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sabato 15 maggio 2021

Letture - 458

letterautore

Balzac – Un curiosone. Ha un segreto semplice secondo Pavese (“Il mestiere di vivere”, 13 ottobre 1937): è curioso – “Balzac ha scoperto la grande città come covata di mistero, e il senso che ha sempre sveglio è la curiosità. È la sua Musa. Non è mai né comico né tragico, è curioso”.
È anche, dice Pavese, “Baudelaire che si annunzia”: quando “disserta del suo complesso misterioso con entusiasmo sociologico, psicologico e lirico, è ammirevole. Vedere l’inizio di «Ferragus» o l’inizio della seconda parte di «Splendeurs et misères des courtisanes». È sublime”.
 
Cancel culture
– “La rottura c’è stata con la seconda guerra mondiale”, spiega a Gravino sul “Venerdì di Repubblica” Vittoria Alliata di Villafranca, ricordando Palermo quando era una capitale: “I bombardamenti anglo-americani hanno distrutto in pochi giorni la città più bella del mondo. Dobbiamo recuperare tutto quello che c’era prima, altro che cancel culture, sono loro che ci hanno cancellato, sono loro che devono sentirsi in colpa”. È una “cultura” in effetti americana. Di africani, ma di africani americanizzati, o americani ormai da decine di generazioni.
È straordinario, a ripensarci, quanto gli americani distruggano, quanto amino distruggere. I mobili  ogni tre anni, come il coniuge. La case dopo venti o trenta. Le città, i villaggi e ogni traccia stabile con i bombardamenti, la più vile di tutte le armi.
Si direbbe una cultura nomade, non stanziale. Come se i Padri Pellegrini non avessero nulla di britannico, del sassone terragno, ma fossero apolidi sradicati, vaganti.
 
Cane a sei zampe
– Enrico Mattei, il creatore dell’Eni, di cui il cane nero a sei zampe è il trademark, lo avrebbe trovato a Palermo, dall’antiquario Antonio Daneu, secondo Gonzalo Álvarez García, “Le zie di Leonardo”: era l’emblema della casa di vendite.
 
Comico
– Si ride di chi cade per un senso di superiorità. Si dice. Si ride per molti motivi, ma questa versione è più accreditata. Sarà per questo che gli Oscar del cinema non premiano mai le commedie. Per rispetto dell’uguaglianza, contro ogni senso di superiorità. Ma i produttori premiati non ridono? Anche gli attori e i registi, e ogni altro premiato.
 
Epidemie – Hanno effetti artistici. Baudelaire, “Quelqeus caricaturistes étrangers”, giunge a questa conclusione non sapendosi spiegare altrimenti le “tante diavolerie e meraviglie”, le “tante spaventose assurdità” di Pieter Breughel il Vecchio detto “le Drole” (il Bizzarro, in francese – in italiano “dei Velluti”): “Questa prodigiosa fioritura di mostruosità coincide nel modo più singolare con la fosca e storica epidemia delle streghe”.
 
Ce ne sono anche di mentali. L’epidemia delle streghe di Baudelaire è una. Michelet, “Histoire de France”, vol. VII, ha le “follie epidemiche del popolo”, i fenomeni di fanatizzazione collettiva. Che si potevano – si possono ancora – osservare nel khomeinismo. Le “primavere arabe” ne sono state una riproduzione –  anch’esse organizzate sulla spontaneità. O le “rivoluzioni” arancione all’Est Europa, per es. in Ucraina. Epidemie però non “spontanee”, occasionali. A partire dal quella delle streghe.
 
Flaubert – Un moralista, e al fondo un po’ misantropo? Tale lo vede, tra i tanti ma prima di molti, Pavese nel “Il mestiere di vivere”, 17 febbraio 1938, a proposito dei giudizi morali che dispensa in “Madame Bovary”, che salvano solo l’artista – “l’artista che violenta e atteggia ogni  gesto umano”. L’esito sarebbe che si può vivere “in un solo modo: facendo l’artista tappato in casa”.

Hemingway – Uno scrittore molto latino. Americanissimo nella scrittura e nello stile di vita, ma emozionato, commosso, ispirato dal mondo altino, a suo modo anche appassionato, alla Stendhal - e dall’Africa. Nel primo movimento con migliore esiti, in Italia, Spagna, a Parigi, a Cuba. Rileggendo “il vecchio e il mare”, e il primo abbozzo del racconto che è stato pubblicato con la nuova traduzione de “Il vecchio e il mare”, la cosa si impone: più a suo agio e comprensivo è nei modi di essere, di dire, di capire le cose (soprattutto le sensazioni e i sentimenti, in “innuendo”, per accenni) e di esprimerle, del mondo altino. 
 
Manzoni – Il “manzo Manzoni”, forse inevitabile, è gioco di parole di Pavese. Che ne scrive all’amico Tullio Pinelli il 4 dicembre 1939: “Prometto di scrivere d’ora innanzi come un grosso manzo (Manzoni)”.
 
Pierrot – Ce n’è – ce n’era – uno inglese. Accanto a quello francese cui siamo abituati: lunare, silenzioso, allampanato, triste – invenzione, pare, o adattamento, di un Jean Gaspard Debreau (1796-1846), mimo al teatro dei Funamboli a Parigi. Ne dà testimonianza Baudelaire in “De l’essence du rire”, ed è il clown come lo conosciamo noi, che l’Augusto lunare introduce. Il Pierrot Sette-Ottocento sdoppiato in Augusto e clown. Che gira come una trottola, riempie l’aria di suoni, cade come un pallone, ride e fa ridere con la sua stessa risaata, due macchie rosse sulle guance, sulla biacca, la bocca allargata dal carminio.
 
Poppe – Vittorini le trova improponibili in italiano, traducendo Caldwell, “Il piccolo campo del Signore”. Così ne scrive a Pavese, in una confidenza fra traduttori dall’americano, nel 1940: “Nella traduzione di «God’s little acre» mi sono preso molti arbitri. Per esempio le poppe d Griselda sono diventate gambe. Ma come scrivere poppe in italiano? Griselda sarebbe diventata una serva”. Concludendo: “Quanto al titolo, era «Il piccolo campo del Signore«, ma il Ministero ha tagliato «del Signore»”.
 
Proust – La “Ricerca” come romanzo psicologico (psicoanalitico) e non della memoria? È la lettura di Pavese (“Il mestiere di vivere”, 12 marzo 1939): “Da notare che Proust, il frantumatore degli schemi dell’esperienza in miriadi di istanti sensoriali, è poi il più arrabbiato teorico di queste sensazioni,  e costruisce il suo libro non su richiami mnemonici dall’una all’altra, ma su piani concettuali e gnoseologici che le annullano a materiale d’indagine”. Sono “caratteri” in effetti sfuggenti.
 
Sub-prime
– Sono pratica vecchia, i titolo di ventura collocati dagli intermediari esperti con investitori inesperti. A margine dei suoi resoconti giornalistici sul processo Dominici (“Note sull’affare Dominici”), per mostrare che conosce i contadini, gli usi, i linguaggi, le espressioni, Giono spiega che ha fatto a lungo il venditore di titoli pubblici, per conto della banca di cui era impiegato: “Dal 1911 al 1929, prima di pubblicare ciò che scrivevo, sono stato impiegato di banca a Manosque. I contadini della regione erano i miei clienti. Per dieci anni, dal 19 al 29, sono stato piazzista per questa banca”, un venditore porta a porta, “cioè andavo di paese in paese, di fattoria in fattoria, a piazzare i titoli. Il mio mestiere consisteva nel prendere il denaro nascosto sotto le pile di lenzuola nell’armadio e dare in cambi grandi fogli di carta. Questi grandi fogli di carta sui quali erano disegnati dei simboli,  delle allegorie, oppure delle ferrovie o delle palme, erano garantiti dallo stato. Non sorprenderò nessuno dicendo che, malgrado questa garanzia, perdevano un terzo buono del loro valore subito dopo la loro introduzione in Borsa”. 

letterautore@antiit.eu


Il regime giudiziario

Salvini assolto a Catania e condannato a Trapani. È stato detto, e si è avverato per la prima parte – nessun dubbio, ancora oggi, che sarà condannato a Trapani.
La Corte dei Conti blocca il finanziamento di ReiThera, per il “vaccino italiano”, senza motivazione, né formale né sostanziale. Cioè senza perché. Che però si sa: è una sezione a orientamento Pd che intende mettere sotto accusa l’ex commissario Arcuri. Non la persona di Arcuri ma i suoi referenti politici, D’Alema e un’altra parte del Pd. 

Nel mezzo c’è l’attacco a Gratteri, in corsa per alcune posizioni di vertice nella magistratura, con lo “scandalo” Renzi-Mancini, l’ex presidente del consiglio Renzi che incontra il numero due o tre dei servizi segreti.
Si può pensarla anche così: chiodo schiaccia chiodo. Si fa uno scandalo nuovo per obliterare il vecchio: Davigo per Palamara, Gratteri per Davigo, Salvini di qua e Salvini di là, e D’Alema punching-ball universale – un piccolo Craxi: di riforme non bisogna nemmeno accennare, i giudici si fanno cattivissimi (lo saranno anche con Renzi? Sì).
È una giustizia attesa perché fatta di schieramenti: sinistra contro destra, e sinistra contro sinistra – i regolamenti di conti nel Pd superano quelli con la destra (per tutti il caso Storari-Greco). Una giustizia che si dice “politica”, cioè politicizzata, obbediente cioè a schieramenti politici, ma di cui non si vedono gli agganci: è una giustizia autoreferente. Un regime. Vagante ma autoprotettivo.
Il regime giudiziario ha demolito l’Italia, e non gli basta, non si ferma. Nell’ebbrezza da impunità, che non c’è nemmeno nella Corea del Nord.
Già si raccolgono carte contro Cartabia e contro Draghi. Si dice, e sarà vero. Si sa pure l’orizzonte del dossier: tra otto-nove mesi, per bloccare la candidatura di uno dei due al Quirinale.
 

Il giallo in Arizona - o il falso falso

Non proprio tutto ma c’è molto. Molto corretto. Il turismo Navajo migliore del turismo non Navajo. La guerra stupida. I mutilati della guerra in Iraq - c’è anche Nassiriya. L’affarista del turismo non-Navajo avido e corrotto. Tutte le buone cause. E anche due romanzi in uno: uno secondario di tipo western, con fucilate e scotennamenti, sempre a danno dei Navajo – e qui entra in gioco un Hopi, cattivo. Ma di tipo esotico.
Siamo infatti in Arizona. In un riserva indiana, fuori Flagstaff. Dove tutto sembra essere stato indagato da Faletti e ricostruito per bene, di precisione – si parla anche navajo (ma un arco da caccia, anche se si evoca “Rambo 2”, da “un’ottantina di libbre”?). Per cinquecento però densissime pagine. Ogni capitolo un set diverso, che rallenta la lettura, e presto la fa indigesta. Con l’effetto non commendevole degli svelti gialli “bostoniani” del primo Scerbanenco, di falso falso.
Sarà tutto vero, Flagstaff, i Navajo, il turismo etnico, i mezzosangue “bianchi” e quelli indiani, per parte di madre. Ma non sembra. O Faletti si è voluto divertire del lettore? In esergo mette un Barboncito, capo Navajo (molti capi Navajo hanno nomi castigliani...), che a maggio del 1868 avrebbe detto: “Io spero in Dio\ che non mi chiederete\ di andare in nessun altro paese\ tranne il mio”.
Giorgio Faletti, Fuori da un evidente destino, Baldini Castoldi Dalai, remainders, pp. 499 € 2,06

venerdì 14 maggio 2021

Ombre - 562

Esilarante quadro fa Ceccarelli sul “Venerdì di Repubblica” della Banda Larga, “new Ponte dello Stretto” - una cosa che si è portati a pensare già fatta, da tanto che se ne parla, e invece non c’è, anche se necessaria e anzi indispensabile, a differenza del Ponte. Con gli innumeri ministri dell’Innovazione, tutti postelegrafonici, da Lucio Stanca, 2001, a Vittorio Colao in carica, impegnati a fregarsene - la danno per realizzata…
 
Ceccarelli però sbaglia data. Non è da vent’anni che se ne parla a vuoto, è da trenta: il progetto Socrate fu proposto ai primi del 1990 e avviato al 1995 (molte spirali di gomma sono ancora piantate davanti alle abitazioni in molti paesi), ma presto bloccato: dapprima dalle città, che volevano dare loro gli appalti e i subappalti (Bologna, Venezia, Roma, Torino), poi perché la Stet-Sip andava privatizzata, e non doveva costare troppo:
http://www.antiit.com/2020/03/litalia-senza-rete.html
 
I morti di covid non sono tre milioni ma dieci milioni, calcola “The Economist”, “usando dati noti su 121 variabili, dalle morti registrate alla demografia”: “La nostra stima è che 10 milioni sono morti che avrebbero potuto continuare a vivere – più di tre volte la cifra registrata”. La maggior parte dei circa 6,7 milioni di morti che nessuno ha conteggiato è avvenuta in paesi poveri”.
Non è solo il solo esito dello studio: “Il virus si è diffuso senza rimorsi dai paesi ricchi a quelli poveri”.
 
Una ragazza bullizzata da Priti Patel si merita l’attenzione di “la Repubblica”: doveva fare la baby-sitter, con contratto, a Londra ed è stata rispedita a casa, dopo innumerevoli perquisizioni corporali, spintoni (la polizia britannica è disarmata ma può usare le mani e i gomiti), e un po’ di carcere, senza vitto. Non è la prima, e non è un caso raro, contrariamente a quanto sostiene l’ambasciatrice inglese a Roma - meraviglia anzi che la ragazza si sia avventurata.
 
Questa Pratel, superconservatrice, ministra degli ultimi governi conservatori e ora di quello dell’Interno,  è figlia di indiani dell’Uganda, presunti profughi politici a Londra. Gente da poco, piccoli commercianti, che stavano in Africa come in colonia, nazione a parte, “superiore” . Governati dall’Asia, sarà dura.
 
“La specie sbagliata di conservatorismo”, titola “The Economist”. A proposito del governo britannico: “Boris Johnson vuole un governo forte che comprime le libertà civili”. Normalmente molto citato in Italia, l’“Economist” è ignorato questa volta.
 
Pratel si tiene nella “riserva della Regina” per la futura trovata del reame: un primo ministro donna e di colore. Ha esordito nel governo Johnson a metà febbraio dell’anno scorso dicendo alla tv: “Odio gli europei, gli scozzesi e gli irlandesi”. Lo disse ridendo. Ma, si vede, sardonica: l’Inghilterra va persa sul serio.
 
Una serie di bombe collocate con cura a Kabul attorno alla scuola femminile per uccidere più ragazze possibile. Non un atto dimostrativo: una carneficina, mirata. Una professione di misoginia incredibile se non fosse avvenuta. Non la prima volta, e non l’ultima. Che civiltà è, che religione?
Uccidono le ragazze che vanno a scuola in Afghanistan movimenti (Is, Taleban) che hanno donne tra i sostenitori più fedeli e entusiasti: kamikaze, artificieri, organizzatrici, spie, prefiche di sangue.  Non è nemmeno misoginia: la barbarie esiste. 

Bertolaso nicchia, sa di che si tratta. Il Pd invece va spavaldo alla sconfitta, dividendosi fra candidati, il modo sicuro per perdere. Bertolaso probabilmente sa, ma lo sanno tutti a Roma, che Raggi è la signora delle periferie. Delle Tor Bella Monaca e similari, fornite di giardini, chiese d’autore, teatri, e tutto l’occorrente, ma sempre “a lamentasse”, che votano Raggi all’80 e anche al 90 per cento – per loro c’è stato comunque un posto o un appaltino.
Roma non è una capitale ma un paesone - una accolta di paesoni, molto pretenziosi.
 
Conte: “Il mio governo caduto per convergenza interessi economici e politici”. Ha detto nulla.
Gli “interessi”, certo, disturbano il suo elevato sentire, Conte e Grillo saranno per lo “stato etico”, sotto le specie del “vaffa”. Salve le consulenze per gli interessi.
 
“Storari ha danneggiato le indagini”: portando fuori le carte del denunciatore Amara, il pm milanese ha di fatto evitato che l’inchiesta seguisse il suo corso – ormai tutti i soci della loggia “Ungheria” sono avvisati, se ce n’è una. Bisognava pensarci – siamo in epoca di gialli, e non si pensa a questo trucco? Ci ha pensato il procuratore capo di Storari, Greco. Bella caccia, a guardia e ladri.

Muti cacciato dalla Scala

Le sfuriate di Muti contro la Scala, nel camerino della Scala, fanno il pieno dei giornali. Nessuno dei quali dice però quello che tutti sanno: che Muti è stato cacciato, proprio così, dalla Scala sedici  anni fa, perché “non in linea” con l’orchestra e col sindacato del complesso, la Cgil vecchia Pci – fu recuperato dal centrodestra, a Roma, al teatro dell’Opera, un’orchestra di nullafacenti (allora; due anni di Muti l’hanno trasformata e ora suona perfino meglio della Scala), e poi dalla Chicago Symphony Orchestra.
Si tace anche che il sovrintendente attuale, Dominique Meyer, che si è speso per recuperare Muti alla Scala, ha dovuto inventarsi un ridicolo sdoppiamento della riapertura, facendo precedere Muti e i Wiener Philarmoniker dall’orchestra della Scala con Chailly, in un concerto raffazzonato. Si dice: bizzarrie da “primedonne”. E invece è la politica, sinistra anche a Napoli oltre che alla Scala: il sovrintendente del San Carlo Stéphane Lissner, ex della Scala, dove fu chiamato nel 2005 dalla Cgil alla cacciata di Muti, da poco sovrintendente del San Carlo, per prima cosa ha annullato i contratti che il teatro aveva con Muti. A causa del lockdown, certo, ma senza rinnovare i contratti per altra data. Ora, siccome Muti è sincero democratico, e impegnato in tutte le buone cause, che dobbiamo pensare della Cgil e del suo Lissner?
Curiosa dimenticanza la cacciata di Muti dalla Scala - che lui continua a chiamare la casa, come Toscanini. Anche perché ghiotta per le cronache come usano, del pettegolezzo. Vige ancora la “linea”, nei giornali? Si capisce che nessuno li legga.
Ma, poi, questa è l’Italia: in Italia Muti si è dovuto creare una sua orchestra e un suo festival.

Baudelaire filosofo del riso

Il saggio più radicale, quasi avversativo, sul riso è di Baudelaire giovane, radicato nel pessimismo cristiano. Nel saggio del titolo, “De l’essence du rire et généralement du comique dans les arts plastiques” – assortito in questa raccolta di un saggio sui caricaturisti franecsi e di uno su quelli stranieri. Tre scritti del 1857, simultanei della prima pubblicazione dei “Fiori del male”.
Più che un’analisi, un’accusa: “Il comico è un elemento dannabile di origine diabolica”. Il nocciolo riprendendo da Philippe de Chennevières (“Jean de Falaise”), “Contes normands”, di quattro anni prima, storico dell’arte e scrittore, coetaneo e amico: “Nel paradiso terrestre… la gioia non era nel riso”. Il riso è come le lacrime, una passione violenta: “La gioia e le lacrime non possono farsi vedere nel paradiso di delizie”.
Di suo Baudelaire è violento:  ”Il riso vien dall’idea della propria superiorità. Idea satanica se mai ce ne fu una! Orgoglio e aberrazione.” E ancora: “Il riso è una delle espressioni più frequenti  e più numerose della follia”.  Il riso è “un sintomo di debolezza”. Insomma, “il riso è satanico, e dunque profondamente umano”. E cioè “profondamente contradittorio… Segno di una grandezza infinita e di una miseria infinita – miseria infinita relativamente all’Essere assoluto di cui possiede il concetto, grandezza infinita relativamente agli animali”.
Non è un segno di saggezza: “Il saggio non ride che tremando”. Anche se “non è l’uomo che cade che ride della sua propria caduta, a meno che non sia un filosofo”, che non abbia acquisito la capacità di sdoppiarsi, di vedersi fare. “Gli aniamli più comici sono I più seri, come le scimmie e i pappagalli”. Il riso dei bambini è altra cosa, è gioia. “Una gioia di pianta”, un’efflorescenza: “La gioia di ricevere, la gioia di respirare, la gioia di aprirsi, la gioia di contemplare, di vivere, di crescere”. La chiave? “È in noi, cristiani, che è il comico”. Il riso distinguendo, come malefico, una condanna, dal sorriso.
Stendhal si era esercitato in tema, “Du  rire”, anche lui con ambizioni trattastiche. Baudelaire è più diretto, impositivo. Il suo, dice, è “una articolo di filosofo e d’artista”. Altrove, in “L’Heautontimorumenos”, una composizione di “spleeen e ideale” (poi confluita nei “Fiori del male) conclude: “Sono del mio cuore il vampiro,\ uno di quei grandi abbandonati,\ al riso eterno condannati,\ e che non possono più sorridere”. In realtà lavora, e assiduamente malgrado la vocazione da dandy, critico culturale indaffarato ma leggibile e per qualche aspetto sempre nuovo, su aspetti dsparati dell’attività estetica. Buon numero di paginm sono dedicate a E.T.A. Hoffman, specie a “La principessa Brambila”, il racconto romano – “un catechismo di alta estetica”. Altre alla pantomima inglese - che Parigi curiosamente non comprende, gli spettacoli restano freddi – all’insegna dell’eccessivo, “il comico assoluto”. 
Sui caricaturisti si era già esercitato nel “Salon” del 1846, la rassegna giornalistica dell’esposizione. I due saggi della raccolta raggruppano in analisi sintetiche ua ventina di artisti. Hogarth è “spirito sfacciato e ipocondriaco”: di lui si dice che è “l’interramento del comico”, Baudelaire preferisce dire “il comico dell’interramento”, epitome di “quel che di sinistro, di violento e di impositivo si respira in quasi tutte le opere del paese dello spleen”, l’Inghilterra. Calotin sa di chiesa. Daumier “un saggio entusiasta”. Grandville “spirito maledettamente letterario”. Gavarni “un artista, bizzarro nella sua grazia”. Goya, che è “sempre un grande artista, spesso terrificante”, introduce nel comico il fantastico.
Quattro pagine si meritano gli italiani, ma succose. La caricatura in Italia è fredda. Per esempio di Leonardo. Compreso Pinelli, più espressivo (trasgressivo) per lo stile di vita che per le sue incisioni. “È un francese che resta il miglior bouffon italiano”, è Callot – che manca nella rassegna dei caricaturisti francesi: “Gli artisti italiani sono più buffoni che comici. Mancano di profondità ma subiscono tutta la franca ebrietà della gaiezza nazionale. Materialista, come è generalmente il Mezzogiorno, il loro scherzo sente sempre di cucina e gabinetto di decenza”.
Charles Baudelaire, De l’essence du rire, Folio, pp. 123 € 2



giovedì 13 maggio 2021

Cronache dell’altro mondo militanti (115)

Il presidente Biden, buon cattolico, irlandese di origini, è minacciato di scomunica dai vescovi americani. Non proprio di scomunica, ma di accesso vietato all’eucaristia – che solitamente si decreta in caso di scomunica. Il caso è all’ordine del giorno della sessione di giugno della Conferenza episcopale americana. La colpa di Biden? Probabilmente lo scarso impegno per abolire la normativa sull’aborto.
Discriminati i Golden Globe per il cinema, il premio pre-Oscar dell’Associazione stampa estera di Hollywood: l’associazione non è “inclusiva”, cioè non ha quote per le minoranze. Il problema dell’associazione, 86 membri, è che non ha nessun nero: i giornali stranieri non ne hanno mandato nessuno. La maggior parte dei soci dell’associazione è di latinos, giornalisti dell’America Latina. E anche l’Asia è rappresentata, da asiatici.
L’associazione è presieduta da Ali Sar, un giornalista turco che ha lavorato anche per giornali argentini e moscoviti, e per vent’anni è stato direttore del “Los Angeles Daily News”, il quotidiano concorrente del “Los Angeles Times” – il giornale che ha provocato la messa al bando dei Golden Globe con una campagna di denuncia di razzismo. Ali Sar è succeduto a Lorenzo Soria, il corrispondente dell’“Espresso” e “La Stampa”, che ha presieduto l’associazione per tre mandati, fino alla morte pochi mesi fa. 

La religione di Sciascia

Curiosa testimonianza, piena di cose curiose ma non inventate, che si trascura nella critica e nella biografia di Leonardo Sciascia. Pronta nel 1981, ma rifiutata da Linder, l’agente di tutti gli editori, e da Elvira Sellerio, cui Scheiwiller l’aveva proposta, pubblicata nel 1984, in vita dello scrittore, con una prefazione di Luraghi, nella collana “Narratori” dello stesso Scheiwiller. Che l’ha voluta dotare di un postfazione irritata, per “chi ama i libri di Leonardo Sciascia”, e da suo amico, quasi editore e fervente ammiratore, “Hanno parlato male di Garibaldi”: quale il peccato?
L’autore la scrisse a sessant’anni, trenta dopo aver preso l’incarico di Rettore della chiesa spagnola di Santa Maria della Soledad a Palermo. Un sacerdote dunque, catapultato in un’isola di cui non saseva nulla, in un incarico, dice, “surreale come gli orologi in deliquio di Salvatore Dalì”. Un ex prete poiché il volumetto è dedicato alla moglie e al figlio. Avendo scoperto in Italia, oltre che, come insiste, “l’umanità” (“in ogni Spagnolo è in agguato un Torquemada, l’Italia è al contrario il paese della vita, dell’umanità, dell’umanesimo”, la Spagna ha prodotto domenicani e gesuiti, l’Italia Francesco d’Assisi), anche la libertà – veniva dalla Spagna di Franco. Un prete che in origine si voleva poeta. Una vocazione da cui parte al primo aneddoto del libro, un incontro a Milano con Pablo Neruda, alla vigilia del golpe di Pinochet in Cile, e lo aiuta a mobiliare il buen retiro che, benché malato terminale ma ignaro, il poeta diplomatico si era comprato in Normandia. La poesia porta all’incontro e all’amicizia con Sciascia. Lo scrittore viene indirizzato al sacerdote spagnolo nel 1956, l’anno dopo il suo sbarco a Palermo, da un addetto del consolato spagnolo, cui soleva ricorrere per problemi di traduzione dal castigliano. Di professione ancora maestro di scuola, Sciascia lavorava al libro che poi Scheiwiller finirà per non (poter) pubblicare, la traduzione del poeta spagnolo Pedro Salinas - Sciascia tradurrà anche componimenti del sacerdote-poeta spagnolo.
Un’amicizia malgrado tutto riservata, benché sia stata a lungo intensa e quasi domestica. Álvarez García non metterà mai Sciascia al corrente delle crisi vocazionale – sentirà oscuramente di non “poterlo” fare. Ma importante per la biografia e l’anamnesi dello scrittore. Specie nella decisione presa nel 1957 di lasciare l’impiego e la famiglia e stabilirsi a Roma, in pensione con altri scrittori, Strati, Pedullà, La Cava (col quale resterà in fecondo contatto), in via Castelfidardo alla stazione Termini, “vicino ai treni di ritorno”. Così giustificandosi con l’amico prete: “Se non  mi butto adesso nella mischia non sfonderò mai”.
Un’immagine di Sciascia non convenzionale. Partendo dal fatto, dice Álvarez García, che “quando scomparve da me il prete l’amicizia si spense”. L’ex sacerdote si arrischia anche più in là su una certa religiosità di Sciascia: “Il catechismo dell’infanzia gli è rimasto attaccato al midollo delle ossa e nemmeno Voltaire è stato capace di estirparglielo”. Un catechismo inculcato dalle zie – “sua madre e le sue zie erano donne pie, tutte casa e chiesa” – “da bambino Sciascia crebbe in una sorta di gineceo”. Un peso molto grande, arguisce Álvarez García, che influirà anche sull’amicizia: “Quando scomparve da me il prete, l’amicizia si spense”. Ricordando lo storico Antonio de Stefano, prete spretato, comunista, impegnato in molte lotte, morto con la benedizione del cardinale Ruffini, Álvarez García si avventura a dire di Sciascia: “Anche Leonardo soffre di una specie di «complesso di Edipo» spirituale che travaglia e rende irrequieta la sua anima”. E -  insieme con Consolo, assicura - se ne attende il ritorno alla chiesa: “I preti dei suoi romanzi sono disegnati con un tale trasporto che è difficile evitare il sospetto che essi costituiscano il tipo umano che Sciascia vorrebbe essere”. Anche perché “lo «scialle nero» e la «lumière» fusi insieme costituiscono il principale fascino dello scrittore”. Uno scrittore che non ha un solo personaggio femminile.
Il che è vero, e curioso. Uno Sciascia estremamente generoso, “che regala sempre”, specie con Álvarez García. E forse non misogino. Ma ombroso, come si sa, e di rari sorrisi.
Una galleria anche di personaggi che allora, anni 1960, facevano la Sicilia. Il cardinale Ruffini soprattutto – uno che “chiamava galantuomini i capimafia e picciotti ardimentosi i suoi sgherri”. Un ritratto inconsueto della moglie di Sciascia, insegnante anche lei. L’antiquario Antonio Daneu, di una famiglia di antiquari che aveva come simbolo un cane nero a sei zampe – che Enrico Mattei copierà. Il poeta e narratore “senza fortuna” Aldo Camilleri. In molte pagine il poeta Lucio Piccolo – “assiduo frequentatore di Casa Daneu era il barone Lucio Piccolo di Calanovella, persona estremamente umile, che scriveva versi in segreto”. A Lucio Piccolo Álvarez García spiega, quando già era in crisi con la vocazione sacerdotale,  che Sciascia ha torto, i siciliani sono religiosi, pieni di santuari e di devozioni: “Sciascia confonde religiosità con cattolicesimo. Io credo che i siciliani non riusciranno mai a essere veri cattolici  proprio perché sono troppo religiosi. Hanno venerato come santi perfino i delinquenti! Pensi al culto che i palermitani tributavano alle anime dei «decollati»”. Di Tomasi di Lampedusa, incontrato qualche volta con Piccolo, poco loquace, “uomo a cui piaceva più ascoltare che parlare”, ricorda che lamentava di Cervants che avesse scritto solo “Don Chisciotte” – lui che resterà per un solo libro. C’è molto anche di Consolo, amico personale di Álvarez García – che il libro dice scritto su richiesta e stimolo dell’amico,.   
Gonzalo Álvarez García,
Le zie di Leonardo

mercoledì 12 maggio 2021

Cronache dell’altro mondo – il vaccino è americano (114)

A fine marzo la produzione di vaccini anti-covid veniva così contabilizzata: 229 milioni di dosi in Cina, 164 negli Stati Uniti, 125 in India, 110 nell’Unione Europea, 16 in Gran Bretagna.
La Cina ne  aveva destinati all’esportazione quasi la metà, il 48 per cento, l’India il 44 per cento, l’Unione Europea il 42 per cento. Si tratta in realtà di produzioni non “nazionali”, ma realizzate nelle varie aree in dipendenza dai siti produttivi di case farmaceutiche per lo più americane.
Gli Stati Uniti non hanno esportato nulla, non nella presidenza Trump né in quella Biden – anche in aprile e maggio non hanno esportato. E hanno assorbito una parte delle esportazioni degli altri paesi grandi produttori.
La proposta Biden di liberalizzare i brevetti sui vaccini anti-covid rientra in questa politica, d’incrementarne la produzione anche fuori degli Stati Uniti, dove si produce per l’esportazione e a basso costo, come la Cina e l’India.

Hemingway in cerca della felicità

Una riedizione de “Il vecchio e il mare”, Oscar Mondadori, a cura di Silvia Pareschi, comprende anche questa prima stesura del racconto che valse a Hemingway il Nobel nel 1954, venuta alla luce nel corso del 2020. Il settimanale anticipa il racconto, con la presentazione di Antonio Monda. È, in breve, “Il vecchio e il mare”. Una curiosità quindi. Ma speciale per il titolo. Che riecheggia il diritto costituzionale americano “alla felicità”, ma in Hemigway ha un senso: del bisogno della ricerca (pursuit, che è anche “caccia”), di un continuo stimolo o sfida.
Un racconto che inevitabilmente si lega al suicidio finale, ma sottolinea come nello stile di vita espansivo e quasi sbruffone dello scrittore diventato personaggio la malinconia fosse in agguato sin dagli anni della maturità, e forse dalla gioventù. Una testimonianza in chiave biografica, più che un documento per i futuri esercizi filologici. Ma pregnante: si legge il racconto sotto questo titolo con altro sentimento, come se il marlin impaniato fosse lo scrittore-pescatore.
Ernest Hemingway, La ricerca come felicità, “Robinson”, € 0,50

martedì 11 maggio 2021

Problemi di base asiatici - 637

spock


Bersaglio negli Usa sono ora gli asiatici, li ammazzano i neri e gli ispanici: nel nome dell’antirazzismo?
 
“Le persone alla nascita sono intrinsecamente buone”, Chloé Zao?
 
Ma si premiano solo film asiatici, a Venezia, a Cannes, e negli Usa agli Oscar: c’è un ordine, è un risarcimento?
 
Anche film americani, purché firmati da asiatici?
 
O è un trucco: si premiano film brutti per dire che non c’è niente di buono da aspettarsi dall’Asia?
 
Sarà Chloé la nuova potenza - la Cina che si fa americana?
 
Ma, aggravandosi il confronto, come fare a considerare “alieni nemici” tanti cinesi d’America, dove confinarli?

spock@antiit.eu

Oliver Twist rinasce divertente

Classificato giallo\drammatico, come si conviene a un classico, di Dickens poi, è di fatto mezzo “Ocean’s Eleven”, giallo per ridere, e mezzo Bud Spenser-Terence Hill, botte da orbi. O meglio un terzo e un terzo, in condivisione con Superman, si vola molto. Molto si fa con le tecnologie (si clonano i cellulari, si ascoltano da remoto, su una skyline londinese di grattacieli, luminosi, e quindi Dickens c’è poco, niente dolori, molti scherzi. Anche perché non c’è la questione sociale e la redenzione. Si ruba ai ladri, almeno nel furto in cui Oliver Twist si fa protagonista: il capobanda Fagin, che naturalmente non è più l’ebreo camorrista originario, ex mercante d’arte, si deve vendicare del suo ex socio, che l’ha derubato di tutto, e Twist, cresciuto con la mammina, quando ancora ce l’aveva, a musei e gallerie d’arte, fa del suo meglio.
Nulla a che vedere anche con i precedenti, David Neal, Carol Reed e Polanski. Cento minuti di spensieratezza, senza problemi. La scena e degli stunt, maschi e femmine, del  Fagin di Michael Caine, che fa Michael Caine, e del giovane Rafferty Law, figlio d’arte, che si direbbe, lui sì, l’incarnazione di Twist, sfacciato e onesto.
Martin Owen, Twist, Sky Cinema

lunedì 10 maggio 2021

Pechino sbarca nel Golfo

Gli Stati Uniti si ritirano dal Medio Oriente, la Cina prova, con cautela, a prenderne il posto. Su basi economiche (petrolio e sistema dei pagamenti) e non politiche, tanto meno militari. Ma con decisione, come è d’uso a Pechino: ogni scelta, dopo ponderazione, viene preparata e perseguita con ampia mobilitazione e determinazione.
Dalla “acquiescenza” con Washington nelle guerre di Bush jr. in Afghanistan e Iraq, Pechino è passata vent’anni dopo a un “patto” con l’Iran suscettibile, si fa sapere, di sviluppi militari.
Nel caso, la Cina riesce a tenere i piedi in due staffe, non abbandonando la relazione economica stretta avviata da un dodicennio con l’Arabia Saudita, da quando è il primo importatore di greggio del reame, prima degli Stati Uniti. Dopo la mancata protezione americana nell’attacco dei droni iraniani (yemeniti ma iraniani) del settembre 2019 che portò a dimezzare la produzione di petrolio, l’uomo forte di Riad, Mohammed bin Salman, è passato deciso con Pechino sulle questioni aperte dagli Stati Uniti, degli Uiguri del Sinkinag e di Hong Kong.
È presto per valutare l’esito di questa iniziativa cinese. Gli accordi col regime degli ayatollah  sono sempre incerti – non c’è a Teheran un sistema statale o di potere che garantisca continuità, ma gruppi di interessi in contrasto. Iran e Arabia Saudita si pongono inoltre difensori dell’islam, e la politica restrittiva di Pechino contro le minoranze islamiche potrebbe presto confliggere.
È certo invece il disimpegno americano. Il “retrenchment” militare è parte di un più generale disinteresse americano (Libia, Siria, e il ritiro dall’Afghanistan dopo l’abbandono sostanziale dell’Iraq). Biden mostra di voler sfidare Pechino su ogni fronte, ma non abbandona la politica di disimpegno dal Medio Oriente avviata dalle presidenze Obama, di cui era vice.

Liberateci dalle cronache giudiziarie 1 - Davigo

Un giudice, e uno per il quale tutti gli altri sono colpevoli, che passa documenti riservati a scopo di ricatto politico al presidente grillino della commissione Antimafia in un sottoscala del Consiglio Superiore della Magistratura non è una scena ridicola. È la scena di un crimine. Ma questo non si legge da nessuna parte – in attesa, certo, che “la giustizia faccia il suo corso” (quando, fra qualche anno, si sarà deciso chi dovrà occuparsene). I cronisti giudiziari non hanno il senso del ridicolo, e passi. Ma nemmeno quello della legge, o almeno del diritto.
E i loro giornali? Poi si dice che non hanno credito e nessuno li compra. Perché dovrebbe?

Liberateci dalle cronache giudiziarie 2 – le spie

Renzi che parla con lo spione Mancini nello spiazzo di un autogrill, senza maschera e a voce alta, tanto da imporsi a una gentile insegnante riservata, che aspetta im macchina paziente col suo papà che va e viene dal gabinetto perché ha la diarrea, e nel mentre fotografa tranquilla i due, che si lasciano fotografare, questo invece non è ridicolo e fa scandalo.
In effetti sì, lo scandalo c’è: la gentile e riservata insegnante, riprendendo l’autostrada col babbo ristabilito, nota che la macchina di uno la supera, quella dell’altro no. Segno, arguisce, che l’altro ha invertito la marcia . Segno che l’incontro non era casuale. Una spia di mestiere non ci sarebbe arrivata. – o sì?  
Certo, è possibile che l’altro sia messo a mangiare all’autogrill. Di questi tempi è semiproibito, ma avendo appetito si può sempre fare ai tavolinetti fuori.
Oppure è andata così: che i due facevano scena per farsi riprendere dall’insegnante col babbo, e quando gli strizzoni si sono allentati e lei è ripartita, anche loro hanno chiuso la scena.    .
Una insegnante eccezionale. Eroica, che sta al pezzo fredda benché il babbo abbia uno dei sintomi del covid. Capace di riconoscere lo spione Mancini, che non è un Fedez, uno su tutti i pizzi, né Sophia Loren. Brava poi a memorizzare le targhe delle macchine. E soprattutto a guidare attenta in autostrada, leggendo le targhe delle macchine che la sorpassavano.
È stata brava, certo, a guidare piano: così bisogna fare in autostrada, un po’ di sicurezza.
Che Rai, e che giornali! Che politica!
Ma, stando sulla corsia di destra, stretta fra i tir, ha controllato bene e tutte le targhe del continuo sorpassìo sulle due corsie esterne?
 

La scoperta dell'Italia

Un viaggio nella lentezza. “Impossibile, dirà qualcuno. Invece no. Provate a viaggiare da soli, senza navigatori, senza un passeggero accanto. Lontano dalle autostrade vi toccherà fare il punto quasi a ogni bivio. La mia andatura è, letteralmente, a singhiozzo. Sosta per controllare il radiatore, sosta per buttare giù due appunti, sosta per chiedere la strada,  sosta per controllare le carte, sosta per scattare una foto, Tranne un solo giorno, non ho mai superato la quantità  percorsa da una diligenza, un corriere Inca, o un messo a cavallo del sultano di Costantinopoli”.
È una vera e propria scoperta dell’Italia che Rumiz faceva una quindicina d’anni fa. Sulla traccia, forse inavvertita, di Pasolini:  “I borghi abbandonati degli Appennini e le Prealpi” sono di Pasolini-Orson Welles, “La ricotta”, 1963. Su una Topolino del 1955, come una volta si sarebbe fatto a dorso di mulo, invece che a cavallo: un viaggio nella lentezza. La scoperta dell’Italia nascosta, rimossa – “un Pianeta del Silenzio”. Come succede nelle famiglie che si vergognano di qualcosa. Della montagna: le Alpi e gli Appennini. Secondo un itinerario, affisso in esergo, dettagliato, come Rumiz usa prima di mettersi in moto, posto per posto, con dati e curiosità – “Ho un vizio, leggo carte geografiche e le imparo a memoria”.

Un viaggio fantastico nella realtà, i luoghi, le persone, gli eventi. Pieno anche di cose inconsuete e rare, e personaggi unici, ma narrazioni, immagini, annotazioni a ogni passo nuove e vecchie. Le “presenze”, soprattutto, sono sorprendenti. I “saggi ignoranti” di montagna di Guccini, “che sapevano Dante a memoria e improvvisavano di poesia”. Annibale un po’ ovunque lungo l’Appennino. La Legio Tebea, di Egiziani che si ammutinarono allordine di uccidere i cristiani e si sparpagliarono per le Alpi – il loro capo, Maurizio, ha dato il nome a St. Moritz. Gli Apuani nel Sannio e i Sanniti nelle Apuane – dove peraltro si parla anche “antico tedesco”. Anche “un viaggio topografico a caccia di toponimi”, che sempre hanno qualcosa da raccontare.
Rumiz sa raccontare – far parlare – le cose. Gli Appennini “dai becchi inconfondibili chiamati «Pen» che migliaia di anni fa hanno dato il nome al tutto e ancora oggi danno il senso al tuo andare.  Monte Pènice, Penna, Pennino, Penne, Pennabilli, Pescopennataro. Li ritrovi dalla Liguria al Molise. Sono le boe di una regata transoceanica…” – e penisola, etc.. O i nomi. Bobbio apre la stura – fino a Babuška e Baba Yagà. O “eremo”: “Il greco dice già tutto. Erema: dolcemente, quietamente, tacitamente, lentamente. Eremazo: sono quieto, silenzioso, melanconico. Eremei: sto calmo, zitto, saldo, immobile”. Con “i fruscianti nomi etruschi – Viesci, Ruscio, Cascia, Pescio”.
L’Appennino è un mondo frastagliato. In pochi km quadrati tra Sarzana e Alessandria, Rumiz può trovare “discendenti da pirati arabi in fuga dai genovesi”, legnaioli, lanzichenecchi di un metro e ottanta reduci da razzie, fisionomie asiatiche, una “Rabbini, ex zona ebraica”, un villaggio “dove usano ancora l’alto tedesco”, “una caserma di dragoni che ha elevato di venti centimetri l’altezza media dei locali”, e “Badi, sul crinale parmense”, dove “perfino i cavalli rivendicano ascendenza unica”. Ma, poi, l’Appennino è la montagna dietro casa. Racconti quindi soprattutto di montagna. Di un cittadino, cosmopolita, che ama e sa raccontare la montagna. I luoghi, le persone. Negli nni si è fatte tute le montagne, dalla Slovenia a Arma di Taggia, da Cervino all’Aspromonte. Con uno speciale talento nell’ìndividuare e raccontare persone e casi eccezionali nell’attività ordinaria, quotidiana.
C’è la natura, sempre rappresentata in azione. C’è la geografia, la storia, e soprattutto l’antropia, l’ambiente umano. Dal vivo e nel ricordo, che qui e là ovunque riemerge. C’è il mito – c’è dappertutto. C’è molta storia. Diego De Castro. Il mondo occitano, l’“arcana cristallizzazione” da Saluzzo alla Catalogna. Di passaggio, microanalisi storiche, politiche, ambientali. Dei luoghi, di forte impatto, analitco e narrativo: la Slovenia, per esempio, Ugliancaldo, Vagli, la “variante di valico”, l’enorme buco sotto l’Appennino tra Bologna e Firenze, e la rovina del Mugello sovrastante. O i ritratti, Joerg Haider come Vinicio Capossela, e i tanti uomini della montagna,. Bonatti, Mauro Corona, Rigoni Stern. Kapuscinski. O Francesco Bider da Biella, un amico di Rumiz dal tempo si Sarajevo, “operaio tessile”, volontario di tutte le guerre, di tutte le spedizioni umanitarie per aiutare le vittime, con “barbone mesopotamico.
Un atlante, a futura memoria. “La devastazione del Piave, disidratato dalla sorgente”. La “Passione” di Erto, sotto la diga funerea del Vajont. “L’orticello veneto” e la nostalgia da spaesamento. Da incontri anche casuali Rumiz sa estrarre vite e storie “eccezionali”: misurate e meravigliate. I siciliani giovani che emigrano in “viaggio speciale”, andando in Germania a sostituire i manovali turchi nel periodo estivo, delle vacanze – vengono dall’agrigentino, in parallelo, il lettore è portato ad associare le immagini, col rassicurante “Montabano” della tv negli stessi anni. I “monti naviganti” sono una visione onirica, dormendo a Rocca Calascio, in Abruzzo. È il paesaggio domestico, infantile, casalingo, trasportato dal mare alla montagna: “Le cime galleggiano su uno strato di nubi fosforescenti, formano un perfetto arcipelago. Una somiglia a Curzola, un’altra a Mèleda, un’altra ancora a Brazza. Ma sì, l’Appennino è solo una Dalmazia senza il mare. Sognerò un transatlantico pieno di orchestrine, in viaggio tra neri promontori. L’epifania dei monti naviganti”.
È la scoperta del Sud forse più che della montagna. Delle Alpi si è detto tutto. Della variate di valico che ha distrutto mezzo Appennino tosco-emiliano pure. Restava da passare “il muro di Ancona” del comico Ferrini. Scoprire le Marche interne, il Molise, la Basilicata, un po’ di Calabria.
Con alcune curiosità d’autore. I suoi Slavi qui inquietano Rumiz. Che si trova il più spesso a pensare in termini di Dalmazia. La genealogia del liuto, dall’arabo Al Hud, uscio, cavità risonante, è un racconto.
Si riedita in economica un viaggio presto diventato un classico, la raccolta delle corrispondenze per  “la Repubblica” l’estate del 2006. Dell’Italia dimenticata e quasi cancellata dall’incuria e gli abbandoni – o dalla disattenzione? Con molte foto, pregnanti come il testo (purtroppo non ben riprodotte), di Monica Bulaj.
Paolo Rumiz, La leggenda dei monti naviganti, Feltrinelli, pp. 343, ill. € 12

domenica 9 maggio 2021

Problemi di base - 636

spock


“La condanna non è una prova”, J. Giono?
 
“Niente di ciò che esce dall’uomo è frivolo agli occhi del filosofo”, Baudelaire?
 
“Il saggio non ride che tremando”, Joseph de Mastre?
 
“Il riso umano è intimamente legato all’accidente di una caduta antica, di una degradazione fisica e morale”, Baudelaire?
 
“Il comico è un elemento condannabile di origine diabolica”, Baudelaire?
 
“Dio ti ha dato due orecchie e una lingua perché tu ascolti più che parlare”, San Bernardino da Siena?


spock@antiit.eu

Roma, Italia, 2020, in festa con i morti

Un grottesco - in cui lo steso Pietro Castellitto si ritaglia il ruolo motore, uno dei ruoli motore, dell’assistente universitario sbrigativo, disilluso e licenziato che va a mettere una bomba alla tomba di Nietzsche, fotogrammi di inizio e fine del racconto - su Roma e l’Italia in questi anni 2020. Che con i sottotitoli al romanesco stretto, non più l’italiano del cinema, della Rai, ma un dialetto, sarebbe stato un pugno  nell’occhio ancora più violento, ma già così basta: tutti si divertono un mucchio, distruggendosi a vicenda, morendo anche.
Il racconto è delle vite parallele dei “bene”, ricchi, intellettuali, grandi professionisti, medici, registi, scrittori, avvocati, e degli ex borgatari degli “ahò?”, “signora mia!”, “ ‘a stronzo!”, ora al governo a Roma, armaioli, nazisti (Giorgio Montanini sembra il gemello di Giuliano Castellino, il capo di Forza Nuova a Roma, impressionante), trafficanti d’armi, che s’incontrano per un paio di casualità, una procurata dall’assistente sbrigativo in cerca della bomba per Nietzsche, e si divertono un sacco, in modi agghiaccianti, s’abboffano o s’ubriacano,  muoiono, si dilaniano anche, e non lo sanno.
Un Ettore Scola, “La famiglia”, “La terrazza”, con cattiveria questo esordio di Pietro Castellitto. Con un po’ di convinzione, in aggiunta al divertimento, con un po’ di misura, era un capolavoro. Resta un reperto d’epoca oltre che spettacolare. Coi ritmi giusti, cioè veloci, recitato da tutti come a scolpirsi, con ferocia si direbbe, mai rituali: Popolizio, Montanini, Gerardi, Marchioni, Cassini, Paone, il professore barone, Manuela Mandracchia, incredibile regista, e Anita Caprioli per la parte bene, le debuttanti Giulia Petrini e Liliana Fiorelli “le mogli” dei supergasati borgatari, Marzia Ubaldi, la mamma svanita. Raccontano pure gli esterni, la campagna di Lipsia in avvicinamento alla tomba di Nietzcshe, tutta Osta nei dettagli, bar, piazze, lungomari, pontili, e Fiumicino, col placido laghetto dei fenicotteri rosa a Cerveteri vittimizzato per le feste truculente con polgino di tiro dei nazicoatti.
Pietro Castellitto, I predatori, Sky Cinema