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sabato 30 aprile 2016

Secondi pensieri - 260

zeulig

Adorno – È bizzarro che, nella disillusione e la rilettura di Heideger alla luce dei “Quadern Neri” , il suo nome non venga nemmeno menzionato. Che pure aveva anticipato queste riletture, già negli anni 1930, cioè subito,  poi nella “Dialettica dell’illuminismo”, in “Minima moralia” e nel “Gergo dell’autenticità”.

Un capitale di anticonformismo – di verità a sorpresa. Di verità “minime”. Non solo nei “Minima moralia”. Lo marchia soprattutto l’avversione di Hannah Arendt, che non tollerava critiche a Heidegger, il suo amore intemerato – e neppure a Jaspers, il suo maestro, che Adorno accomuna a Heidegger nel “Gergo dell’autenticità”. Nel 1963, difendendosi di avere scritto un articolo (in “Die Musik”) nel 1934 con citazione di Goebbels e apprezzamenti per Schirach, il capo della Hitler-Jügend, la gioventù nazista, Adorno riconobbe  “stupidamente tattiche” le sue parole, nella certezza che il nazismo non potesse durare, e rincarava che il vero nazista era Heidegger, “la cui filosofia è fascista fin nei suoi più intimi elementi”. Hannah Arendt la prese malissimo scrivendo a Jaspers: lo accusò di acculare Heidegger all’antisemitismo per pura cattiveria, lo dice”uno degli uomini più ripugnanti che conosca” e afferma che, “mezzo ebreo”, aveva “sperato” a nazismo inoltrato “di farla franca grazie alla sua discendenza italiana per parte di madre”.
In realtà Adorno usava i due cognomi, del padre, Wiesegrund, e della madre. E non accusava Heidegger di antisemitismo: riprovava, con lui, tutti quelli che “Auschwitz non esiste”. Ma faceva di peggio (meglio?): lo acculava alla cerchia dell’“autenticità”, tutta ebraica, Rosenzweig, Buber, etc.   
La polemica anti-Heidegger di molti heideggeriani lo riporta a galla – dovrebbe, non lo fa. Heidegger è oggetto della critica radicale di Adorno dagli inizi, per una ontologia metafisicizzata. E  più nel tardo dopoguerra, a metà anni 1960, nel “Gergo dell’autenticità”, elevata criticamente a “Ideologia tedesca”, la consolazione della superiorità nella sconfitta, la chiusura risentita in sé.

Coscienza – Si può mentire in buona coscienza? “Su un preteso diritto di mentire per umanità” è il noto quesito di Kant. Il quesito si ripropone col ritorno del martirio per ragione di fede, in Cina, nel mondo islamico: si può mentire  per la religione, sulla religione?
Non si può costringere una persona a un’azione contraria alla sua coscienza. Caillois ha, in “Ponzio Pilato,”, un Cicerone-Xenodoto che lo argomenta – in un libro che Cicerone non scrisse, “De finibus potetiae deorum”, sui limiti della potenza degli dei, nel quale avrebbe ripreso le argomentazioni di uno Xenodoto, che era in realtà un filologo, organizzatore della biblioteca di Alessandria ma reputato dai successori per la sua “ignoranza” - come editore di Omero, Esiodo e altri. Da Xenodoto-Cicerone Ponzio Pilato si fa dire che “le divinità, gli astri, le leggi cosmiche, lo stesso inesorabile Destino”, messi insieme, “non potevano costringere il Giusto a un’azione che la sua coscienza gli proibiva”.
Ma la coscienza di Caillois-Cicerone-Xenodoto non può sottrarsi alla legge, o alla conformazione di male e di bene. Umberto Eco argomenta il contrario, “L’isola del giorno prima”: “La prima qualità di un onest’uomo è il disprezzo della religione”. Ma lo fa argomentare a un libero pensatore, che poi cancella.

Heidegger – Bourdieu, “L’ontologia politica di Martin Heidegger” (tradotto “Führer della filosofia? L’ontologia…”), ne fa un campione della “dissimulazione”, volendo argomentare il contrario. Bordieu critica chi trascura l’autonomia dello “spazio filosofico” rispetto all’impegno politico. Ma poi mostra come questi spazi Heidegger articoli nell’“ambiguità”, e non a caso o per errore, ma per una precisa strategia di comunicazione. Ha dovuto, ma di più voluto, atteggiarsi, per una sua propria idea del suo pensiero e del suo spazio pubblico. Da qui allusioni, sottintesi, qui lo dico e qui lo nego, affermazioni-distinzioni. Ciò non gli ha impedito di “produrre” un “discorso filosofico”, indenne anche da condizionamenti politici o partitici, ma senza spiegare le strategie linguistiche, le ragioni del dire e non dire –non potevo, non era possibile, non ho avuto il coraggio, una qualsiasi ragione. In realtà fino all’ultimo,  all’intervista che ha voluto postuma con lo “Spiegel”, non ha disgiunto il “discorso filosofico” dall’impegno politico.

Incontro – Si dirada come esperienza personale e si moltiplica nelle comparsate televisive, in politica, nelle scelte culturali, e perfino come esperienza personale, in forma di transfert, nel divismo e nel “riconoscimento”, come modelli di vita e di attrazione, estetica, spirituale, comportamentale. L’esperienza è sempre più “mediata”, ma l’incontro è più di tutti artificiale. sempre più artificiale. Sotto il parafulmine traditore dell’immediatezza, quando tutto nei media invece è controllato: studiato, calcolato.

Metafora – Boncompagno da Signa, sintetizzando l’opinione del temppo, XII-XIIImo secolo, argomenta nel “De Transumptionibus”, nonché nella “Rota Veneris”  - in una delle digressioni del trattatello, quella sulla transumptio - che non può essere stata inventata che da Dio, quello che ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza. L’uso della metafora è necessario agli amanti perché l’amore è inconoscibile perfino a chi lo prova.
La transumptio è il sistema espressivo che permette di dire una cosa con un altra. Di dissimulare, se si vuole, ma non a fini perversi. È un sistema che Boncompagno ritiene necessario soprattutto per esprimere l’amore – Paolo Garbini vede nel “De transumptionibus”, “un Boncompagno illuminato (che) anticipa Lacan e a proposito delle immagini oniriche”. La dove scrive che “l’anima fa spesso uso di metafore”.

Nietzsche – La “Nascita della tragedia” è in fondo la sua tesi di laure. Nemmeno di dottorato, dice il professore di Houellebecq protagonista di “Sottomissione”: troppo affastellata. Rileggendola, questa impressione è fastidiosa.

Opinione pubblica – Un disegno diabolico secondo Heidegger, “La questione della tecnica”: giornali e “riviste illustrate” hanno la funzione di “spingere il pubblico” a leggerli, consumarli, al solo scopo di farlo “diventare «impiegabile» per la costruzione di una «pubblica opionione» su commissione”. La dittatura del “si” e della “chiacchiera” stigmatizza ampiamente in “Essere e tempo”. Del resto, “le cose stanno così perché così si dice” era esito già di Karl Kraus, pubblicista impenitente.

Molto Heidegger ne parla (male) anche nell’“Abbandono”, 1959. E negli ultimi “Quaderni neri”, dei secondi anni 1940 e anni 1950, al dire di Donatella Di Cesare che li ha consultati.
Il “rifiuto della comunicazione” è peraltro in Heidegger strumentale, a una sua propria strategia della comunicazione, evidentemente. Più che partecipare a eventi pubblici, li indirizzava, li commentava.

Razzismo-Razza – È una “selezione negativa”, argomentava Jaspers nel  1932, “La situazione spirituale del tempo”. La teoria della razza causa una concezione della storia che è senza speranza; attraverso “una selezione negativa di quella migliore si rovinerebbe ben presto l’esser-uomo autentico” - “una selezione negativa di quella migliore”, al termine della quale nulla rimane.

Redenzione – È il punto debole, e il tarlo della decadenza, dell’Occidente – il progresso, il futuro, della storia come freccia. Del cristianesimo (ebraismo),  secondo il “Sistema Houellebecq”, o del neo deismo, o umanismo, e del “mondo bello” coranico. Mentre è il motore anche dell’islam, che per suo tramite sta uscendo dall’abulia (decadenza). È il proprio dell’uomo nella lettura di Rosenzweig, Buber, Benjamin. Anche di Adorno, che pure è molto critico del “gergo dell’autenticità” di Rosenzweig. Del “Per finire” dei suoi “Minima moralia”: “La conoscenza non ha altra luce che non sia quella che emana dalla redenzione del mondo. Tutto il resto si esaurisce nella ricostruzione a posteriori, e fa parte della tecnica”. Bisogna credere, sono le ultime parole della raccolta di Adorno: “Il pensiero che respinge più appassionatamente il proprio condizionamento per amore dell’incondizionato, cade tanto più inconsapevolmente, e quindi fatalmente, in balìa del mondo. Anche la propria impossibilità esso deve comprendere per amore della possibilità”. Di più: “Rispetto all’esigenza che così gli si pone, la stessa questione della realtà o irrealtà.

zeulig@antiit.eu 

Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto..., e vaffa

Elke König piace a Federico Fubini, la controllora delle banche europee – tedesca, ma non siamo tenuti a saperlo. Così gliel’hanno venduta i promotori del buon nome germanico, come una donna piena di spirito  non già ex Bafin, cioè controllora delle banche tedesche. E lei non si sottrae. Fubini chiede all’ultimo: “Da Berlino centinaia di miliardi di aiuto di Stato alle banche. Ora che toccherebbe all’Italia, in misura molto minore, l’Europa lo impedisce. Due pesi e due misure?” La presidente del Consiglio unico di Risoluzione non tentenna: “Berlino non è fiera degli aiuti di Stato che ha dovuto dare. Ma Gorbaciov una volta disse: chi arriva tardi viene punito dalla storia”. Cioè: prendetevela in quel posto.
Neanche spiritosa per la verità, Berlino che non è fiera…  E non è finita. “Onestamente”, aggiunge la controllora, “l’Italia ha attraversato la prima e seconda ondata della crisi senza interferire con le sue banche”. Cioè stupidamente.
Onestamente forse per lei: Elke König potrà sempre dire, dopo questa intervista, che lei non c’era, un cosa molto tedesca, in genere non c'erano. Anche se era alla Bafin, al salvataggio tedesco – in mezzo a molte ruberie, ci sono stati processi in serie in Germania sulla Bafin.
Il Consiglio unico di Risoluzione, per mettere le mani nelle banche degli altri paesi, Berlino lo ha voluto dopo che aveva salvato le sue. Ma di questo parleremo, forse, in un’atra intervista. Quando König avrà bisogno di dire che lei non c’era – era spiritosa.

Falso in scrittura

Carofiglio passa alla Champions, dalla Sellerio di mezza classifica, con un libro di niente. All’autore, giudice in spe, si porrebbero contestare vari reati: falso in scrittura pubblica, abuso di fiducia, aggiotaggio, furto aggravato – un quarto d’ora scarso di lettura per una dozzina di euro. All’editore anche, l’abuso di posizione dominante – imputazione peraltro scontata, è Berlusconi.
Gianrico Carofiglio, Passeggeri notturni, Einaudi, pp. 98 € 12,50

venerdì 29 aprile 2016

L’anti-Heidegger, anzitempo

Adorno aveva letto i “Quaderni neri”? No, evidentemente. Ma li aveva intercettati, da buon lettore – si era messo sulla stessa lunghezza d’onda, da spione attento. L’editore lo ripresenta nell’edizione che nel 1998 ne hanno dato Remo Bodei e Pietro Lauro, a trentacinque anni dal fatto, o misfatto. Ma non è strano – “segno dei tempi”, della disattenzione - che nessun altro se ne sia ricordato? In particolare, nessuno dei tanti commentatori dei “Quaderni neri”.
“L’ideologia tedesca contemporanea” - “Sull’ideologia tedesca” è il sottotitolo - “evita dottrine bene afferrabili come quella liberale o persino quella elitaria”. “Persino quella elitaria” dice che Adorno è perfido, con Heidegger come con Jaspers, di cui “Il gergo dell’autenticità” soprattutto tratta (in realtà il saggio è cresciuto come una critica a tutto Heidegger“La violenza è insita”, è la conclusione, “tanto nella forma linguistica quanto nel nucleo della filosofia di Heidegger: nella costellazione in cui essa pone autoconservazione e morte”). Ma dice anche: “Essa è passata nel linguaggio”. Cosa è passato, cosa è l’“autenticità”? Il detto-non detto che fa il “gergo”: del risentimento, dell’isolamento, del revanscismo. Adorno sa di avere semplificato – questo scrive in un’avvertenza di qualche anno posteriore al libro: “Desterà irritazione il fatto che i passi di Jaspers e i brani di Heidegger vengono trattati sullo stesso piano di un atteggiamento linguistico che i capiscuola presumibilmente respingerebbero indignati”, ma “i loro pensieri filosofici mettono in luce ciò  di cui il gergo si nutre”. Non sono capibanda ma ne spiegano i motivi. Una osmosi molto evidente, per Heidegger, nei “Quaderni neri”.
A mezzo secolo dalla pubblicazione “Il gergo dell’autenticità” si dimostra dunque vero?
La forma tedesca di risentimento
L’autenticità, il gergo dell’autenticità, “è nel secolo XX la forma tedesca di «risentimento» per eccellenza”. L’autenticità (Savinio direbbe il profondismo) è nella Germania di dopo la guerra un Ersatz per una coscienza critica appuntita, veramente profonda.  Un “sottoprodotto della stessa modernità con cui si vuole in rapporti di inimicizia”, rileva sardonico Adorno. Di questa fa Heidegger il maestro concertatore e cantore, per figurazioni, cifrari, aure. Uno che avvolge “le proprie parole come arance nella cartavelina”, finendo solo per incarnare “la forma attuale della falsità”.
La cosa è più complessa – Adorno si concede qualche battuta, ma poi rigira lungamente la frittata. “Il gergo, come modo di comunicazione «a portata di mano», dà l’illusione di essere immune dalla spersonalizzata comunicazione di massa: proprio questo lo raccomanda all’entusiastico accordo di tutti”. Ma qui non si tratta di tutti, bensì di Heidegger, Jaspers, Husserl in piccola misura, e molto altri, specie del cerchio di Rosenzweig. Il gergo dell’“autenticità” finisce per annientare gli adepti, nel compiacimento risentito: “Il gergo, che nella fenomenologia heideggeriana della chiacchiera meritò un posto d’onore, qualifica gli adepti, secondo la loro opinione, come persone perbene e di animo nobile, proprio come allontana il sospetto ancora sempre vivo di sradicamento” .
Thomas Mann nel “Doktos Faustus”, pouò aggiungere Adorno, “vera e propria cantina di Auerbach del 1945”, “ne intuì con precisa ironia la maggior parte degli usi” . La polemica è filosofica e politica: “Nel gergo sverna felicemente il bipolarismo tra pensiero distruttivo e costruttivo, con cui il fascismo liquidò il pensiero critico”. Adorno se ne sentiva offeso come marxista. Da Jaspers per esempio, “La situazione spirituale del tempo”, che mette sullo stesso piano Marx e il razzismo - “Marxismo, psicoanalisi e teoria della razza  sono oggi i più diffusi occultamenti dell’uomo”. Ma non fa una polemica politica, usa questi riferimenti per dimostrarne la pochezza. 
Denigrare il pensiero attraverso il pensiero
Opportunismo? Dissimulazione? L’andamento a volte libellistico dell’argomentazione indurrebbe al sospetto. Ma non per Adorno, gli “autentici” vanno in buona coscienza: agitano per la massa, le mettono a disposizione “l’antico odio antisofista”. Platone sotterrò la sofistica sotto l’onta di non combattere la menzogna ma di rendere sospetta la verità. “L’antisofistica tuttavia”, e più la sua deformazione “autentica”, “sfrutta la comprensione di tali deformità del pensiero lasciato libero per denigrare il pensiero attraverso il pensiero stesso”.
Heidegger si svolge all’insegna della “autenticità”, proclamata e surrettizia. In “Essere e tempo”. In “Pensiero e poesia” – “volumetto di sentenze, una via di mezzo tra (la forma) poetica e quella del frammento presocratico”. Nei numerosi discorsi e interventi d’occasione: sono molti in effetti i passi che “richiamano i cliché più stinti dello strapaese”. Al meglio “un cascame del romanticismo”. Su un principio gnoseologico ricattatorio: “Heidegger non è per nulla «incomprensibile»”, ma “si circonda del tabù secondo cui una qualunque comprensione lo falsificherebbe subito” . Peggio: “L’irrecuperabilità di ciò che questo pensiero vuole recuperare viene trasformata con scaltrezza nel suo elemento proprio” . Con scaltrezza forse no, esiste anche l’ingenuità, e la dabbenaggine, ma il fatto c’è. Per non dire della scelta politica, per quanto riservata, del Blubo, il Blut und Boden, la patria nazista.
Una contestazione meritevole, al di là della polemica. Sulla vita – la riflessione – dopo la teologia: “Al pubblico viene insegnato il difficile gioco d’equilibrio di aggiustarsi il nulla come se fosse l’Essere; di onorare la miseria evitabile, o quantomeno riducibile, come la cosa più umana dell’immagine dell’uomo; di rispettare l’autorità come tale a causa dell’innata insufficienza umana”. Dopodiché l’autorità si erge senza contrappesi, nefasta: “Poiché non ha più altra legittimazione che non sia la sua cieca e impenetrabile esistenza, diviene radicalmente cattiva”. Il linguaggio “universalmente umano” non fa eccezioni allo “Stato totalitario”: “Hjalmar Schacht riconobbe una volta al Terzo Reich di essere la vera democrazia, dal momento che poteva presentare una maggioranza così considerevole da non aver quasi bisogno di falsificare le cifre elettorali”.
La verità che si tace
A volte persino ovvio – seppure di un ovvio che si tace. Una filosofia che “si aggrappa al cieco destino sociale”, quello che Heidegger dice “ha gettato” il singolo qua o là a caso, “era conforme al fascismo. Dopo la caduta dell’economia liberale di mercato i rapporti di dominio apparvero senza veli”. Non è per caso che “in un periodo in cui il capitalismo industriale del Terzo Reich andava concentrandosi smisuratamente, si poterono raccontare fanfaronate sul sangue e suolo senza essere derisi”. Con l’“autenticità”, la smania di credere, viene peraltro la disponibilità (Zuhandenheit), o stare-a-portata-di-mano del gergo. Fino a contestare la curiosità. Molto è da rivedere nell’etica e la politica di Heidegger - l’antisemitismo, in lui solo di testa, fuori dall’orizzonte quotidiano, forse non è il peggio.   
Una satira, a volte, più che un trattato. Anche se di argomentazioni solide. E un segno di malumore. Adorno mostra, secondo Kracauer, “quanto Heidegger abbia in comune col sudiciume sotto di lui”. Mostrava, nel 1963-64, quando decise di raccogliere in un saggio e poi in un volume le riserve che sulla “autenticità” del filosofo di Messkirch era venuto acculando da subito, già da prima, si può dire, di “Essere e tempo”: non se ne fidava, e i fatti gli avevano dato ragione. Qui arriva alla contumelia. Con chi non faceva i conti con Auschwitz Adorno è cattivissimo. Non senza ragione: non si può fare finta che nulla sia avvenuto, e dare la colpa alla tecnica. Distinguendo peraltro la tecnica propria, buona, dalla tecnica degli altri, cattiva – il ricordo è irresistibile (questo è mancato a Adorno) alla considerazione che l’aereo che porta Hitler da Mussolini è storia… 
Il libro è comunque ben bilanciato, in questa edizione italiana, da Remo Bodei, In una introduzione che ha il passo del libro stesso, e “sistematizza” sia Adrorno sia lo Heidegger di Adorno. In una chiave per molti aspetti contemporaneistica: il saggio di Bodei potrebbe essere stato scritto dopo i “Quaderni neri”, segno di una lettura appropriata dello steso Heidegger, in linea con la sua propria lettura.
Bodei collega l’elaborazione del saggio, su una prima traccia di Adorno, a uno scambio epistolare con Kracauer, che molto aveva riflettuto sull’industria culturale - Kracauer, la cui amicizia con Adorno non subì mai incrinature, che voleva ma non fu ammesso al cerchio degli autentici. E sul fondamento degli “autentici” non tanto in Kierkegaard, come profusamente fa Adorno, quanto in Rosenzweig – un aspetto che Elettra Stimlli contemporaneamente elaborava. Un cenacolo di “intellettuali per lo più ebrei”, nota Bodei: Rosenzweig, Buber, Rosenstcok-Huessy, allievi di Hermann Cohen, l’ultimo kantiano, che ambivano a conciliare la tradizione ebraica con quella tedesca – e per questo si inimicarono Gershom Scholem. Personalità di spessore: Rozenzweig è quello della “esistenza”, Buber del “pensiero grammaticale”, e della “erfahrende Philosophie “, della “esperienza”.
La tradizione di sartoria
Bodei in genera le prende le distanze dalla critica radicale di Adorno. Ma aggiunge – distrattamente, quasi ovvie - due stoccate esiziali, e oggi di moda, anzi magistrali.  Heidegger che gira in costume svevo “tradizionale” che è invece attillato e di sartoria, fatto su misura se non modello unico, “davvero un post-modern, un «citazionista»”. E Heidegger “una figura intellettuale che sa curare tanto la diffusione della propria imagine” – vedi la pubblicazione oggi dei “Quaderni neri”, quando il magistero si indeboliva – “quanto la scelta delle sue parole”. Del resto, il riesame di Heidegger è tanto più apprezzabile (acuto)  in quanto – al contrario dell’imputazione che curiosamente gli muove Bodei – Adorno non conosceva le lezioni friburghesi di Heidegger degli anni in cui Hitler aveva vinto la guerra, col trionfo della “tecnica spirituale” tedesca in Francia e in Norvegia – la Polonia non meritava menzione, o lì la “tecnica spirituale” era anche sovietica?
Il sottotitolo,   “Sull’ideologia tedesca”, può non aver giovato al libro, per echeggiare il vecchio titolo di Marx contro la filosofia di metà Ottocento, più che per il dileggio degli “autentici”, il circolo di Martin Buber, coi suoi molti seguaci di minor nome, e Jaspers con Heidegger. Adorno è quello che, sia pure mero sociologo come lo labellò sprezzante Heidegger, meglio ha visto nel primo Novecento tedesco. Qui, con i “Minima moralia”, e con la voluminosa ricerca”La personalità autoritaria”, 1951, il pendant pedagogico e psicologico dello studio storico e politico di Hannah Arendt sul totalitarismo.
Theodor W. Adorno, Il gergo dell’autenticità, Bollati Boringhieri, pp. LXIII-127 € 16

A Sud del Sud (284)

Giuseppe Leuzzi

Sabato al Sud per Renzi, da Roma a Reggio Calabria, Palermo e Catania, con rientro a Firenze. Tra andirivieni dagli aeroporti, decolli e atterraggi, quanti minuti gli resteranno per parlare di cose serie? Avrebbe fatto la stessa tournée tra, poniamo, Venezia, Torino e Varese, o Bergamo?

La protezione: il supermeccanismo supermafioso, buono anche per la Forza Pubblica, si chiama protezione. Per la Forza Pubblica o apparato repressivo (giudici, polizie) è politica e economica, per la mafia è economica: significa che di ogni buon affare vuole una parte. Solo questo. Allargando l’obiettivo al concorso esterno in associazione di tipo mafioso si colpiscono di più le mafie, oppure di meno?

Il tradimento delle borghesie compradore
Nel 1862 una commissione d’inchiesta sul brigantaggio, presieduta dal moderato lombardo Antonio Mosca, sostenne che il brigantaggio aveva valenza soprattutto sociale: una reazione ai soprusi delle locali borghesie agrarie, che l’unità aveva irrobustito, per le primissime sue leggi, intese a favorirle,  e per i meriti patriottici rivendicati, anche se presunti, con l’appropriazione dei beni comuni, e di quelli ecclesiastici, che invece da secoli erano in conduzione ai coltivatori. La diagnosi non piacque e la relazione fu secretata. A fine anno, il nuovo governo torinese, presieduto da Urbano Rattazzi, succeduto al barone Ricasoli, istituì una vera e propria Commissione d’inchiesta sul brigantaggio.
La relazione Mosca non era piaciuta perché chiamava in causa, con le nuove borghesie meridionali, i loro rappresentanti in Parlamento. Molti dei quali erano della Sinistra, peraltro, e molti meridionali, vecchi emigrati prima dei Mille. La nuova inchiesta fu voluta dalla Sinistra. Per allontanare i dubbi del rapporto Mosca, e per indagare i torti inflitti ai contadini, il perché molti di loro avevano preso le armi, per una sconfitta certa.
Della Commissione, nove membri, fecero parte noti garibaldini: Aurelio Saffi (Forlì), Nino Bixio (Genova) e Giuseppe Sirtori (Milano). Con un altro ligure, Stefano Castagnola, e cinque meridionali: Stefano Romeo (Reggio Calabria), Achille Argentino (Melfi), Antonio Ciccone (Nola), Donato Morelli (Cosenza), Giuseppe Massari (Bari). Quest’ultimo, il più giovane, fu incaricato di redigere la relazione.
I nove s’imbarcarono il 7 gennaio 1863 a Genova, giunsero a Napoli tre giorni dopo, vi restarono due settimane, quindi, con grande scorta armata, si misero in marcia verso il Foggiano. Bixio ne fu disgustato: “Davvero mi fa schifo tutto quello che vedo in questo paese!”, scrisse alla moglie, “Che paesi!  Si potrebbero chiamare dei veri porcili!”, “Questo popolo in massa è almeno tre secoli indietro rispetto al nostro”. La moglie di Saffi ebbe invece dal marito lettere coloristiche, e anche ammirate.
Bixio lascerà dopo poco la politica, per tornare in mare – finirà in Malesia, per morirvi di febbre gialla, nel 1873. Ma non prima di avere avuto soddisfazione dalla relazione del tarantino Massari. Giordano Bruno Guerri (“Il sangue del Sud”) estrapola dalla relazione del parlamentare pugliese mezza pagina di epiteti infamanti – “l’intera inchiesta fu infarcita di luoghi comuni, di pregiudizi e di stereotipi razziali”: “Misero ceto, orde di masnadieri, infame banda…”. La lotta al brigantaggio era “la peggior sorta di guerra che possa immaginarsi è la lotta tra la barbarie e la civiltà” ..
Le borghesie del Sud – intellettuali, della manomorta, degli affari – hanno svolto il ruolo che nelle società arretrate del Terzo mondo è stato teorizzato come “compradore”. Quelle del Sud non rispondono esattamente al termine, non si sono segnalate come sbocchi di esportazione. Ma sì nel ruolo di sicofanti: di facilitatori della conquista. Anche gratuiti. Cioè no, in realtà:erano – e sono - politici, ministeriali, appaltatori, profittatori di regime, corrotti passivi e attivi ai sensi del codice penale e non. Ma convinti, sempre nel giusto - deprecatori, a loro volta, della locale barbarie.
Fu un altro deputato meridionale, l’abruzzese Giuseppe Pica, a redigere la legge che porta il suo nome, in forza della quale quasi tutto il Sud continentale fu dichiarato a Ferragosto del 1863  “in stato di brigantaggio”. Con la sospensione di ogni garanzia di diritto: una ventina di giornali furono quotidianamente censurati e spesso sequestrati, ottantanove consigli comunali furono sciolti. Trentanove nei soli territori circoscritti della Terra d’Otranto e del Teramano. Che erano due delle cinque aree del Sud escluse dallo stato d’eccezione, insieme con Napoli, Bari e Reggio Calabria. 

Calabria
Non si trova l’origine del bergamotto, della pianta e della parola. L’agrume la cui essenza è necessaria per stabilizzare i profumi. Che si produce nella zona jonica che da Scilla contorna Reggio Calabria fino a Bova. Si fanno convegni, si finanziano studi, e niente. Ma non si capisce se è il bergamotto elusivo, oppure l’intelligenza.

Una teoria dice il bergamotto bergamasco. Un documento è stato trovato che dice la “lumia bergamotta”  “uno di que’ peri che, come vuole l’Aldovrando, erano stati trasportati per il resto d’Europa da Bergamo”. È stato trovato non da bergamaschi, gente pratica. Anche perché una petra difficilmente è configurabile come l’acerbissimo bergamotto.

Un’ipotesi alternativa lo vuole Beg Armudi, “pero del Signore” in turco. E perché? “Alcuni turchi vendettero un rametto di Beg Armud o Pero del Signore alla nobile famiglia dei Valentino di Reggio Calabria”, cui il canonico di famiglia Giuseppe Morisani attribuì l’acquisto illuminato e la diffusone della pianta. Al punto che in Turchia se ne perdette la memoria.

Il cedro ha avuto note proprietà cosmetiche, vantate da Ovidio. E fino, almeno a Boncompagno da Signa, che le vanta per accenno, come di cosa molto cognita, nella “Rota Veneris”, a fine Millecento.  Ora la coltura si riduce ogni anno, a Cetraro, e solo anzi in ragione della richiesta dei rabbini europei per usi rituali. L’idea che una cosa si possa (debba) vendere non è di questo mondo.
O forse non si vuole contraddire il detto: chi ha il pane non ha i denti.

Il “ritorno” è un genere molto praticato al Sud. Non tanto dagli emigrati transoceanici, più da quelli di Torino e Milano. E al Sud più che altrove è praticato in Calabria. I giornali locali sono pieni di lettere e testimonianze di ritorni. Tutti avvelenati. Tutti ricordano un mondo bellissimo e non hanno parole per vituperare il presente. Evidentemente, c’è una vena masochista nella psiche calabrese.

Nessuno ha ricordato Raf Vallone nel centenario della nascita l’altro mese. Grande animatore culturale, da molti carati, oltre che attore di personalità e successo, al cinema e in teatro, calciatore del Torino da giovane e critico cinematografico, responsabile della terza pagina dell’“Unità” di Torino da indipendente, non tesserato del Pci, e critico professo di Stalin. Un “santo”, quasi perfetto oltre che bello e acuto, ma nato inutilmente e cresciuto a Tropea.
Aldo Cazzullo del resto, nel suo omaggio a Torino negli anni del dopoguerra, “I ragazzi di via Po”, ne fa un grande personaggio ma non menziona nemmeno la sua nascita e l’emigrazione.

Non c’è legge. Non ci sono regolamenti urbani.  Ma se avete targa non locale e sforate di dieci minuti il permesso di parcheggio la multa vi arriverà a casa nell’arco di due giorni. L’efficienza può essere rapida.


L’intransigenza pure, che non si direbbe in terra di intimidazioni e grassazioni. La legge Merli fu applicata all’istante quarant’anni fa, sulle acque reflue. Carabinieri, Finanza e Pretori sanzionarono e chiusero i frantoi oleari a centinaia, perché inquinavano fossi e torrenti. Mentre si può vedere tuttora nei mari pregiati della Versilia l’inquinamento galleggiare in superficie, trasportato dai torrenti dove ognuno scarica quello che vuole. La giustizia sa essere terribile, in questi paesi senza giustizia.

Fu in Calabria che l’esercito borbonico si sciolse – in Sicilia si limitò a non combattere. Più di due terzi dell’organico in Calabria defezionarono. Molti per soldi e per promesse di carriera.

Il lavoro immigrato sottrae risorse? Dipende dall’entità delle rimesse all’estero: in quale proporzione il reddito guadagnato localmente vi è anche speso, oppure è invece tesaurizzato, e speso all’estero. Questo per la teoria economica, dei flussi delle partite correnti. Di fatto, per esempio in Calabria, il lavoro immigrato crea risorse e ricchezza. Una mentalità non razzista, portata naturalmente all’accoglienza, si è ritrovata nell’arco di una generazione nelle zone joniche degli sbarchi dalla Turchia isole di nuova prosperità, a Riace, Caulonia, Stignano, Badolato. 
Non l’eldorado, non ci sono scorciatoie. Ma Riace, che per primo dodici anni fa ha deciso di integrare gli immigrati, un paio di centinaia, ha visto i residenti crescere da 1.700 a 2.200. Una primavera demografica e una rifioritura delle attività artigianali e degli affari. 

leuzzi@antiit,.eu 

giovedì 28 aprile 2016

Il mondo com'è (259)

astolfo

Barba – È stata a lungo segno di saggezza, si riprende per questo? Barbe finte sono in gergo le spie. Ma a lungo si è giurato per la barba, l’onore del mento. Nella Bibbia e anche nel Corano. Gesù Cristo è sempre raffigurato con la barba. Gli egiziani si radevano, ma poi mettevano la barba (finta) anche alle principesse, come segno di autorevolezza. Si raffigurano con la barba i filosofi greci. E alcuni imperatori romani – l’imperatore filosofo Marco Aurelio, e lo stesso Giuliano l’Apostata, autore di un “Odiatore della barba” – un trattatello antifrastico contro i detrattori siriaci che avevano avuto da ridire sulla sua barba.
A Parigi, nella seconda metà del Cinquecento, al tempo delle guerre  di religione, i magistrati furono costretti a tagliarsi la barba prima di assumere la carica.
Barthes ne è molto impressionato per quanto riguarda i cappuccini, la cui barba egli assume al centro del “circuito mitologico” dell’ordine: senza barba niente cappuccini. Lo stesso per molte confessioni islamiche.
Il lungo viaggio in Europa convinse lo zar Pietro il Grande che le abitudini dell'Europa occidentale erano, in generale, superiori alla tradizione russa. Ordinò perciò ai cortigiani ed ufficiali, oltre che di vestire all’occidentale, di tagliarsi le lunghe. I boiari che vollero conservare la barba, quasi un simbolo del loro status, dovettero pagare una tassa di cento rubli all'anno.

Fu “l’onore del mento” laico, massonico. Ma di più è segno di fede religiosa: Il mussulmano fervente porta la barba incolta in onore di Maometto, che si presume portasse la barba. Molto coltivata dai pope ortodossi è la barba a due punte, o barba greca. Vecchia materia di discordia con la chiesa latina. Al cardinale Bessarione la barbetta a due punte costò il papato: entrò papa al conclave del 4 aprile 1444, alla morte di Niccolò V, ma la barba indispose i cardinali.

Capelli  - Sono essenziali per i politici in Inghilterra. John Major divenne primo ministro - successore di Margaret Thatcher per una rivolta di palazzo dei conservatori – solo perché si pettinava accuratamente, con apposito pettinino che portava nel taschino, prima di uscire in pubblico, o farsi fotografare. Il sindaco di Londra invece i capelli se li scompiglia, prima di uscire in pubblico o farsi fotografare. Il principe Carlo cura maniacalmente la messa in piega.
Lo stesso si può dire in Italia. Numerosi sono i riporti, a partire da Berlusconi e Conte – o forse sono trapianti massicci. Renzi invece si pettina trasandato, per l’immagine sempre da Giamburrasca.
Sono vezzi – esigenze – da media potenza? Non curano la chioma negli Usa e in Russia. Cambierà qualcosa anche lì.  Eltsin ne era maniaco - Putin comunque non potrebbe. Tra Clinton e Trump la sfida è anche nella cura della capigliatura.

Eurabia – È il disegno islamico al centro di “Sottomissione”, il romanzo di Houellebecq, della “vecchia Bat Ye’or”. Ben Abbes, il presidente islamico della Francia, prepara l’Eurabia della trascurata Bat Ye’or – di cui Lindau ha recuperato negli ultimi anni la serie di profetici libri sull’assoggettamento della cristianità all’islam. Senza assedi e senza eccidi, con un progetto politico anzi suadente per tutti. Comprese le donne, finalmente felici di essere mantenute e non dover correre tutto il giorno – la poligamia è in realtà una divisione del lavoro…: “La vecchia Bat Ye’or non ha torto con il suo fantasma del complotto Eurabia”, Houellebecq fa dire al suo protagonista: “Ma sbaglia di grosso quando immagina che il complesso euro-mediterraneo si troverà, rispetto alle monarchie del Golfo, in posizione di inferiorità, perché in realtà diventerà una delle prime potenze economiche mondiali”.
L’Eurabia Houellebecqiana è quella di Augusto: “Potrebbe essere una grande civiltà”. Il progetto del presidente della Francia alle elezioni del 2022, l’islamico Ben Abbes, è una “Europa romana”: “Il suo grande riferimento è l’impero romano – e per lui la costruzione europea non è che un mezzo per realizzare questa costruzione millenaria”. Con un addendo: “L’asse principale della sua politica estera sarà lo spostamento del centro di gravità dell’Europa verso il Sud”. Turchia e Marocco subito, poi Tunisia e Algeria. Quindi il Libano, con l’Egitto, “un osso duro”. E non escluse Libia e Siria.
Bat Ye’or, oggi ottantatreenne, ha scritto i suoi libri di veemente polemica antislamica una ventina di anni fa. Culminandoli nel 2005 con “Eurabia: l’asse euro-arabo”. È studiosa della condizione dei cristiani e gli ebrei nel Medio Oriente governato dalla legge islamica: “una condizione di paura e insicurezza” che i governi infliggono legalmente, in quanto cristiani ed ebrei sono “infedeli”, e quindi tenuti ad “accettare uno stato di umiliazione”. È la scrittrice Gisèle Orebi, egiziana di nascita, al Cairo nel 1933, ebrea di famiglia, residente in Inghilterra e naturalizzata britannica. Privata dei beni, con tutta la sua famiglie, nel 1956, per le nazionalizzazioni antiebraiche decise da Nasser nella prima guerra dell’Egitto contro Israele per il possesso del Canale di Suez, emigrò l’anno dopo nel Regno Unito. Dove ha sposato David Littmann, cardiologo americano, professore a Harvard. Lo pseudonimo significa “figlia del Nilo”.

Fascismo – Fu un passaggio surrettizio di consegne, dopo un colpo di Stato, a opera della monarchia e degli interessi costituiti, quelli toccati nel Nord Italia dalle settimane rosse, non un voto o un plebiscito popolare o comunque di massa - come fu invece di Hitler e del nazismo. Era questa la lettura storica iniziale del fascismo nel dopoguerra. Prevale ora quella dell’adesione spontanea e di massa. Forse eco del lavoro di ricostruzione che De Felice ha fatto degli “anni del consenso”. Che però furono tardi, e che il fascismo si procurò con un’azione di governo in cui la dittatura fu mitigata a vantaggio del governo sociale, per le donne, l’infanzia, la sanità, il territorio, il lavoro, l’economia (l’uscita dalla crisi del 1929 fu molto ben governata), le opere pubbliche ora infrastrutture. Il fascismo fu imposto con un colpo di Stato. E mise tre anni a preparare le leggi speciali che instaurarono la dittatura – Hitler vinse un’elezione dopo l’altra.

Primo maggio – Segna il martirio di una mezza dozzina di anarchici tedeschi a Chicago nel 1886: Oscar Neebe, George Engel, August Spies, Adolph Fischer, Louis (Ludwig) Lingg, Michael Schwab, Samuel Fielden. Sei immigrati più uno di famiglia tedesca, Neebe. Più un cittadino americano, Albert Parsons. Per una bomba lanciata nello Haymarket contro i poliziotti che confrontavano gli scioperanti. Uno dei poliziotti morì. Gli otto, passati alla storia come i “martiri di Chicago”,  furono poi riconosciuti innocenti.
Non tutti furono giustiziati, solo cinque. Neebe, praticamente dimenticato al processo, ebbe poi una condanna a quindici anni. Fielden e Schwab ebbero la pena capitale commutata in ergastolo. Lingg si suicidò in carcere la mattina dell’esecuzione. Engel, Fischer, Spies e Parsons furono impiccati. Le condanne a morte furono inflitte non per il lancio della bomba ma per avere organizzato lo sciopero e la manifestazione.
Spies arringava la folla su un carretto. Pacificamente. Fino a che i polizizotti non avanzarono ordinando ai manifestanti di disperdersi. A quel punto un piccolo ordigno fu lanciato sopra la testa di Spies contro i poliziotti e ne uccise uno. La polizia prese a sparare a bruciapelo, facendo undici morti e un centinaio di feriti – molti non si fecero curare per non essere denunciati. Sette dei morti furono poliziotti, vittime del “fuoco amico”.
I cinque giustiziati furono sepolti nel cimitero Tedesco di Forest Park, alla periferia di Chicago.

Teresa d’Avila – La santa per eccellenza avrebbe tutto per non essere santa. Si accerta ebrea, lo era suo nonno: senza quindi la limpieza de sangre prescritta al suo tempo, cui si arrivava coi quattro quarti. Ma è stata santificata con cognizione di causa, bisognava che gli ebrei accettassero il cristianesimo. A sette anni cercava il martirio dai maomettani. Prese il velo scossa dal trasporto per una cugina. E resta per il nunzio Luciani, poi papa Giovanni Paolo I, “femmina inquieta, vagabonda, disobbediente, contumace”. Una santa che l’amorosa biografa Vita Sackville-West, l’amante di Virginia Woolf, dice “un’aquila” – l’aquila è tutto ciò che è maschile, benché femmina in italiano.

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Quante risate prima del suicidio

Una buona metà di queste prose sono già confluite nella raccolta precedente curata da Santino Salerno, “Il cavallo Ungaretti”. Ma si leggono anche esse con gusto. Di “ironia corrosiva” e con qualche “eccesso”, come avverte il curatore, ma di straordinaria fantasia e dominio del linguaggio, capace di sbalzare gli aneddoti e i personaggi più insignificanti, facendoli straordinari, per bislaccheria ugualmente che nell’ordinario, e  inverosimili perché veri, reali.
Ma Zappone è anche l’enigma del suicidio. Nel 1976, a 65 anni, senza ragione percepita o immediata, dopo una vita intraprendente, benché sempre a metà: Zappone osava e poi si fermava. Se una vita non spiega il suicidio, argomenta Salerno, un suicidio spiega una vita: l’inquietudine dietro il sorriso è stato il suo demone costante, “un dissonante rapporto con la vita”, dietro l’arguzia e l’irrisione. Dietro la “zannella”, lo scherzo bonario che è per i molti un abito mentale locale, da cui Zappone, attestava Totò Delfino che molto lo frequentò in attività giornalistiche, non sapeva e non voleva separarsi. “Lo scherzo non conosce altro scopo che il suo proprio esistere”, stabilisce Jean Paul, lo scrittore scherzoso per eccellenza. O il segno non è il lutto, la luttuosità?
“Assurdo” è la parola più ricorrente nei suoi scritti, nota il curatore. Ed è una della chiavi narrative di Zappone, la “scoperta” del lato assurdo delle cose. Ma un’altra è la giocosità – il riso più che il sarcasmo. E sempre la memoria compiaciuta, netta, consolatoria: i giochi da ragazzi, bradi a Palmi tra monte e mari, “una volta il mondo era popolato di amici”, e “il paese a quei tempi era nelle nostre mani”, i “Giganti” della festa, il cerimoniale dell’uovo fresco rosolato al braciere, i deserti che il terremoto provoca, di affetti nonché di cose, la città nel suo ricostituirsi post-distruzione (terremoto, bombardamenti), la salsiccia, la vendemmia, la campagna fradicia di fine autunno, le violette di campo, gli usi propiziatori (il fuoco dell’ultimo sabato di luglio), e sempre la presenza amica del padre. Più alcuni ritratti per qualche aspetto memorabili, nella seconda metà, quella nuova, della raccolta. Cilea riservato, la gloria locale a cui tutto viene intestato. Répaci frantoiano, incapace per anni di venire a capo delle misure borboniche per la stima e la raccolta delle ulive, al punto da non saperne calcolare la resa.
La presentazione di Salerno è un racconto del racconto. Zappone fu famoso negli anni 1950 per una rubrica alla Rai regionale, dove suicidò un pesce spada, e fece attraversare lo Stretto a nuoto a un cane fedele, che il padrone aveva abbandonato in Sicilia non potendosi permettere la tassa comunale, da Messina a Scilla. Due storie che valsero, racconta Salerno, “a Giuseppe Gagliostro, arpionatore di Palmi, ignaro del fantomatico suicidio del pescespada, e Rocco Gallì di Scilla, proprietario di Bob, il cane che il mare lo aveva sempre guardato a debita distanza, anch’egli ignaro dell’abbandono,… l’assalto di uno stuolo d’inviati speciali che invasero Scilla e Palmi” – “Rocco Gallì, in particolare, fu destinatario di centinaia di lettere piene d’insulti…. Un avvocato, indignatissimo, gli inviò dal Cairo una banconota con un lapidario messaggio: «sfamati e sfamalo!»”. Uno scrittore ancora in grado di “farsi” la realtà, la sua realtà – così come “faceva” la cronaca, come attestava amabilmente Totò Delfino, suo compagno di reportages giornalistici.
Un narratore “nato” – uno dei tanti – inabissatosi con la sua terra, la Calabria, per una sussidenza inarrestabile. Scrittore di molti mondi – l’ultimo suo pezzo, qui non incluso, pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” il 12 ottobre 1976, venti giorni prima del suicidio, è “Stringente malia di Praga, città di alchimisti e di maghi” . Ma più del suo mondo: “una Calabria”, nota Salerno, “d’altri tempi, una regione in bianco e nero, vista dal vivo in tutta la sua carica di umanità, di fede, di caparbietà, di miseria, di cultura popolare e di cultura alta, e soprattutto di dignità”. Soprattutto di dignità, il bene perduto. Da un’umanità mite, tanto da farsene una colpa - probabilmente la colpa. Troppo: romantica, malinconica, e per questo succube. Non facinorosa, al contrario: “nonviolenta”. Aspetta il raggio verde. Guarda il mare, le isole, lo Stretto, l’Etna. Si culla nelle tradizioni e nel mito. Preda offrendosi senza difese alla violenza.
Zappone rimase ai margini per problemi, soprattutto, caratteriali. Corrispondente a lungo di un affettuoso e ammirato Sciascia, patrocinato a Roma da conterranei illustri, Répaci, Altomonte, subito in gara al premio Viareggio, all’esordio nel 1952 con l’opera prima “Le cinque fiale”, candidato da Répaci. E tuttavia: non sarebbe stata un’altra storia se il Viareggio lo avesse vinto – lo perse per un solo voto, gli mancò quello del proponente Répaci? Il destino a volte è insormontabile.
L’infanzia più di ogni altra cosa era stata il paradiso – o l’innocenza smarrita, pur tra violenze e imprudenze. In ospedale a Roma, nel 1949, “sollecitato da una sottile pena”, chiede ai compagni di degenza quali giochi praticassero da ragazzi. “Che giochi?” fu la risposta. Lui era stato felice, solo lui - “I miei compagni era nati vecchi”. Salerno è in grado di ricostruire alcuni giochi che Zappone menziona, ancora in uso a metà Novecento, ma sembrano arcani, tanto sanno di remoto. La raccolta è anche di antropologia viva.
Domenico Zappone, Le maschere del saracino, Rubbettino, pp.128 € 10

mercoledì 27 aprile 2016

Un mini-euro per la Germania

I mercati hanno smesso di speculare contro l’euro, i costi della speculazione semifallita contro il debito italiano ancora pesando. Ma l’opinione è diffusa che la Germania cerca un ridimensionamento dell’euro: un ritaglio dell’area euro a pochi selezionati paesi.
Il percorso non sarebbe stato posto ufficialmente solo perché non si potrà in alcun caso lasciare fuori la Francia. Che Berlino però ritiene a questo punto un peso, per l’incertezza politica e le inadempienze economiche. Ma il consenso nei gruppi dirigenti tedeschi, poltici e economici, compresi gli industriali e i sindacati, sarebbe pressoché unanime, e senza vere obiezioni.
Dal punto di vista politico, una iniziativa sull’euro (contro l’euro nel suo attuale assetto) sarebbe comunque imminente per arginare la xenofobia. L’opinione nella Germania è ancora relativamente controllata, ma l’alluvione della xenofobia in Austria è ritenuta contagiosa. Tale da superare la prudenza che il tedesco si è imposto dopo la guerra – che comunque, a tre generazioni dalla sconfitta, si è mostrata alle ultime regionali già diluita. .

I due forni di Angela Merkel

Angela Merkel si è accreditata nei primi anni 2010, i peggiori della crisi dell’Europa, come l’unico argine allo sciovinismo in Germania, al ritorno del nazionalismo angusto e esterofobo. Specie contro i mediterranei, i latini, e l’Italia. E contro gli immigrati.
Sugli immigrati può avere ragione. Ma è a favore dell’accoglienza perché l’industria tedesca ne ha bisogno – ha bisogno di manovalanza a buon mercato, lasciando quella tedesca, che è indisponibile e comunque pretenderebbe paghe alte, ai mini-job “pagati” dal governo federale. Ma nell’insieme la cancelliera venduta dal freddo non è quella della “pace armoniosa”. Non è più così da un paio d’anni. Non lo è specie con l’Italia, da quando non c’è Napolitano e c’è invece Renzi. Senza che ci sia, probabilmente, un rapporto di causa ed effetto tra i diversi interlocutori e il diverso segno politico. Ma un fatto è certo: la Germania agita l’Europa e minaccia di disintegrarla. La Germania di Merkel.
È senza precedenti, e non si saprebbe dire quanto aggressivo, l’attacco continuativo e costante della Germania alla Bce, e alla politica antideflazione della Unione Europea. Senza precedenti perché è sempre stata regola delle autorità monetarie di evitare la politica degli annunci. Specie di quelli disgregatori, del sistema monetario e del sistema bancario. Organismi delicati che esigono la discrezione. Questo è invece quello che fanno le autorità monetarie tedesche, parlare contro cercando la massima eco: il ministro del Tesoro (delle Finanze secondo l’ordinamento tedesco) e il presidente della Bundesbank. A settimane alterne Schaüble e Weidmann seminano il panico sulle piazze finanziarie. Non ci riescono, non più per fortuna, ma ogni settimana hanno da denunciare, non casualmente, e da pulpiti scelti per l’eco maggiore, questa o quella falla nella politica monetaria e bancaria della Bce e della Ue. Ci tentano, al massimo della loro capacità. Poi dicono che non hanno detto quello che hanno detto, ma la settimana dopo reiterano.
Ieri il presidente della Bundesbank è venuto a Roma, nella sede dell’ambasciata, a leggere un rapporto di trenta pagine, in cui accusa l’Italia di inadempienze verso le regole di stabilità europea, e auspica un aumento degli spread. Un avversario dichiarato dell’Italia e dell’euro non avrebbe potuto fare peggio. Se anche l’Italia fosse stata in passato inadempiente, un presidente di una banca centrale avrebbe cercato un rimedio senza grandi annunci pubblici, e anzi ufficiali. Ma non è il caso: l’ Italia non è inadempiente. Lo è stata invece la Germania, allegramente, tra il 2004 e il 2006, ma Weidmann non è un incauto, è uno che creare scandalo, non importa come, meglio dicendo bugie.
Questa politica è direttamente riconducibile a Angela Merkel. Che si può anche dire “andreottiana”, del “fare surrettizio”. Compresa la politica dei due forni: qui dell’assicurazione e dell’aggressione, invece che della destra e sinistra intercambiabili. L’egemonia tedesca ha proiettato nel suo decennio  in Europa in modo asfittico, alimentando un’opinione pubblica aggressiva e pre-nazista, senza alcuna ragione obiettiva, e nemmeno apparente. L’italiano “mette le mani in tasca al tedesco”, il “dibbattito” è a questi livelli. Schaüble è a tutti gli effetti un uomo di Merkel: è l’unico della vecchia guardia cristiano-democratica che la cancelliera non abbia rottamato, a partire dal suo mentore e patrono Helmut Kohl. Weidmann è un giovanottone senza pedigree, e senza altre credenziali che essere stato un diplomato in Economia nella segreteria di Angela Merkel.
Si deve a Merkel la nuova Germania, completamente dimentica del suo recente passato, quando fu salvata dall’Europa.

C’è una manina dietro la Libia

Sono le forze armate italiane, il ministero della Difesa, palazzo Chigi, il ministero degli Esteri, dietro le reiterate – tre o quattro ormai – notizie sicure che soldati italiani sbarcheranno in Libia? No. Perché allora la “notizia” è data per certa?  Dai maggiori giornali, da Sky, e dalla stessa Rai?
C’è comunque un generale, un consigliori, un qualche viceministro dietro l’annuncio? Improbabile. Sanno tutti che le truppe straniere in Libia non sarebbero ben accolte. E quelle italiane peggio di tutte. Certamente non risolverebbero la guerra civile. E sarebbero un bersaglio grosso.
Come e dove nasce allora la notizia? C’erano una volta le notizie di guerra date da questo o quel paese coinvolto. Casi da manuale storico. Per esempio quello di Mussolini diventato interventista nel 1915 (anche) con i soldi della Francia. Ci sono ancora soldi? Improbabile, anche questo. Ma la buona volontà c’è, di nuocere.

La dementia praecox, che spasso

Scomparso, come tutta la Svizzera, inquieto, scuole al riformatorio, Legione Straniera, lavapiatti per vivere, vita breve, si rilegge con estremo interesse: uno dei giallisti più godibili e resistenti. Le sue opere, anni Trenta, sono state tradotte sessant’anni dopo con successo, e sono ancora richieste. Gialli per lo più, con qualche selfie. Tra cui questo “Morfina” - un breve diario e molte note a tema: “Scrivere”, “Colomb-Béchar”, “Il 4 luglio”, “Asilo notturno”….  .
Una miniera, si vede che era morfinomane in modica quantità. I non-eventi spiccano per la loro vivacità. Il turismo, così pieno di noia. Il cubismo e la vetrina degli alimentari a Nervi. Il “padre” associato a “odio”, “punizione”, “inutile” e “letteratura”. E la dementia praecox sempre in agguato, naturalmente: diagnosticata allo scrittore ma anche a Hölderlin, e un po’ a “tutti i poeti, eccetto Goethe”. Tutti impegnati in un difficile equilibrio, lungo “la linea ágona”, il luogo dei punti della superficie terrestre nei quali la declinazione magnetica è nulla – si potrebbe cadere di sotto?
Rimedi non ce ne sono, ma per il resto tutto va bene. L’analisi non è inutile: “Durante l’analisi si disimpara a mentire”. Anche perché “niente sfinisce più del non far niente”. Ma:  “Rarissimi sono coloro che hanno come arma la felicità e il sorriso”. Quasi una filosofia.
Friedrich Glauser, Morfina

martedì 26 aprile 2016

Che brutte facce a Hannover

Quattro litiganti e un federatore, esterno. Non si sa se più squallida o più deplorevole la scena europea dei quattro convenuti ieri ad Hannover da Obama. Per prendere lezioni di statemanship, ma da scolari negligenti.
Che brutte immagini. Sul fondo un francese che, benché socialista, non differisce in niente dal rivale gollista, lo squalificato Sarkozy, e solo ambisce a un po’ di gloria per i suoi generali, possibilmente con un pezzo di Libia. Ora – pensa, gli fanno pensare, anche il venerabile “Le Monde” – la Cirenaica, che ha il petrolio. Con Al Sisi, di cui si fida. Un imbelle se non un imbecille.
In primo piano sghignazza un inglese col conto a Panama, uno di quelli che non sanno dove la Libia è, ma trovandosi in Africa la considerato terreno di caccia libera. Sportivo, come no? Il proposito di Cameron, dicono i suoi indipendentissimi giornali, è di conquistare Mossul in Iraq, Raqqa in Siria, e Sirte in Libia: tutto il petrolio dei tre paesi, così d’un colpo. Non si capisce se sia il solito inglese vantone oppure un altro cretino – sfidato in patria da quelli che vorrebbero mollare giustamente le chiacchiere e pensare sul solido ai fatti loro.
Il giovanottone Renzi ride come al solito, felice di essere ammesso tra i grandi. Sa di non contare niente. E forse è meglio così: passare alla storia con Hollande e Cameron sarà un marchio disonorante perpetuo.
Obama sta triste con gli occhi bassi. Evidentemente non pensava di trovarsi tra i piedi tanta indigenza.
Siedono i quattro congregati a Hannover, dove il tedesco si parla quasi inglese, da una Germania a cui tutti questi arabacci non potrebbero frega’ de meno. Ma gradisce poco l’Italia, e vorrebbe che si tenesse tutti gli africani e gli asiatici che vi sbarcano.
Tutta la manfrina mena a questo. Dice: ma i migranti sono troppi. Da mo’? Bisognava e bisogna fermarli all’origine, dare loro una speranza, sia pure minima, che li radichi a casa loro, non esporli al debito e al rischio della vita. L’Italia lo propone da tempo ma i teutoni non ci sentono - loro al di là degli sbirri, e del surplus commerciale, non sanno guardare.

L’europeismo come il Risorgimento, una camicia di forza

Per l’Italia è stata dura in questi anni di germanesimo, e più lo sarà. Sola, isolata, senza sponde, non riesce a venire fuori dalla crisi, e più dura sarà in futuro.
Legarsi alla Germania, la Germania di Angela Merkel, non paga e anzi è controproducente: nelle politiche monetarie, in quelle economiche e di blancio, in quelle commerciali, e nell’opinione. La Germania non è mai stata un buon amico di nessuno, neanche l’ombra, per dire, degli Usa dopo la guerra col piano Marshall – se non quando ha avuto i russi in casa, nell’estremo bisogno.
Guardare agli Usa sempre è a questo punto l’unica convenienza, oltre che un obbligo, ma non basta: è un gioco utile di sponda, ma non risolutivo. L’Italia è comunque legata agli alleati europei, anzi federati, infidi.
L’Italia nella Ue è un po’ come il Meridione, che dipende da Milano: non c’è via d’uscita.
Si può sempre sperare che la Ue si dissolva, qualche beneficio non potrà non risultarne. Ma è come per l’unità d’Italia, è vano sperare che scoppi: la Germania, e la Francia con l’Inghilterra, ne approfittano troppo per farla fallire – tirano la coperta ma per un briciolo in più dalla mensa di Bruxelles. Bisognerà barcamenarsi e sperare per il peggio, che si dissolvano tutti, questi complessi unitari in favore di questo e di quello?

La sottomissione è dell’Europa, per l’infausto patto anti-Fn

Ma è un libello politico, di un lepenista. Non dichiarato – nessuno dichiara di essere fascista – ma evidente. Ribadito perfino, in più maniere. Non c’è altra lettura alla rilettura: un’invettiva articolata e argomentata dietro l’irrisione, e piena di effetti appassionanti se non convincenti (analisi, ipotesi, le stesse informazioni), ma è una resa dei conti col fronte “repubblicano”, della diga anti Fronte Nazionale.
Lo spento Hollande è stato confermato nel 2017. Nel 1922 il Fronte Nazionale è dato vincente al ballottaggio, e allora socialisti e gollisti si schierano per l’inafferrabile Centro, ora nelle vesti della Fratellanza Mussulmana – esumando come “pontiere”  il solito Bayrou, il Centrista per eccellenza, che Houellebecq non ha parole per  ingiuriare abbastanza. Il narratore identificandosi col protagonista.
Il protagonista si nasconde dietro Joris-Karl  Huysmans, l’autore di cui è specialista – è professore universitario. Tradizionalista e contemporaneo, riconvertito cattolico, sincero credente ma monaco senza convento. Di cui celebrerà l’apoteosi, con tre volumi della Pléiade. Su commissione indiretta del nuovo regime islamico, di cui accetterà infine la lusinga, sotto forma di invito alla Sorbona dei nuovi padroni, i principi sauditi, munifici (stipendio triplicato, in alternativa al baby-pensionamento a trattamento intero) e magnanimi (libertà assoluta d’insegnamento). Dopo essere sfollato precauzionalmente,  quando il regime islamico si prefigurava, a Rocamadour. Nella via dell’esilio in Spagna cui in realtà non pensa, e che è invece un pellegrinaggio alle radici della Francia. Con le quali stabilirà un ultimo fuggevole contatto con l’incanto per la Madonna Nera del santuario, espressione di un Medio Evo che seppe essere grande per mille anni – un fascino che non è iù in grado di reggere.
Bayrou è nel mirino insieme con gli “identitari”, nazionalisti di sacrestia, sciovinisti e, loro sì, un po’ fascisti, salvo convertirsi umilmente al nuovo regime, e anzi abbracciare l’islam, altrettanto convinti – quelli che “comunque una religione”. Entusiasti della nuova condizione femminile, un donna in età per la cucina e una ragazza “per le altre cose”, ma non solo. Il regime islamico è generoso e culturalmente pluralista. Include e non esclude. E instaura il distributivismo, la dottrina sociale di Chesterston e Belloc, due oltranzisti papisti, nonché il principio di sussidiarietà di papa Pio XI, “Quadragesimo anno”. All’insegna del “se l’islam non è politico non è niente”, il motto del presidente Ben Abbes. L’islam francese del resto presto si autonomizza dagli ingombranti vicini petroliferi, integralisti di ceppo wahabita-salafita, col tutto elettrico nucleare, compresa l’automobile.
Una divagazione insomma bene informata e inventiva. Se rancorosa non lo fa pesare. Si beve anche molto, sempre, in questo regime islamico. Il tutto condito dai soliti intermezzi porno, uno ogni diecina di pagine, come l’editoria di mercato vuole – Houellebecq è un estremista anche nella scrittura, ma nel senso che è un Autore che si fa piacere la letteratura di consumo. “Sottomissione” si legge facile, di scrittura scorrevole, senza spessore. Senza neanche tensione, come un reportage giornalistico a babbo morto: vi dico come è andata, senza sorprese. Se non quella di una Fratellanza Mussulmana che conquista tutti, senza violenze.
L’autore sta seduto sui suoi odi politici. Lo Huysmans dietro cui si cela non è il sodale di Zola. E nemmeno quello successivo, lo scrittore di Des Esseintes, il prototipo del decadente. È l’ultimo, quello che,  riconvertito, sta bene solo in chiesa, e nelle vicinanze. È però sempre lo scrittore che vive in dissidio col suo tempo, con la modernità, in un’Europa che dominava il mondo. Houellebecq, speculare, vive anche lui in isolamento, e in dissidio col suo tempo e col mondo, seppure non nella trappa, né nei pressi, e in un’Europa non più dominante e anzi succube. Si rifà con l’apoteosi – onirica, satirica -- della sottomissione. Un libello contro i socialisti, ma anche contro i gollisti, una destra inconcludente.
Lungimirante: le cose precipitano al secondo turno delle presidenziali del 2017, con la rielezione di Hollande,  “spettacolo vergognoso, ma aritmeticamente ineluttabile, della rielezione di un presidente di sinistra in un paese dichiaratamente a destra”. È l’ultima convergenza di socialisti e gollisti contro il Fronte Nazionale. Al prossimo mandato non ce la faranno nemmeno uniti, e allora preferiranno un accordo con la Fratellanza Mussulmana. Dopo aver tentato tutte le trappole possibili contro Marine Le Pen, specie contro il padre di lei, incolto e fascista (professo). Meglio un suicidio che una sconfitta. Houellebecq confessa un debole per Toynbee, che le decadenze delle civiltà e degli imperi ha teorizzato come suicidi, l’esito delle divisioni e ostilità intestine – nel 1914, studiando Tucidide e la sua “Guerra del Peloponneso”, Toynbee era stato colpito dalla similarità con la prima “guerra civile” europea.
La Fratellanza Mussulmana va dunque al potere nel 2022 per il solito accordo destra-sinistra al secondo turno delle presidenziali, con l’illusione del Centro. Il solito accordo per sbarrare la porta al Fronte Nazionale. È questo che – non detto - indigna il protagonista. Che è peraltro islamico in petto, nel disprezzo della politica non solo ma anche delle donne. Che frequenta in gran numero, ma solo per le pratiche erotiche. O meglio fascista, più che islamico – fascista proprio, quello della storia: anticapitalista, popolare eccetera.
La Fratellanza Mussulmana, al confronto con questo destra-sinistra, è un partito bello, intelligente.  Houellebecq si fa in quattro, certo derisoriamente, per celebrarlo. L’economia lascia agli specialisti, punta all’istruzione e alla demografia. I socialisti invece sono sempre opportunisti: gli appeaser pro-Fratellanza anti-Fn sono nominati, Hollande e Valls, sono loro che consegnano la Francia alla Fratellanza Mussulmana. L’Ump gollista è colpevole, ma per mancanza di coraggio, e comunque Sarkozy escluso. “Il vero programma dell’Ump, così come quello del partito Socialista, è la scomparsa della Francia, la sua integrazione in un insieme federale europeo”. Odiato da Houellebecq al punto che il suo personaggio non giustifica nemmeno l’odio, basta il disprezzo.
La sottomissione, ultima beffa, è quella di Dominique Aury: corporale, sessuale. Perpetrata nello stesso palazzetto di Jean Paulhan, che la Aury assoggettava. Dove il nuove rettore “saudita” della Sorbona e reale direttore della Pléiade e di Gallimard, ex identitario, futuro ministro e anzi vice-presidente, seduttore di intellettuali, compreso lo specialista di Huysmans, si è installato. Con una moglie comoda per la cucina e una ragazza per le altre cose. È con questo esempio che la seduzione del protagonista di Houellebcq si compie: “L’idea sconvolgente e semplice, mai espressa con tanta forza prima, che il culmine della felicità umana consista nella sottomissione più assoluta”.
È il paradosso della servitù volontaria, che però Houellebecq non cita, preferisce la “Storia di O”. La sua sottomissione, più che un suicidio, è una buggeratura: una porno disponibilità di tutti gli orifizi - certo elevata: letteraria, filosofica. Non è disperato, e nemmeno apprensivo: è il solito Houellebecq, acido e arcigno.
Rileggendolo, il “romanzo” della sottomissione è semplice: è un presagio, in forma di reportage, degli eventi del 2022. Non il “Mondo Nuovo” di Huxley, una prefigurazione onirica si basi scientifiche, ma un libello. Una distopia in forma di utopia, benevola se non auspicabile. Solo a metà orwelliana, presagio di un futuro sgradevole: il futuro islamico è anzi brillante e intelligente, fatto di buona politica, compreso il ritorno delle donne allo stabio. E comunque inevitabile, per la leggi ferree della demografia.
Più che Orwell, anzi, Houellebcq rifà Voltaire, il suo “Candido” che viaggia nel migliore dei mondi possibili. Un parlare di cose impossibili o esagerate come critica del presente. Peggio – meglio: è una eterotopia. Quella di Vattimo, “La società trasparente”: un percorso nuovo come “liberazione delle differenze”, sia pure beffardo. Che nel caos e nell’appiattimento lascia o fa emergere individui, gruppi, popoli che la storia ha tenuto compressi o ha ignorato.
Un saggio politico, acuto anche se prevenuto, molto prevenuto e molto acuto. Tutti sono spacciati di fronte alla forza demografica, petrolifera e religiosa dell’islam. Anche la Cina e l’India, che pure per demografia non sono deboli, essendosi lasciate contagiare dal morbo occidentale della disquisizione e la divisione, di fronte alla compatta rudezza, acquisitiva, dell’islam. In un colpo solo Houellebecq “sistema” il temuto islam con la disprezzata Unione Europea.
Michel Houellebecq, Sottomissione, Bompiani Vintage, pp. 252 € 12

lunedì 25 aprile 2016

Problemi di base - 274

spock

Ma che ci fa Marcegaglia all’En^?

E Patrizia Grieco all’Enel?

E Luisa Todini alle Poste?

E Catia Bastioli a Terna?

Chi è Catia Bastioli?

E Patrizia Grieco?

Non era meglio risparmiare una paio di milioni, quattro in due anni, sono tutte donne ricche, e venire incontro a Schaüble?

O volevamo dare ragione a Schaüble, brutto stronzo?

spock@antiit.eu 

Derrida o dell’elusività

La Russia non ha lasciato nessuno indifferente: o pro o contro. Quella degli zar come quella di Stalin. E anche quella di Breznev, e poi di Gorbacev – Elstin e Putin non ispirano più. Derrida fa eccezione: questo suo breve “Ritorno da Mosca” (una sessantina di pagine, meno della metà del libro, che è in realtà un “Omaggio a Derrida” da parte di Vincenzo Vitiello, con contributi dello stesso curatore, e di Ferraris, Resta, Rovatti, Sini, Vattimo) si segnala per  una, a questo punto caratteristica, elusività politica.
Derrida non sa che dirne, anche se è a Mosca al momento topico della caduta del sovietismo. Cioè, saprebbe bene che dirne , come tutti, ma lo evita. Si riserva il giudizio – come già per alcune evidenti manifestazioni naziste di Heidegger, nelle opere e  nelle parole, da lui peraltro evidenziate. Il filosofo come Mussolini – qui non si fa politica, si lavora? Ma, certo, se uno non ha coraggio non gli se ne può fare una colpa.
Questo “Ritorno” è in realtà l’anamnesi (decostruzione) del “viaggio a Mosca” come genere, quasi, letterario.  Ottima idea, che però era già stata messa a frutto, e con più perspicacia, da Paul Hollander, “Pellegrini politici”. Derrida peraltro si limita a due viaggi celebri, quello di Gide, critico dello stalinismo, e quello di Benjamin – evitando per di più la nota romanzesca dell’“angelo della storia”, che non vide lo stalinismo perché era innamorato, perso, di una stalinista. I filosofi meglio a casa?
Jacques Derrida, Ritorno da Mosca

domenica 24 aprile 2016

Letture - 255

letterautore

Belgio – Bruxelles era la città dell’odio razziale già in “Sottomisisone”, il romanzo di Houellebecq, di metà gennaio 2015. Houellebecq manda il suo protagonista in gita in Belgio, sulle orme di Huysmans di cui cura la Pléiade. E gli fa ricordare una precedente visita a Bruxelles, sempre sulle orme del suo scrittore: “A colpirmi erano state soprattutto la sporcizia e la tristezza della città, così come l’odio palpabile, ancor più che a Parigi e Londra, tra le comunità: a Bruxelles ci si sentiva più che in qualsiasi altra capitaòe europea, sull’orlo della guerra civile”.

È però il luogo dove molta letteratura francese nel secondo Ottocento ha potuto esprimersi, Victor Hugo, Dumas, Baudelaire, Multatuli e tanti altri, compresso Huysmans. Houellebecq lo ricorda: “Huysmans era stato pubblicato a Bruxelles, ma a dire il vero quasi tutti gli autori importanti della seconda metà del secolo XIX avevano dovuto, a un certo punto, per sfuggire alla censura, ricorrere ai servizi di un editore belga”.

Italo Calvino – Élemire Zola ne fa un ritratto pessimo a Cazzullo in “I ragazzi di via Po”, anche prevenuto, ma circostanziato: “Calvino era il più interessante, colto, curioso, estroso, ma il suo lato politico dava i brividi, aveva battute terribili, chiamava la Achmatova «quella cara figliola con il marito zarista», e stava parlando della più grande poetessa del secolo… Anche lui recitava una parte, il tizio venuto dalla provincia ligure, l’ingenuo che ha difficoltà di parola ma la battuta graffiante. Aveva adottato i vezzi fiorentini di Cecchi e l’arte di dissimularvi il proprio pensiero dietro un’aria misteriosa”.

U. Eco – È “Il nome della rosa” una burla? Eco ha scritto molto e qualche traccia ha lasciato. Molteplici anzi, e solide, ma quasi seppellite. Dall’alluvione di prose, la sua alluvione.
Non resta molto delle tante joyciane, la passione di una vita. Né delle  sherlockholmesiane, del tempo del giallo gotico: l’induzione di tanti suoi saggi allontana da Sherlock Holmes e non porta a nulla, a un esercizio cerebrale sterile. La semiosi del complotto avrebbe potuto gestire meglio, con più efficacia verità), se vi si fosse applicato invece che disperso, sia pure nell’indignazione. O il riso, di cui si proponeva sempre di scrivere la poetica, quella mancante o perduta di Aristotele - che progettò infine di scrivere ai sessant’anni, “o magari più avanti ancora”, confidava a Cazzullo ne “I ragazzi di via Po”, sempre scherzoso: “Con la speranza di morire prima di scriverlo, così tutti avanzeranno tesi per sapere qual era la mia teoria”. Ma ha solo scritto qualcosa su Pirandello, trascurabile, qualcosa sul comico e la regola, e profusamente di Campanile, senza esito e senza neppure senso. In realtà senza impegno: l’idea, diceva ancora a Cazzullo “me la sono giocata lì”, nel “Nome del arsa”. Ove non ce n’è traccia – o è tutto una burla?

Dovendolo sistematizzare, si può collocarlo in tre fasi, anche se diventa “Eco” col “Nome della rosa”, 1980. Col romanzo inaugura e impone il postmoderno, che Lyotard aveva appena concettualizzato - ma nella “Postilla”, tre anni dopo, il postmoderno trova caratteristicamente – sempre primo - in John Barth, “La letteratura dell’esaurimento”, 1967 (lo stesso Barth, aggiunge, che ha ripreso il tema nel 1980, ma sotto il titolo “La letteratura della pienezza”): “Arriva il momento che l’Avanguardia (il Moderno) non può più andare oltre perché ha ormai prodotto un metalinguaggio che parla dei suoi impossibili testi (l’arte concettuale). La risposta postmoderna consiste nel riconoscere che il passato (...) deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente”.
È una dei “rovesciamenti”, anch’essi caratteristici di Eco,  dell’avanguardia vent’anni prima. Il terzo rovesciamento sarà, quasi subito dopo, i “limiti dell’interpretazione” – un ritorno alla sobrietà. Senza rinunciare a dire il già detto – agli ingredienti della postmodernità, come può dire Pierlugi Panza presentando la riedizione delle sue opere in edicola: “Sebbene Umberto Eco non sia completamente iscrivibile nella Postmodernità, in quanto nasce come semiologo strutturalista, lo sono la sua opera letteraria, in parte quella saggistica e la sua passione da bibliofilo”.

Poligamia – Fa felice la donna, secondo Houellebecq,”Sottomissione”, non senza argomenti – nella neonata repubblica islamica di Francia le donne tornano a sorridere. Perché le toglie dal mercato del lavoro: precariato, pendolarismo, paga modesta, un’agitazione nervosa insopportabile. E impone in casa una divisione comoda del lavoro: una moglie in età per l’accudimento e una inesperta per “le altre cose”. E perché la libera dalla schiavitù del corpo: i pantaloni sformati e il camicione tre quarti sono in effetti molto comodi. Senza contare il velo, che libera dalla schiavitù del parrucchiere. icia-casacca tre quarti sono moto comode., la libera

Shakespeare – Fu vittima del classismo, in vita e a lungo in morte – per la difficoltà d’inquadrarne la biografia?
Stephen Greenblatt ne ricorda sulla “New York Review of Books” del 21 aprile il giorno della morte, il 23 aprile 1616, come il non-evento per eccellenza, eccetto che per pochi contemporanei, nemmeno tanto amici. Non ci fu commozione, né un gran funerale, nella chiesa della Santa Trinità di Stratford. Nessuno ne propose la sepoltura a Westminster Abbey, accanto a Chaucer o Spenser. Francis Beaumont sì, lo stesso anno, e Ben Jonson qualche anno più tardi, Shakespeare no. Nessuno ne seppe nulla nel continente, nessuna corrispondenza diplomatica registra l’evento. E anche a Stratford non molti si emozionarono. Greenblatt ricorda a contrasto l’eccitazione che seguirà la morte tre anni dopo dell’attore Richard  Burbage, in Inghilterra e altrove, di cui soprattutto si ricordarono, e si celebrarono in elegie famose, i ruoli shakespeariani, Amleto, Lear, il Moro.
È una riprova della “non esistenza” di Shakespeare? No, arguisce Greenblatt. È una riprova del credito dell’interprete (il divismo) sull’autore, allora come ancora oggi, a teatro e nei film, che “vanno” con gli attori. Ed è l’esito di un classismo acuto nella società, per cui il nobile che si occupava di letteratura poteva compiangere un grande attore morto, altro mondo dal suo e proiettato nell’epica, nel mito, ma non un piccolo borghese impresario di teatro senza alcuna attache etonoxoniense, da grande scuola. La distanza sociale sarà accorciata sette anni dopo da Ben Jonson, con l’edizione di tutte le opere di Shakespeare a cura di Heminges e Condell, da lui dedicata a William Herbert e fratello, grandi aristocratici, con questa precisa avvertenza: non sapeva di greco e di latino, ma ci richiama Eschilo, Euripide e Sofocle.

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