Cerca nel blog

sabato 26 novembre 2022

Ombre - 643

Il sindacalista Soumahoro è un gentiluomo, sua moglie no. Ma non per i 65 milioni che ha incassato col business immigrati, che teneva al buio a pane e acqua, no, perché ha “lavorato con Berlusconi”.

La moglie di Soumahoro, vedette di Instagram, veramente ha lavorato con Prodi e poi con Berlusconi, ma solo questo conta – “lavorato” nel senso che partecipava alle riunioni del rappresentante della presidenza del consiglio per l’Africa. E anzi, suggerisce D’Agostino-Dagospia, “avrebbe incontrato personalmente Berlusconi”. Nel corridoio? Da minorenne? Siamo messi bene.

“Migranti e gas, l’Italia è sola”, informa a grandi lettere “la Repubblica”. Non è vero, ma è un titolo contro Meloni, oppure a favore?

Però, è singolare che la Francia, la quale va a caccia a fucilate di immigranti da Ventimiglia a Gressoney, o li espelle senza mandarli dal giudice, e la Spagna, che contro i migranti ha il suo “muro” in Marocco, siano erette in Italia a paladine degli stessi, i migranti sbandati che vengono dall’Africa. È il pubblico italiano di bocca buona, o lo sono i media?

È singolare che l’arroganza, e anzi la violenza, di Macron sugli immigrati sia presentata in Italia contro il governo di destra, mentre sicuramente gioca a favore. La fratellanza massonica con Macron gioca anche a favore di Meloni – due piccioni a una fava?

Su “la Repubblica” Francesco Merlo statuisce che “affittare a prostitute non è immorale”.  Affittare a prostitute per l’esercizio della prostituzione è immorale e anche illegale. Ma questo non importa: lo stesso Merlo, a seguire, condanna il Maxxi, il museo di arte contemporanea di Roma, che al caffè-ristorante dà licenza di tenere concerti notturni, tra “lenzuoli e cartelli di protesta” degli abitanti del quartiere Flaminio. Il quale invece attorno al Maxxi è deserto, tra casermoni, chiusi, e una parrocchia gigante, con cinema, anch’essa quasi chiusa. Prostituzione sì, musica no?

“Cina, India, Africa ed America Latina sono anche loro consci della fine del mondo occidentale monopolare”. Lo dice a Imarisio sul “Corriere della sera” Leone Tolstoj, un fedelissimo di Putin, vice-presidente del Parlamento russo, benché bisnipote e omonimo del grande scrittore. Ma questo ognuno lo vede. Solo l’Europa non lo vede – o meglio, solo l’Italia: solo l’Italia è ancora nel pensiero unico.

L’ex Telecom Italia ora Tim, dopo avere trascurato per vent’anni gli utenti, senza nessuna politica di fidelizzazione, e tuttora osteggiandoli con un numero verde impervio e un sito impraticabile, da qualche mese perseguita i fuggiaschi con chiamate in serie ogni giorno. Contro cui non c’è protezione. Si direbbe che non sia la maniera migliore per riconquistare gli utenti. Ma l’importante in quell’azienda è ancora dare appalti – anche se disperati: cercare clienti.


Molte partite agli inizi del Mondiale, le più importanti, la Rai ha di fatto oscurato per la maggior parte degli utenti, con le procedure impervie richieste per riconnettersi al digitale terrestre. Sicuramente un’imprevidenza, non un abuso. Ma viene da ricordarsi nel caso che la Rai è una tv a pagamento: la tv pubblica è a pagamento, e obbligatoria, senza esenzioni.

Mercoledì: “Salvini detta la vera agenda del governo Meloni”.  Giovedì: “Da capitano a comprimario, la parabola di Salvini”, “Ormai non tocca palla”. Sempre lo stesso giornale, “la Repubblica”. Per (e)lettori absent-minded?

Si fa caso degli affari di Soumahoro, il sindacalista dei braccianti ora deputato della Sinistra, con i fondi pubblici per l’accoglienza dei migranti, per il lavoro in cooperativa, e con un fondo contributivo di sostegno ai braccianti. Non ci si interroga se gli abusi sui fondi per l’accoglienza dei migranti siano nel caso un’eccezione, o non la normalità. C’è un business dell’accoglienza dietro la dottrina dell’accoglienza.

Il governo circoscrive il reddito di cittadinanza. “La Repubblica” contesta la decisione con volti di donne “ben messe” e sorridenti – solo contente di “uscire sul giornale”?

È bizzarro il composto Conte che fa il tribuno, non avendone il volto, la voce, e nemmeno i sensi. Dice per esempio “disumana” la legge di bilancio, solo perché vuole ripulire (un po’) il reddito di cittadinanza, mentre non trova parole per condannare l’aggressione russa all’Ucraina. Ma evidentemente ha un pubblico che lo segue, a cui piace, che gli dà ragione.

Si assiste con un che di Schadenfreude, di piacere maligno, alla sconfitta di grandi nazioni del calcio a opera di outsider, dell’Argentina con l’Arabia Saudita, della Germania col Giappone. Non è Schadenfreude razzista, cioè antirazzista, anche il Canada ha vinto “moralmente” contro il Belgio (ha perso per l’incapacità dell’arbitro, notoria - è stato messo lì solo perché “ci vuole un africano?”). È un piacere maligno legittimo, contro la spocchia.

La squadra tedesca, che prende in giro la Fifa tappandosi la bocca, con la solita - lieve - ironia tedesca negli occhi furbi e nella bocca, sembra la caricatura dei diritti. Anche prima di buscarle dal Giappone.

Alberto Rimedio usa la parola “razze” in telecronaca parlando della grande varietà di pubblico negli stadi del Qatar. Alla ripresa della telecronaca si deve profondere in reiterate scuse per avere usato la parola “razze”, spiegando che voleva dire e bisogna dire “nazionalità”. Sarà questo il Mondiale della stupidità politica, invece che della corruzione?

Le nuove schiave dalla Nigeria

“Non fosse per l’Italia, ci sarebbe la guerra civile in Nigeria, credimi”. Un nigeriano sulla spiaggia di Tripoli, in procinto di essere stipato su un gommone, rifornito con due latte di carburante, “quanto basta per raggiungere le acque internazionali”, lo dice convinto a Ben Taub, giovane giornalista americano che ha seguito la traccia dell’immigrazione dalla Nigeria all’Italia via Libia. Attraverso il Niger. Un mondo di mafiosi e truffatori. Implacabili e impuniti. In un mondo senza legge, compresa la Nigeria, che è “il paese più ricco dell’Africa”.

Un lungo articolo, molto documentato, con una utile cartina che mostra il viaggio dalla Nigeria a Tripoli sui mezzi di fortuna dell’organizzazione: 1.600 km. da Benin City a Agadez, in Niger, quindi le gole dei monti Aïr e il deserto collinare, da Agadez all’oasi artificiale di Sebha, 2.400 km., e altri 800, di sola sabbia, da Sebha a Tripoli. 

Il reportage parte da Benin City, la città della Nigeria sud-occidentale che fu capitale di un glorioso impero, il Benin, finito quando i sovrani si vendettero i nemici come schiavi, e oggi anche wikipedia registra come la capitale della prostituzione nigeriana in Europa, e specialmente in Italia. Capitale ufficialmente dello stato di Edo, uno degli stati yoruba della federazione nigeriana. Governata da “sacerdoti” juju, piccoli stregoni in cerca di elemosine e affari, spiega Taub. Che in forma narrativa documenta un mercato inesauribile di infamie, nutrito dal bisogno e perfino dalla fame. Dove unico tema è il denaro, money,  e la moneta è la prostituzione. Si prostituiscono le ragazze, dai quattordici anni in su, il tempo necessario per pagare i trafficanti, già lungo l’interminabile viaggio terrestre, i quasi cinquemila km. da Benin City alla costa libica, sei mesi, per raggiungere l’Europa – “Roma”. Pagato il necessario, una somma sempre elevata e comunque elastica, e alla mercé dei trafficanti senza alcuna protezione - Taub conta 116 prostitute nigeriane uccise in Italia tra il 1994 e il 1998. Alcune di loro diventeranno “madame”, cioè “aiuteranno” le madri di Benin a fare cassa prostituendo le figlie. Il catenaccio dice tutto: “Ogni anno migliaia di teen-agers da una sola città della Nigeria rischiano la morte e si sottopongono a lavoro forzato e prostituzione nella lunga strada verso l’Europa”. Nel solo 2016, si può aggiungere, circa 8 mila delle 11 mila donne nigeriane sbarcate in Sicilia sono state avviate alla prostituzione.

Un mercato schiavistico, che dura con l’Italia da mezzo secolo, quarant’anni buoni, e nessuno indaga, solo il “New Yorker” – ora giusto accennato, col sorriso, dal film buonista “Princess”.ar

Ben Taub, The desperate Journey of a Trafficked Girl, “New Yorker”, 10 aprile 2017, free online

venerdì 25 novembre 2022

Che fare con l’America First di Biden

La Cina nel mirino dopo la Russia? I governi europei si stanno concertando sulla risposta da dare agli Stati Uniti, al presidente Biden, alla sua dottrina del “confronto” (scontro) con la Cina quale emerge dalla sua National Security Strategy, resa pubblica un mese e mezzo fa.

Scontato che una risposta non può essere negativa, si studia come “confrontarsi” con la strategia di Biden. Da qui il nome del programma cui si sta lavorando, Europea Sovereignity Act. Il clima è nervoso, anche perché molte industrie europee, specie dell’auto, risentono come protezionistico, in particolare contro l’Europa, l’Inflation Reduction Act-Climate Bill di Ferragosto. E quindi la reazione europea non dovrà prestarsi alle inevitabili controaccuse di protezionismo.

Fuori dal contesto storico dello atlantico, il clima generale si direbbe di ostilità. Si stima che il presidente Biden ha rafforzato l’“America First” di Trump con misure bellicose, dal punto di vista militare e da quello commerciale. Militare col sostegno incondizionato all’Ucraina, col Lend Lease Act di marzo (così chiamato per analogia con quello storico, del presidente F. D. Roosevelt, che fornì mezzi e materiali nel 1940-1941 all’Inghilterra contro Hitler e alla Cina contro il Giappone). Commerciale con l’Inflation Reduction Act e con la National Security Strategy.

 

Cronache dell’altro mondo – telescopate (232)

Gli Stati Uniti sono una potenza diversa: non hanno nemici potenziali ai confini.

Sono protetti da due oceani.

Hanno una costituzione “divina”, intoccata da 230 anni.

Hanno elezioni ogni due anni.

Fanno guerra in continuazione.

Sono la “nazione unica” di John Quincy Adams, il sesto presidente, figlio di John Adams, il secondo presidente, autore della “dottrina Monroe”, o l’America agli Americani, una dottrina imperialista a ridosso della nascita della nazione, con applicazioni costanti, dapprima nel continente americano e nel Pacifico, contro la Spagna, il Giappone e la Cina, poi, nel Novecento, in Europa e nel mondo.

“Per gli Stati Uniti l’Europa è la testa di ponte geopolitica essenziale col continente euroasiatico. La posta geostrategica dell’America in Europa è enorme” - Zbigniew Brzezinski, “La grande scacchiera”, cap. 3, “La Testa di ponte democratica”

(Klaus von Dohnanyi, “Nationale Interessen”).   

La violenza che viene dal basso

Una specie di film-verità: un ritratto dal vero della vita in un grand immeuble di edilizia popolare, un Corviale infetto di occupanti abusivi, condomini che non pagano le quote, amministratori inetti e ladri, speculatori del letto per immigrato “invisibile” (senza documenti) a caro prezzo, perdite d’acqua, luce rubata, immigrati che speculano sulla condizione di immigrati, specie i “minori”, supposti. E una sindaca bionda che vuole risanare, ripartire, ridare una opportunità a tutti, anche a costo di rinunciare alla carriera politica. Aiutata dal suo capo di gabinetto.

Un film che è stato apprezzato a Venezia ma forse non compreso, giacché è presentato come un apologo contro il potere, sulle malefatte del potere. E lo è, ma in forme diverse da quelle scontate: è un potere che guarda ai cittadini, si conforma a essi. Di più, però, è un film su una società in disgregazione, con pochi punti di resistenza, quale nel racconto è la sindaca, determinata malgrado le tante avversità.

Un film che il politicamente corretto sottintende come ipocrisia, a fronte delle realtà. Della violenza dei poveri e della corruzione. E, nella distribuzione dei ruoli come nelle scene e nei dialoghi, degli oneri della misgenation, sociale e nazionale. Mostra la violenza dal basso, minima ma costante, che stride con la società dei diritti che pure vorrebbe proteggerla, ed è rischiosa, per la vita comune, e per i diritti stessi. Non uno sguardo razzista, l’eroe, il capo di gabinetto, è figlio di magrebini, marocchino. Ma gli abusi di ogni genere con cui deve confrontarsi per salvarli sono di immigrati – il collettore di affitti agli africani sans papiers si chiama Esposito.

Thomas Kruithof, La Promessa – Il prezzo del potere, Sky Cinema Due

giovedì 24 novembre 2022

Il mercato dell’immigrazione

Il film “Princess” ripropone per uno specifico aspetto, la prostituzione, il mercato dell’immigrazione, di cui questo sito ha più volte spiegato l’organizzazione. Con le evidenti, benché segrete, connivenze in Italia. Anche, perché no, le mafie esistono per questo, sotto la forma dei “diritti”, dell’incitamento libertario e umanitario ad aprire le porte. Questo “segreto” è palese nella tratta nigeriana delle prostitute, di cui nel film. In argomento è utile rileggere quanto il sito diceva il 25 marzo 2018:

Nigeriane – L’illegalità dell’immigrazione è italiana? Le nigeriane in Italia, si potrebbero dirle un mistero, o farne un mistery, ma risaputo. Anche semplice: chi le porta in Italia, legalmente, chi le sfrutta? Col corollario che le colpe, o i reati, dell’immigrazione illegale sono dell’Italia. Prevalentemente, di organizzazioni e controlli compiacenti italiani.

“La Lettura” indaga con Teresa Ciabatti a Castelvolturno nel casertano, “25 mila italiani e 25 mila immigrati”, l’ampio mondo delle nigeriane in Italia. Delle prostitute nigeriane. Del traffico nigeriano di prostitute, “qualcuna di dodici anni”. È una scoperta, non è mai troppo tardi. Ma c’è di più: le nigeriane sono la chiave, ancora irrisolta, dell’immigrazione illegale in Italia. Da un paese cioè non confinante e anzi remoto. Da un’epoca anche remota, quando non c’era il traffico degli esseri umani a basso costo e profitti stratosferici attraverso il Mediterraneo, e dalla Nigeria bisognava arrivare in aereo o nave, e con un visto, impossibile sottrarsi alle polizie di frontiera.  

C’era il treno delle nigeriane (“delle puttane”) sulla Roma-Genova già negli ani 1970. Un vagone riservato, più o meno, che a Livorno si riempiva di prostitute alle sette di sera, destinazione la Versilia, da Viareggio a Lido di Pietrasanta, Forte dei Marmi (un noto bistrot canagliesco del lungomare ha conservato il soprannome “Mangia e fotti”: una banca) e Massa Centro. E alle tre di notte prendevano il treno inverso, sempre in gruppo, in vagone praticamente riservato. Niente di clandestino. Una logistica complessa, e nei decenni imperturbata. C’erano le “nigeriane” negli anni 1980 disseminate per la pineta di Castelporziano contigue alla tenuta del Presidente della Repubblica, con rigida suddivisione territoriale, stabilita dalla “madama” che ce le portava la mattina, e a ore prestabilite le riuniva per conciliaboli evidentemente di indirizzo, o per collettare le entrate. Quando Pertini aprì al pubblico buona parte della spiaggia, i sette km. dei “cancelli”, diventarono una parte del panorama.

Le virgolette sono d’obbligo per “le nigeriane”, perché intanto il business si era esteso dalla Nigeria ai paesi confinanti. A opera delle “madam”, che in Nigeria sta per imprenditrici: donne di grande energia e disinvoltura: appena fuori dal poto di Lagos e dagli aeroporti internazionali, nessun affare, piccolo e grande, sfugge alle “madam” nigeriane. In età e anche giovani. In “La gioia del giorno”, così Astolfo ricorda la figura della “madam” già negli anni 1970, uscendo dall’aeroporto di Lagos: “Nella fila lenta di macchine che vanno in città, lunga dieci chilometri, o venti, solo incedono i camioncini delle madam. Cigolando, fumigando, i cassoni pieni, di uomini e donne seduti stretti con le mani sulle ginocchia, scivolano sul bordo, fanno un pezzo fuori strada, poi risalgono sull’asfalto, sorpassando imperiose le macchine senza balestre che restano a sudare ferme nell’afa equatoriale sotto lo smog, e suonare il clackson.

“Altre donne domatrici si trovano in Africa, non quelle voluttuose dei romanzi dell’Ottocento, ma donne d’affari, la regina Vittoria non è riuscita a ingabbiarle nell’antropologia della schiava tribale. Il corpo delle matrone reso più massiccio dai paludamenti, la voce rauca che emette unicamente un suono, una cifra, lo stecco mobile tra i denti mentre sogguarda il cliente con le palpebre scese, per calcolarne la tariffa. Che non è quanto il cliente può dare, per censo, abiti, lingua, ma quanto è disposto a dare. La madam dirà una cifra che per lei è alta ma fa sentire il cliente contento, oltre che protetto. Il denaro deve avere proprietà terapeutiche nella magia yoruba, una causa da aggiungere alle origini del capitalismo”. Il privilegiato in taxi, o in auto aziendale”, continua Astolfo, “non ha questo piacere, è preso e riportato da mezzi che beneficiano dell’extraterritorialità, avendo pagato in anticipo, in abbonamento, il fee o bakhshish dovuto ai vari gradi di autorità. Ma ogni madam con cui incrocia lo sguardo dietro il finestrino gli fa il calcolo mentalmente di ogni altro affare possibile, compravendite, cambi, affitti, le ambitissime licenze commerciali, o solo marchette.

“Il mercato inizia a Lagos all’aeroporto, sporco e ingorgato, ma con proposte di convenienza, quindi di efficienza. Si danno in albergo molti ricevimenti, per uomini grassi, l’aria sudata o affannata sotto le cravatte sgargianti, che passano da un ricevimento all’altro, per il potere, che è chiacchiera. Le donne, anche le mogli, sono invece padrone severe del mercato, per i soldi”.

Le madam avevano e hanno molti commerci a Lagos e altrove, in Nigeria e fuori. Nigeriani erano i primi pusher di droghe sui marciapiedi in Italia. Tutta gente quindi con passaporto e visto di ingresso. Nella distrazione continuata e totale.

Solo un anno fa, e solo sul “New Yorker”, il fenomeno delle nigeriane in Italia è stato investigato, da un giornalista americano. Che ha trovato agenzie di reclutamento in più città della Nigeria. Un’attività dichiarata. Con tariffe scaglionate per vari tipi di “ingresso in Italia”. Compreso quello a basso costo, la rotta del Sahara e della Libia, senza visto.

Fenomeno analogo, se non criminale come la prostituzione, è stato ed è – oggi un po’ ridotto – quello dei “vu cumprà”. Torme di piccoli ambulanti del Nord Africa e del Bangladesh arruolati, con l’offa del banco al mercatino. Organizzati, suddivisi, collocati ognuno in una sua area. Oppure, da alcuni anni, quello dei giovani africani del Ghana e del Senegal, della diffusa e potente setta religiosa dei murinid, postati ogni giorno a migliaia come mendicanti attorno ai bar, le edicole, sui marciapiedi, portati e ripresi a turno, con cellulare.

L’inferno alle porte di Roma, freddo

Una spettacolare sociologia sul campo, delle prostitute nigeriane in Italia, a Roma, sulla strada di Castelporziano, appena fuori della tenuta presidenziale. Di De Paolis regista e sceneggiatore alla sua seconda prova - la prima fu cinque anni fa “Cuori puri”, sull’impegno di verginità della ragazza col fidanzato. Con qualche ruolo del Piam, Progetto Integrazione Accoglienza Migranti.

Chi va in stagione al mare ai “Cancelli”, alla spiaggia di Castelporziano che Pertini decretò di uso pubblico, suddivisa in nove o dieci entrate (“cancelli”) venendo da Roma, da Castelfusano, attraversa la forra esterna alla tenuta presidenziale punteggiata a tutte le ore da queste ninfe “nigeriane” (ma la più parte lo sono di nazionalità: fanno parte di un traffico ormai cinquantennale – ci sono agenzie di reclutamento stabili, con insegna pubblica, specie a Benin-City - e fino a qualche anno fa semi-ufficiale). De Paolis ha messo una debuttante esplosiva, Glory Kevin, nei panni di una di esse a diciott’anni, e le fa rivivere le giornate in forma di auto-fiction, dei suoi disparati incontri, andati ad effetto o falliti, e il film non ha un attimo di pausa - anche se la materia, la prostituzione, è ripetitiva. Ci sono le piccole scene di prostituzione, ma di essa c’è soprattutto la vera materia, il denaro – money, money, money è la parola più usata. E poi tutta la vita ai margini. Il riposo, lo svago e le liti, tra sexy worker, come bisogna chiamarle, il rito festivo in chiesa e il Dio onnipresente, le famiglie rapaci in Africa, che sempre domandano money, i money-changer ladroni, la madama o “padrona” che delle ragazze domina il corpo e anche la mente, l’incertezza di ogni rapporto, anche il più banale, la marginalità estrema – anche il bosco fuori Castelporziano è brutto.

Glory Kevin – brava di suo o ben diretta - regge tutto il film. Col supporto di alcune caratterizzazioni, i cosiddetti “tipi umani”: il riccone strafatto, l’anziano disappetente portato dal figlio, il fissato mezzo matto, quello che ci prova e non gli viene. E l’unico altro personaggio della storia, Lino Musella: il giovane solitario, che va in cerca di funghi, porta a passeggio la cagnetta, dà da mangiare ai piccioni, e prende Glory per un angelo.

Roberto De Paolis, Princess

mercoledì 23 novembre 2022

A Sud del Sud - Il Sud visto da sotto (509)

Giuseppe Leuzzi

La Lega vuole assolutamente il Ponte sullo Stretto. Di Venezia? Di Udine? Di Ponte di Legno? No, di Messina. Per affondare meglio la Sicilia, e la Calabria insieme?

Però. Conte, il succedaneo di Grillo ai 5 Stelle, che ha a cuore i giovani, il Sud, il reddito di cittadinanza, e nel mirino la Lega, che si ribellò al suo governo, perché non organizza una gita obbligatoria degli italiani allo Stretto di Messina che la Lega vuole abbrutire? Anche una gita di corsa, una giornata, con arrivo all’alba e partenza al buio, quando lo Stretto si circonda di luminarie, sfavillanti sulle omeriche acque – che con la stagione viene già alle quattro, le cinque.

È una proposta modesta, ma Salvini ne uscirebbe con le ossa rotte – si dice per dire (che vorrà dire?).

La Fabbrica del Ponte – o il miracolo della moltiplicazione

“Santo Cipriano mio dell’Aspromonte, come guardasti il monte guarda il ponte”. Nella bibbia mitica (1.300 pagine, di 40 righe, di 80 battute) che Giuseppe Occhiato ha lasciato e ora si pubblica, “Oga Magoga”, l’eroina Brandoria, sotto minaccia, prende a “recitare precipitosamente formule su formule, carmi e ciarmi, uno scongiuro appresso all’altro”. Culminando con l’invito: “Santo Cipriano mio dell’Aspromonte, come guardasti il monte guarda il ponte”. Ed è un guaio, perché ora come ora san Cipriano dell’Aspromonte, seppure è esistito, non esiste più, mentre il ponte, che tanto avrebbe bisogno di uno sguardo salvifico, miracoloso, sì. Perlomeno, si dice che sì, il Ponte c’è.

È però anche vero che qualche miracolo, anche in assenza di santi, si è già prodotto, a opera del Ponte stesso. Che dunque è da dire miracoloso?

Attorno all’Opera o Fabbrica del Ponte, quali sono in uso per i miracoli dell’architettura: il manufatto è ancora di là da venire, ma l’Opera del Ponte è attiva e industriosa, da quasi mezzo secolo ormai. Ritoccando e rifacendo, in assenza del manufatto, studi, disegni e progetti, del Ponte sopra il mare, sotto il mare, sospeso, su piloni, a campata unica, con tiranti, con mare forza 9, e terremoto magnitudo 10 – perché no, sulla carta tutto è possibile. Solo il traffico non è stato calcolato: non si sa quanti siciliani decideranno di passare il week-end in Calabria, poiché di questo si tratta, oppure di farsi un viaggetto di qualche migliaio di chilometri in macchina fino a Roma o addirittura a Milano, a Chiasso, al Brennero – a Ventimiglia no, la Francia non permette.

Da quando Pietro Ciucci, il suo primo e massimo fautore nei vent’anni da direttore generale dell’Iri e poi presidente della Stretto di Messina Co., se ne è occupato, fino a dieci anni fa, un miliardo e due il Ponte l’ha già generato. Non sprecato, si sa che la grazia divina è generosa, non del tutto:  molti architetti, ingegneri, geometri, e persone d’affari se ne sono giovati – si continua a dire uomini d’affari, ma non ce n’è più motivo. E i primi appaltatori, che ora vogliono la metà di quella somma, 600 milioni, come indennizzo con penale, per non aver fatto nulla.

Gioia Tauro no, il Ponte sì

Il governo tedesco ha ceduto una quota del terminale container di Amburgo alla società statale cinese Cosco. Contro le pressioni, anche vigorose, degli Stati Uniti. Le ragioni di sicurezza accantonando all’esigenza del porto di sostenere la concorrenza di Rotterdam e Anversa. In Italia si tenta in tutti i modi di cortocircuitare il portocontainer di Gioia Tauro, che è in concorrenza con Barcellona e Marsiglia. Tenta di boicottarlo il governo – almeno nell’edizione Draghi. Per quale motivo? Per nessun motivo – non è che boicottando Gioia Tauro si avvantaggia Genova, o Trieste, o Livorno, o La Spezia, o Napoli. Semplicemente, così: per non collegarlo all’autostrada e alla ferrovia – collegarlo decentemente, non con le “bretelle” attuali. Una spesa minima.

In compenso, si offre alla Calabria il ponte sullo Stretto. Di cui la Calabria non ha nessuna necessità, e semmai molto da temere, per il paesaggio, che è un patrimonio, e per l’inquinamento. Forse ne hanno bisogno i siciliani, ma non ne sono convinti: non ci tengono specialmente, se non come un lusso in più fra i tanti di cui l’isola è depositaria - tanto più che il danno al paesaggio lo farebbe alla Calabria, seppellendola nella migliore delle ipotesi sotto le polveri, da luogo delle sirene trasformandola in luogo mefitico di passaggio. Quello che, si parva licet, l’Austria cara al cuore della Lega si rimprovera dopo avere accettato l’autostrada del Brennero, un incubo che ha desertificato la valle, e ha fatto del Tirolo il luogo di passaggio dello spazio comune industriale Lombardo\Veneto-Baviera.

Questo nell’ipotesi che il Ponte non solo si cominci ma si finisca. Cosa impossibile: allo stato attuale delle opere pubbliche in Italia non basta una legislatura per avviare un progetto e poi completarlo. Sono più le opere non finite e abbandonate a metà, montagne di euro spese per avere deturpazioni, scheletri di acciaio e cemento armato - per esempio dentro e attorno a Roma. Si inizia, e poi non si finisce. Si inizia distruggendo, si prendono i primi soldi, e si scappa, al coperto di varianti e di tribunali amministrativi. Lo Stretto, che oggi si guarda come un mi’rāg del profeta Maometto, una visione, un paradiso, sarà ridotto a una discarica. Forse per questo la Lega lo vuole assolutamente.    

Sicilia

“Un milione di siciliani lontani dall’isola”, “Il cuore freddo di Catania”, verso l’ennesimo sbarco di ong tedesche. Non c’è giorno in cui l’isola non meriti titoli killer. Non autocritici o a fin di bene, poiché si ripetono sempre cuopi e anzi neri, ma un un approccio, una forma mentis. Di buono nell’isola ci sono solo gli spettacoli e le arti – compresa ultimamente la cucina d’autore – ma solo se di amici e compagni di cordata, o di avvedute pr.

Non si saprebbe non apprezzare l’autocritica. Se non è denigrazione – o anche solo un complesso, l’ex complesso di inferiorità.

Per l’apertura della stagione lirica al Massimo di Palermo si pubblica la foto del sindaco Lagalla con l’ex direttore artistico Marco Betta e il sovrintendente Francesco Giambrone. Lagalla sovrasta gli alti due di tutta la testa: ci sono giganti anche in Sicilia.

Lagalla è un medico, Dc, portato da Dell’Utri e Cuffaro, due condannati per mafia. Anche Giambrone è medico. Non si può dire che l’isola non abbia continuità – resilienza?

Ha tradizioni recenti di rispetto, per la stagione d’oro dei “leoni di Sicilia”, come ora si vuole chiamarli, ma poi per tutto il primo Novecento. Un conservatorio che era un laboratorio musicale di prim’ordine, in Italia e fuori. Un’accademia di belle arti che attirava giovani da tutta Europa. Un’interlocuzione costante dei letterati con Roma e con Milano. È nel dopoguerra che si è imbastardita, fino a infognarsi nella mafia e le “sicilitudini”.

Sciascia, che è grande scrittore, e anche ricercatore storico, non è quello che più di tutti ha ridotto la Sicilia a “un caso” - si è fatto un monumento sulla Sicilia? La Sicilia di Pirandello e di De Roberto, che pure era molto più overa, e forse altrettanto mafiosa, era molto più ricca di quella che Sciascia ha configurato.

Cateno De Luca ha subito una decina d’inchieste giudiziarie, due arresti, e da sindaco di Messina un processo con la richiesta di tre anni di carcere, ma non è mai stato condananto. Errori giudiziari non possono essere, sono troppi.

Ma la città di De Luca, Messina, quella sì, ha cambiato natura. Aveva un’università ricca di bei nomi. Serviva la Calabria, per l’università e i commerci – a partire dalle “bagnarote” che contrabbandavano il sale sui ferry-boat. Aveva un porto attivo, per il Nord Europa e per le marinerie Nato. Era una piccola metropoli. Ora non più, è una provincia qualunque, e senza carattere – una provincia “babba” si sarebbe detto un tempo in siciliano. Era governata dalle grandi famiglie, Aldisio, Stagno D’Alcontres, Bonaccorsi, Pulejo. Ora De Luca, Pd anomalo – come il De Luca campano: sarà il nome?

Si trovano nella “lingua” di Camilleri alcune parole che non usano in siciliano ma sì in calabrese – catoju, basso, etc. . Non è meraviglia, la Calabria è stata latinizzata via Sicilia, e i dialetti neolatini di entrambe le regioni dunque si somigliano. Ma è un caso raro, probabilmente unico, nella letteratura siciliana, un’insorgenza calabrese, per un qualsiasi motivo: al là dallo Stretto c’è “il continente”.

Camilleri ha anche, tra le comparse e le location non isolane, ricorrenti riferimenti alla Calabria: Gioia Tauro, Cosenza, amici vecchi e nuovi di Montalbano, calabresi finiti male in Sicilia. È un caso unico fra i narratori isolani: la distanza tra Calabria e Sicilia è curiosamente considerevole. Un tempo Messina era l’università della Calabria, e conseguentemente la casa dei tanti, prolungati, fuori corso. Da qualche decennio non più, l’estraneità è totale.

Attorno allo Stretto, un tempo mare comune, resta tra i paesi dei Peloritani, le montagne di Messina, il miraggio in autunno dei porcini dell’Aspromonte, e d’inverno per gli sciatori a Messina delle piste di Gambarie invece che dell’Etna. Niente di più. Messina è pure stata per secoli fedele praticante del santuario di Polsi, all’interno dell’Aspromonte, della Madonna della Montagna – il luogo di culto di più antica continuità in Europa.

Jünger ne fa la terra dell’eroico e del tirannico, sfacciata, un po’ – “Terra sarda”, 151-2. Al termine di una vacanza in Sardegna, maggio 1954, annotando: “Malgrado la molteplicità delle testimonianze, trovo che qui la storia mostri il suo volto con maggiore discrezione che in Sicilia, dove l’eroico e il tirannico lasciano di sé possenti tracce”. Nei luoghi e nelle persone: “La differenza è inconfondibile, anche nel carattere delle persone. Paragonata alla Sicilia, la Sardegna è una retrovia, un teatro di provincia”.

Trecentomila siciliani, su una popolazione di cinque milioni, non sanno leggere né scrivere. La Sicilia è anche all’ultimo posto per percentuale di laureati sulla popolazione attiva, tra i 25 e i 64 anni, non arrivano al 15 per cento. Praticando la Sicilia, invece, non si direbbe.

È la primavera per antonomasia per Proust, colorata (azzurro) e profumata. Proust se lo dice a Parigi, al passaggio della stagione, che non può tardare (alle prime righe di “Vacanze di Pasqua”, “Le Figaro”, 25 marzo 1913): “Siamo a Parigi, è inverno, e tuttavia, mentre si dorme ancora a metà, si sente che comincia una mattinata primaverile e siciliana”.

leuzzi@antiit.eu

Gli interessi degli Stati Uniti non sono quelli dell’Europa

A 94 anni il decano, probabilmente, della Spd, il partito socialista tedesco, già al governo, all’Economia e agli Esteri, nonché sindaco di Amburgo, dice quello che pensa, non isolato però in Germania. Anzi, dice il non detto della politica europea: gli interessi degli Stati Uniti possono non essere, e sempre più spesso non sono, quelli dell’Europa. Una politica estera basata sui valori (idee, principi) è un malinteso e può portare a brutte fini. La linea dura contro la Russia può essere negli interessi degli Stati Uniti, della loro bilancia strategica mondiale, ma va contro l’Europa, la sua geografia e la sua storia, e i suoi interessi. Così pure nei confronti della Cina: la politica di potenza degli Stati Uniti è in questa fase rischiosa, e compromette il futuro della Unione Europea.

Poco citato, e non tradotto, è stato il libro di lettura in Germania nei primi mesi dell’anno. È uscito a gennaio, un mese prima dell’invasione dell’Ucraina, che però non sembra averlo obsoletizzato. Il sottotitolo è anche ambizioso: “Orientirung für deutsche und europäische Politik in Zeiten globaler Umbrücke”, in tempo di rivolgimenti globali. Un libro diretto, “senza fronzoli”, lo vuole Dohnanyi nell’introduzione. “Ho scritto questo libro anche come amico sincero e ammiratore degli Stati Uniti, cui ho molto da ringraziare per i settant’anni della reciproca conoscenza e amicizia”.

La ragione del libro è la sicurezza dell’Europa, la sua politica estera, di difesa e commerciale, del tutto inadeguata in questo tempo di “rivolgimenti”. Un’aggiunta alla premessa, alla seconda edizione con la guerra imminente, ricorda: “Gia a fine novembre 2021”, licenziando il libro, “scrivevo che l’ingresso dell’Ucraina nella Nato avrebbe comportato grossi pericoli”. Ora è confortato nello stesso assunto da Samuel Charap, lo scienziato politico della Rand Corporation, una personalità e un’azienda influenti negli Usa, anche nell’intelligence.

Klaus von Dohnanyi, Nationale Interessen, Siedler, pp. 238, ril. € 22

martedì 22 novembre 2022

Problemi di base pratici - 724

spock

Ci sono più germi nei cibi trattati con le mani o in quelli trattati coi i guanti?

La crescenza, nella sua confezione di carta plastificata, è esposta in una cassetta di plastica, che si vende dentro una scatola di plastica: è infettiva? è radioattiva?

Se dobbiamo fare tutti i queer, chi li fa i figli (la pensione, le cure, il funerale)?

Come faranno i russi, che hanno il genere anche nel cognome, a chiamarsi senza genere?

Perché la banca è così esosa? 

Perché la banca è così inefficiente?

 

Perché internet è la patria dei truffatori?

spock@antiit.eu

Che fatica il fantasy

Max rivuole il fratello Beo, scienziato, inventore una macchina del tempo, morto sul lavoro. Si ritroveranno in un giardino delle Esperidi (Sutri? Malta?). Dopo molte avventure.

Un fantasy. Un viaggio nel tempo. Tra giochi di ruolo e videogiochi. Un po’ Bud Spencer un po’ samurai.  Con “colpo grosso” finale. Il cattivo è il fascismo. Con due cattivissimi Scalera e Gifuni. Nel mezzo una “Bella Ciao” ritmata, da un complessino fascista, al caffè delle camicie nere, entusiaste, tutti “partigiani”, cioè di parte, con frenetici saluti romani. Un paio di inseguimenti. Un po' di lesbismo. Per il resto poco divertente.

In guerra con gli altri network, Sky prova a ringiovanire il pubblico.

Ludovico Di Martino, I viaggiatori, Sky Cinema

lunedì 21 novembre 2022

Letture - 504

letterautore

Barrès – Proust lo elegge a vero autore del “Genio del cristianesimo”, la celebre opera di Chateaubriand, e non ironicamente. “L’ammirevole autore del vero ‘Genio del cristianesimo’, voglio dire Maurice Barrès” porta di rinforzo, nell’incipit di un articolo sul “Figaro” del 3 settembre 1912 in difesa delle cattedrali, “La chiesa del villaggio”, nella contestazione del cosiddetto “progetto Briand”, Proust lo chiama così, ossia l’intenzione del governo radicalsocialista francese, nell’ennesima lite con “Roma”, col futuro stato del Vaticano, di non finanziare più il recupero-restauro e il mantenimento delle grand cattedrali storiche. Proust, lo scrittore del Novecento che forse più di ogni altro ha “raccontato” la chiesa, da esperto di preghiere, canti, riti, ricorrenze, e perfino da devoto, era naturalmente contrario, delle cattedrali facendo anzi il segno distintivo della Francia, della storia, della cultura, dell’arte francesi. Il richiamo a Barrès in questa difesa è curioso in quanto Prost era da tempo su sponde opposte, dal caso Dreyfus, nel quale Barrès si era distinto per l’antisemitismo, sprezzante, in aggiunta all’antiparlamentarismo di cui si faceva il fiore all’occhiello. Ma Barrès frequentava alcuni dei salotti cari a Proust. La sua amante di lungo periodo, la contessa Anna de Noailles, Proust aveva eletto qualche anno rima, sempre su “Le Figaro”, a genio poetico del nuovo secolo. Entrambi collaboravano alla “Revue Blanche”, la rivista alora d maggior prestigio (Mallarmé, Verlaine, Péguy, Jarry, Claudel, Gide, Apollinaire, Jean Lorrain, tanti bei nomi vi collaborarono). L’ultimo libro di Barrès, “Gréco ou le secret de Tolède”, con molte riproduzioni, una novità per la Francia, era dedicato al conte di Montesquiou, per il quale Proust aveva un’affezione forse non finta – e al saggio Proust si rifarà, alle sue riproduzioni, per parlare del Greco nella “Ricerca”.  

Carlyle – “Il san Tommaso di Chelsea”, lo elegge Conan Doyle nel suo primissimo romanzo, “Il racconto di John Smith” - cioè di se stesso, una sorta di autobiografia da giovane. Santo per essere stato ferito da indiscrezioni e malevolenze dopo la morte: “Di tutti i tristi casi letterari”, dice lo Smith-Conan Doyle, creati dai “mosconi della letteratura”, “gli attacchi alla memoria del grand’uomo quando la terra era ancora fresca sulla sua tomba fu uno per me i più destabilizzanti”. Era avvenuto che lo storico James Anthony Foude, un amico cui Carlyle aveva affidato la sua corrispondenza e le sue carte alla morte, ne aveva scritto una biografia che lo metteva in cattiva luce, nei rapporti familiari e nel carattere.

Dante – Non c’era scandalo nel “Dante islamico” per Asίn Palacios, lo studioso spagnolo cui si fa ascendere la discendenza. Si volle Dante improvvisamente islamico per il sesto centenario, nel 1921 - a ridosso del revival dell’ispanoislamismo del primo Novecento, anche questo influiva - col grosso tomo “Escatologia islamica nella Divina Commedia”, pubblicata nel 1919, un lavoro di recupero delle fonti opera del sacerdote, filologo e arabista spagnolo Miguel Asίn Palacios. Ma lo studioso non si poneva in questa linea. Che Dante sapesse di Maometto e dell’islam, lui che sapeva tutto ed era curioso di tutto, era per Asìn Palacios solo comprensibile. Mentre l’escatologia musulmana c’entra perché non c’entra: c’era troppa distanza e diversità, anche in quel mare Mediterraneo allora unitario. E d’altra parte il mondo non è cominciato con Maometto, il mondo islamico – tutta la poesia dell’amore cortese è contenuta in quella araba dei secoli dall’VIII all’XImo, la quale era contenuta nell’ellenismo, con variazioni certo. E non è finito con Maometto.

Iniziando i raffronti, Asίn Palacios stesso, inavvertitamente, diceva la differenza incolmabile tra Dante e Maometto: tutto uguale, insomma simile, se non che l’inferno di Maometto è “riservato esclusivamente agli infedeli”.

Duemila – Conan Doyle, il padre di Sherlock Holmes, lo profetizzava nel 1883, nel suo primo romanzo, come l’età della cultura e dell’arte: un’epoca in cui le notizia di nera sarebbero state di questo tipo: “Brutale attacco su un Virgilio in bodoni”, o elsevier.

Firenze – È il nome per eccellenza, nella teoria di Proust dei “nomi” come distinti dalle “parole”, evocativo cioè, di un mondo, un’epoca, una cultura, dei colori, dei sapori, che assume in una prosa “giovanile” (in realtà del 1913, su “Le Figaro” del 25 marzo), “Vacanze di Pasqua”. A proposito di un viaggio in famiglia per Pasqua, proprio a Firenze, promesso dal padre e poi non effettuato – la Pasqua era fredda - ma vissuto da Proust lo stesso.

Charles Gide - Economista in cattedra, zio di André, s’impegnò, benché ugonotto, contro il cosiddetto progetto Briand (che Proust chiama “progetto Briand”), 1912, contro le chiese antiche, cattedrali comprese. Suo fratello maggiore Paul, il padre di André, giurista, con cattedra a Parigi, studioso della “condizione privata della donna nel diritto antico e moderno”, soprattutto nel diritto romano, era morto a 48 anni, nel 1880.

Pettegolezzo – È irresistibile, una tentazione, argomenta Conan Doyle all’inizio del suo primo romanzo, “Il racconto di John Smith”: “Una persona abbia cinquanta delle più nobili virtù e un solo piccolo vizio, incontinente il critico moscone si avventerà su questo” – “Addison era uno stimabile uomo di buon cuore - «ma un ubriacone», ronza il moscone. Burns era generoso e di mente nobile - «ma un dissoluto» ronza il moscone. Coleridge ci ha lasciato parole che respirano l’intimo spirito della virtù - «Oppio! Oppio!» sussurra il moscone”.

Queer - Michela Murgia non solo intitola “God save the Queer” la sua geniale, perfino comprensibile, teologia (“catechismo femminista”), ma usa anche una terminazione neutra (schwa? sembra un 3), per camuffare alcune volte il genere, che non sia maschile o femminile. Avrebbe divertito molto Arbasino, il re del queer, che ne fu lo scopritore per l’Italia e poi lo specialista, e si presume il praticante – Murgia l’ha scampata bella.   

Sicilia – È la primavera per antonomasia per Proust, colorata (azzurro) e profumata. Se lo dice a Parigi, al passaggio della stagione, che non può tardare (alle prime righe di “Vacanze di Pasqua”, “Le Figaro”, 25 marzo 1913): “Siamo a Parigi, è inverno, e tuttavia, mentre si dorme ancora a metà, si sente che comincia una mattinata primaverile e siciliana”.

letterautore@antiit.eu

Orgasmo freddo

Un’insegnante di religione, pensionata, da poco vedova, madre di due figli adulti che non vede e non stima, vuole provare un orgasmo. Ha per questo fatto ricorso a un toyboy, col quale s’intrattiene, entrambi coperti da pseudonimi, in un luogo neutro, un albergo.

Un’idea pruriginosa, per un’ora e mezzo di conversazione, su tutto e niente, al chiuso, in una stanza grigia, con una sensazione di freddo. Una commediola da salotto, non salace, nemmeno scorretta. Che si conclude col nudo, frontale e posteriore, della sessantenne Emma Thompson. Uno scherzo dell’australiana regista, una buontempona?  

Sophie Hyde, Il piacere è tutto mio

domenica 20 novembre 2022

La Germania fa da sé

La Germania fa da sé? Nei rapporti con la Cina come già con la Russia, prima dell’attacco all’Ucraina? Nella difesa? Nella politica energetica e industriale? Nella politica?

Molte cose dicono di sì: i 100 miliardi stanziati dal cancelliere Scholz per la difesa tedesca, i 200 miliardi per il settore energia, il viaggio in Cina. Contro le linee strategiche appena enunciate da Biden, “New National Strategy”. Senza previe consultazioni europee – anzi mostrando di considerare la Francia e Macron una nuisance, con gli inutili vertici, le consultazioni, le telefonate. L’annosa questione del nuovo carro armato in sostituzione dei vecchi Leopard, passati all’Ucraina, risolta di botto con l’avvio autonomo senza più la Francia dopo anni di discussioni, del nuovo modello “Panther”. È cambiato anche il linguaggio: prima ogni interesse della Germania si presentava nell’interesse dell’Europa, ora si aprla di “interesse nazionale nell’ambito europeo”.

Il cambiamento c’è, ma non da ora. Ora è anche espresso, palese. Prima, con i cancellierati di Schrōder e Merkel - successivi a Kohl, il cancelliere che aveva realizzati la riunificazione d’accordo con Mitterrand e con la Russia – aveva mantenuto il linguaggio della Repubblica Federale di Bonn. Ora l’assertiveness è manifesta.

Non è però un fare da sé. La Germania ha presenti i limiti – e i vantaggi – dell’integrazione nel quadro europeo e atlantico. Ma questi limiti li discute. E al loro interno cerca il massimo vantaggio senza più false retoriche.

La novità totale è proprio del linguaggio. La “questione tedesca” che si annullava nella retorica europea è ora posta in termini nazionali. A differenza degli altri paesi europei, anche della Francia, che era la più restia a questa retorica, la Germania da qualche tempo, dal passaggio da Merkel a Scholz, si interroga su questi limiti. Tre pubblicazioni notevoli, che denunciano gli interessi americani come non convergenti, e anzi a scapito dell’Europa e della Germania, sono diventati best-seller, “Nationale Interesse”, uscito il 17 gennaio 2022, “Die scheinheilige Supermacht: Warum wir aus dem Schatten der USA heraustreten müssen”, Michael Lüders (18 marzo 2021), perché dobbiamo uscire dalla ombra degli Stati Uniti, e “Die transatlantische Illusion: Die neue Weltordnung und wie wir uns darin behaupten können”, 19 aprile 2022, la illusione transatlantica, a opera di autori non nazionalisti, rispettivamente Klaus von Dohnanyi, il decano dei socialdemocratici, già ministro federale e sindaco di Amburgo, un saggista rispettato a sinistra, Michael Lüders, e Josef Braml, americanista, segretario del gruppo tedesco della Commissione Trilaterale, membro dell’Aspen Institute e altre organizzazioni atlantiche.

La bella morte è brutta

La trama e il film sono semplici: un uomo vittima di ictus chiede alla figlia amorevole di farlo morire. Segue l’inevitabile sconcerto della figlia, delle figlie, l’uomo ha due figlie, della cugina che vive a New York, dell’ultimo amante – l’uomo è omosessuale, lo è sempre stato, anche quando si sposava. E poi la prassi d’uso: il notaio, l’avvocato, vari medici, la Svizzera, la polizia, il giudice. Ma con un punto interrogativo.

Il film è molto ozoniano, di vita quotidiana, semplice, vissuta. E naturalmente, si pensa, un manifesto per la morte volontaria, come è d’uso – un film contro non sarebbe stato prodotto. Ma, sempre ozonianamente (Ozon ha scritto soggetto e sceneggiatura, oltre che dirigere le riprese e fare il montaggio), il padre è un egoista tirannico, con le figlie e con i partner (con la moglie sempre, che ha ridotto a una larva, come ora con l’ultimo amante), solo interessato alle opere d’arte che traffica, forse con qualche sospetto di bancarotta. Ed è ebreo. Il messaggio non è edificante – tanto più per essere, nella sua semplicità, coinvolgente: non per la retorica omosessuale, non per quella ebraica. 

François Ozon, È andato tutto bene