolario di san Paolo, come dice il sottotitolo, non vogliono sembrare di annettersi il filosofo. Ma non possono negare l’evidenza. Berrnhard Casper specialmente, uno dei maggiori studiosi di Heidegger: con la pubblicazione delle prime lezioni e dei Beiträge “è divenuto più chiaro in che modo le origini del pensiero di Heidegger sono legate con il tentativo di contribuire a portare la fede cristiana in quanto attuazione umana a una nuova comprensione” di se stessa. E in particolare, nella lezione “Agostino e il Neoplatonismo”, sul Libro X delle “Confessioni” e sul significato della tentatio, dell’essere tentati: “L’analisi esistenziale della tentatio rappresenta una importante pietra miliare sulla via verso il fenomeno esistenziale dell’essere tribolato e della cura”. Anche solo leggere le lettere di san Paolo con Heidegger è peraltro un altro cristianesimo, con un che di autentico.
Nel suo furore cristiano Heidegger arriva a rimproverare a sant’Agostino l’oggettivazione “greca” di Dio, Umberto Regina, pur con i guanti, non manca di sottolinearlo. Il santo misconosce la nuova temporalità cristiana: “L’esperienza cristiana vive il tempo stesso”. Si può dire con Kierkegaard, chiosa Regina, che “lo «scandalo» cristiano è la salvezza dell’esistenza nel tempo”, nell’esistente, nell’attesa della “parusia”, il ritorno di Dio nella sua gloria. “Heidegger non elaborerà alcuna filosofia della religione”, come era nei suoi propositi iniziali, e così pure “Essere e tempo” resterà interrotto, in una con la perdita della fede, o meglio della chiesa. Ma “non si dimenticherà tuttavia delle caratteristiche che temporalità e storicità debbono avere, se autentiche”. Pietro De Vitiis, cui si deve una sorprendente rassegna delle ricezione del progetto heideggeriano di filosofia della religione, aggiunge: “All’influsso paolino si deve far risalire anche la preminenza del futuro – e conseguentemente della possibilità – nell’analitica esistenziale”. Von Hermann, che a Friburgo ha insegnato la Filosofia, già segretario di Heidegger e ora tra i curatori dell’opera omnia, lo dice con semplicità: la filosofia Heidegger vuole riformulare sulla “esperienza fattuale della vita”, e così “l’autentica filosofia della religione”, che va cercata “nella religiosità cristiana, così come questa viene vissuta” nell’esistenza.
Heidegger si sottrae, rabbino sofistico, anche in filosofia, il mondo confinando all’agrarismo alemanno: vino, proverbi, pipate lente tra uomini muti, il fuoco del camino, le stagioni, la malattia, la diffidenza del forestiero, la caccia insaziabile delle donne. È un pudico esibirsi, il suo, o celarsi. Alla Ponzio Pilato, la macchietta del romanesco, curioso stanco, che in Giovanni, XVIII, 38 so-spira: “Tì estìn alètheia?”, che cos’è la verità. Poiché nulla viene dal nulla, Heidegger non è. In realtà non è andato lontano, dal seminario da dove era partito: Esse est Deus. Ma per arrivarci, diceva Maestro Eckhart, “prego Dio che mi liberi da Dio”. Bisogna capirlo, a ventitré anni era ancora buon cristiano, beneficiario di una borsa cattolica per addottorarsi. Con Husserl, e la più giovane Edith Stein, anch’essa ebrea come la fatale Arendt, ma futura monaca. Dopodiché non lo fecero titolare di Filosofia Cristiana e se la prese. Continuerà ad andare a Messkirch a messa, nel banco del coro che era suo da ragazzo, lontano dal pettegolezzo universitario, e a segnarsi ingi-nocchiandosi nelle chiese di campagna. Ma quando nel 1917 sposò Elfride, studentessa di economia, che era disponibile a farsi cattolica, benché figlia di colonnello sassone, Martin dispose di non educare i figli al catechismo. Ha abiurato con Franz Camille Overbeck, il teologo amico di Nietzsche, e la sua distruzione della teologia. Ha quindi rimesso in circolo il vecchio camp e la morbida rêverie da adolescente. E non finisce bene: con la dissacrazione della storia, che il cristianesimo inocula su scala mondiale, la filosofia regredisce - sant’Agostino fa eccezione perché pagano di formazione, fu manicheo e forse ariano, tutta Milano lo era.
Il nulla e l’assurdo c’erano prima della storia. La storia è nata – la cosmologia, la filosofia – per cercare un rimedio. La prima religione è stata filosofia. La prima filosofia è stata cosmogonica e politica – interrogatrice, consolatrice. È a questo punto che interviene Heidegger, che potrebbe d’intuito ristabilire le cose ma annaspa. Senza colpa, è solo di recente, a opera del Sessantotto che lo ha contestato con Marcuse, che il gigantesco falso su cui l’Occidente edifica la filosofia e la morale è emerso, la trasformazione cioè dei fatti in essenze, degli eventi in parusie, con la mania diffusa delle apparizioni, della storia metafisica. Mentre la dimostrazione di Dio, che la Scolastica basa sul principio di causalità, viene anche meglio con la casualità.
La radicale assoluta solitudine dell’uomo è stata materia di vescovi in Concilio. E la discesa di Dio, nel Cristo, al bordo del niente. Il nichilismo, si sa, viene con la teologia. È materia cristiana – e ebraica, mussulmana: del discorso del Dio Unico. Il nichilismo rigoroso non è ateo, si sa, ma credente, si è atei perché si ragiona, si crede nella ragione: quando non c’è più il divino ma un Dio unico, il Principio di tutte le cose, ascendere a Lui, lo diceva William Blake, è “scendere nell’annientamento del proprio io”, che poi conseguentemente diventa annullamento dell’io - si ascende a Dio, già Dante lo sapeva, andando all’ingiù, bisogna essere umili. Heidegger a un certo punto il mondo voleva uniquadro, dei e uomini, cielo a terra, ai quattro angoli del ring. Disponili binariamente, cielo-dei, terra-uomini, ma al Filosofo piaceva l’immagine delle quattro punte, per ricavarne una croce, o meglio, accoppiandoli, la croce di sant’Andrea, con cui alla fine ha barrato l’Essere, non essendo riuscito a sbarazzarsene, malgrado lo scrivesse con la y, Seyn invece di Seindas Geviert, l’uniquadrità, è l’essenza della Differenza. Insomma, quell’arrampicarsi sugli specchi che gli ha valso la fama di mago. Ma in questa chiave la sua magia è palese.
La ragione raramente ha ragione, e quindi la Scolastica ha torto. La ragione universale poi non ha mai ragione, bisogna essere contro Hegel, anche se si finisce con Schopenhauer e contro Marx e Sieyés. Ma con Heidegger la filosofia torna all’esse di san Tommaso, che il cogito di Cartesio superbo ha mandato in cantina. Con aggiornamenti e ritorni. La parola dell’essere è il verbo. La chiamata dell’essere è la grazia, repentina, illuminante, ingiustificata. L’isolamento e l’abbandono, si sa, sono dei santi. E “il dolore elargisce il suo balsamo là dove più non lo aspettiamo”, nell’al-dilà. Poi è venuto das Denken denkt, del linguaggio mistico e pietista: pensare gratifica. Qualche volta sì, evidentemente, malgrado il nulla. Più violento del nulla. E si finisce aspettando un Dio. Il Filosofo non lo ha scritto, ma lo ha chiesto allo Spiegel. Niente di più ovvio, per la corrispondenza niente-Dio. “Che cos’è l’Essere? è esso stesso”: questa scoperta centrale, filosoficamente ridicola, non è già di san Giovanni, l’apostolo rabbino: “Io sono colui che è”? Come die Frage, la questione, che altro non è che la tortura.
Lo stesso rifiuto del mondo si potrebbe dire molto cattolico, nel terribile ventesimo secolo. Il merito che Hannah Arendt attribuisce ai cattolici di avere riorientato la filosofia verso la politica, il mondo com’è, è vero solo di alcuni, Maritain, Mounier, Del Noce, Schmitt. Altri, Gilson, Voegelin, Guardini, Pieper, e ora lo stesso papa, hanno rifiutato il mondo, che appariva e appare loro sotto specie diabolica, della mistica laica, quella che entusiasta ha voluto la bomba atomica, e i sopravvissuti vorrebbe selezionare – Hitler senza Hitler. Heidegger sta, indeciso, nel mezzo. Ma queste sono argomentazioni volgari, storicizzate. Heidegger ripropone il già pensato come non è stato mai pensato, chiaro perfino: l’uomo ha cessato di capirsi nella metafisica, l’uomo occidentale, lui vuole ridargli il senso dell’Essere.
La metafisica, cioè Dio, è legata al Tempo (“l’Essere è svelato a partire dal Tempo: il Tempo rinvia allo svelamento, cioè alla verità dell’Essere”), questa peculiare costruzione mentale occidentale (“la metafisica in tutte le sue forme e in tutte le tappe della sua storia è sempre la stessa fatalità, e forse anche la fatalità necessaria dell’Occidente e la condizione del suo dominio esteso a tutta la terra”). Einstein ha abolito lo Spazio (“lo spazio non è niente in sé, non c’è spazio assoluto. Non esiste che con i corpi e le energie che racchiude”), e dunque anche il Tempo (“il Tempo non ha senso, il tempo è temporale”), ma la metafisica rinasce irresistibile. Un giorno magari scopriremo che Einstein ha torto, la relatività generale è sempre indimostrata, e comunque in queste cose, la metafisica, Dio, “ogni reputazione è un nonsenso. La lotta tra i pensatori è la «lotta amorosa», lotta che è quella della cosa stessa”.
Si può muovere da Dilthey e la fine della metafisica: “Il senso e il significato non appaiono che con l’uomo e la sua storia”. Il senso, dirà Heidegger, è il senso dell’essere. A differenza di ogni altro ente, l’uomo intrattiene un rapporto col suo essere, che è l’esistenza. Ma già il medio Evo l’aveva pensato, nell’haecceitas, la singolarità dell’esistenza: Individuum est ineffabile. Dio anche è ineffabile, come la verità. Dio non esiste in realtà se non filosoficamente – gli altri sanno che esiste. È la filosofia che la fede separa dalla ragione, la scienza dalla fede. Ma Heidegger, arrivato al bordo del nulla, riporta il mistero nella ragione – come Popper nella scienza. Rovesciando la prova di Locke, “non ne sapremo mai abbastanza per affermare che Dio non può infondere il sentimento e il pensiero nell’essere chiamato Dio”, avendo perduto la “fede nella ragione” – noi non sappiamo abbastanza nemmeno della ragione.
Abbandonando il dogmatismo, e le deformazioni subite al contatto con la filosofia greca, che si esprimono nella Scolastica, medievale e novecentesca, il Filosofo del nulla riporta in nuce il cristianesimo. Quella che sarà la versione contemporanea del cattolicesimo romano, essenziale, compassionevole, senza orpelli, riscoprendo attraverso Lutero sant’Agostino e l’escatologia terrena delle lettere paoline. La grazia opera nel fondo dell’anima, non nelle sue antenne sensibili. Se l’essere è il nulla, si dice, finisce la metafisica. O non ricomincia? Meister Eckhart, che vi giunse per primo, era metafisico ultra. Heidegger ricomincia a filosofare dal punto in cui Wittgenstein smetterà. Entrambi partendo dall’insufficienza della parola. Ma Wittgenstein è conseguente, negando ciò che rende Heidegger verboso, che l’essere parli attraverso la filosofia - gran mistico anche Wittgenstein, represso.
Heidegger e San Paolo, a cura di Aniceto Molinaro, Urbaniana University Press, pp.156, € 14

Filosofare la non autosufficienza

“Intendo sostenere che la politica internazionale e il pensiero economico dovrebbero essere femministi”. Martha Nussbaum taglia il cerchiobottismo sociologico nel quale è impelagata da anni con i “Rapporti sullo sviluppo umano” dell’Onu, la nuova forma di scientismo a fini filantropici. Confortata dal radicale Marx dei “Manoscritti”: “L’uomo ricco… è l’uomo la cui propria realizzazione esiste come necessità interna, come bisogno”. Solo con l’attenzione ai problemi specifici che le donne subiscono a motivo del sesso, come si sa, “si possono affrontare in modo adeguato i temi generali della povertà e dello sviluppo”. Ma qui la filosofa fa di più, Aristotele e il liberalismo applica al tempo obbligato che, più occupa gli esseri umani, le donne in particolare, più del lavoro per un salario, la cura dei non autosufficienti: i bambini, gli anziani, i portatori di handicap, gli ammalati.
Con approccio neo aristotelico, dell’uomo che è “un animale con bisogni” tanto quanto è un animale razionale, fuori cioè dall’unilinearità dell’approccio cosmopolita imperante, dello “sviluppo umano” come cosa da individuare e allargare. “In una prospettiva più aristotelica che kantiana, l’approccio delle capacità considera gli esseri umani anzitutto come esseri animali, le cui vite sono contrassegnate da una condizione di bisogno non meno che dalla dignità”. I diritticome esito delle capacità. Senza dimenticare i diritti fondamentali: “Se abbiamo il linguaggio delle capacità, abbiamo anche bisogno del linguaggio dei diritti?” Sì, per i diritti fondamentali di libertà, per i diritti forniti dallo stato, per sottolineare le possibilità di scelta e di libertà come terreno di incontro nelle aree dubbie.
La colpa è di Kant
Il tema è “le capacità”, la rete individuata in “Diventare persone. Donne e universalità dei diritti”, 2001. Da un punto di vista che consente di verificare le capacità in materia di libertà e di giustizia, quello delle donne nei paesi in via di sviluppo, le “donne mancanti” di Amartya Sen. Il punto di partenza è la vita che le donne, essenzialmente le donne, dedicano in famiglia ai non autosufficienti. L’uomo come cittadino e lavoratore deriva da secoli di pensiero sociale di tipo contrattualistico. Basato cioè sul principio del mutuo vantaggio, da Locke alla Società Ben Ordinata di Rawls. L’errore di origine è in Kant, che separa l’etica dalla natura. Mentre “le cure per i bambini, gli anziani e gli handicappati sono una parte significativa del lavoro”. Martha parte da questa conclusione di Eva Kittay, filosofa e badante in proprio, “Love’s Labour”.
In mezza pagina Nussbaum fa un formidabile quadro delle discriminazioni delle donne nel Terzo mondo utilizzando le tabelle Onu – l’Onu l’ha cancellato ma c’è sempre un Terzo mondo. Per scoprire in un’altra mezza pagina, subito dopo, che i diritti fanno un quadro labile: sono individuali o anche di gruppo, sono politici o prepolitici, eccetera. E arriva alla conclusione che i diritti politici e civili sono intrecciati a quelli economici e sociali.
I neo liberali, Martha Nussbaum tra essi, parlano di diritti e non di uguaglianza. Forse per questo scoprono spesso l’acqua calda. Ma l’approccio delle opportunità resta proficuo, posto che è il solo che questa cultura unica consente, per prospettare filosoficamente un “minimo sociale fondamentale”. Consente un vero confronto internazionale “pesato”, un “confronto sulla qualità della vita”. E rende possibile un “consenso per intersezione” tra persone altrimenti di orientamento diverso. Consolidandosi in un elenco di punti fermi di funzioni e opportunità, che anche essi per caso sono dieci, che rifanno la celebrata lista dei beni primari di John Rawls, il padre del neo liberalismo – i liberali, volendosi empirici, elencano le cose, più che individuare logiche e nature.
La filosofia politica è (per metà) femminista
Si può definirla una sociofilosofia, ce ne può essere una? Il linguaggio di questa filosofia è certo opaco, i percorsi indistinti, a furia di precisazioni. Con alcuni lampi, Aristotele non c’è stato per nulla. Il multiculturalismo, che mina questo nuovo cosmopolitismo, è domato di passata, in un paio di occasioni – con l’alterigia, per non andare incontro alla verità Onu di cui esso è parte. “Le norme transculturali sono necessarie se dobbiamo proteggere diversità, pluralismo e libertà”. Il multiculturalismo è insidioso per molti aspetti, oggi specialmente lo sviluppo delle bambine: “Il mio approccio ritiene che la protezione delle capacità delle ragazze giustifica una strategia interventista”.
La mera datazione consente alla filosofa di stabilire che l’età dei diritti è l’età delle donne. La filosofia politica (la teoria della giustizia) risorge negli anni 1970, dopo lunga eclisse, con la rinascita del liberalismo kantiano (Rawls, Habermas) e con l’insorgenza femminista. Anzi, delle due novità insieme: “Il concetto liberale di libertà e l’esigenza umana di una varietà di forme diverse di libertà d’azione sono idee preziose” per il femminismo..
La famiglia senza filosofia
Resta tuttavia irrisolto il nodo politico della famiglia. Il tempo della cura scandisce la famiglia, questa “parte delle strutture fondamentali della società”, per molti aspetti obbligata anch’essa e non libera, in alcuni casi ben regolata dalle leggi ma sempre irrisolta sul piano filosofico. Una decisione della Corte Suprema delle Hawaii consente una lista impressionante, un’altra, di condizioni o funzioni legate alla famiglia. Ma il problema è solo posto. Così come il tema della non autosufficienza: importante, posto con brillante intuito, ma irrisolto.
L’argomentazione liberale sulla famiglia, di Rawls come di Nussbaum, si risolve bizzarramente nella statolatria, né più né meno. Per l’oggettiva indigenza dello stato. Basta fermarsi a uno qualsiasi degli interventi dello stato, della magistratura, anche femmina, o dell’assistenza sociale locale, in materia di protezione dei minori, per misurarne l’insufficienza. Sia pure a fronte di genitori indegni, purché non criminali. Lo stato, più che mettere a disposizione delle risorse, e stature sui diritti, non può fare altro. La soluzione non ci può peraltro essere, per l’insufficienza dell’approccio, organizzato sui casi, di questo liberalismo, che la complessità della famiglia, anzitutto come fatto naturale (procreazione, gestazione, nascita, nutrizione, cura), mette impietosa a nudo. Ma è la filosofia, in generale, buoni propositi e comandamenti (condizioni minime), assortiti da speciali commissioni di esperti – esperti di filosofia?
La demografia non è etica
La demografia, che è il fatto sociale primario, questo liberalismo non considera, la natalità, la mortalità, e la famiglia – se non per l’eugenismo, ingenuo quando non è perverso. Che invece è un fatto, e anche molto solido. La denatalità vuole le donne sul mercato del lavoro (vuole anche gli immigrati, che poi tratta col manganello, ma questo è un altro discorso). E le vuole contemporaneamente a casa. Nel quadro di un’attesa di vita prolungata che ne aggrava sensibilmente le incombenze, la nuova figura del'accudente, per i non autosufficienti, essendo quasi sempre donna. Queste incombenze, seppure non contabilizzate, sono misurabili sui conti pubblici: negli Usa la metà della spesa sanitaria va agli anziani (un quarto all’ultimo anno di vita), e cioè l’8 per cento del prodotto interno lordo, considerato che la spesa sanitaria assorbe il 16 per cento del pil (il 4 per cento all’ultimo anno di vita). In Italia quest’anno la popolazione sopra i 65 anni raddoppia rispetto al 1971, da sei milioni a dodici – mentre quella sotto i quattordici anni scende da 13,2 a 8,4 milioni. Gli anziani, che nel 1971 erano la metà dei giovani, ora li soverchiano di una volta e mezzo. È un mutamento radicale per la previdenza e l’assistenza, e per lo stesso concetto di mutualità. Anche se i numeri, lamentevolmente, non sono rilevanti per l’etica e la filosofia. E tanto più per l’individualismo borghese, specie se radicale.
In questa nuova demografia è l’ultima profonda disuguaglianza, non soltanto per le donne. La spesa sanitaria individuale nell’ultimo anno di vita si stima nel mondo sviluppato (America e Europa) in 50 mila dollari, mentre l’idratazione che impedirebbe in Asia e in Africa il novanta per cento delle morti infantili per dissenteria costa un dollaro a testa. In termini economici un anno di piaghe a letto e di dolori senza speranza al centro del mondo vale cinquantamila nuove vite in periferia. E in termini filosofici?
Martha C. Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana, Il Mulino, pp.150, €12

venerdì 19 dicembre 2008

Gotico arbasiniano

Titolo saviniano – inconscio? s’immagina in Arbasino orrore per il finto strapaese di Savinio – per l’ormai consueto racconto gotico dell’ultimo Lombardo, oggi come dieci anni fa. Le muse in autostrada, invece che nei boschi, nella città per eccellenza non città, è parusia non indifferente. Ma poi Los Angeles, nomen omen, è Hollywood, la città dei sogni, e quindi per necessità delle muse.
Arbasino è iconologo sorprendente, non solo del “romantico musico del «Concerto»” a Pitti. È critico superiore della civiltà: il Getty di Los Angeles come epitome del museo – cos’è un museo, cosa dice – per ambientazione in altre “culture”, altre generazioni, altre epoche. Ed è, potrebbe essere, dieci Ginsberg insieme, tanti, inesauribili «Urlo» all together, uguali per potenza espressiva, filologicamente più curati, ritmicamente, per capacità di evocazione. Con le solite fulminazioni, “i centri sociali italiani… organismi vandalici contro la società medesima”, per la fine, incomprimibile vocazione al social scientist se non al pedagogo.
Ma dà vertigine la claustrofobia. Anche nei viaggi. Specie nei viaggi. Un disadattamento che rifletterà una interna insoddisfazione, un qualche tormento. O l’insoddisfazione per la mediocrità di un ambiente. L’avventura del “Mondo” finita nei compromessi e le sacrestie del politicamente corretto. La “letteratura” che circonda una persona che si ritiene normale nella sua eccezionalità, per le doti di lettura e di scrittura, il gusto estetico e la memoria, gli studi politici, l’esperienza di peone a Montecitorio, l’uso di mondo, “di sopra e di sotto”, direbbe, l’insopprimibile impegno civile, una seconda natura.
Arbasino, Le muse a Los Angeles, 2000

Fratelli già postmoderni

Una scrittura tornita e lucida nel dramma più crudo, a meno del sangue e della violenza, quello di un’esistenza che si spreca per una persona incapace di farlo. Ma è una sublimazione intellettuale, non la rappresentazione del trauma quotidiano, normale. Un’esercitazione “postmoderna”, di testa, la prima in Italia, sgambettando “continuamente dal vero al falso, e dall’autentico al doppio” (p. 120). Sa del gioco e non della sofferenza o della compassione.
Francesco Orlando, cugino e creativo interprete del famoso ispanista divenuto ai cinquant’anni scrittore, insiste sul tasto personale nel saggio introduttivo alla riedizione Sellerio (pp. 180, € 11, arricchita del racconto “L’esitazione”), che però titola “Suoni flebili e opachi”. E smarrisce a sua volta il lettore in un labirinto di saperi, doveri, poteri, traumi e sintomi. Forse più consono alla sua donchisciottesca crociata contro l’antropologia della cultura onnivora, che disinvolta oblitera la natura e la storia, insomma la realtà – crociata da analista?
Carmelo Samonà, Fratelli, 1978

mercoledì 17 dicembre 2008

Vittime i bianchi del Pd

Da Pescara a Potenza e a Napoli, va agli arresti la componente popolare, ex Dc, del Partito Democratico. Salvatore Margiotta, il deputato di Potenza, è ex Popolare. Luciano D’Alfonso, il sindaco di Pescara e federale regionale del Pd, era il leader della Margherita abruzzese. A Napoli Renzo Lusetti, il deputato democratico indagato (l’altro deputato, Italo Bocchino, del Pdl, è la solita foglia di fico cerchiobottista di questo tipo di inchieste), è esponente di primo piano della ex Margherita. Vengono dalla Margherita o da I Democratici (“L’asinello”), gli assessori e ex assessori sotto accusa: Giorgio Nugnes, che si è suicidato a fine novembre, l’avvocato Felice Laudadio, grande esperto di giustizia amministrativa, l’ambientalista Ferdinando di Mezza, l’ex onorevole Giuseppe Gambale, focolarino e giustizialista, fedelissimo di Leoluca Orlando intemerato, e Ernesto Cardillo, l’esperto di bilancio che si dimise dopo il suicidio di Nugnes. I Democratici erano la formazione politica che Romano Prodi lanciò nel 1999, dopo la sua defenestrazione dal governo da parte di D'Alema, mettendo assieme la Rete, Italia dei Valori, molti sindaci, Rinnovamento di Dini, Fantozzi e Rivera, e l’associazione di Antonio Meccanico, di area prevalentemente ex cattolica, con qualche innesto laico. Alfredo Romeo, l’imprenditore al centro delle inchieste napoletane, fu sotto accusa già quindici ani fa in quanto collettore di tangenti per la Dc .
È un tutti contro tutti nel partito Democratico. Entro il più generale riassestamento della magistratura, delle Procure in primo luogo, su posizioni governative, se non berlusconiane,
c’è una guerra tra ex popolari e ex diesse nel partito Democratico. Per una serie di inchieste a Firenze e in Toscana che vedono sotto accusa i vertici diessini del Pd, e che a Firenze è stata sicuramente propiziata da ambienti ex popolari, tra essi i fratelli Della Valle, a Pescara, Potenza e Napoli è stato distrutto con gli arresti delle ultime ventiquattro ore una parte considerevole dell’establishment ex popolare.
La faida c’è, ma va anche detto che il colore dell’attacco ai bianchi del Pd resta nel complesso ambiguo. A Potenza l’iniziativa è stata presa da Woodcock, un pm che, come l’altro napoletano De Magistris, non è in quota alla sinistra ma semmai a un non dichiarato radicalismo di destra. De Magistris, com’è noto, ha messo sotto accusa mezza ex Dc di sinistra, Prodi, Mastella, Loiero, e la Compagnia delle Opere, al Sud collocata nel centro-sinistra.

Giudici in corsa per la riforma

Che la questione morale colpisca le sinistre non è un sorpresa, era inevitabile. Perché la corruzione va con l’amministrazione pubblica, e le sinistre gestiscono molte istituzioni amministrative. Per la teoria dei cicli, che vale anche in politica. Per la mèsalliance tra ex Dc e ex Pci, il matrimonio malgrado tutto affrettato tra le due componenti del partito Democratico – malgrado il lungo fidanzamento, per l’irruenza sconsiderata di Veltroni. Ma c’è pure palese una componente più violenta del solito nell’ultima ondata giustizialista: c’è palese un controgolpe giudiziario.
A Napoli lo schieramento dei giudici è trasparente, se non dichiarato. Che fino a pochi mesi fa si occupavano delle telefonate di Berlusconi a Saccà, eroico manager Rai, partigiano abile. E per lo scandalo della spazzatura trovavano il colpevole in Bertolaso, nella persona della sua vice, Di Gennaro. Il metodo è quello solito della indiscrezione (anticipazioni ai giornalisti amici, soffietti, dire e non dire, mezze frasi, ghigni più che accuse circostanziate) ma troppe sincronie distinguono il nuovo scandalismo, troppa univocità - nell’accusare le giunta di sinistra, col “tintinnio di manette” caro all’ex presidente Scalfaro, nel non accusare le giunte di destra.
La forte vittoria elettorale e la tenuta del governo Berlusconi rendono inevitabile la riforma della giustizia. Fra un anno, più o meno, le due carriere giudiziarie oggi unite saranno separate, dal Csm agli uffici circondariali. Ciò comporterà un riassestamento di tutti gli incarichi in vigore. I magistrati si mettono perciò in corsa per il rivoluzionamento delle carriere: procuratori della Repubblica e giudizi sono in batteria, ai blocchi di partenza, per le nuove serie di incarichi. Con un occhio di favore alla maggioranza, poiché il nuovo ordinamento sarà impiantato anch’esso dal governo Berlusconi.
Ciò contrasta con la funzione etica della giustizia. Ma è solo in linea con la giustizia politica, quale si pratica in Italia impunemente, e anzi con orgoglio, da un ventennio. Dall’unica istituzione che non si è defascistizzata, acconciata alla Costituzione e alla Repubblica. Fa ridere Berlusconi che censura la sinistra con la questione morale. Ma il gioco di bascula era inevitabile, dall’opportunismo di sinistra a quello di destra, perché i nodo è sempre quello: la questione morale è la questione giudiziaria.

martedì 16 dicembre 2008

Il mondo com'è (14)

astolfo

Antifascismo – Fu ampio, non solo prima ma anche durante gli anni del consenso, e tuttavia è stato ridotto al Pci. Non ultimo, dagli storici anticomunisti. È liberale (azionista) solo l’antifascismo dei compagni di strada, da Gobetti a La Malfa. Si accetta, si accettava, che fosse stato socialista, ma ora non più.
Storicamente, e nelle cronache, l’antifascismo fu largamente degli altri. Di Matteotti. Di Guglielmo Peirce, lo scrittore, arrestato nel 1937. O di Pavese, malgrado la lacrimosità. Di Paola Masino, che col racconto “Fame” provocò nello stesso anno la chiusura del settimanale “Le grandi firme”, la corazzata Rizzoli, di pugno dello stesso Mussolini. Che però non si ricordano. Mentre è di Vittorini, che invece dal regime era premiato. O di Zavattini, Moravia, Morante, Ungaretti, che il regime premiava ancora nel 1943.
La “riduzione” comunista dell’antifascismo è anche l’opera della storia fascista. Perché si riduce il fenomeno totalitario alla sola esclusione dei comunisti, mentre invece escludeva i due terzi dell’intellighenzia e della società. E può consentire a posteriori la riscrittura della storia in senso noltiano, del nazifascismo come antidoto al comunismo sovietico.

Globalizzazione – È egualitaria. È l’egualitarismo internazionale. Tira perciò verso il basso (ai livelli “marginali) i salari e i prezzi. Ma essendo giusta è inattaccabile, e irreversibile.
La democratizzazione che essa comporta si bilancia con le condizioni di legge minime, che anch’esse fanno l’eguaglianza: l’igiene, di vita e di lavoro, la salute, l’ambiente.

Guerra – Qualche volta è utile a qualcuno, per fini non calcolati nei piani. Ma in termini di costi\benefici mai a nessuno: la posizione di Giolitti era, teoricamente, imbattibile.

Nella discussione su pace e guerra si è sempre al dibattito sulla democrazia ateniese: se sono – erano – i ricchi a spingere per l’espansione, la guerra continua, oppure il popolo, che in Atene comandava. Razionalmente, non c’è guerra che possa essere popolare, ma così è molte volte.

Mercato – È la speculazione. Tanti profeti della crisi sono in circolazione, i “l’avevo detto” due, tre e cinque anni fa. Ma nessuno che azzardi una spiegazione di quanto sta succedendo in Borsa, l’altalena di fenomenali accensioni e altrettanto fenomenali crolli. Mentre alcune cose sono chiare.
Si lascia intendere che la crisi è quella dei mutui, mentre i mutui sono stati in qualche modo assorbiti. Sono stati cancellati dagli attivi delle banche coinvolte, mentre i loro effetti a catena sulle altre banche - la loro “tossicità” – sono minimi. I titoli tossici sono quelli delle gigantesche banche d’affari che hanno infettato il sistema finanziario mondiale con le speculazioni a termine senza adeguate ricoperture. Non più quindi solo il mercato americano, ma anche quello europeo e del resto del mondo. Con i loro compari, i fondi di copertura, hedge funds, che invece che operare per assorbire gli incerti e i movimenti anomali, operano al contrario per provocarli. Speculano cioè, specialisti come sono in short selling. Sono loro che movimentano le Borse con le forti oscillazioni, e malgrado la crisi stanno infatti guadagnando, anche molto.
Questo è il secondo aspetto noto, che si tarda però a evidenziare, e anzi si omette. Per un motivo semplice: l’hedging è il mercato, il mercato è speculazione. È anche altre cose, è un gioco ordinatore, equilibratore, fra domanda e offerta, ma casuali e non necessarie. La domanda resta per esempio concetto volatile, confinato nella categoria onnivora delle aspettative e le propensioni, di cui nulla si può dire.
La speculazione, la cui definizione è anch’essa sfuggente, ha peraltro un nucleo preciso: è l’elusione delle norme. Speculare di può dire in mille modi, ma nella sostanza è giocare contro le norme, sfruttarne i buchi e la debolezze. Soprattutto avvalendosi della legalità - questa è anche la forza dell’America, mentre altrove lo speculatore è più spesso un bancarottiere dal fiato corto o un ladro.
La speculazione ha dalla sua la promessa dell’arricchimento rapido e senza fatica. Contro una posta negativa – il fallimento – che non ha alcun potere dissuasivo, essendo pagato dagli altri. Ma appunto perciò è un atto aggressivo, non a somma zero: è appropriarsi delle risorse altrui. Col consenso, ma estorto. In quanto distorto appunto dalla legalità, dal rispetto formale delle regole.
Il silenzio sull’evidenza è l’esito dell’altra arma della speculazione: la capacità di fare consenso. Anche qui attraverso armi proprie, seppure violente, che tutte si riassumono nella capacità di fare informazione, non sempre di parte. Senza spesa – senza corruzione – e con un esercizio molto indiretto del potere.

Privacy – È un caso di inversione di senso, la parola e la cosa sono antifrastiche, ideologicamente: si invoca e si garantisce la privacy, a un prezzo, per ottenere via libera all’indiscrezione.Nasce come offerta e non come domanda. Ed è strutturata legalmente. È espediente legale per poter entrare senza colpa nelle vite altrui. Le pagine bianche che non danno l’indirizzo corrispondente a un numero di telefono se non c’è un previo consenso dell’interessato (venticinque milioni di consensi?). Ma danno il vostro indirizzo e numero di telefono, selezionati sulla base del fatturato telefonico e del tipo di connessione internet che privilegiate, a qualsiasi venditore in grado di pagare per essi. O la liberatoria del chirurgo. Sono gli effetti del dilagare degli avvocati a percentuale, dagli States nel mondo. Di una concezione formalistica del diritto, avvocatesca.Più s’invoca e s’impone dove tutte le riserve sono violate, le abitudini quotidiane, i modi di dire, perfino i pensieri remoti, i vizi, gli amori, se in qualche modo, per caso, di sguincio, sono impigliati nella tastiera. Diecine e centinaia di regolamenti sulla privacy, da sottoscrivere, vi svelano: sono in realtà l’autorizzazione a penetrare le vostre visceri, a prendervi per stanchezza.

Televisione – È una realtà a sé, che si appiccica come una cattiva abitudine, di quelle che si tengono in angolo remoto: le madri che litigano con le figlie, le mobbilitazzioni per lo schermo, gli striscioni allo stadio, i vaffanculo. L’immagine è invasiva. E deprimente: la televisione produce depressione. È la sindrome mcluhaniana perfetta, compresa la riduzione del reale.
Lascia però evidentemente inalterata la vita, poiché essa va avanti, compresa l’innovazione continua dell’elettronica, senza modifiche sostanziali. L’immagine è ininfluente. Altrimenti saremmo ancora al paradiso in terra nell’Unione Sovietica, con tutti i “santi subito” della chiesa. Berlusconi vince perché conosce la televisione e non “fa” le cose per lo schermo.

Totalitarismo – Un sistema totalitario è comunque criminalizzante. Come Schmitt spiegò difendendosi a Norimberga: “Estirpa ciò che non può utilizzare, e cerca di utilizzare ciò che non può estirpare”.

Letture - 3

letterautore

Commentari - Il lettore intelligente di Voltaire deve avere la matita in mano, ma le glosse sono topografie inutili. Tanto più quanto sono insistite, dettagliate. Sono appunti di viaggio, che narrano gli umori del commentatore. Sono in funzione del commentatore, Cesare è il caso. Ma senza lo spessore (gli attrezzi, il fondo, la sorpresa) della critica. Sono dialoghi con se stessi, puntelli forse, ma occasionali se non precari, che presto saranno rimossi. Lasciando le concrezioni di ogni rimosso, come del resto ogni lettura senza le glosse.

Gadda – Ma è un realista, ancorato alla formazione sociologizzante dei suoi anni formativi: la patria, la guerra, la piccola borghesia urbana, i doveri familiari. La sua lingua è una bombarda contro questi minuti condizionamenti, che erano la sua – personale – realtà. Che però movimenta piuttosto che sconquassarli. Come provocare, o solo osservare, denotare, l’impazzimento delle componenti dell’atomo senza romperlo. È la piccola tragedia probabilmente dell’uomo, non essere uscitola quei limiti che così fortemente avvertiva.

Giallo – Nella forma noir è presto imploso, per la deflagrazione del suo personaggio, l’uomo d’azione. I pentiti, le spie multiple, e l’universalizzazione dell’informatore, dal mafioso all’inquirente, ne hanno frantumato la ricetta: non c’è violenza eccezionale, la violenza è normale.
Non c’è quindi la sorpresa. Il giallo resta possibile se procedurale, o indiziario, alla Sherlock Holmes.

Il suo successo – in Italia tardivo e istantaneo – si somma all’illusione della giustizia, che giudizi e castighi siano equi e inesorabili. Ma con un fondo più complesso: il bisogno di transfert dalla violenza minuta, quotidiana, ossessionante, che la vita metropolitana, nuova dimensione del paese, impone. Anche quando si individua il colpevole – l’impiegato, l’automobilista, il compagno di coda – questi è necessariamente non individuabile: quand’anche fosse un violento assassino, o un povero cretino, non lo sapremo, per noi è un fatto generale, la prepotenza, il disordine, la maleducazione, l’inefficienza. Che occupano l’indifferenza e l’amoralismo – la semplice minaccia di un ministro annulla all’istante un assenteismo del 40 per cento fra gli impiegati. Non si impazzisce in questa prepotenza ordinaria senza un sentimento che giustizia è – sarà - fatta.
I serial americani questa esigenza soprattutto coltivano. Inscenano un apparato giudiziario e repressivo che fa sua, prende su di sé, la violenza minuta quotidiana, del borsaiolo, lo scippatore, il pusher, il pirata della strada. Americani o all’americana: questi serial risultano affettati perché il transfert, promosso da manuale, non trova rispondenza nella pratica – fare una denuncia ai carabinieri è l’atto più deludente e depressivo della normale violenza quotidiana.

Hemingway – Era malinconico nel suo vitalismo, questo si sa da più fonti. Ma anche a ben leggere dalla scrittura.
Per essere cresciuto tra donne?
O per sapere il segreto dell’uomo, che è di essere predatore – lui pescatore, cacciatore in Africa di belve?

Italiano – Solo l’italiano letterario si diceva - a fine Ottocento – corrispondesse nelle lingue moderne all’italiano parlato. Ma era – è – una duplice finzione. L’italiano letterario non esisteva al tempo di Stendhal, lo stata inventando Manzoni. E l’italiano parlato è quello, tronfio e insignificante, degli epigoni di Manzoni, codificato a scuola, adottato dai giornali, dalla tv e in Parlamento. Gli italiani continuavano a pensare e parlare nei loro dialetti, che non erano quelli di Gadda e Pasolini, d’arte e bozzettistica, una retorica al quadrato. Ora si è passati dall’italiano alla lingua come moda, Internet, l’sms, you tube, la mobbilitazzione studentesca: alla insignificanza di una lingua insignificante?

Poesia – In origine era ancillare: inventava genealogie e cantava lodi, per i ricchi. Omero ne è prototipo. L’aristocrazia piace, Omero è simpatico – Proust è omerico.

C’è anche quando non c’è, in Stendhal, Balzac, Dostoevskij, Tolstòj. In scrittori che probabilmente non la amano, se non la rifiutano, non sanno leggerla, né si applicano. È nelle “cose” più che nelle parole, nei suoni. La rima, l’assonanza, l’evocatività aiutano semmai un fondo che è immagine e sorpresa, passione, innamoramento.

Pound – Fu fascista per amore dell’Italia. Non per essere reazionario, poiché era jeffersoniano. Non per essere antisemita, non lo fu mai nella forte polemica anti-plutocratica. Non per l’anti-plutocratismo, quello di Pound si situa nell’ingegneria post-1918, non tutta fantasista, e semmai in un’ottica sociale. Fu lontanissimo dal nazismo, che del fascismo è il nocciolo duro,

È in lotta con il realismo sociologizzante del tardo Ottocento, magnificato nel primo Novecento, e soprattutto in America. Da qui il suo bisogno di Dante, realista immaginifico, mitico, religioso.

Proust – La sua nobiltà sono i suoi lettori.
È un allumeur: ci si aspetta sempre qualcosa da lui.

“Le Figaro”, il suo giornale, è quello che pubblica e crea Marinetti e il futurismo. Ma non si può fare un “Proust e il futurismo”, in nessun modo.

Benché legato alla mamma, e con tante vice mamme, è incapace di amore, anche d’immaginarselo. Albertine non parla. Di gelosia e disprezzo sì, ma non di amore. Sa far parlare le donne ma da amiche e blasoni, pettegole, vanesie, carrieriste, donne di mondo – e così pure gli uomini.
È un limite omosessuale, l’amore ristretto al sesso? È così in Gide, in “Le Ramier”, il suo massimo in fatto d’innamoramento.

È un gigante nelle sue decadi, tra il 1890 e il 1920, in Francia e fuori, un unicum, contro alle fumisterie di Fine Secolo e della pace perpetua. E che altro?

Sade - È l’uomo senza fantasia. I suoi mondi eccezionali sono addizioni.
È un bravo operaio, rispetta turni e i ritmi.

Scrivere – Deve avere esoterico fascino, se consente di passare sopra all’immagine deteriore degli scrittori. Pallidi, acidi, contorti nelle pose, a capo chino, di sbieco, le labbra serrate, le palpebre abbassate, le spalle ingobbite, i denti gialli, il collo incassato, lo sguardo spento. Anche quando danno un calcio al pallone o si mettono in bici, anche nell’istantanea sono in posa lugubre. Incattiviti nei ricordi, sia pure dei nonni, sommersi dalle minute miserie dell’editoria e della pubblicistica, i dispetti, i favori presunti, gli amori sempre falsi, favoleggiando di guadagni che sempre sono irrisori, di giudizio svagato sugli eventi storici, personali o politici, più spesso sbagliati, fuori della realtà – senza reale interesse o curiosità, l’occhio va sempre all’ombelico. Evidentemente la scrittura è incantesimo capace di far dimenticare tutto ciò.
Grande fatica dev’essere gestire una rivista letteraria, fra tutti questi rifiuti umani, cariati, che sanno di chiuso, inarticolati spesso, senza entusiasmo. Eppure se ne fanno, e si vendono. A meno che leggere non sia un esercizio masochistico.

È semplificare. I vizi linguistici e le riserve mentali sono nella realtà tali e tanti che la scrittura, meccanismo di logica e sintesi, quindi raziocinante, può rilevarne una quantità infima, e comunque sempre in modo povero – da qui il senso di rapidità del giallo, che privilegia questo tipo di linguaggio (la semplificazione). Da qui anche il fascino della poesia: si può superare la logica povera con una scrittura mimetica, rappresentativa.

Al computer moltiplica l’aspetto artigianale, prima limitato alla preparazione della carta e la matita, benché arricchita dal temperamatite – ma era già stata supplita dalla biro. Scandisce meglio i tempi, elimina o attenua l’ansia. Perché crea insieme con lo scrittore: corregge la grafia, dà i sinonimi, fornisce i riferimenti. Perché vuole attenzione sempre pratica, con i suoi procedimenti rapidi e spesso senza appello: impone di sapere cosa si vuole scrivere. E per la capacità che dà di riscrivere, senza cancellare, e di dare più forme grafiche allo scritto.

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (27)

Giuseppe Leuzzi

L’odio-di-sé meridionale
La Calabria ha una storia in cinque volumetti. Pubblicati da Laterza, curati dal professor Piero Bevilacqua, in un “Progetto di «Storie regionali»”, a uso delle scuole. In cui la Calabria non c’è.
La Calabria ha una civiltà bruzia, o brezia, documentata, anche visivamente. Ma non in questa storia.
Ha una storia bizantina molto lunga e molto nobile, documentata, nella lingua (fu a lungo il tesoro di molti glottologi tedeschi, Rohlfs per dirne uno), i nomi e i toponimi, le chiese, le pergamene, gli incunaboli, la storia diplomatica, per un millennio fu la sola pertinenza e presenza della cultura greca in Europa – eh sì! Che anzi fu salvata dai suoi amanuensi, da Cassiodoro a san Nilo – eh sì! La Calabria insegnava il greco, nel Duecento, nel Trecento e nel Quattrocento, all’Europa. Ma questa storia straordinaria si merita un capitoletto. Rohlfs non è neppure citato.
Ha una storia longobarda, nei toponimi, la linguistica, le fisionomie. Mezza pagina.
Ha avuto lunghe, insidiose, persistenti, convivenze saracene. Un riquadro.
Ha una storia normanna, documentata. La Calabria è stata il primo regno normanno, dei figli del sole. Con molte reminiscenze, soprattutto nell’Aspromonte. Mezza pagina.
Ha evidentemente una storia angioina, aragonese, napoletana.
Ha dal Quattrocento una presenza non marginale e continuativa, sempre in vario modo rinnovata, di albanesi e turchi. Niente.
Ha avuto una importantissima storia greca antica, a partire già dai micenei e i cretesi. E questa, già molto arata, è documentata. Si merita mezzo volumetto. Ma insieme con la storia romana fino alla pace augustea. E non negli aspetti più caratteristici e persistenti, quelli cultuali.
Il feudo, il latifondo e il brigantaggio, che nella penisola sono marginali, prendono invece tre libri.
Sono fatti importanti, la storia economica e quella criminale sono importanti. Ma volendo fare della penisola una storia comprensiva, lunga tre millenni, il feudo meriterebbe una-due pagine.
La Calabria ha forse una storia troppo complessa per un mondo sottosviluppato. Ma quanto del sottosviluppo non è dovuto a questa bizzarra assenza di storia? Tanto più per avere una storia che, senza storia, non si comprende. È un mondo a parte, fortemente caratterizzato, non è solo una divisione amministrativa, per il lungo isolamento geografico e per la stratificazione psicologica (l’animus, la sintassi, la causticità, lo scoppio di violenza, l’esterofilia, perfino l’onomastica). Un popolo diverso, anche se più per intrecci, compresa la italianizzazione, che per separatezza. Ma non selvaggio o primitivo, come si vuole farlo passare: è diverso per una diversa – complessa, intricata – storia, che molte pietre, molte parole e molti pensieri ha accumulato nella pieghe dei luoghi e del linguaggio.
Tutta questa Calabria non c’è, è vero, nell’archetipo di questa storia, il volume “Calabria” dello stesso Bevilacqua e di Augusto Placanica, della “Storia d’Italia” Einaudi. Ma la serie Einaudi limitava la storia delle Regioni dall’unità in poi. La storia di Bevilacqua è ideologica, si comprende. Tanto più per voler essere comunista quando il comunismo si è dissolto - nel non detto, cioè nella vergogna. Come di chi annaspasse fuori dal suo elemento, sia esso l’aria o l’acqua, o l’ideologia. Ma non era diverso ottantant’anni fa il sussidiario di Alvaro. Il rifiuto della storia è una forma dell’odio-di-sé meridionale.
Questo Sud che si vuole ideologico è invece saprofitico, una malapianta che s’attacca ad altre con le quali s’infetta. Tutto è virtuale al Sud, in Calabria in particolare. Secondo lo schema: il Sud non è Milano – o Roma, o Torino, insomma non è il Nord. Senza chiedersi: che cos’è Milano, o il Nord? Specialmente disturbante è la storia per procura.

Walter Pedullà, Per esempio il Novecento, p. 415: “La storia è nota, lo Stato si colloca socialmente dalla parte opposta, in due modi: prima latitando, poi riportando l’ordine minacciato da un «brigante»”.

Il calabrese Cappuccio, nel racconto omonimo di Domenico Rea, difende con le armi il carcere in cui da ergastolano è rinchiuso per la vita.

I napoletani, e qualche siciliano, si dicono il sale della terra. Si diceva un tempo degli ebrei: sarà per questo che il Sud vaga.

Quella di Vittorini è “Sicilia tradotta” (Sciascia). Vittorini era lui il Gran Lombardo che fantasticava, non approvando il “ritorno al Sud”: “La Sicilia altro non merita che un Federico De Maria”, diceva, un piccolo dannunziano.

Lo dice anche Sciascia: la scuola, le amicizie e il cinema sono – erano negli anni 1940-50 – “la dimensione paesana… della sperduta provincia meridionale”. Ma qual era all’epoca la “dimensione paesana” della non sperduta provincia settentrionale? Il Sud viaggia poco, s’immagina troppo. Anche quando emigra.

Razionalizzare il mistero (Pirandello, Sciascia, nei racconti storici, nei gialli) è complicare le cose. E la complicazione è “la forma moderna della stupidità”, lo riconosce lo stesso Sciascia. “È anche malafede”, dice pure.

Questi i siciliani del Nievo di Sciascia, nel racconto Il Quarantotto: “Io credo nei siciliani che parlano poco, nei siciliani che non si agitano, nei siciliani che si rodono dentro e soffrono… Questo popolo ha bisogno di essere conosciuto e amato in ciò che tace, nelle parole che nutre nel cuore e non dice”. Fatto dire da Sciascia taciturno al Nievo prolisso, potrebbe essere un voto dello scrittore. Ma i siciliani migliori non tacciono, anzi.

Discorso della mafia
Il suo nodo è classista. Sarà anche etnico, ma nella sostanza è classista. La mafia è il commercio del consenso contro affari. Del consenso politico contro affari pubblici. Il consenso politico è oggi il voto, e quindi la mafia è pacchetti di voti. Il nodo (snodo) della mafia è per questo classista: si fa cortese, e finché, controlla i pacchetti di voti decisivi, quelli che spostano la scelta.
Il voto alla (attraverso la) mafia non è un fatto di bisogno. Né lo vince l’istruzione. Da qui la difficoltà di estirparla, essendo gli appalti (spesa pubblica) e l’istruzione i due rimedi su cui l’antimafia ha fatto leva. Posto che la mafia va sconfitta liberando il voto, come ci si arriva? Il voto si libera probabilmente frantumandolo, rendendo gruppi sempre più ristretti, a mano a mano fino all’individualità, padroni del proprio voto. Moltiplicando la concorrenza. Che sembra voler dire moltiplicare la mafia ma in realtà è la strada maestra per scalzarla.

La mafia è terribile in quanto pone una sfida sempre mortale: con essa si è condannati a vincere sempre. E ogni volta che si vince c’è poco onore, il mafioso è merda, la vittoria non ricarica. Per questo la guerra alla mafia è sempre mesta.

Sempre il discorso più “alto” (feroce, duro, eccessivo, crudele) si impone sulla realtà e la suggella, la “fa”. Sul Sud ancora si riverbera il discorso del ventennio terrificante fino alle bombe ai monumenti, in tutta la Sicilia e nell’Italia. Che fu una guerra “civile” e di retroguardia, per lo scardinamento degli assetti affaristici degli anni Cinquanta-Sessanta, l’asse Ciancimino-Lima, in termini politici Fanfani-Antifanfani, cioè la Dc, unico soggetto politico e di potere nel Meridione e in Sicilia in particolare. Forte anche del rapporto biunivoco con la mafia, che la terribilità della reazione rivela. Lo scardinamento portò a una lunga serie di stragi. “Inutili” ai fini mafiosi, se non di una mafia convertita per l’effetto del terrorismo al culto dell’immagine: ad azioni di effetto mediatico, e per l’efferatezza e la cura che necessitano, vere e proprie azioni militari, e per colpire uomini simbolo, difesissimi.

Troppo spesso il discorso antimafia è assolutorio, di se stessi, una copertura. Ha tutta l’aria di esserlo. Quando proviene dagli appaltatori pubblici, dalle imprese dei grandi lavori alle onlus che si aggiudicano i beni dei mafiosi, con relativo capitale di avviamento, consumato il quale si eclissano. Lavorare stanca, si sa. E l’antimafia è troppo bella per poterne dire male. Ma a volte, a Catania per esempio, le cento famiglie che non hanno partecipato al ballo organizzato in piazza dei bambini contro la mafia, si ha forte il sospetto che più di uno ci marcia. Per i venti o trentamila euro del Comune che patrocina la manifestazione, per la carriera, per l’immagine.

I mafiosi sono tutti confidenti, della polizia o dei carabinieri.

lunedì 15 dicembre 2008

Secondi pensieri (21)

zeulig

Confessione - È esercizio in narcisismo. La confessione scritta dilaga perché risponde anzitutto a questa sua intima natura. E ha successo perché il narcisismo è uno specchio accattivante. Anche le dilettazioni dei pentiti di mafia rispondono a questa natura.

Conoscenza - È saggezza, giudizio. Una modalità dell’essere e un agire. Si fa mediante la filosofia ma è una sua sinossi, a uso pratico

Cristo – È il progresso, la storia. Che non ci sono in altre religioni: nel messianismo e la legge ebraica, nell’orda asiatica, nell’animismo africano.
È il punto centrale dell’epoca in cui si fissa il canone umano. Prima e dopo di Cristo, per un millennio si definisce la ragione e la religione della nostra epoca: il monoteismo, con Budda e i suoi negatori – identici, più o meno, sono i riti – e con la logica, cioè il linguaggio ordinato, compresa la bellezza. I sacrifici umani e i culti dendrici o solari durati fino all’evo moderno, fino agli Aztechi, che sono chiare persistenze, lo delimitano meglio.

Darwinismo – Non c’è il creazionismo in agguato. C’è a difesa, ancorché vocifera, contro l’offensiva dell’evoluzione becera, in tema di procreazione artificiale e di suicidio di stato. Quella di chi crede, e anzi dice di averlo dimostrato, che la fede è un’aberrazione in un mondo perfettamente razionale, orba da beghicni, da segaioli, solitari.

Dio - È complicato ma abbordabile. È come voler bene a una persona, la fede è l’amore.

Era l’unico nostro testimone. Per questo se ne sente la mancanza.

Si cancella in omaggio alla ragione e per scelta di libertà. Si può dire di Dio che mette in dubbio i nostri due valori fondamentali? Ma senza Dio zoppicano in teoria, oltre che nella pratica.
La pratica zoppica anche con Dio: la violenza, la malattia, il dolore. Il vecchio problema della teodicea, che non si risolve col migliore dei mondi possibile – se un mondo migliore è possibile, c’è. Dio potrebbe essere imperfetto, come tutti.

Eternità – Finisce con la vita.

Fede - È speranza. Finché uno ha speranza, ha fede.

È consapevolezza della forza della natura, bruta. E del potere dell’uomo sulla forza della natura. È l’ambivalenza che infastidisce la ragione semplice.
C’è chi odia il Cristo per avere acceso il progresso. Ma il progresso c’è sempre stato, il messianesimo, la speranza, il bricolage.

Fuzzy - È la logica di Dio, di un panteismo conoscitivo invece che metafisico.

Ignoranza – Come la violenza, è sancita (strutturata) dalla ragione universale dell’Ottantanove. Dalla ragione scientista, non da quella aristotelica.

Infinito – Piccolo o grande, è fuori della pretesa moderna di sperimentazione fisica. È il concetto della non fisica, del non fisico.

L’uomo l’ ha inventato e vi si perde. Lo stesso per l’eternità.

Kant - Tutto etica e intelletto e niente corpo. E un corpo senza etica né intelligenza, della vita e degli uomini – la bellezza, le passioni (desideri, attrazioni, repulsioni), la déchéance.

Lavoro – È il rapporto col mondo. È il lavoro che stabilisce col mondo una relazione, comunque liberatoria per quanto a bassissima intensità o a significato distorto (utilitario,consumatore-…, dominatore). È una forma di presente-enza-.., più solida defli affetti (relazioni personali) e della malattia (degenerazione).

Libertà – Non c’è nel bisogno (a.Sen, M.Nussbaum). Nella malattia. Nell’odio. Cioè per la gran parte dell’umanità. Soli esclusi peraltro i privilegiati: i Consapevoli Compassionevoli Benestanti.
E invece è il contrario: la libertà è la sopravvivenza (gli istinti vitali), un vaccino, una sfida, o un sottrarsi. La contraddizione è tra filosofia e sociologia, essere e dover essere.

Morte - Si muore più volte nella vita. Ma una volta non si rinasce.

È la verità della vita, misteriosa, ineluttabile: certa e tuttavia incerta, mediocre e tuttavia grande, stupida e arcana. Nascere è incerto, morire certo. E tuttavia la vita è plausibilmente prevedibile, la morte imprevedibile, nel momento, nel fatto.
È o sarebbe? Perché la mote è attorniata di tristezza, ovunque, in tutte le culture.

Nichilismo – Una categoria da conservatori, la valutazione negativa. Ma è mai un argomentare positivo: innovativo, di liberazione, di ricerca?

Preghiera – Ha proprietà lenitive non per la ripetitività – l’esicasmo, la salmodia, il peptalk – ma per la rappresentazione della divinità, del suo rapporto con noi, di Dio, la madonna, i santi. La preghiera è la nostra rappresentazione privata della divinità. È una preghiera che ci facciamo.

Psicologia – Nessuno psicologo dice: “Non è nulla!”. E dunque?Non è scienza e non è medicina: non è critica. È consolazione, ma nel senso della preoccupazione – della dipendenza. “Dottore, mi batte il cuore”, “Faccia sentire”.
È la scienza dell’indurre i bisogni, per distruggere ogni difesa moltiplicando le incertezza.

Psicanalisi – La triplice distruzione della “regressione-storicizzata-all’infanzia”. Un movimento indotto, selettivo, voluto. In contesti inafferrabili. A un’età elusiva.
È la ricetta della perfetta perversione, non dichiarata, benevolente, radicale: l’assoggettamento mediante demolizione di ogni stimolo, sotto specie diabolica, cioè salvifica, terapeutica.

È la coscienza che si appropria e scioglie l’inconscio. Missione impossibile, essendo le due cose forse parenti ma nemiche irriducibili.
E come si configura la sessualità nell’analista? Quella del meccanico è semplice. O dell’impiegato. L’analista sarebbe un allumeur?

Ragione – Raramente ha ragione.

Sbroglia i nodi o li moltiplica? La razionalità – la filosofia – ha sciolto qualche nodo in duemilacinquecento anni, e ne ha annodati. La sommatoria sarà incerta, m non c’è progresso nella ragione, la sua storia è piatta. Ha il fascino dell’impossibile.

Rivoluzione - È totalitaria.
È l’arma dei mediocri, poiché li avvantaggia.
E crea grandi fortune anche senza merito – lavoro, fatica.

Scoperta – Va per aggiustamenti, proressioni infinitesime. Non si scopre l’ignoto. Non la verità.

Silenzio - Non è imputabile. Con la “sicurezza del silenzio” si difesero Schmitt e Heidegger dopo la guerra.

È sempre espressivo, il silenzio parla. La forma più raffinata di eloquenza.
È silenziosa la vita della natura, le piante, le foglie, i funghi, le formiche, i lombrichi. E come sono popolati il respiro dell’aria, il fluire della notte, la feracità della terra, l’acufene, l’immaginazione.

Single – È il primo terzo sesso. E, come l’universo, è in espansione. Il fenomeno si penserebbe in contrazione dopo lo la deflagrazione della convivenza, e il rapporto di coppia rilanciato, depurato dalle occorrenze triti della vita quotidiana. Invece si va, anche qui, per accumulo.
La solitudine pesa, ma comporta abitudini cui non si vuole rinunciare, anche sciocche. Sopratutto comporta un distanziarsi dagli altri, una sorta d’igienismo mentale, per cui con la promiscuità fisica diventano impossibili anche i sentimenti.

Storia – Comincia con la noia. Per il bisogno di rompere l’ozio. Quando l’ominide si stancò di vivere in branco, saltellare, mangiucchiare, accoppiarsi, come le scimmie oggi, e si mise a ululare solo alla luna, modulando sempre più l’urlo, a scagliare le pietre, ad affilare i selci. Da qui l’importanza della luna nella poesia, è un residuo protostorico. E quando dalla scintilla emerse il fuoco, la paura del fuoco sempre persistente.

È delle parole come dei fatti. La storia è un contesto verbale più che bellico.

Teologia – È l’indagine su Dio di chi ha perduto Dio.

zeulig@gmail.com

Ombre - 10

A Fabio Fazio Soru dice: “Ci muoviamo in conflitto d’interessi ogni momento della giornata”. Lui lo è, non si è spogliato di fiscali, e finanzia “l’Unità”, anche se come politico non potrebbe possedere un giornale. La questione dunque non si chiude. Viene interpellatio quale suprema autorità etica in materia l’avvocato Guido Rossi. Il quale un solo commento fa: “Mi sono stufato!”, dei manipolatori delle leggi. Forse per questo, quando era consigliere dell’Inter e commissario delle Federazione Calcio, ha tolto uno scudetto alla Juventus e l’ha passato all’Inter. La morale, a Milano, è inattaccabile.

Echi manifesti di bolscevismo al Tg 1 per la “Nota politica”, in tutte le edizioni, anche le brevi. Riotta fa parlare i politici autoripresi in videocam, con belle facce quindi su fondi arancione, celestiali, iridescenti, i vecchi cieli dei vecchi studi fotografici uptodatizzati, con voci stentoree, per due frasi lunghe o tre brevi. L’effetto è comico, come una farsa anni cinquanta. Ma non si sa se la Rai lo fa per ridere.

Un pubblico ministero di Catanzaro è stato svegliato all’alba da un pubblico ministero di Salerno arrivato con i carabinieri, e perquisito corporalmente. “Mi hanno fatto alzare la maglietta e abbassare i pantaloni”, dice il giudice di Catanzaro. “Falso”, ribatte quello di Salerno, “il collega era in pigiama”. Entrambi vanno sulla cinquantina.

Si fanno i giornali giovedì 4 con le accuse di Salerno a Nicola Mancino, capo del Csm. Capo d’accusa contro Mancino è una telefonata “di ben 183 secondi” con Antonio Saladino, “potente capo della Compagnia delle Opere del Meridione” Telefonata che Mancino non ha fatto ma non importa, il “ben tanti secondi” parla da sé della giustizia di questa giustizia.
Ma, se questo Saladino è potente, quanto potente non sarà la sua Compagnia delle Opere del Meridione? Quanto dobbiamo avere paura? Questo Meridione, che non è niente, è eccessivo: ha mafie strapotenti, una strapotente Compagnia delle Opere, e telefona per centinaia di secondi. Per mettere a frutto i fondi europei per la formazione. Che non si capisce bene cosa sia, ma dev’essere la formazione al lavoro. Corsi di apprendistato insomma.

Rai Due, la Rai “leghista”, appaia Luxuria a Obama, in tre ore di trasmissione di prestigio con Santoro, Marcotravaglio e altri dello stesso calibro: “L’Isola di Obama”. L’Isola maiuscola è l’”Isola dei famosi”, che è la punta di diamante di Rai Due, dove Luxuria ha sconfitto Belen.
Simona Ventura, conduttrice dell’”Isola dei famosi”, è più modesta: “Ho svecchiato la sinistra con gli intrighi dell’Isola ma non sarò un idolo rosso”.

Si fa scandalo della social card, uno-due euro al giorno ai poveri da spendere in negozi speciali. Un’elemosina. Negli stessi giorni la Regione Lazio introduce ticket di quattro euro per ogni confezione di medicinale acquistata. Non ogni ricetta, ogni confezione. Si paga cioè fino al 90 per cento del prezzo dei farmaci. Ma di questa “rivoluzione” non c’è notizia nella cronache romane di “Repubblica” e “Corriere della sera”. Se non per raccontare golosamente dei furbi che, sapendo dell’arrivo del ticket, si sono affrettati a munirsi dei medicinali, spesso per malattie sociali, in anticipo.
Sempre il complesso di superiorià dei belli-e-buoni nei confronti degli italiani sporchi e cattivi. Spregevole è poco dire. Servile. A Marrazzo poi – il presidente della regione Lazio che ha sancito la fine del sistema sanitario nazionale si chiama Marrazzo.
I medicinali naturalmente non si possono comprare in anticipo a volontà. Devono essere ordinati dal medico di base, che non ne può ordinare più della razione giornaliera prescritta.

Si vuole a Mumbay che i terroristi abbiano liberato gli italiani, “selezionando” gli inglesi e gli americani, per ucciderli o come ostaggi. Che non è vero, e non può essere vero, il terrorista avanza sparando contro tutto ciò che si muove, dieci terroristi non scremano mille ostaggi, o anche solo cento. E poi gli italiani “non esistono” a Mumbay.
Si capisce dove il fascismo si radicava, se entrambi i miti sono persistenti, automatici: gli italiani brava gente, e la perfida albione.

Dice Mourinho, l’allenatore dell’Inter, che i campionati inglese e spagnolo richiamano più pubblico. Dopo che lui allena in Italia?

Mourinho perde in Champions in casa contro una squadretta greca e si fa quindici minuti su Rai Uno, seduto, interrogato con rispetto nel bar sport. Spalletti, che ha vinto bene fuori casa, ha quindici secondi, in piedi, tollerato. Sudditanza psicologica? Per essere alla Rai bisogna essere marpioni con pelo doppio allo stomaco. Sudditanza economica? Può darsi. Di certo è la Rai: siamo tutti bravi, incapaci, dannati.

Antonio Di Carlo non è antipatico. Alto, atletico, rugbista di valore e di fascia, un combattente cioè, di destra nell’animo ma verde nell’impegno, è uno che va ormai per i sessanta senza che si sia mai saputo che fosse un corrotto – la corruzione è nota, ancorché non provata. Ma dimostra i limiti della politica novista. E non perché va a pranzo con l’appaltatore dei rifiuti di Roma. Ha sfasciato l’Atac, sia le geografia delle linee che le finanze dell’azienda, disperdendole in allegria tra tanti soci innovatori, cooperative, “australiani”, parenti del sindaco Rutelli. E voleva tassare i residenti ce parcheggiano sotto casa in strada.
Voleva anche proibire i cortei che sessanta giorni l’anno occupano la città di Roma, occupandone il centro. Questo più delle confidenze suicide a Rai Tre, dimostra che non aveva senso politico: non sa che un politico deve guardarsi le spalle.

domenica 14 dicembre 2008

L'alluvione è elettronica

Ci sono folle sugli spalti del Tevere i giorni e le notti della piena per fotografare. Si fermano tutti, non solo gli amanti della fotografia con le loro macchine professionali per immagini d’eccezione. Tutti vogliono fissare il fiume che lambisce gli ospedali sull’isola Tiberina, o sbatte i barconi contro i pilastri dei ponti. Col cellulare o la digitale, tutti a inquadrare il fiume, che pure in quelle macchinette viene male, marrone, sporco, scuro. I ragazzi che si fanno i ponti coi motorini, le casalinghe con le borse della spesa, i manager in grigio con la valigetta: estraggono la macchinetta e fotografano. Non per catturare un’immagine d’album, per ricordarsi che il giorno ics c’è stata un’alluvione. La pagina del diario che nessuno leggerà si scrive ora con la fotografia.
Per una ambizione non nascosta anche: che la propria foto o ripresa venga data da qualcuna delle tv nazionali che da qualche tempo invitano a farsi la propria televisione. Il modello You Tube spopola, anche se è nato dal disprezzo, il nome lo dice (“voi lavorate, noi ci guadagniamo vendendo il vostro lavoro”). Qualcuno dice anche: “Potrebbe crollare il ponte”, il ponte sopra il quale si trova. O spera che le tonnellate di cemento dei barconi disancorati facciano crollare il ponte a monte, o a valle, per poterla raccontare.
È il linguaggio dell’evento che la televisione impone: l’immagine (che sia disastrosa, eccezionale), l’attesa del peggio, la minaccia, la testimonianza (“ha piovuto tanto”). È il villaggio globale, altroché. Non è simpatico (solidale, intelligente, risarcitorio), ma è solo quello, McLuhan aveva ragione. Si può vederla in quest’altro modo: le tv, specie la pay tv, avevano tutto predisposto per la notte bianca dell’alluvione, e gli è andata buca. Ma non è una consolazione: se non migliora la televisione non migliora il mondo.