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sabato 24 febbraio 2018

Ombre - 405

L’amministratore delegato di Snapchat, Evan Spiegel, si dà una retribuzione-premio per il 2917 di 638 milioni di dollari. È tutto serio, non si ride: è il mercato.

Spiegel è anche uno dei fondatori di Snapchat. Ma non c’è profumo di malversazione, o distrazione di fondi aziendali, nel suo superstipendio. Rubare all’azienda era proibitissimo, per i creditori e i dipendenti, col web deve essere cambiato il diritto.

Il titolo Snapchat cade in Borsa solo perché una influencer si è detta delusa: “Qualcun altro non apre più Snapchat? È talmente triste”, ha twittato Lyllie Jenner. Nota come sorellastra di Kim Kardashian. Che è una pin-up del web.

Il premier designato da Grillo va al Quirinale a presentare il suo futuro governo. Lo fanno parlare col segretario generale, e a questi confida in segreto tre nomi di futuri ministri. Cronache ossequiose – e chi saranno i tre?
Ridere non è ammesso - ma quante divisioni ha Grillo? Certo, aveva ragione di disprezzare i giornalisti.

Tra un settimana votiamo ma non c’è l’ombra di un candidato nelle cronache locali. Delle circoscrizioni, dove saremo iscritti. Di chi si presenta e cosa vuole. Molte pagine sul Di Maio pensiero, e il Salvini pensiero, con Meloni e Grasso, ma niente per l’uomo\donna per il\la quale vorremmo vota e. Poi dice che i giornali non sono inutili.

È ora d’uso a Roma il mendicante col cellulare, a cui sta incollato, mentre saluta, chiede, ringrazia. Giovani africani per lo più, che da un paio d’anni riempiono i marciapiedi, nei quartieri medio borghesi. Collocati nei posti giusti, con cambi a orario preciso. Rifugiati da quale guerra?

I richiedenti asilo di un centro di accoglienza al quartiere Aurelio a Roma hanno occupato la struttura, per il mancato pagamento delle ricariche telefoniche. Le ricariche sono previste dai regolamenti. Salvini non ha mancato l’occasione, e ha postato la cosa.

Il centro occupato non è male: sta dentro un parco, con gli alberi e gli armenti.
La questione migranti è anche colpa degli operatori sociali: hanno poca sensibilità (intelligenza), per loro è un business.

Di Maio cattivissimo con De Falco: “Se ha usato violenza alla moglie lo caccio”. Per un comandante una fine ingloriosa, alle mercé di un giovanotto senz’arte. O chi si somiglia si piglia?

Gas, energia e rifiuti, le utilities italiane stanno benissimo - rapporto “Top Utility 2018”, realizzato da Athesys. Per prezzi e tariffe record. Ma questo il rapporto non lo dice: vale la favola dei buoni affari buoni per tutti.

Si fanno ricche le utilities con prezzi e tariffe record perché possano dare buoni dividendi. Essendo in larga parte pubbliche, danno dividendi a Comuni, Regioni e Tesoro. La politica in effetti è ingorda.

Bianca Berlinguer si fa dire a “Carta bianca” da Camilleri che il Pd non è un partito di sinistra. Con sorrisetti, ammiccamenti. E applausi a sostegno. Poi ospita Calenda, che non è del Pd, forse, ma  nemmeno di destra, e per il governo del Pd lavora risoluto su piani di sinistra, per il lavoro, il reddito, la protezione sociale. Poi dicono che è Putin che ci spinge sul disfattismo e il nazionalismo, con gli hacker.

“Da Bonafede a Montanari, i nomi sul tavolo per la squadra di Di Maio”, per il governo Di Maio – “Anche Buffagni in lista”: esulta il “Corriere della sera”. Perbacco! Roba da accapponare la pelle.

Niente Natale dei bambini, giusto un miserabile Spelacchio a piazza Venezia, e niente Carnevale. Per il secondo anno Roma delle 5 Stelle ha vissuto zitta le feste popolari. Non sanno fare nemmeno un corteo di maschere in piazza è tropo dire. Non sanno è più giusto.

Vivendo a Roma uno si chiede se i 5 Stelle che la governano non siano simulacri, ectoplasmi.
Al Campidoglio, dove controllano il consiglio, non lo riuniscono nemmeno. Nelle circoscrizioni si limitano a litigare: mai una  decisione – una buca d a riempire, un sussidio da accordare, una pratica da smaltire. Due o tre circoscrizioni non hanno nemmeno referente, hanno litigato o lo hanno cacciato. Altre due o tre non si riuniscono per non doverlo fare. Sembra assurdo che questa gente governi Roma, ma così è.


Da quando Roma è 5 Stelle il tempo di attesa (prenotazione obbligatoria) per fare un certificato, uno dei mille che quotidianamente vengono richiesti, è passato da uno-due giorni a trenta – ultimamente a quaranta. Gli impiegati non sono diminuiti, ma ora possono non andare. 

Dio è sogno

L’esaltazione, magnificazione e santificazione del nome di Dio, l’antica preghiera ebraica (in aramaico) in forma di poema sinfonico. Un canto per i morti, nella tradizione. Un dialogo con Dio, nella forma del “Padre nostro”, ma senza certezze – “Tu chiedi la fede: dov’è la tua?”.
L’alterità, nelle tradizione veterotestamentaria, tra l’uomo e il suo Dio senza nome. Dell’umano che si prende, nella lunga invocazione, il ruolo divino. Una sfida. Che assume, nel testo che Bernstein ha musicato, il vagheggiamento del creato come sogno, creazione del credente. Come in molto Borges, studioso del semitismo, e in Kafka: “Riposa, Padre mio, dormi, sogna.\ Lascia che io inventi il tuo sogno, che lo sogni insieme a te”. Paterno: “E forse, sognando, ti potrò aiutare a\ ricreare la tua imagine, ad amarla nuovamente”.
Un poema di forte intensità. Che il coro e le voci banche, in dialogo o in uno con la soprano Nadine Sierra) e la voce recitante (Josephine Barstow) innalzano solenne. Trasognato, nella ninna-nanna intonata dalla soprano col controcanto delle voci bianche, e nel lungo sogno della voce recitante. E monumentale insieme, nella fuga conclusiva cui partecipano tutte le voci, celebrazione della fede consolidata, dell’impegno di fede, della fede come impegno..

Una ripresa per i cento anni della nascita del maestro compositore, di cui il direttore di Santa Cecilia Pappano fu collaboratore, destinata a favorirne un sicuro revival. La sinfonia “Kaddish”, eseguita per la prima volta due mesi dopo l’assassinio di John Kennedy, fu dedicata al presidente americano. Con l’interpolazione di cenni all’olocausto nucleare in agguato – il kaddish, melopea funebre, non menziona mai la morte – che questa età di crisi sembra rinnovare.   
Leonard Bernstein, Kaddish, Orchestra, Coro e Voci bianche dell’Accademia Santa Cecilia

venerdì 23 febbraio 2018

Il mondo com'è (334)

astolfo

Caf – Ce n’è stato uno al femminile. La sigla Caf fu adottata nel 1988 dai giornali dei gruppi L’Espresso e Mondadori (allora a gestione, anch’esso, De Benedetti) per indicare il raggruppamento Craxi-Andreotti-Forlani che reggeva il governo e la maggioranza di governo. Nell’inverno di due anni dopo si sarebbe potuto adottare per designare la guerra tra le regine del giornalismo italiano, Cederna-Aspesi-Fallaci, le prime due del raggruppamento Mondadori-L’Espresso, la terza del gruppo rivale, Rizzoli-Corriere della sera.
Si erano avute avvisaglie durante l’estate, quando i giornali Mondadori e L’Espresso, curiosamente senza scoprirsi in prima persona con proprie critiche, valutazioni o informazioni (unica eccezione la cederniana Grazia Cherchi su “Panorama”, peraltro blanda), rilanciavano però con costanza con ampio risalto  ogni accenno negativo, o anche soltanto non entusiasta, sul reportage-romanzo “Insciallah” di Oriana Fallaci appena apparso: che non aveva superato il milione di copie, forse nemmeno il mezzo milione, malgrado l’enorme investimento promozionale dell’editore, che forse non era buona letteratura, che forse Fallaci aveva “rubato” il personaggio al colonnello Angioni (probabilmente all’epoca già generale: da colonnello aveva comandato la spedizione dell’esercito italiano a Beirut nel 1982-83), che forse se ne era innamorata, e che forse a Beirut non c’era nemmeno stata.
Il conto finale, sempre in chiave curiosamente di pettegolezzo e non di critica, veniva presentato a Fallaci da Camilla Cederna su “Wimbledon”, il mensile di “Repubblica” per “la gente che legge” il 4 luglio del 1990 – titolo di Dell’Arti, direttore del mensile: “Madame Veleno e i calzini di Panagulis”, i calzini che il resistente greco avrebbe lasciato a Fallaci scappando dal nido d’amore.  E da Natalia Aspesi in un lungo corsivo di commento all’articolo di Cederna e alla riposta di Fallaci su “la Repubblica”  del 27 dicembre 1990, “L’elmetto di ‘Penelope’”. La polemica Cederna-Fallaci era finita in Tribunale, e Aspesi esordiva: “Due donne, quindi due rivali. Per di più tutte e due un po’ in là con gli anni, tutte e due signorine…”. I “si sussurra” poi sprecando – l’ultimo è: “Insciallah non ha (per ora) venduto quel milione abbondante di copie che l’autrice e l’editore si aspettavano, ma molto meno, si sussurra addirittura la metà del libro di D’Orta Io speriamo che me la cavo, per il cui lancio Mondadori ha speso quasi niente”.
Anche il Caf politico non era univoco. Con piccola variazione nominale si può dire che, come Craxi, Andreotti e Fanfani hanno dominato la politica italiana nei cinquanta anni dalla guerra al Duemila, così le tre intramontabili, fino a che morte non le ha separate, hanno dominato il giornalismo – femminile?  

Casciubo – La lingua parlata dai prussiani prima di diventare tedeschi, secondo Joseph Roth – “Al bistrot dopo mezzanotte”, p.240. Era casciuba, slava occidentale, la popolazione della Pomerania. Günther Grass ne fa nell’autobiografia la sua tribù di riferimento per parte di madre, a Danzica, la città d’origine..

Controinformazione – Legata, dettata, dal potere. In Italia è stata censita e teorizzata (Pio Baldelli ne fece l’anamnesi e la teoria in “Informazione e controinformazione”, 1972). Ma già “La strage di Stato”, 1974, il volume di denuncia redatto dalla sinistra alternativa su dossier dei servizi segreti, ristabiliva la verità della cosa. Negli Usa, dove è nata nel 1969-1970, attorno al “New York Times” e alla “Washington Post” era parte esplicita delle lotte di potere contro la presidenza Nixon, con i “Pentagon Papers” e con lo scandalo Watergate. C’era - come c’è tuttora, ma allora molto più fertile e diffusa- una stampa alternativa, che però non era contraltare di nessun potere.
Si vede negli Usa anche oggi: la stampa è sempre legata al potere, Negli Usa sensibilmente al potere Democratico: i media si vogliono “dalla parte giusta”, e quindi hanno lo stesso complesso della parte giusta della storia, che deve essere liberal, progressista. Di che non importa, conta il mainstream. Di fatto occultando o proteggendo veri e propri misfatti: la presidenza Kennedy con la guerra al Vietnam e l’ostracizzazione di Cuba (tentata invasione, Castro schiacciato su Mosca), Carter e il disastro Iran, le presidenze Clinton con l’arricchitevi (prodromo dei mutui sub-prime della crisi del 2007) e la globalizzazione, le presidenze Obama con le guerre perse in Medio Oriente (Afghanistan, Iraq, Siria), la disintegrazione della Libia e dell’Ucraina, la tentata disintegrazione dell’Egitto.
Molta controinformazione oggi negli Usa con un suggello liberal  o progressista, di sinistra, roba di destra. Il caso più macroscopico è l’intromissione dei servizi segreti, i famosi corpi separati dello Stato, che negli Usa sono molti e potenti, nella politica. Per fini coperti. O la politica lasciata dai grandi media ai cronisti giudiziari, soliti a pulire i crocicchi e i bassifondi dei palazzi di giustizia e delle questure.

La controinformazione è opera sempre di spie e informatori segreti. Della parte cioè non nobile della pubblica opinione, che non può essere segreta. Delle “gole profonde” della grande stagione della controinformazione, a New York e a Washington, si salva, forse, solo Daniel Ellsberg, il trafugatore dei “Pentagon Papers”, lo studio che documentava le verità taciute della guerra al Vietnam. Un piccolo impiegato di grandi aspettative (il film “The Post” lo rappresenta male, come uno traumatizzato dal cinismo del suo capo McNamara), che imbastirà un suo piccolo business del pacifismo. Ma già la seconda ondata dei “Pentagon Papers”, come poi il Watergate, sono opera di spie professionali.
Ellsberg divulgò i “Pentagon Papers” scopertamente: prima di darli al “New York Times” ne aveva proposto la diffusione ea vari membri del Congresso, rivevendone un rifiuto perché i documenti erano “classificati” segreti. Fu il “New York Times”, cui poi Ellsberg si rivolse, a imporre la segretezza dell’operazione divulgazione. Prendendosi tre mesi per far studiare le carte a un redattore esperto fuori della redazione, e farle editare. Ellsberg fu comunque processato. Ma non poteva essere detto una spia: era “uno di coscienza e convinzioni, ma anche di un forte ego”, a detta di Bagdikian. il giornalista “esperto” del “Washington Post” che aveva conosciuto Ellsberg alla Rand Corporation (da cui i “Pentagon papers” furono trafugati) e a un certo punto si convinse che la fonte del “New York Times” non poteva essere che lui, uno quindi di personalità.
Era invece un ex della Cia, se si può essere ex, Ben Bradlee, il direttore del “Washington Post” che diede la caccia ai “Pentagon Papers” e , soprattutto, alimentò il Watergate. Un aristocratico di Boston spia della Cia, manipolatore di carte, probabile manipolatore di destini: i coniugi Rosenberg, mandati alla sedia elettrica con prove dubbie come spie di Mosca, il primo Russiagate. Famiglio di John Kennedy: una sua cognata, poi assassinata nel 1964, sorella della moglie, vantava una relazione con Kennedy. Amico intimo di James Jesus Angleton, che a lungo ha controlato per la Cia la piazza romana.
Era una spia in servizio attivo, agente speciale e vice-direttore dell’Fbi, dopo essere stato segretario di un paio di senatori Democratici, la “gola profonda” del Watergate Mark Felt, amico di Bradlee. Aveva fatto carriera con Edgar Hoover, di cui protesse la memoria, nascondendo le carte che segretamente Hoover aveva accumulato su vari dossier, o aiutando la sua segretaria a distruggerle. E fu nominato da Nixon vice-direttore dell’Fbi alla morte di Hoover, come il più alto in grado del Bureau, la nomina del direttore considerando di natura politica. Coltivava da tempo amicizie nei giornali di Washington, sicuro di succedere a Hoover. E in questa chiave creò lo scandalo del Watergate.
 L’Fbi tramava contro Nixon, come ora la Cia contro Trump, con intercettazioni falsate e indiscrezioni ai giornali. Del Vietnam, guerra voluta da Kennedy sconsiderato e da Lyndon Johnson sprovveduto, la colpa si fece ascendere a Kissinger e Nixon, che invece in qualche modo la chiusero, etc. 

Germania-Usa – Gli Stati Uniti furono per diventare tedeschi
ma dei tedeschi al governo negli Usa non c’è una buona tradizione. Ora Trump. Con Nixon una serie di personalità di molto potere non hanno lasciato buona traccia: Bob Haldeman, direttore generale della Casa Banca, John Ehrlichman, consigliere speciale del presidente, l’avvocato William Ruckelshaus, vice direttore dell’Fbi e poi vice-ministro della Giustizia per conto di Nixon, il ministro della Giustizia Richard Kleindiest. Tutti poi più o meno coinvolti nel Watergate. Anche Kissinger, che del tedesco ha mantenuto perfino l’inglese, in qualche modo ne è rimasto macchiato - è una grande statista solo per gli europei.
La strana piega che prende la storia degli Stati Uniti quando al vertice si ritrova i tedeschi mostra che gli americani non li amano e li temono, anche se senza colpa-

Rifugiati – L’Europa tra le due guerre è stata fertile di rifugiati - senza patria, perseguitati politici, migranti. Dalla Russia e da tutta l’Urss, dalla Germania, dall’Italia, dalla Spagna, dall’Irlanda, alla Romania, dalla Jugoslavia. Per rivoluzioni e odi tribali.

astolfo@antiit.eu

Sulle onde Rai navigando

I sassolini si è tolto dalla scarpa
Le ha cantate chiare
Non la passerete liscia
Non bisogna fare di ogni erba un fascio
Né buttare olio sul fuoco
O buttare acqua sul fuoco
Le piaghe della povertà (fame, abbandono…),
Della mafia, dell’usura contrastare
Sale la tensione (di solito nel Medio Oriente)

Ma facciamo un passo indietro
Il rovescio della medaglia
La situazione precipita
La polemica esplode
Sul fronte – delle indagini, dei prezzi, del governo
Lotta senza quartiere
La malavita organizzata ha colpito ancora

Ha rassegnato le dimissioni
È scomparso (morto)
Celebrare il processo
Uscire dal tunnel
Sulle onde Rai navigando
E il digitale terrestre

La campagna elettorale è tormentata
La mafia è tentacolare
L’ottimismo è inguaribile
Il pessimismo pure
Con la paralisi del settore sanitario (proprio quello?)
E il popolo dei vacanzieri
O i forzati della vacanza

L’ossessione assassina

Si può prestidigitare la morte? No. Ma la coppia infernale ci riesce. Due volte, sembrerebbe, poiché la vittima è doppia, due gemelle mutole – parlano tedesco.
Una storia di amore-morte, in filigrana. Nel mondo circense: nomade e illusionista. Una madre tardiva, divorante – con “un istinto di matrona”. Un figliol semi-abbandonato. Un innamora mento impossibile. La suspense è costante – troppa: faticosa, insostenibile.
Un romanzo duro, quale è la cifra dei due diabolici – fornitori di idee  a Clouzot (“I diabolici) e  Hitchkock (“Vertigo”). Sulla traccia del Simenon amaro, senza Maigret, che aggredisce il lettore con applicazione, senza la pietas di Simenon.  La coppia fa di più, e si vede. “Le incantatrici” sembra un manuale di scrittura di copia: non un racconto concertato, ognuno interviene ad aggiungere una pagina e un’ideuzza (un particolare, un’ipotesi, una traccia) all’altro.
Una narrazione tutta visiva: una sceneggiatura pronta, in dettaglio, con le didascalie tecniche. Sono narrative le parti descrittive, anomale rispetto al plot. Poche: la vita in collegio, la vita nei caravan, il business circense, gli uffici placidi di polizia, la trasformazione del protagonista.
Boileau-Narcejac, Le incantatrici Adelphi, pp. 198 € 18

giovedì 22 febbraio 2018

Problemi di base bellicosi - 399

spock

Ma, allora, i russi hanno vinto la cyberguerra?

O il Russiagate è invenzione di Putin – è meglio di un arsenale, ed è gratis?

Putin paga per questo monumento che l’America gli erige?

Ma internet non è una diavoleria americana?

Gli americani sono disfattisti?

Sono peggio?

Fare o essere commedia?

spock@antiit.eu

Il detective di strada

Una “browniana” completa. Riedizione della fortunata edizione del 1995 - varie scelte sono state poi proposte, la più nota va coltitolo “Le avventure di padre Brown”.  Un investigatore melenso, sulla carta più che al cinema (e nella serie Rai lo impersonava Renato Rascel…), innocente, candido, e ciccione. E invece ha una consistenza: humour, leggerezza, e naturalmente l’acume sherlockholmesiano. Altrettanto intuitivo, senza essere solforoso. E non established come Sherlock Holmes, per indirizzo, parentele, clientela, palmarès  dei casi risolti. Anzi, ragionando da common man, quale si presenta malgrado la tonaca – oggi si direbbe un prete (detective) di strada.
Il metodo è anche semplice: penetrare nella mente del criminale, ricostitiire il crimine immedesimandosi a ritroso nella psicologia e i moventi chi lo ha commesso. Un malvivente pentito, Flambeau, è il suo assistente.
L’edizione Newton Compton si avvale di un’introduzione di Masolino d’Amico, di una premessa di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco, e di una nota biobibliografica di Lucio Chiavarelli.
Gilbert K. Chesterston, I racconti di padre Brown, San Paolo, pp. 912 € 28
Tutti i racconti gialli e tutte le indagini di padre Brown, Newton Compton, pp. 712, ril. € 14,90

mercoledì 21 febbraio 2018

Letture - 334

letterautore

Dante – Grande intellettuale poliglotta. Linguista, storico, filosofo, teologo, epistemologo, scieziato politico, narratore, poeta. Latinista. Pensò anche di scrivere la “Commedia” in provenzale. Conosceva l’islam, l’arianesimo, il catarismo e ogni genere di esoterismo.

Forma dell’acqua – Il titolo del film superpremito è di Camilleri, 1994 – il primo della fortunata serie di Montalbano, tradotto in inglese dalla Penguin nel 2005. Che non dice di averlo trovato – il titolo nasce così: “Qual è la forma dell’acqua?”  “Ma l’acqua non ha forma. Piglia la forma che le viene data”. Del Toro  invece dice – la promozione gli fa dire – che lo ha letto in un libro, di cui non ricorda l’autore, in una libreria che incontrava andando la mattina agli studios. Come se agli studios si andasse a piedi
La promozione, via facebook, cita anche Narciso. Ma soprattutto Rumi: fa citare a Del Toro, vagamente, il poeta persiano. La quartina finale, echeggia subito la rete, è “probabilmente ispirata da Rumi”: “Incapace di percepire la forma di Te, ti trovo tutto intorno a me. La tua presenza mi riempie gli occhi del tuo amore, umilia il mio cuore, perché tu sei ovunque”, recita alla fine fuori campo Giles, l’amico della protagonista Elisa Esposito, l’intellettuale isolato perché omosessuale. Che non è Rumi, più che altro ricorda la dichiarazione di un cieco – a una muta (la protagonista è muta). E non reca l’emistichio “la forma dell’acqua”. La copertina di Camilleri non è da escludere.

Germania – Il “viaggio”, di cui la letteratura tedesca è così fertile, è “una fuga dalla Germania”? Il dubbio, un rimprovero, è mosso da Joseph Roth nel 1924, sui “viaggi, veri e metaforici, in Italia” di tanti intellettuali tedeschi.
Questo varrà sicuramente un anno dopo per lo stesso Roth. austriacante mai a suo agio a Berlino, benché a Parigi e non in Italia Per quattordici anni Roth abiterà a Parigi, pur con lunghe assenze, scrivendovi la maggior parte dei suoi romanzi e racconti: “Per il loro legame con la cultura, per il senso della democrazia e per la gentilezza, i Francesi rispecchiano ai suoi occhi l’immagine rovesciata dei Tedeschi” (Katharina Ochse, pref. a J. Roth, “Al bistrot dopo mezzanotte”).

Laura – “La donna più famosa di tutti i temi” la dice J.Roth ascendendo a Les Baux dall’amatissima Avignone. Ben reale benché idealizzata – immaginaria. Ma Beatrice è più reale, seppure immaginaria in proporzione inversa a Laura. Laura, la cui discendenza si estenderà fino a non molti anni fa a Napoli.

Marsigliese – L’inno francese ha il nome di una città del Sud ma è nata sulle rive del Reno. Rouget de Lisle, l’autore, era un ufficiale di stanza sul Reno nel 1792, capitano di seconda classe del Genio nell’Armata del Reno, a Strasburgo. A una festa in onore degli ufficiali della guarnigione, il 24 aprile del 1792, il sindaco di Strasburg Dietrich pregò Rouget de Lisle di scrivere “qualche bel canto per questo popolo soldato che si leva da ogni parte all’appello della patria in pericolo”. Nella notte Rouget de Lissle scrisse parole e musica di un canto di guerra per l’armata del Reno, dedicando al generale Luckner, uno dei tanti francesi di origine tedesca, il comandante in capo. E l’indomani, a un altro pranzo offerto da Dietrich, l’inno venne subito eseguito con l’accompagnamento al piano di una signora. Piacque, e fu subito cantato in tutta la Francia. Intonato da un battaglione di marsigliesi in marcia verso Parigi nel mese di luglio, venne chiamato “la Marsigliese” dai parigini.
L’inno si diffonde in chiave rivoluzionaria mentre Rouget de Lisle si cera qualche imbarazzo. Il geneale Carnot lo ha sospeso dal servizio a maggio, quattro settimane dopo la composizione dell’inno,  perché ha protestato contro l’internamento di Luigi XVI dopo l’invasione delle Tuileries. Quindi, un anno dopo, a maggio del 1793, radiato, Rouget de Lisle è carcerato a Saint-Germain.en-Laye. Dove ebbe tempo e voglia di scrivere un altro inno diventato famoso, contro la “congiura di Robespierre” e “la rivoluzione del 9 Temidoro”, cioè il colpo di Stato contro Robespierre. Rientrerà in servizio e difenderà la Convenzione con Napoleone.

Parigi – Ungaretti fu a Parigi, corrispondente per il “Giornale d’Italia”, il giornale di Mussolini, da novembre 1918 a fine 1921. Corrado Alvaro fu a Parigi, per “Il Mondo” di Giovanni Amendola, da fine 1921 a luglio 1922. Un’ideale staffetta dei due letterati italiani più cosmopoliti del Novecento. Ungaretti arrivò a Parigi il giorno in cui il suo amico Apollinaire moriva. Alvaro fece in tempo a leggere Proust, e a tradurne qualche pagina. Un’altra Italia.

Pavese – È il modello, ispiratore, del “Barone rampante”, il secondo racconto della trilogia di Calvino, “I nostri antenati”? Raccontava che da bambino passava ore a leggere sugli alberi, Salgari o fumetti. E che giocava da solo, nei boschi preferibilmente, a parlare con bisce e insetti. Non avendo compagnia, o disdegnandola.

Piovene – Scrittore di indubbia qualità, è sub judice per avere, forse, tradito qualche amicizia ebraica sotto il fascismo. Ma anche come critico andrebbe sotto giudizio. Nel 1927, dopo la prima timida uscita in pubblico di Italo Svevo, a trent’anni dai primi tentativi di scrittura e pubblicazione, con “La coscienza di Zeno”, stroncò il romanzo con volgarità: “Perché leggere un negoziante triestino, autore di romanzi mediocri”, che una sparuta combriccola dichiarava grande scrittore, “uno scadente poeta irlandese, il Joyce, uno scadente poeta di Parigi, il Valéry Larbaud, e un critico, il Crémieux, che, essendo intenditore di cose francesi, passa in Francia come intenditore di cose italiane”. Salvo riscattarsi, anche qui, ex post, dopo la guerra, dichiarando Svevo “uno dei cinque o sei grandi scrittori di romanzi apparsi in Europa dopo la prima Grande guerra”.

Pirandello – Si piaceva molto – si baciava alo specchio. E piaceva molto alle ragazze di Magistero, dove insegnava: fu inseguito da occhiate languide, bigliettini, fronteggiamenti, e perfino un denudamento.

Strapaese – È stato molto italiano. Dentro e fuori “Il selvaggio” e “L’Italiano”, le riviste di Maccari e Longanesi: Rosai, Soffici, Malaparte finto toscanaccio, Alvaro,  Bacchelli, Silone, et al., fino a Cassola, e poi, pronubo il  neorealismo, i napoletani. In Germania anche fu un forte filone, della “poesia della zolla”, e del Volk. Con la Hebel Renaissaance che  Heidegger prediligeva – con Hesse, Adorno, Canetti, Reich-Ranicki – e J. Roth detestava. In Francia quasi niente: Giono, forse Mistral, e le “terre nere” di Chateaubriant.

Weimar – “Una repubblica senza repubblicani” – Katharina Ochse (prefazione a J.Roth, “Al bistrot dopo mezzanotte”).

letterautore@antiit.eu

La Grecia cantava ma non sappiamo come

La storia della cultura musicale di un’epoca “senza conoscere nulla o quasi nulla delle composizioni che furono prootte ed eseguite in quel periodo”. Nulla di nuovo, come i greci cantavano e ballavano continuiamo a non saperlo. Il volume avvia la riedizione della “Storia della Musica” Edt, di cui costuiva il primo volume, quarant’anni fa. Aggiornata coi tre capitoli che Comotti, a lungo docente a Urbino di “Metrica e Ritmica Greca, insegnamento unicoin Italia, aggiunse alla traduzione inglese nel 1989. La premessa è la conclusione: “I Greci e i Romani ignorarono del tutto l’armonia e la polifonia; la loro musica si espresse esclusivamente attraverso la melodia. L’accompgnamento seguiva fedelmente lo sviluppo dela linea del canto”.
Una non storia, insomma: una ricostrtuzione, o supposizione. Fino a metà Ottocento l’unico reperto disponibile era quello che Vincenzo Galilei, il padre di Galileo, aveva pubblicato nel 1581. Poi si è scoperto qualcosa, ma poco. Se ne può tuttavia aprlare perché è noto il fatto fondamentale; che la musica era metrica, della poesia, che la poesia era melopea, si cantava. In tutte le forme note: dell’inno (preghiera), ditirambo, peana, lamento, lamento funebre, nomos. Che erano generi catterizzati. Anche se non sappiamo come.
Si faceva molta “mmusica” in antico. La aprola – “arte delle muse” – definiva, ancora nel V secolo a.C., “non solo l’arte dei suoni ma anche la poesia e la danza”. L’uso della musica è testimoniato ampio, ampiamente. In figurazioni già nel secondo millennio a.C., a partire dal XVIII secolo: suonaori i strumenti a corda e a fiato raffigurati in statuete degli scavi di Keros e Thera. Poi nei poemi omerici. Nel mito di Orfeo. Ogni composizione poetica era un concerto – tutto era musica, ecco, e le fome prettamente musicali ci sfuggono. Anche perché i trattati in materia pervenuti “si preoccupavano solo di definire i supporti teorici di una musica al di fuori del tempo”, del suono in astratto.
Un’analisi classica – di musica “seria”. Integrando la ricerca col canto popolare, anche solo negli sviluppi successivi e contemporanei – la Grecia canta per ogni occasione – sul presupposto di una staticità non eccezionale nella tradizione orale, forse si sarebbe saputo di più.
Giovanni Comotti, La musica nella cultura greca e romana, Corriere dela sera, pp. 14+171 € 9,90

martedì 20 febbraio 2018

L’opinione pubblica spia

I media americani hanno mutato le regole dell’opinione pubblica. Non più dibattiti aperti, con idee, fatti e sostenitori pubblici. Ma interferenze, intercettazioni, indiscrezioni. Di personaggi ombra. Dei servizi segreti.
Gli scandali si susseguono, uno al giorno, senza mai un esito, e anzi subito dimenticati il giorno successivo: servono solo a rintuzzare la concorrenza. Roba da “Novella 2000”, ha scritto questo sito, ma qui si tratta delle istituzioni, non di attricette in cerca di notorietà. E gli scandali sono per lo più opera di spie dei tanti servizi americani di sicurezza, una ventina di agenzie di cui alcune molto grandi, l’Fbi, la Cia, la Nsa. Per traffici coperti, di varia antura: politici, di affari, di cordate burocratiche.
Altrove, in qualsiai democrazia, le spie che attaccano le istituzioni, senza prove, e senza motivo se non di parte, si imputerebbero di tradimento e verrebbero perlomeno dismesse. Negli Usa vegono celebrate, e contese tra i media.
Non basta: questi spioni diventano eroi della libertà di stampa, e della sinistra politica che di quella libertà si ritiene paladina esclusiva. Una sinistra ben sinistra, se si basa sulle spie, personaggi e ruoli costituzionalmente inaffidabili.
La storia dell’opinione pubblica ha subito molti alti e bassi. Basti pensare alle capacità manipolatorie dei regimi fascisti tra le due guerre, e del regime sovietico fino a trent’anni fa. O alle propagande di guerra. Ma che i nemici tradizionale della libertà di opinione, la segretezza, i poteri surrettizi,  diventassero la bandiera della libertà di opinione, e della buona coscienza democratica, questa è una novità. Glaciale.
Tanto più che il fatto può non essere una novità. Si ascolta nella colonna sonora originale di “The Post”, il film sui “Pentagon Papers” e il “Washington Post”, sulla libertà di stampa, la voce di Nixon per varie occorrenze – intemperanze ma anche semplici comunicazioni – nel 1969: il presidente americano eletto era intercettato. Dalle sue polizie, segrete e non.

I servizi non servono

La prima minaccia alla sicurezza dell’Italia, secondo i servizi segreti italiani, sono gli hacker di Mosca. Non si crederebbe, ma questa è la relazione del Sis, Sistema Informazioni per la Sicurezza, al Parlamento.
Quando Mosca interferiva (comandava) in Italia attarverso il Pci, nessuna obiezione. Ora i servizi segreti ci dicono assediati dalle spie di Putin, attraverso la rete. Questi hacker ci pungono, la rete è come le vespe? Squinzagliati non dal Kgb di Putin, ma da un suo amico pasticcere, Evgheny Prigzhin, tourné imprenditore del web.
Dalla Cia in giù, con l’Fbi, e la Nsa, il Sis è in buona compagnia – il prefetto Pansa può dormire tranquillo, se era stato svegliato. Anche con l’MI 5 britannico – ma le spie inglesi si sa che si divertono.
Però, perché non risparmiare i miliardi spesi per servizi che non servono a nulla? Non sanno nemmeno leggere i giornali. Chiuderli e mettere i soldi in un fondo per il progresso del’umanità: università, ospedali, magari anche strade senza buche. Si divertirebbero di più gli stessi agenti segreti: sempre in diaria, a spese nostre, ma per fare qualcosa. Sarebbe anche un sistemna difensivo migliore, molto, se il popolo bue diventasse un millimetro meno dipendente dalle scemenze.

Parigi e Madrid al servizio di Berlino

L’asse franco-tedesco è solido perché è tedesco, si sa. Ma è opportuno ricordarlo, si fronte alle chiacchiere risorgenti di un asse latino – mediterraneo, meridionale.
Il ministro spagnolo De Guindos scontenta tutti alla Bce, come vice-Draghi. È il cavallo senatore, un non banchiere in banca, ma Merkel lo ha voluto, col succube Macron, e tanto è bastato: De Guindos farà l’Almunia della Bce, l’altro spagnolo diventato immortale come “tedesco di complemento” a lungo nella Commissione di Bruxelles. L’Europa funziona così, con i quisling.
De Guindos fa da battistrada a una Bce di nuovo franco-tedesca, cioè saldamente tedesca. Dopo di lui entreranno al comando il presidente della Bundesbank Weidmann, ex ragazzo di bottega di Angela Merkel, e una signora francese, in omaggio alle quote rosa del femminista Macron, e all’asse franco-tedesco.
Non c’è altra linea a Bruxelles e Francoforte. Latina, mediterranea, del Sud. C’è Berlino, con cui la Francia latina si accorda. E a cui la Spagna latina si presta servizievole. Non ci sono due maniere di essere nella Ue, solo in asse con Berlino.

Quanto è ricco l’online a Napoli

Novecento ore di “girato”, sui De luca, meno quelle di sonno, fanno due mesi di girato ininterrotto. Questa è la sola buona notizia. Un operatore in America, dove queste cose sono pubbliche, costa 200 euro al giorno, per otto ore. Due operatori al giorno, per le sedici ore da svegli, 400 dollari. Ammettiamo che a Napoli si paghino la metà, la città è piena di operatori disoccupati, fanno 12 mila dollari. Non è molto ma non è poco – i siti pagano i giornalisti 20 euro al giorno, quando li pagano. Poi c’è il camorrista assoldato, che gira l’Italia e fa incontri segreti, qualche migliaio di euro anche lui li avrà voluti. Come rimborso spese, certo, l’informazione è sacra, è l’anima della democrazia. Questo è il solo aspetto consolante della vicenda:  un sito online che fa soldi. Una grande notizia.
Poi, cominciano le brutte. 900 ore di “girato” per incastrare De Luca o i suoi figli sono una trappola lungamente tesa al partito Democratico, in chiave elettorale. Dalla destra fascista. Perché Fanpage, il sito che ha realizzato l’impresa, è di sinistra: sue colonne sono Sandro Ruotolo, ex “Manifesto”, e Diego Fusaro, il filosofo di cui sono indimenticati i dialoghi con Valentina Nappi, altra filosofa di “Micromega”. E chi si ritrova a paladino? Il capo degli incorruttibili di sinistra, Grasso – l’indimenticabile Ingroia resuscitato, un po’ più florido, e senza barba. Ma nasce e si colloca a destra.
Di destra dichiarata sono del resto i giudici che hanno ispirato il lungo girato, Woodcock e Carrano. Poi si dice che il fascismo e morto - si potrebbe allertare “Chi l’ha visto?” Woodcock e Carrano naturalmente non sono fascisti, oggi è proibito, ma di quelle parti lì. Noti a Napoli per usare le maniere forti negli interrogatori, come usavano gli sbirri. Con la famosa Arma di Carabinieri napoletani, da Auricchio a Scafarto.

La riscossa del Sud, sceneggiata

La vicenda Fanpage oggi si direbbe telenovela, modernamente. Del resto Napoli è metropoli anche futuristica, tra ricerca scientifica e arti applicate. Ma niente avventure: è la sceneggiata napoletana, vecchio folklore.
Per quanto, essere governati da Di Maio, Fanpage, con camorristi al seguito, seppure pentiti, Woodcock e De Magistris sarà pure un’avventura. La riscossa del Sud, altro che Masaniello.
Di Maio “un giovanotto che si mette in tasca 15 mila euro al mese e parla contro la casta offendendo la dignità di chi la vita se la suda con il suo lavoro” è © del “cinghiale” De Luca padre. Ma: obiezioni?

Quando la donna americana si liberò

Una sceneggiatura robustissima, una regia attenta alle virgole, un interpretazione sempre in tono, di tutti. L’allucinato(rio) McNamara, lo schivo Ellsberg, che divulgherà le carte della guerra americana al Vietnam (“Pentagon Papers”), i familiari, consiglieri e avvocati di Katharine Graham, che la morte del marito ha proiettato a presiedere l’impero editoriale del “Washington Post”.
È la storia di lei, Katharine Graham, che non sa nulla di affari ma dopo il suicidio del marito depresso deve imparare presto e bene. Tratta probabilmente dalla biografia che Carol Felsenthal le ha dedicato nel 1999, “Power, Privilege, and The Post: The Katharine Graham Story”, non citata però nei crediti.  Altrettanto ben contestualizzata. Con la storia spiacevole della stampa americama degli anni 1960, tanto più procace in quanto gli Stati Unit non curano la storia, non la loro: da pappa e ciccia col potere, nei ranch, nelle penthouse, alla Casa Bianca, a denunciatori del potere stesso. Con la rivoluzione della donna americana negli anni Sessanta: da casalinga devota al marito e alle mondanità, a imprenditrice coraggiosa, di se stessa e del patrimonio. È il primo film Usa in cui si vede come vivono i ricchi americani - non i riccastri di tanta Hollywood, i veri ricchi. Con l’implosione del potere politico, sempre più chiuso su se stesso. Aggredito peraltro in forme confinanti con lo spionaggio – Daniel Ellsberg non è eroicizzato, è il dipendente che la schizofrenia del suo capo (McNamara) ha turbato. Tutto confortante, non il solito “arrivano i nostri”
Un romanzone. Di bei caratteri, forti, stagliati. Ben recitati, cioè – in origjnale Meryl Streep modula perfino al voce come la presumibile Katharine Graham della storia, a volte malinconica, più spesso svagata, e quando necessario tagliente. Tom Hanks è il Ben Bradlee della storia. Direttore del “Washington Post” determinato ad avere con qualsiasi mezzo i “Pentagon Papers”, le carte che il “New York Tmes” ha già avuto. Con tutti i sottintesi, che lo spettatore non è tenuto a sapere ma che sono parte del personaggio: spia della Cia, manipolatore di carte, probable manipolatore di destini (i coniugi Rosenberg, mandati alla sedia elettrica con prove dubbie come spie di Mosca, il primo Russiagate).
Steven Spielberg, The Post

lunedì 19 febbraio 2018

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (355)

Giuseppe Leuzzi

Emanuele Felice, il professore di Pescara autore  della “Storia economica della felicità”, si chiede preoccupato su “la Repubblica” “se il Sud tradisce il Pd” alle elezioni. Perché, cos’è il Pd per il Sud, a parte il malgoverno? Anche in quest’ultimo anno, dopo la batosta del Sud al Pd sulla riforma costituzionale: niente ravvedimento.

Sotto accusa a Napoli un paio di politici del Pd, legati al presidente del regione De Luca: un figlio, almeno uno, e collaboratori vari. Per non avere denunciato chi offriva loro tangenti per smaltire i rifiuti.  Chi offriva le tangenti è un pentito di camorra, pagato per attirare in trappola i De Luca. Tutto inventato: Napoli supera se stessa. Se tirasse la fantasia fuori dalla ignominia?

Il docufilm Rai 1 su De André riporta ala memoria il processo ai suoi rapitori in Sardegna. Dove gli organizzatori, un veterinario di Grosseto, un farmacista e il macellaio locali se la cavarono con poco o niente, essendosi professati “pentiti” – la legge con i benefici era ds poco in vigore – mentre  i poveracci che avevano eseguito il rapimento e organizzato la lunga custodia ebbero dagli otto ai dieci anni.

Il rapimento De André in Sardegna dimostrò che , se si voleva, l’Anonima Sequestri non era poi anonima ed era battibile: bastava cercare i rapiti. Mentre in Calabria poté prosperare ancora per vent’anni.

Briganti in Abruzzo, un sogno
Si proiettava in Francia nel 1925 – J. Roth ne riferisce in un articolo della raccolta “Nella Francia meridionale” (ora in “Al bistrot dopo mezzanotte”) – un film, “I lupi rossi”, in cui i cattivi erano briganti abruzzesi. Roth l’ha visto a Marsiglia, in un cinema di fronte al porto, e così racconta il film. “Hanno rapito Margot, una bella giovane, e l’hanno nascosta in una torre alta e irraggiungibile”. Non naturalmente per l’eroe, “un giovane ardimentoso di nome Cesare”. Che strappa anche l’ammirazione dei briganti. E degli spettatori ma in modo particolare: “Non riscuote solo l’applauso dei lupi rossi, ma anche quello degli spettatori, che sognano ardentemente di essere briganti in Abruzzo”. Non senza un perché.
Il film è visto otto volte in un giorno, dalle dieci di mattina a mezzanotte, specie dalle mamme coi bambini – il cinema è più fresco che la casa, i bambini non pagano, e “ogni spettatrice ha almeno quattro figli”. Ma anche i mariti portuali, la sera, rifocillati e ripuliti, non se ne privano, “con il desiderio nel cuore di essere un brigante in Abruzzo”, anche loro – “Una caverna di briganti in Abruzzo è ancora più romantica di un porto”.
È l’antica dialettica Nord-Sud. O non è la dialettica montagna-mare – chi sta in montagna vuole il mare, e viceversa, si chiede lo scrittore? “Vorrei sapere se i briganti abruzzesi si guardano un film sui lupi di mare diMarsiglia”.

Il mondo di mezzo
Joseph Roth scopre il Sud a Lione: “Dopo aver attraversato una galleria, ci si ritrova in un mondo meridionale”. Ma il cambiamento, “in modo repentino”, intende radicale: “Pendii scoscesi, rocce solcate da fenditure che ne svelano la struttura di pietra, verde più intenso, vapore tenue, azzurro pallido, un celeste più forte, deciso…. I contorni di tutte le cose sono più netti, l’aria è immobile, le sue onde hanno smesso di accarezzare i corpi solidi. Ciascuno ha margini immutabili. Niente oscilla più. In tutto vi è una sicurezza assoluta, come se le cose avessero maggiore conoscenza di sé e della propria posizione nel mondo. Qui vien meno ogni dubbio. Qui non si intuisce. Si sa”. Fa molto caldo anche a Lione, 35 gradi, “eppure le strade e la gente  non sono pigre e stanche, ma serene e animate”.
Ripensandoci, in un articolo successivo (poi pubblicato nella raccolta “Le città bianche”, ora in “Al bistrot dopo mezzanotte”), Lione appare allo scrittore austriaco “al confine tra il Nord e il Sud dell’Europa”. In un incontro ferace: “È una città di mezzo. Fedele alla serietà e alla determinazione settentrionali non meno che alla spontaneità del Mezzogiorno, è una città alacre e sorridente”. La vivacità è meridionale, ma la città sa combinare i due capi: “Il giorno feriale è faticoso e la domenica festosa e animata. Tutti dimostrano una solerzia straordinaria nel non fare nulla. Fanno festa con infaticabile zelo”.
Il Sud J.Roth identifica con la socialità: “Come si amano gli indifesi, i bambini, i deboli! Nessun grido, nessuna percossa, nessun pianto”.Che al sociologia nordica muterà presto invece in “familismo amorale”.

La scoperta di Bisanzio
Il Sud è molto bizantino. Ma si scopre a poco a poco. Negli anni 1970 ancora non si sapeva. Gli studi più occidentali dl bizantinismo si facevano ancora a Belgrado, in Serbia. Negli anni Ottanta del secolo Novecento la Calabria ha preso a farne la scoperta, una piccola parte dela Calabria, sulla punta, da Reggio andando verso Bova. Sulla scia della Grecia, che furiosamente riscopriva il bizantinismo, in funzione anti-Macedonia e anti-Bulgaria, insomma anti-slava. E per accedere ai fondi europei cospicui per le culture da salvare.
In Italia si cominciava a farne qualche studio all’università della Lucania – c’è una università della Lucania? Ma di Silvia Ronchey, che a Roma cominciava a occuparsene, si diceva solo che era figlia  di Alberto Ronchey. Finché, ai primi del millennio, improvvisamente, anche la Sicilia si è riscoperta bizantina. Tutto quello che era evidente, i mosaici a Palermo, la Madonna di Tindari, i conventi basiliani, il rito greco, la toponomastica, gli anni in cui Costante II volle la capitale dell’impero a Siracusa invece che a Costantinopoli, è stato riscoperto. Sull’esempio dei (piccoli) comuni grecanici di Reggio Calabria, dei fondi europei.

Autobio
Sciascia, che ha dell’infanzia un’immagine negativa, “un’età triste, dura soverchiata da prepotenze e tirannie”, ne dà un quadro ambivalente “nella società siciliana”: “I bambini sono oggetto di una specie di idolatria e tiranneggiano intere famiglie e vicinati”. Un giudizio che bilancia col ricordo opposto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa nei “Racconti”. Nel racconto “I luoghi della mia prima infanzia” l’autore del “Gattopardo” si commuove alla rilettura di “Henry Brulard”, il selfie di Stendhal, salvo che in un punto: “Lui interpreta la sua infanzia come un tempo in cui subì tirannia e prepotenza. Per me l’infanzia è un paradiso perduto. Tutti erano buoni con me, ero il re della casa”. In piccolo, il ricordo è uguale, anche se non in Sicilia – e non personale, privilegiato, tutti eravamo re della casa e tutti erano buoni con noi, i compagni di età e di quartiere, e gli adulti. L’infanzia è – era – protetta. Lo era anche quando usavano gli schiaffi. 
Non di scuola – la sola che Sciascia esercita - la memoria dell’infanzia è di un’avventura senza fine, fino alle ombre sotto il letto e forse anche nel sonno. E quasi un impegno, di invenzioni, trovate, scorribande, con compagnie sempre presenti, seppure polimorfe e oggi invisibili (se non ai richiami: “Ti ricordi?....). Oggi il mondo è un altro, i bambini stanno al chiuso in casa, quando escono da scuola. I bambini stanno sempre al chiuso, controllati. Un tempo no. Nemmeno la mattina, quando c’era scuola: si poteva anche non andare a scuola, e la scuola era comunque  un posto vivace. Giusto il pomeriggio, quando papà era in casa, che imponeva un riposo di due ore, passate a smaniare. Alle elementari, se il maestro non era preciso all’ora il segno era che un supplente sarebbe venuto, e allora la classe unanime si metteva in vacanza, senza mai problemi. Al ginnasio in collegio il martedì, quattro re di lettere più una di religione, se il tempo era bello si andava a giocare al calcio sul campo dell’Arsenalmessina, dietro il porto.
La scuola divoratrice di oggi, sotto le insegne del dover essere, era impensabile. Vecchie generazioni imprevidenti? La scuola è tutto è un sostituto di che - un Ersatz di quali colpe (poiché di colpa si tratta)? O si può fare una pedagogia punitiva.

leuzzi@antiit.com 

Il fascino segreto di Hitler

Titolo originale “L’assaggiatrice”, mutato forse in traduzione per l’uscita in contemporanea di un romanzo con tema analogo di Rosella Postorino, “La assaggiatrici”. È la storia di una giovane donna profuga nel 1943 sulle Alpi, dove trova lavoro nel gruppo di donne che assaggiano i cibi destianti a Hitler, per evitare che sia avvelenato. Magda è la cittadina qualunque che, per questa strana occupazione, viene a conoscere i segreti del Reich, e vivrà una serie di avventure. Una sorta di “vita quotidiana” del Rerzo Reich, la storia vissuta dal basso. Da donne quasi di servizio – perché solo assaggiatrici donne? Gli ingredienti sono molti, insicurezza, paura, amore, terrore, resistenza, suicidio, fascino del male, vendetta, dalla parte del bene e dalla parte del male. Mescolati con abilità.
Una non storia in realtà. Ben congegnata, tra  intrighi, vendette, colpa e sensi di colpa. Un altro escamotage per sfruttare il fascino demoniaco del Terzo Reich, che tanti lettori golosi ha - magari sotto la specie dell’antinazismo. Marta è accudita, al matrimonio con un membro segreto della Resistenza, ma anche dopo, da Hitler con Eva Braun solleciti. Hitler non è cattivo, è solo uno che si autosuggestiona. I tedeschi, bontà loro, lo credono un visionario.
L’autore l’editore lo fa maschio – “V.S.Alexander è un appassionato studioso di storia con un forte interesse per la musica e per le arti visive” Ma lo indirizza sulla scrittura al femminile, di Shirley Jackson, narratrice di fantasmi, Daphne du Maurier e le sorelle Brontë - un’altra “Elena Ferrante”?  
V.S.Alexander, Al servizio di Adolf Hitler, Newton Compton pp. 348, ril. € 9,90

domenica 18 febbraio 2018

L’elogio del trash

Si sa che i critici non leggono i libri, senza infamia, troppa fatica. Ma i film? Due ore al massimo, seduti comodi. Senza occhiali e con le mani libere. In compagnia, di belle figliole alle prime - ci ambivano prima di #metoo. O se - poiché - un film è prodotto industriale, la critica è solo una promozione, come di una vettura nuova, un prosciutto, un vino?
Non basta. Come si giunge a promuovere capolavoro uno zuppo trash, “La forma dell’acqua”? Girato come tale, a tutta velocità, e poi proposto come film d’Autore, da Cineteca, da Oscar. Al festival di Venezia, impegnato a premiare una produzione americana, questione di geoeconomia, che per questo s’è data per giuria un’armata Brancaleone, plasmabile, attorno alla presidente Annette Bening, attrice americana di seconda fascia: Ildikó Enyedi, Michel Franco, Rebecca Hall, Anna Mouglalis, David Stratton, Jasmine Trinca, Edgar Wright e Yonfan. Anche così, è una meraviglia che il capolavoro sia uscito,per quanto da impegni presi.  
L’unico che mostra di aver visto il film premiato è Francesco Boille, forse perché ne scrive su “Internazionale”, giornale senza soldi: “Il film di Guillermo del Toro a cui è stato assegnato il Leone d’oro è una simpatica fesseria ma nulla più”.
I grandi media marciano coperti e allineati:
“Geniale Del Toro in «La forma dell’acqua» (Ferzetti)
“La ricchezza del mito si sottrae alla miseria della Storia” (Escobar), quattro stelle su cinque
“Il film di Guillermo De Toro è una  romanticissima storia d’amore” (“La Stampa”)
“Una favola noir subacquea che è anche un omaggio alla forza immaginifica del cinema” (Battocletti)
“La forza del film è un amore per il cinema che, anziché risultare cerebrale dà sostanza alle emozioni, e senso allo stile” (Morreale).
“Una versione di «La bella e la bestia» piacevolmente pop, infarcita di citazioni cinefile e vivifiata da un sorprendente soffio romantico (non sprovvisto di erotismo)” (Mereghetti)
Un esito “alla grande, mescolando lo straordinario con il banale, la magia con la quotidianità, il drmma con il musical, spingendo al massimo l’acceleratore del romanticismo, grazie anche a un’ambientazione malinconica e struggente” (Montini).
Poi dice che la gente non va al cinema.
Salvatores, Oscar a sorpresa nel 1992, col suo terzo film, “Mediterraneo”, si chiede arguto su “La Lettura” se gli otto o novemila giurati Oscar dei cinque continenti vedano i film selezionati, e in che lingua. Lui vinse contro “Lanterne rosse” di Zhang Yimou, nettamente favorito, ma “alle conferenze stampa”, ricorda, “capii che del film cinese non avevano capito nulla, credevano fosse un documentario sull’architettura, le tegole”. Ricorda anche Clint Eastwood in giuria con lui a Cannes: “Su «Caro diario» disse che pensava fosse un documentario su un regista italiano scomparso”. È vero che al cinema ci si può addormentare.
Indirettamente, Salvatores introduce anche per il suo film il fantasma di Weinstein, che con gli Oscar ci ha sempre saputo fare.

J. Roth fa i conti coi germanisti

Il titolo è derivato dall’abitudine dello scrittore di bere, spesso da solo, tardi, che lo stroncherà – “una sensazione di sicurezza e smarrimento al tempo stesso mi trattiene qui”. Ma a Parigi, seppure in esilio, volontario, dalla Germania, che da buon austriaco sempre temeva, già dal 1925, ci stava volentieri. Benché dal 1926 senza più lo stipendio da corrispondente della “Frankfurter”, il quotidiano preferendone uno che coprisse anche la politica – e mandò un filonazista, Friedrich Sieburg. Questo è il suo omaggio alla Francia, che lo rispetta e lui ama.
Il volume si compone delle due raccolte note, “Le città bianche” e “Nella Francia meridionale”. Con un  saggio su Clemenceau, alcune recensioni, e note varie, compresa quella del titolo – “il bistrot dove sono solito sedere ogni notte dopo mezzanotte…” Entrambe le raccolte sono sulla Francia meridionale. “Le città bianche” rifà la prima, la approfondisce, più riflessiva, meno raccontata. Meno fresca. Le traduzioni, quattro o cinque diverse per i vari segmenti della raccolta, non aiutano: non sono “rothiane” – semplici – e troppo spesso non congruenti. Ma la forza delle argomentazioni sovrasta la sciatteria della presentazione.  
Sono pagine di scoperta, e di immaginazione, ma malinconiche. Con pezzi straordinari, specie nella prima raccolta, di entusiasmo genuino – “l’amore mantiene giovani”. A Vienne lo spettacolo della morte. A Nîmes il toro personaggio della corrida. Marsiglia quando era una “città di navi”. O le scuole d’estate, come sono belle. Una Costa Azzurra “di carta” – da scrittori inglesi, più F.S.Fitzgerald. E, al Nord, l’odore della guerra, dopo otto anni, a Saint-Quentin. Il ritratto di Drumont vivacissimo, l’antisemita, e di Benanos, biografo corrivo di Drumont nel dimenticato “La Grande Peur des bien.-pensants”. Il ricordo di Sacco e Vanzertti, il giorno dela loro esecuzione, nel “paese delle illimitate disumanità”.
Una profonda pagina sull’essere tedesco introduce “Le città bianche”. Assortita da una sull’“anima tedesca”, roba da germanisti, da non tedeschi, che sono soliti “conoscere” ma non “capire” – solo gli austriaci capsicono la Germania, perché parlano la stessa lingua. La Germania Roth prospetta come un “recinto”. Ordinato, definito, e per questo insoddisfacente: “È tipico di un mondo limitato guardare con sospetto tutto ciò che non può essere definito”. Detto da cittadino del mondo: “Non vado più all’«estero». Tutt’al più io vado nel «nuovo»”.
“Si perde una patria dopo l’altra” nota a un certo punto, per rivoluzioni, nazionalismi, cacce alle streghe. Ma senza rassegnazione: la raccolta è una puntigliosa contestazione del “Mito dell’anima tedesca”, questo il titolo dela riflessione specifica. Una creazione da germanisti, quelli che “vanno a Bayreuth”, alla Germania che la Germania prepara secondo le loro attese, che ben conosce e sfrutta: i luoghi comuni dell ‘ impulso f austiano” e della “spinta nordica”.  Roth non è l’apatride, uno sradicato, un ebreo errante. Era molto radicato – anche troppo, nei romanzi. Ma – e per questo – a disagio. Profondo, polemico. “Il simbolismo prussiano è così di bassa lega”, è la conclusione, “quanto grande è l’ingenuità romantica degli europei occidentali. Lo spirito meccanizzato, il «rigido addestramento» prussiano si sono messi la gualdrappa della mitologia germanica. E, come usa dre con espressione non nordica ma calzante, quello che chiamiamo «mondo europeo» ci è cascato”.
Un’altra pagina da antologia, nella stessa raccolta è sulla sua generazione. Quella risucchiata dalla guerra, che l’ha combattuta e ne è stato vinto – come tutti in quella guerra, non solo chi l’ha persa. Il suo è lo sguardo più acuto, ancora dopo un secolo, su quella carneficina: “Noi siamo i morti resuscitati”.

Joseph Roth, Al bistrot dopo la mezzanotte, Adelphi, pp. 301  € 19