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sabato 21 gennaio 2012

Troppo brava, Cristina esclusa dal centocinquantenario

La “primavera” del 2011 ha portato alla riproposta di quest’unica testimonianza di e su uno dei personaggi di migliore intelligenza, teorica e pratica, nella “primavera” italiana. Tra Milano, dove avviò una vera e propria “città del sole” a Locate di Triulzi, nei possedimenti di famiglia, e Parigi, dove mediò, finanziò, e fece avanzare gli studi e i programmi sansimoniani e furieristi, amica apprezzata e corrispondente dei migliori spiriti europei, a partire dai vecchi Chateaubriand e Lafayette e compresi Heine, l’amico di una vita, che di lei diceva “una bellezza assetata di verità”, e Liszt. La mente più libera e morale del suo mondo e dell’Italia tutta.
Avversata per lo spirito indipendente e l’ intelligenza, dai benpensanti Mamiani e Manzoni più che dalla polizia austriaca, seppe coniugare il cattolicesimo con la libertà, e più con l’indispensabile uguaglianza. Non solo con le opere ma anche con testi che ancora si fanno leggere – di cui questa antologia, limitata ai moti del 1848, è solo un invitante assaggio, grazie anche alla lunga e circostanziata introduzione del curatore, Sandro Bortone. Qui è pubblicato in appendice anche il pacato saggio “Della presente condizione della donna”.
Famosa al matrimonio, a sedici anni, come la più ricca ereditiera d’Italia, su Cristina Trivulzio fu costruita agevolmente cattiva fama, dopo la separazione, ad appena quattro anni dalla cerimonia nuziale, dal libertino marito Emilio di Belgiojoso. Per la sua attiva partecipazione, ventenne, ai moti carbonari in mezza Europa. Fu punto di riferimento dei migliori spiriti del Risorgimento, per un decennio a Parigi negli anni 1830, dove tenne casa aperta per i fuoriusciti, e poi a Locate. Fu finanziatrice, editrice, direttrice e redattrice di giornali, “La démocratie pacifique” e “La Gazzetta Italia”, poi “Ausonio”, a Parigi, il “Nazionale” a Napoli, “Il Crociato” a Milano. Fu studiosa e editrice di Vico,del cristianesimo delle origini fino al Medio Evo, del sansimonismo e del furierismo, delle condizioni politiche e sociali della Lombardia. Specialmente illuminante sulla situazione dei contadini nella bassa Lombardia. Nonché autrice, nell’esilio in Turchia dopo il 1848, di una serie di ritratti romanzati di vita locale, “Scènes de vie turque”, che Luciana Tufani sta infine editando, . La parte migliore forse della tanta, troppa, Italia risorgimentale rimossa nelle celebrazioni de di una serie di reportages di vita socialeel centocinquantenario.
Non è una novità, gli scritti sula 1848 a Milano erano stai già esclusi dalle celebrazioni cinquantenarie del 1848. Benché fossero stati riscoperti dal giovane Salvemini e poi, a inizio Novecento, ripubblicati dal repubblicano Arcangelo Ghisleri. Mentre faranno bella mostra nel 1971 nell’antologia francese “Les révolutions de 1848”, accanto ai testi di Marx, Proudhon e Blanqui. Erano usciti del resto, subito dopo i fatti, nella parigina “Revue des deux Mondes” - la stessa che pubblicherà i testi narrativi e i reportages dalla Turchia, immuni, fu subito notato, dall’orientalismo di maniera.
Cristina di Belgiojoso, Il 1848 a Milano e Venezia, Feltrinelli, pp.185 € 8

Secondi pensieri - (88)

zeulig

Amore – “Conquistare l’Amore (si fa) con l’amore senza misura” scrive Hadewijch d’Anversa, la poetessa del movimento delle beghine nel Duecento. Cioè delle donne che rinunciavano al principe azzurro e al matrimonio.

“Penso inoltre che sia molto meglio essere vittima dell’amore, piuttosto che vivere senza di esso”, scrive Susette Gontard, “Diotima”, all’amato Hölderlin il 31 ottobre 1799. Una concezione romantica, ma anche utilitaristica. Ragionevole?

Corpo - Nel pensare corrente (sanitario, estetico, funzionale) è il corpo-macchina, un organismo complesso ma al fondo meccanico, prevedibile e ora, grazie ai trapianti, pure scomponibile. Il corpo scientista è quello dell’Uomo di vetro presentato alla II Internazionale dell’Igiene di Dresda nell’state del 1930, un modello costruito con materiali trasparenti . Il modello di una lettura del corpo umano come “cosa”, come materiale inerte seppure vivente.

Il corpo, secondo Platone, è il sema dell’anima, ne è il segno e la tomba. E dev’essere vero, se l’escatologia della resurrezione vuole che le anime si ricongiungano ai corpi: ci sono dunque dei corpi senz’anima.
Il corpo è la prova di Dio secondo Locke: non ne sapremo mai abbastanza per affermare che Dio non può infondere sentimento e pensiero nella cosa chiamata materia.
Campanella arguto, che solo chiedeva cibo e vino, ai preti che lo torturavano, inquieti di “tanta preoccupazione del corpo”, rispose: “L’anima è immortale”.

È la filosofia per questo sterile, che è senza corpo – senza amore? Tra la filosofia tedesca, parole di parole, che ha cancellato il corpo e ogni altra fisicità, e la muta America, che parla solo col sesso, il quale appunto non parla.
Per l’orfismo il corpo è tomba e prigione dell’anima.
Lo stesso per la chiesa: “Memento quia pulvis es et in pulvere reverteris”, ricordati che sei polvere, l’unico materialismo è questo della chiesa, sotto l’apparente rifiuto del corpo. Che pure il divino sempre esprime in figure leggiadre. Ma l’unità è cristiana, di anima e corpo – dopo che aristotelica, ma sacramentata. Ugo da San Vittore, per esempio, è un estimatore: “Habent corpora omnia visibilia ad invisibilia bona similitudinem”, i corpi visibili rinviano ai beni invisibili.
È pesato a lungo il corpo, triste tabù semita, non riequilibrato in questo caso da Platone. Finché all’improvviso non è tornata l’armonia con sant’Agostino, per cui il corpo è l’anima, nudo. Il corpo nudo è antico incanto teologico, padri della Chiesa inclusi, dall’“Exameron” ambrosiano a Lattanzio, Cassiodoro e al Venerabile Beda, prima che estetico – sfuma se tutti i corpi sono nudi. Il mistero del corpo, della Passione e Resurrezione di Cristo, è centrale per il cristiano.

Il corpo libero è finito in celluloide, o peggio digitalizzato, e non c’è misura all’improsatura - nel Seicento erano licenziose le favole di La Fontaine.

Il gregge è il corpo del pastore, ne è l’estensione, il formicaio lo è delle formiche, l’alveare delle a-pi: ne estende il corpo e la mente, per i pascoli e oltre, nella lunga giornata senza tempo, nella transumanza. La fabbrica lo è dell’operaio, l’azienda dell’impiegato, il lavoro del lavoratore. I corpo è ora essenzialmente sociale.

Il corpo è lo spirito è di san Paolo prima di Berkeley. Debole se lo spirito è debole.

Dio – Non esistendo, è per questo difficile da rappresentarsi e concepire. A meno che non sia tutto in queste operazioni. Ma allora sarebbe pura esistenza?

È complicato, è il meno che si possa dire. L’eretica Guglielmina la Boema, che Dio sostenne essere femmina e se stessa incarnazione dello Spirito Santo, è sepolta e onorata nell’abbazia di Chiaravalle fuori Pavia. Con licenza, certo, del papa del tempo, che furbo si cautelava. Perché chissà, Dio è complicato, più delle donne.
Ci fu un tempo nelle Gallie in cui si battezzava “in Nomine Patri, Filiae et Spiritui Sancti”. Era per ignoranza, perché i preti non sapevano più il latino. Ma nella Bibbia a un certo punto i maschi svaniscono e contano le donne, Sara, Rebecca, Rachele, Debora, che fu profetessa e giudice, Gezabele, Ester, che chissà perché si dipinge fiamminga, senza sopracciglia e senza carattere, Anna, Elisabetta, Maria. È da una donna, Diotima, sacerdotessa di Mantinea, che Socrate apprende con Platone la dottrina dell’amore.

È per Beckett l’impossibile – Godot, il “deuccio, come “assoluta assenza di Assoluto”. Piero Boitani fa sul “Sole” domenica un breve, incisivo, excursus della convivenza di Beckett con Dante, dai suoi vent’ani fino al letto di morte, in un dialogo continuo. Nella posizione e nel ruolo di Belacqua, che per lui è “statica assenza di vita”, accucciato con la testa fra le ginocchia, negligente, pigro, impantanato nell’indecisione, che dice incomprensione (Giorgio Petrocchi invece lo trova “finissimo, pungente e un po’ malinconico…. Un artigiano”) . Uno che non si spiega il suo proprio destino, il destino di Beckett, intende dire Boitani.

Illuminismo – Si pubblicava a Napoli negli anni 1830 una rivista repubblicana, per un regime “ordinato e ragionevole”, “Le Charivari des deux Siciles”. Scritta da napoletani in francese, perché il francese, scrivevano gli autori, è “la langue qui permet le plus aisément à la parole de deguiser la pensée”. Da leggersi probabilmente in questo senso: perché il francese è una “lingua inoffensiva”, non essendo leggibile dai molti, fuori portata della censura. Il francese è diretto, e può essere violento, lo è stato con la Rivoluzione e con Napoleone. Ma è vero che l’illuminismo riesce a combinare il massimo di sovversione con un’apparenza di moderazione e anzi di ordine. Mentale, quindi sociale.

Mondo – Sta da tempo (Descartes?) per l’in sé, inafferrabile, inattaccabile. Di materia e storia, non scalfibile per incrostazioni fossilizzate. L’inconoscibile, qui e ora definitivo. Sta quindi per il male. E questo non è possibile.

Morte - “La vita non va vista dalla nascita alla morte, ma al contrario, dalla morte alla nascita”: il novizio di Serra San Bruno organizza la visita partendo dal cimitero, con questa ragione. E intende il redde rationem finale, cui tutta la vita infine si conforma. Ma apre non solo un’altra prospettiva, anche un’altra filosofia.

Santità – È volontà di fede, con intelligenza del mondo. Un’identificazione col mondo per separazione, anche critica, di rifiuto.

zeulig@antiit.eu

Le tre giustizie

Dunque era Scotti che tramava contro Mancino, due napoletani illustri. Nella lite palermitana tra la Procura e il generale Mori, nel sottoprodotto della lite che è il patto Stato-Mafia, il senatore Mancino, all’epoca ministro dell’Interno, viene coinvolto nei termini in cui Maroni ne parlava in un’intervista del 1997 al “Corriere della sera”. Nel 1994, primo ministro dell’Interno non democristiano, Maroni andò un giorno di sorpresa al Sisde, e si fece mostrare i dossier politici (in quello della Lega trovò anche la Lega Ambiente…). Il “più sorprendente” fu quello a carico di Mancino, il suo predecessore: su Mancino ministro dell’Interno e capo del Sisde. Era l’ennesimo regolamento di conti all’interno della (ex) Dc.
Avevamo tre giustizie politiche: dei giudici di destra contro i politici socialisti, dei giudici di sinistra contro le destre, e dei Dc contro i Dc. Questa era la più feroce – basti pensare ad Andreotti contro Moro. Ce le abbiamo tuttora.

venerdì 20 gennaio 2012

L’ultimo Buddenbrok, maschio molle

È il romanzo di come tutto viene portato “dolcemente” in malora dalle donne della famiglia, non più tenute a bada da un patriarca – nella terza parte è detto con violenza, al punto da eccedere nella prolissità, la narrazione non ha altra tensione interna. Rappresentazione indiretta dei guasti del femminismo immaturo, sul piano della sociologia della letteratura.
Sul piano psicologico (personale? ) è la rappresentazione di un carattere molle – buono, intelligente, inquieto: il nevrotico di oggi, prima che finisse depresso. Di un carattere femmineo? Così dice l’opinione corrente. Ma il carattere maschile è da qualche secolo sentimentale, quindi molle. Può essere questa la chiave per l’imprendibile soggetto Mann, Thomas Mann, che ha abbastanza scaltrezza per tratteggiare ben più perverse evoluzioni.
Thomas Mann, I Buddenbrook

La Germania ci ripensa, crisi avanti tutta

I toni compiaciuti sono spariti, all’improvviso è tutto e solo allarme in Germania. Che ora ha fretta di varare le misure europee anticrisi subito e non più a luglio, forse già al vertice di fine mese. La Grecia verrà salvata. Si parla apertamente di dare via libera alla Bce per calmierare i mercati nel termine immediato con la sua liquidità. Mentre si vuole accelerare, insieme con il patto fiscale, il lancio del Fondo di stabilità. E si incrementano le pressioni sugli Usa perché rafforzino il Fmi.
L’urgenza viene giustificata col fatto che il patto fiscale e il Fondo di stabilizzazione dovranno essere approvati dai Parlamenti nazionali. E senz’altro è intesa a influire sul voto del Bundestag. Ma al fondo c’è un netto peggioramento in Germania di tutti gli indici, che ha indotto all’abbandono del trionfalismo per il 3 per cento di crescita economica ottenuto nel 2011. A spese, ora si riconosce, dell’eurozona – il trionfalismo si è giovato largamente e a lungo dell’argomento “solido Nord” contro “improvvidi latini”.
La crisi dell’eurozona indebolirà le esportazioni tedesche, che già sono ferme da quattro mesi. Ci saranno chiusure con licenziamenti di lavoratori qualificati. La domanda interna, che nel 2011 ha contribuito per due terzi all’aumento record del pil, quest’anno sarà, al meglio, piatta. La componente estera, che nel 2011 ha contribuito per tre quarti di punto alla crescita del pil, avrà un impatto negativo, fra mezzo punto e un punto di pil. La crisi di Commerzbank, il secondo gruppo del paese, rivela che tutto il sistema bancario europeo va in crisi con l’eurozona.

Per tre anni la Bce ha finanziato la Germania

“Offrire un’assicurazione di prima categoria sui titoli contro il fallimento dell’Italia ci colpisce come offrire un’assicurazione sulla cristalleria al padrone di una casa prossima a un impianto nucleare che sta per collassare”. In nota, giunto alla fine del suo argomentare sul miglior esito della crisi, l’economista capo della Deutsche Bank, Thomas Mayer, non si risparmiava il 26 ottobre il sarcasmo. Senza cattiveria, il suo sarcasmo era rivolto al Fondo europeo di stabilizzazione: “Né il padrone di casa né il detentore di titoli italiani si sentirebbero molto sollevati da questa assicurazione”. Il punto è, aveva argomentato l’economista, prevenire o evitare il collasso. E cioè, aveva spiegato, affrontare la “crisi nascosta” della bilancia dei pagamenti interna a Eurolandia.
La sua tesi è che lo squilibrio si è creato per la progressiva sostituzione degli Stati europei creditori, nel 2010 e 2011, al “mercato” (banche, fondi, fondi sovrani), nel finanziamento degli Stati europei debitori. Direttamente e attraverso il Fondo di stabilizzazione. È così che la posizione netta della Bundesbank nei riguardi della Bce è cresciuta nei primi nove mesi del 2011 del 124 per cento, da 326 a 450 miliardi di euro. Mentre quella dell’Italia è peggiorata del 107 per cento, da un attivo di 3,4 a un passivo di 106,9 miliardi.
Il capo economista della Deutsche Bank aveva già pubblicato a giugno uno studio sugli squilibri interni all’Europa determinati dal sistema dell’euro. Un problema identificato per primo dal presidente del Ces-Ifo di Monaco Hans-Wernes Sinn, del Centro di ricerca economica dell’Ifo, l’istituto per lo studio della congiuntura, di Monaco. Che successivamente raccolse i suoi e i contributi in materia di altri economisti in una serie di pubblicazioni online sul sito Ifo Schnelldiest, a partire dal 31 agosto. È il pensiero della “lobby Buba”, Buba per Bundesbank, una scuola di economisti più che di banchieri, e tanto brillanti, disponibili e garbati quanto demenziali. L’argomento si presenta semplice e evidente. Nei dieci anni dell’euro il credito a buon mercato ha provocato forti sbilanci interni ed esterni nell’unione monetaria. Quando la bolla è scoppiata e il finanziamento privato di questi sbilanci si è assottigliato, il sistema delle banche centrali dell’euro (Eurosistema), fu coinvolto in finanziamenti ponte per evitare la crisi. L’Eurosistema si è così esposto al rischio di default, di banche o di debiti sovrani. E ha fatto di tutto per evitarli, anche nel caso in cui c’erano “serissimi dubbi sulla solvibilità di un paese”.
C’è, cioè, nell’analisi un sordo risentimento contro le cicale, la Grecia sicuramente, la Spagna chissà, l’Italia… Senza considerare che con la Grecia sarebbero fallite le banche tedesche, quelle che più hanno profittato del falso boom ellenico. Il risentimento è rafforzato dall’argomento centrale di Mayer il 26 ottobre: gli sbilanci nei pagamenti fra i membri dell’euro “rappresentano trasferimenti reali di risorse dai paesi in attivo a quelli in passivo”. Ribadito, perché non ci siano dubbi: “In altre parole, merci, servizi e attivi sono trasferiti dai paesi creditori ai debitori a prezzi sussidiati, un sussidio misurato dagli attivi e passivi (delle banche centrali nazionali) nei confronti della Bce”. È cioè il punto di vista della Bundesbank, e non del funzionamento dell’economia. Un punto di vista nemmeno monetaristico, ma meramente contabile.
Mayer, provocatoriamente, sostiene nel supplemento del 26 ottobre che il problema si può solo risolvere inducendo i paesi creditori, cioè la Germania, ad adottare politiche inflazionistiche, che deprimano il tasso reale di cambio (in un sistema non unitario sarebbe la svalutazione), e consentano ai paesi indebitati di eliminare le passività nei confronti della Bce. Una sorta di “sentenza suicida”. Che Mayer rafforza col sarcasmo, adottando liberamente, in un testo che si vuole di studio, la contrapposizione “germanici-latini”. Altra possibilità non c’è, così argomenta il sarcasmo: “Dal punto di vista dei paesi in passivo, una politica che surriscalda i paesi creditori è l’esito migliore, che risparmia a loro i costi della deflazione. I costi dell’aggiustamento sarebbero messi in capo ai creditori sotto forma di inflazione”. Con una manovra subdola: “Poiché i costi da inflazione sono intrasparenti e distribuiti su un lungo periodo, è difficile organizzare una resistenza. Una politica di denaro facile e un tasso di cambio debole invece favoriscono questa soluzione”.
Deutsche Bank non considera bizzarramente quello che i suoi stessi studi e i suoi bollettini documentano: che la Germania è la beneficiaria della crisi di liquidità dei paesi “latini”. Una tavola costruita da Mayer per dimostrare che i Gip (Grecia, Irlanda e Portogallo), la Spagna e l’Italia sono i beneficiari dei rifinanziamenti europei tramite la Bce dimostra esattamente il contrario. I rifinanziamenti Bce sono andati per l’80-90 per cento agli “altri” paesi euro, i nordici, da metà 2007, alle prime avvisaglie della crisi, a metà 2009, e per il 60 per cento e oltre agli stessi paesi da metà 2009 a giugno 2010. Quindi per ben tre anni, quando la stessa Deutsche Bank se la vedeva brutta, e alcuni colossi austriaci, belgi, olandesi. Solo nei dodici mesi successivi i Gip sono arrivati al 50 per cento – Spagna e Italia ancora a ottobre 2011 non vanno oltre il 5 per cento l’uno. Inoltre, è questa la seconda bizzarria del computo, i Gip sono arrivati al 50 per cento degli impegni della Bce quando questi sono stati ridotti, fra i 400 e i 500 miliardi, mentre quando la Bce consolidava gli “altri” l’impegno era costantemente sopra i 700 miliardi, e in alcuni mesi sopra gli 800.

giovedì 19 gennaio 2012

La poesia è triste, del singolo, solo, scontento

Anna Maria Carpi è la scelta poetica di Alfonso Berardinelli per il 2011, che la classifica tra gli autori autobiografici. Parliamo di Saba, Bertolucci, Penna, Giudici, Cavalli. Per una ricorrente vena memoriale, dell’infanzia come fu e avrebbe potuto essere, degli amici e dei viaggi. In Russia meglio che in ogni altro posto, benché Anna Maria Carpi sia distinta germanista, l’ultima interprete di von Kleist. Altro non c’è.
È la poesia dei “singoli, soli e scontenti”, dice lei stessa tristemente, un potenziale inespresso sebbene applicato. Anna Maria non trova di meglio che invidiare anche il cieco, mendicante. E di Celan dice: “Tu non puoi, Nessuno, non esserci:\ NON e NON, se lingua è lingua,\ è uguale a SÍ”. E il triplice NON? O l’amore gioia di vivere, e la gioia di vivere amore – un gioco di parole? L’apparato gnomico e di echi colti tiene la porta aperta: “In questo forse\ sono un figlia del mio tempo\ dove nessuno basta più a nessuno”. E quindi, forse, senza Berardinelli senza colpa.
Anna Maria Carpi, L’asso nella neve, Transeuropa, pp. 124 € 10

L’Europa rifeudalizzata

È tesi non peregrina di Pirenne, lo storico belga, che l’Europa si sia rinchiusa nel feudalesimo (frammentazione, guerra di tutti contro tutti) in conseguenza della chiusura del Mediterraneo. Della frattura del Mediterraneo fra un Nord cristiano e un Sud mussulmano, nemici inconciliabili. È quello che è avvenuto nel primo decennio del millennio su altri presupposti, un Nord Europa “nordico”, nella nuova-vecchia terminologia tedesca, e un Sud Europa “latino”. Con una differenza.
Nel Medio Evo la chiusura si determinò per il bilanciamento fra i due opposti mondi, nessuno di quali fu in grado di prevalere, e ricostituire l’unità. Mentre oggi non c’è dubbio che il Nord abbia prevalso sul Sud. In parte surrettiziamente, attraverso la retorica e i regolamenti dell’Unione monetaria, in parte con la scoperta ideologia, o del “destino manifesto” – Germania “über alles” non si può più dire ma si fa. Ciononostante, la partita resta come impattata. In un bilanciamento delle forze e nella reciproca chiusura, anche se non dichiarata.
Bisognerà aggiornare la dottrina di Pirenne? La rifeudalizzazione come segno della pax germanica? Della costante incapacità tedesca di assumere un ruolo imperiale, se non nel senso del gretto tribalismo.

La bufala tedesca

Molto si perdona alla Germania, per non si sa quale motivo. E anzi s’immortala, sotto la voce eccellenza tecnica, se non la primazia: chimica, meccanica, elettronica. Mentre ci alluviona di bufale. Ultimo il famoso termometro al gallio che non misura niente, non va né su né giù. Roba che la Cina, per dire, non si sogna nemmeno. Dopo il sacco ormai colmo di additivi e coloranti per il cibo, di cui ci fa ingozzare dalla serva Commissione di Bruxelles, velenosissimi. Si veda la mozzarella blu, il conservante di cui più non si parla. Le imitazioni di caciotte, salami, formaggi. O l’enchiridia coli nell’insalata, il detergente che fece epidemia – non dichiarata – di morti. Oltre alle innumeri specialità medicinali, e macchine e pratiche ortopediche e salutiste di nessuna utilità, quando non nocive come l’aspirina.
Per molti anni nel dopoguerra i tedeschi giravano i mercati con la cassettina a tracolla. Con mutilazioni vere o presunte. A spacciare unguenti miracolosi. Pelapatate, affetta pomodori e altri ritrovati metallurgici che si rompevano al primo tentativo a casa. E le famose lamette Sollingen, che tante facce hanno deturpato. Mentre primarie ditte alpine spacciavano come lana cenci di Prato. A lungo il gillette è stato buono, finché è rimasto inglese. Da quando l’ha preso la multinazionale Procter and Gamble, che fa fabbricare le lame in Germania, ogni sicurezza è finita. Per non dire delle supercar micidiali, pesanti, ingombranti, ingestibili. Col privilegio di regolamenti comunitari di comodo per emissioni e pesantezza. Dopo aver portato al fallimento la Chrysler, che la Fiat – la Fiat – ha in pochi mesi reso lustra e efficiente.
La Germania ha molti nemici. Che la dicono arrogante, e questo non è da dimostrare, la prima metà del Novecento basta e avanza. Ma l’arroganza della Germania legano alla stupidità. Mentre la sua forza è proprio la stupidità, ma degli altri.

La scomparsa della Bce

L’inabissamento, concetto purtroppo in cima alle cronache, sembra essere la dottrina della Bce di Mario Draghi. Vecchi e nuovi membri del board della Banca centrale europea sono frastornati dal brusco mutamento di natura che il nuovo presidente ha impresso alla istituzione rispetto ai predecessori e fondatori, il francese Trichet e l’olandese Duisenberg. Con passione, con acume: l’ovvio obiettivo di entrambi essendo l’“interpretazione” della Bce, la sua “costruzione”, come banca centrale europea in senso sostanziale.
La concezione opposta ora prevale nel board vero e proprio, il direttivo per gli affari correnti: quella della Bundesbank. La presenza tedesca vi è ridotta, ma lo stesso Draghi e il suo capo economista, il belga Praet, sono i garanti della sua ortodossia. Draghi ha riportato la Bce, come vuole l’opinione oggi prevalente in Germania e patrocinata dalla cancelliera Merkel, a banca delle banche. Un organismo quasi tecnico. Senza idee, e soprattutto senza iniziative, di politica monetaria. Se non quella, possibilmente perniciosa se accenderà la speculazione, e insieme le spinte inflazionisiche, di insufflare liquidità alle banche. Per impieghi reali che invece latitano. Dato che “il cavallo non beve”, la Germania di Merkel non vuole. Che sembra un circolo vizioso ma non lo è.
La crisi non è chiusa ma l’evidenza s’impone: dalla Bce non è venuto alcun richiamo alle banche della crisi, Société Générale, Dexia, Hsbc, Bnp Paribas, Commerzbank, Crédit Agricole. Niente nemmeno lontanamente paragonabile ai richiami e le imposizioni alla Grecia – e all’Italia. A questi stessi soggetti sbiancati Draghi ha aperto ora la liquidità. Draghi ha imposto all’Italia, con Trichet è vero, per conto della Germania il taglio delle pensioni, l’aumento del 15-20 per cento delle tasse e delle tariffe essenziali (benzina, luce, gas, acqua), più l’Iva al 23 per cento su tutti i prodotti, e non ne ha alleviato di un solo punto base il supercosto dell’indebitamento, il famoso spread.

mercoledì 18 gennaio 2012

La bellezza è la migliore antimafia

Per sei mesi, da luglio 2007 a gennaio 2008, l’allora vescovo di Locri mons. Bregantini, da sempre aduso a un suo personale diario, ne tenne uno in pubblico. Ogni settimana sul “Quotidiano di Calabria”, al lunedì, sotto la testatina augurale “Buona settimana” pubblicava un breve “fondo”. Testi di riflessione quindi, ma anche di giornalismo. Di reportage da e su una terra – si dice un mondo, quasi fosse inafferrabile – che sfugge se stessa. Avviluppata nelle corde sempre più strette degli stereotipi, nei quali si adagia. La necessità è evidente, nota infine il vescovo, “di ripulirla da facili incrostazioni. Ripulirla, in primo luogo, agli occhi degli stessi suoi abitanti”. Dalla esperienza di vent’anni in Calabria, prima a Crotone, parroco e cappellano al carcere, poi vescovo a Locri, mons. Bregantini estrae la lezione della mitezza. Non per artificio retorico, non per antifrasi: proprio la dolcezza, sotto la scorza di diffidenza, senza riserve. Non è la sola verità.
La raccolta è curata dalla poetessa e scrittrice Ida Nucera. Che interpola ai fondini apparsi sul “Quotidiano” lettere, omelie e altri testi sull’esperienza di mons. Bregantini in Calabria. Sotto un esergo di De André, “Il sogno di Maria”: “Volammo davvero sopra le case, oltre i cancelli, gli orti, le strade, poi scivolammo tra valli fiorite, dove all’ulivo si abbraccia la vite”. E di Hélène Grimaud: “Ciò che conta è la maniera in cui il suo sguardo illuminerà i miei paesaggi e come questa luce riuscirà a scacciare ciò che ieri, per me, era ancora in ombra. Così ci rivedremo spesso”, che è l’addio di Bregantini alla Calabria, il modo come intende la sua lunga relazione (la Locride “io sento come sposa amata e attesa”).
Bregantini non è un vescovo qualsiasi. Nei dodici anni di Locri ha lasciato più di un’impronta indelebile, nella diocesi e nella Calabria tutta, di intelligenza, fervore, capacità di fare. In materia, è inevitabile, di ‘ndrangheta. Ma in una dimensione spirituale eccezionale. Di comprensione e di azione, di “pensare il futuro”, il cambiamento, e soprattutto di dotarlo di strumenti, che si apprezza a ogni nuovo evento di più. La raccolta è piena di verità vigorose, certamente ricostituenti finché Bregantini poté esercitare in Calabria: “Speranza è soprattutto questo, vincere la propria paura”, con “gli uomini d’amore” come opposti agli “uomini d’onore”, la semplice inversione del poeta Cataldo Perri – gli uomini dell’ancora e non dell’ormai. Con parole sempre semplici, e tuttora rivoluzionarie: “Il sogno fatto segno” e “le ferite trasformate in feritoie”. Anche ovvie, quelle di Chesterston: “Il mondo perisce non per mancanza di meraviglie, ma per mancanza di meraviglia”. Ma, quella fondamentale, non tanto: “Il gusto del bello è la miglior forma di antimafia”.
È il tema del secondo libro che ora si pubblica, una testimonianza autobiografica raccolta da Chiara Santomiero, “Non possiamo tacere. Le parole e la bellezza per vincere la mafia”. E una modesta, serena, brillante antropologia del Sud. All’insegna di un precetto semplice: “Occorre salvaguardare e incrementare la bellezza”. Con realismo: “Al Sud i fatti valgono molto più delle parole. Le forme, i modi, lo stile nell’approccio”. La violenza della mafia è esibita: bisogna combatterla con lo stesso meccanismo – un prete specialmente contro l’appropriazione della religiosità popolare. Esterrefatto dalle faide, ne è tuttavia analista acuto. “Si uccidono tra di loro” non è una soluzione, dice: “Dentro ogni uccisione c’è uno strazio”, un vuoto di angosce. Nella famiglia, nella comunità. E, purtroppo, “sono le donne a decidere la spirale del sangue”: gli “affari” sono maschili, le faide femminili. Bregantini ha anche una risposta all’interrogativo che ognuno si pone quando arriva la prima volta in Calabria: “Perché le case non sono finite”?
Il vescovo trentino è uno che non si lava le mani. Ogni volta che ho potuto, dice, mi sono recato nelle case di mafiosi, per evitare il male, per tentare una pace nelle faide. Come Gesù si recò in casa del peccatore Zaccheo. Molto paolino, missionario, ma non c’è altro modo d’essere per un prete nel disastro del Sud. Con le idee comunque chiare: “Il Sud è zavorra o risorsa?”, chiede. Sapendo che la risposta è un sola. Ma a condizione, aggiunge, che si circoscrivano, se non si eliminano, le “tante zone grigie, dense di corruzione, di disoccupazione, di lentezza amministrativa”. E per farlo “siamo chiamati a «sporcarci le mani»”. Con la convinzione cioè che una nuova pastorale sia necessaria alla chiesa, dinamica, di attacco – “un ripensamento globale delle modalità pastorali con le quali la chiesa deve rapportarsi alla mafia e ai mafiosi”. Bregantini è il vescovo che scomunicò gli ‘ndranghetisti, e mai sua iniziativa, dice, suscitò tante reazioni nelle famiglie mafiose come questa.
Sotto traccia nei due libri è l’allontanamento improvviso del celebrato vescovo da Locri, promosso arcivescovo ma in realtà rimosso. Bregantini lo accenna più volte, e in “Non possiamo tacere” ricorda di aver vinto una causa contro chi lo accostava a Rocco Antonio Gioffré, un boss di Seminara. Ricorda anche che “per alcuni il mio trasferimento dalla diocesi di Locri a Campobasso era misterioso e pareva essersi tinto di «giallo». Ida Nucera menziona “la vicenda dello scorso settembre”. Mons. Bregantini ebbe notizia della nuova destinazione a novembre. A settembre risale invece un’intercettazione, disposta dalla Procura di Palmi su una famiglia mafiosa di Seminara, del Giuffré in questione, in cui si fa un accenno al presule.
Bregantini sarebbe insomma stato rimosso perché parlava coi mafiosi. Recandosi a trovarli nelle loro stesse case. Nelle fasi più efferate della faida di San Luca, trasferita anche in Germania con l’eccidio di Duisburg, il vescovo di Locri si attivò molto, con l’aiuto di don Pino Strangio, parroco di San Luca e priore del santuario di Polsi, presso le famiglie coinvolte. Con le donne e anche con gli uomini. Fu per questo implicato nelle intercettazioni di Domenico Gioffré, figlio del boss di Seminara Rocco Gioffré. Il 17 settembre 2007, conversando con un amico in macchina, Domenico Gioffré si diceva sorpresissimo che il giorno prima, a una cerimonia in chiesa a San Luca per la pace tra le famiglie della faida, “don Pino il prete” (il parroco di San Luca, n.d.r.) avesse ringraziato Rocco Gioffré e “tutta Seminara” per la promessa di fine della lunghissima faida. Il vescovo compare nella trascrizione in questi termini: “Poi è uscito don Pino il prete, e il vescovo brigantino…”, con la minuscola e la deformazione.
Le trascrizioni saranno depositate al processo contro Gioffré a metà novembre. Ma intanto, due settimane prima, Bregantini era stato trasferito a Campobasso. Per proteggerlo dallo scandalo? Certo, Domenico Gioffré relaziona l’amico preciso. E, soprattutto, parla in italiano dove normalmente nessuno lo parla. Sa pure di shalom – il parroco aveva detto shalom nell’omelia. Come che sia, l’allontanamento fu una forma non larvata di epurazione. Per un atto giudiziario che, nell’ipotesi più benigna, fu espressione di anticlericalismo. Ma Bregantini fu atteso il giorno della partenza da una spessa folla sulla strada da Locri fino Siderno e oltre, dieci chilometri.
A una delle tante giornate della legalità di cui l’Aspromonte pullula era capitato lo stesso anno, prima della pace mafiosa di San Luca, di sentir criticare “l’impero economico del vescovo”. Detto da un magistrato, o da un funzionario di Prefettura, il tipo di personaggi che siede a queste feste. L’antimafia può essere insidiosa.
L’“impero economico” era suonato bizzarro: attribuibile a un momento di malumore, o a pregiudizi massonici, la massoneria si vuole attiva e ancora anticlericale a Reggio Calabria. Ma, in genere, non fa outing ai convegni. Anche la celebrazione del premio Alvaro a fine novembre a San Luca, fra giurati e autorità locali, fu quell’anno nervosa, quasi spazientita.
GianCarlo Maria Bregantini-Ida Nucera, Lettere dalla Calabria, Città del Sole, pp.167 € 15
Giancarlo Bregantini, con Chiara Sottomiero, Non possiamo tacere. Le parole e la bellezza per vincere la mafia, Piemme, pp. 193 €14,50

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (114)

Giuseppe Leuzzi

Secondo la storica americana, di origine triestina, Clara Lovett, “The Democratic Movement in Italy, 1830-1876”, una buona metà dei democratici meridionali al momento dell’unificazione e dopo provenivano dalla “classe agraria”.
Pubblicato a Harvard nel 1982, il libro non è tradotto.

“Dal Seicento la pratica di castrare i bambini prima della muta della voce si diffuse in modo incontenibile”, spiega Cecilia Bartoli a “Repubblica” il 12 gennaio; “In migliaia subirono l’atroce mutilazione, quasi tutti provenienti da famiglie povere del Sud”. C’era già il Sud nel Seicento?

“Molti (castrati) morivano d’infezione, pochissimi emergevano”, continua la celebre cantante: “I talenti erano coltivati a Napoli, città culturalmente centrale, con ben quattro conservatori”. Venezia ne aveva quattro solo femminili, in aggiunta cioè ai maschili. Il Sud va riscoperto, anche nei lati buoni.

Sud
“Grandi idealisti e cattivi politici” Croce disse gli artefici della Rivoluzione Napoletana del 1799. Per quanto eccellenti: Cuoco, Russo, Pagano, Cirillo, Fonseca Pimentel. Allievi di una generazione ineguagliabile di cervelli all’università di Napoli: Genovesi, Filangieri, Gravina, Giannone, Capasso, Galiani, Galanti, Palmieri, per tacere di Vico. Che Marta Petrusewicz chiama col vecchio desueto nome di intellighentsia (“Come il Meridione divenne una Questione”). A ragione: questo è l’intellettualità al Sud, una intellighentsia, una sorta di nomenklatura che accumula altre incrostazioni e non libera.
Il problema principale del Sud, e quello all’origine della stessa Questione Meridionale come “rappresentazione costruita”, direbbe Petrusewicz, è l’intellettualità autoreferente, slegata dalla società che pure la esprime e ad essa ostile. L’analisi, la critica e il progetto restano insocievoli e decontestualizzati. Tra intellettualità e società si ricostituisce costante una frattura che non può che degenerare in reciproca diffidenza. Con generalizzazioni infedeli e sterili - il “feudalesimo” è la più resistente e la meno proficua, anzi deviante.

L’odio-di-sé meridionale
“Se ami il Sud”, dice il vescovo mons. Giancarlo Bregantini in “Non possiamo tacere”, 149, “e cominci a guardarlo in una prospettiva di fiducia e di speranza, lentamente ne apprezzi tutta la bellezza, ne cogli i valori, la positività”. Senza rispetto di se stessi non c’è modo d’essere. E: “Capisci una cosa banale: i valori del Nord sono di un tipo, quelli del Sud sono di un altro genere. Non c’è un più e un meno”. La meridianità dei vescovi è più semplice – evidente, pratica - di quella del filosofo Cassano.
Bregantini ha scoperto il Sud sedicenne un’estate a Ógnina, il mare di Catania. L’estate del 1968. Ógnina sospende tutti i catanesi alla nostalgia. Il ragazzo Bregantini vi arriva volontario, con altri coetanei da Trento, per aiutare a costruire una chiesa durante le vacanze. Ma Ógnina e Catania lo atterriscono: Ogni aspetto di quel nuovo ambiente mi pareva minaccioso”, ricorda, “pieno di pericoli”.
Uno del Sud è felice di essere in Toscana, nel Veneto. Anche in luoghi brutti o trascurati. Anche se viaggia per piacere. Sempre a suo agio. Uno del Nord può apprezzare questa o questa veduta o un monumento di Napoli o Palermo, ma vi è sempre a disagio. È l’effetto dell’emigrazione? Ma anche il Veneto emigrava in massa. È la mancanza di pregiudizio – tutta la capacità di pregiudizio il meridionale concentra sul Meridione.

Scrisse Corrado Alvaro in uno dei suoi ultimi articoli, per scherzo ma non tanto, della borghesia in Calabria che essa era nata nella guerra con la borsanera. Che in Calabria non si poteva (se non contro la corruttela dell’ammasso obbligatorio), non essendoci città in Calabria e non essendoci mai stata carenza di approvvigionamenti.
La borghesia è certo un problema in Calabria, pavida, corrotta, etc. Come in tutta l’Italia. Dove essa a lungo è stata comodamente adagiata sull’appropriazione della manomorta ecclesiastica, big business, più che sulla sagacia, l’iniziativa, la costanza. E quella professionale lo è ancora, “giudice il padre giudice il figlio, primario il padre primario il figlio, professore il padre professore il figlio….”, che poi si erge a coscienza “civile” della nazione.
Grande borghese, anche se senza maiuscole, era il padre non amato dello stesso scrittore, che ha “fatto” quattro ottimi figli, sono stati la sua “industria”, tutti protagonisti nella loro realtà, uscendo dal fango di “Gente in Aspromonte”.

Milano
Claudio Abbado vuole novemila, o novantamila, alberi piantati per l’Expo 2015. Ha un precedente in Molise e in Abruzzo, dove i confessori davano questo per penitenza ai parrocchiani, di piantare alberi invece di dire giaculatorie.
Scavare un pozzo, piantare un albero è anche la buona azione di ogni mussulmano.

San Babila fu fatto rimuovere dalla basilica di Dafne, presso Antiochia, dall’imperatore Giuliano per restaurarvi senza complessi il culto di Apollo. Ma la rimozione, secondo Kavafis, portò alla rovina del tempio di Apollo, e alla sincope di Giuliano. Il santo è vendicativo?
(Non è però quello di Milano. Che se ne è appropriata nel tardo Cinquecento, immaginando che i resti del santo fossero stati rubati e traslati da Matilde di Canossa. Il santo di Milano (di Cremona) è uno dei primi preti locali, giustiziato nel 94 nella persecuzione di Domiziano.

Vi guarda dietro le spalle un milanese mentre vi parla, mentalmente vi misura, e per questo talvolta si irrita, o si entusiasma, con vostra sorpresa: sta perdendo il suo tempo oppure sta puntando bene. Per una questione d’impiego del tempo, probabilmente: il desiderio di efficienza rende terribilmente soggetti all’ansia del tempo. Oppure per una vecchia diffidenza. Uno ha l’impressione spesso a Milano di essere in Sicilia, la luce in meno. Dove si viene ugualmente valutati. Anche se con stile diverso, chiacchierone, amichevole, smodato.
Non per mettere Milano al livello della Sicilia. Ma uno solitamente si attende al più un semplice moto di curiosità. Quando ci si incontra a Parigi, per esempio, a Londra, a New York, le capitali della fretta.

Gaetano Salvemini insegnante di liceo a Lodi ha scritto tre saggi diminutivi sul Risorgimento milanese, fatto di accortezze e convenienze, dei nobili e dei borghesi. Che raccolse in un libro, che ora si ripubblica. Dunque fu possibile: insegnare in un liceo a Lodi e scrivere a Milano su Milano, criticamente.

È curioso come l’antipolitica “unisca” i giornali milanesi, di sinistra e di destra: il “Corriere della sera”, “Il Giornale”, “Libero”. Anche “Il Fatto quotidiano”, giornale vedetta dell’antipolitica, che si fa a Roma, è molto milanese.

“Milano è maschio”, è il capitolo centrale delle “Storie dei Lombardi” di Gianni Brera. Che così comincia: “Per la femmina Italia – madre dei vitelli – sono femmine tutte le città. Sia questo dunque il primo doveroso atto d’amore, di riaffermare la maschilità di Milano”. Non ci sono pii gesta molto maschili nel prosieguo, a parte le efferatezze, molte peraltro a opera di donne. Ma si capisce che l’Italia, dacché esiste, sia sempre improsata da Milano: Milano sta lì per quello.

leuzzi@antiit.eu

martedì 17 gennaio 2012

Il pazzo Jakobson fa savio Hölderlin

Testi sparsi collazionati da Jakobson in una monografia su Hölderlin folle e poeta. Concentrati sul suo ultimo componimento, “Die Aussischt”, la veduta. Con un bombardamento di sciarade, anagrammi, acrostici, tutto l’armamentario dell’enigmistica, e ricorrenze, ripetizioni, arsi, cesure, tali da annichilire il poeta, malgrado la profusa compassione, e il lettore. Non manca lo shifter, il commutatore. E Scardanelli, il nome di Hölderlin da pazzo, non sarà Sganarello? Con un effetto – insidia della rappresentazione – bizzarro: il linguista sembra il pazzo, il pazzo semplice e diretto.
Roman Jakobson, Hölderlin. L’arte della parola

Letture - 83

letterautore 
Dante – Un connotato del romanticismo è l’affezione per l’Italia. Ma per Dante più che per Petrarca. Per i sottintesi politici del romanticismo. Per il patriottismo. Per il repubblicanesimo – per la libertà repubblicana. E anche per il senso di una vita oltre la vita, la missione del poeta. C’è anche un Dante africano. È la novità del 2011, ed è uno dei contributi più interessanti del revival di Dante in lingua inglese nel 2011. Che ha registrato anche l’edizione digitale delle “edizioni” di Dante di Petrocchi (1966-67) e Federico Sanguineti (2001), un’attraente biografia di A.N.Wilson, “Dante in love”, nuove traduzioni dell’intera “Commedia” negli usa, del “Purgatorio” e del “Paradiso” in Gran Bretagna, il collettaneo “Dante and Italy in British Romanticism”. Il Dante africano è il ribelle. Lo studio sulla ricezione afro-americana di Dante e la “Commedia”, “Freedom Reader” di Dennis Looney, traccia tutti i riferimenti, sia letterari sia mediatici, dal 1860 alla contemporaneità. Dante è il “ribelle”: Looney lo dice un marker duplice, in quanto segna l’ammissione alla cultura europea e, insieme, una forma di rigetto. Prima che il poeta, Dante è l’esiliato, il critico dell’autorità politica e religiosa, e il protagonista di un viaggio che lo libera. È il classico più tradotto in inglese. È un moderno, argomenta David Robey sul “Times Literary Supplement” del 7 ottobre 2011, “Zoom to Dante”, per il linguaggio e lo stile, più che per i contenuti. E per questo attrae così tanti traduttori, non tutti “specialisti di italiano”: “la forma stilistica e linguistica della «Commedia».è unica, e per questo singolarmente difficile da tradurre”. Una sfida: ”Non è tanto il metro o lo schema ritmico in sé che rende arduo il compito del traduttore; è l’uso peculiare che Dante fa di essi. Il verso in terza rima si accoppia a una sintassi il cui flusso fortemente ritmico dipende da ricorrenti cesure di clausola alla fine del verso e cesure di frase alla fine della terzina.” E non è tutto. “Le rime sono raramente ovvie o facili e di solito legano parole di variati tipi grammaticali o semantici”, alla ricerca dell’effetto sorpresa: “Le parole in rima sono spesso rare, talvolta inventate; possono prendere la forma di inconsuete metafore, e coinvolgere vigorosi, anche violenti giri di frase. Lo stile di Dante è energico, conciso, chiaro e concreto, ma si consente una considerevole licenza stilistica e linguistica”. C’è pure l’inevitabile “Dante è un altro” nel revival inglese. È “Dante in Purgatory” di Jeremy Tambling, sugli “stati d’animo” nel “Purgatorio”. Una lettura post-strutturalista, o derrideana, di Dante, che Tambling ha avviato vent’anni fa con “Dante and Difference”. Tambling “scopre” anche in Dante molti significati impliciti nel testo, la duplicità delle emozioni, la frammentazione del sé, l’eccesso di significante. Un esempio di eccesso vede nella luminosità del Paradiso, che evoca l’idea del latte materno. Hölderlin – La schizofrenia catatonica da cui fu colpito per più della metà della sua vita comporta la perdita della capacità dialogica, di rapportarsi agli altri, per chiudersi nel monologhismo, abitualmente senza senso. Ma nelle poesie della follia Hölderlin-Scardanelli mostra una costante capacità di esprimersi, e quindi di comunicare. Scrive in bella grafia, sempre pulita, senza ricopiature e senza cancellature. Testi esatti dal punto di vista lessicale e grammaticale. E anche della sintassi poetica. Con mano ferma. Con gli emistichi segnati. E non una parola fuori luogo, o un segno d’interpunzione. Dopo che per settimane non aveva detto una sola parola sensata. Il linguaggio della poesia attraversa la follia? Italia - Un paese di trecento generazioni. Per venti anni, fa seimila anni di storia - per venticinque anni a generazione la storia è di 7.500 anni. O di duecento generazioni? Per venticinque anni l’una, farebbe comunque cinquemila anni. Joel Elias Spingarn, il grande comparativista americano, nella sua “History of Literary Criticism in the Renaissance” (1899, a ventiquattro anni) trovava nell’italiano tutti i termini della critica in Europa. Corrispondente di Croce, citato da Gentile nei suoi “Studi sul Rinascimento”, Spingarn è rimasto inedito in Italia (eccetto che per la corrispondenza con Croce, un volumetto pubblicato dieci anni fa). Professore per un decennio alla Columbia, tentò la politica nel partito Repubblicano e poi nel partito Progressista, autore sfortunato di una mozione contro la discriminazione razziale. Cofondatore della casa editrice Harcourt Court nel 1919, era stato in guerra volontario, col grado di maggiore. Leopardi, nel “Discorso”. Riprende più volte il tema della “società stretta” che manca all’Italia. Che poi si dirà della “classe dirigente”, o delle élites. Se “ogni società è edificata su un poema” (Octavio Paz, “Los hijos del limo”, 91), su quale poema sconclusionato è fondata l’Italia? Questa domanda retorica d’obbligo è anche la risposta: certo che l’Italia è fondata su un poema, ma l’essenza di questo “poema” è di dirsi che l’Italia non è fondata su un poema, non è fondata, non è. Per non aver fatto mai la rivoluzione, rifatto le teste ai padroni. Per un residuo di Kulturkampf, per non aver fatto la Riforma e cacciato il papa. Per essere ancora troppo composita. Per non aver fatto l’esame di coscienza dopo la caduta del Muro. Sui motivi anche, che pure sono evidenti, la risposta d’obbligo si vuole sconclusionata. Uno sconosciuto Flonsel ha a Parigi nel dottor Burney, p. 372, dunque nel secondo Settecento, “una biblioteca tutta italiana, ventimila volumi”. Ma “non è mai stato in Italia, tutti questi libri li ha raccolti in Francia”. Ancora Burney: “Mi donò una sua pubblicazione, e un’altra con dedica di Goldoni mi spedì per posta”. Romanzo verità – È un genere, specifico. Ma tutto il romanzo ne beneficia. U. Eco, “Dire quasi la stesa cosa”, p. 19, ricorda che ai romanzi si concede, “per millenario accordo, la sospensione dell’incredulità”. Con riflessi sullo stesso concetto di verità - sulla verità della verità. Come modalità di ricezione e come forza di proposizione, la verità si può dire racchiusa nel concetto oggi privilegiato di “narrazione”. È un romanzo ben articolato, appassionante, sorprendente, a condizione che sia ben costruito. Traduzione – Quella dei poeti è “deperibile”. Più di altre traduzioni legate alla sensibilità del mercato. Barbara Lanati faceva l’esempio, ad un convegno a Bergamo nel 1988, di Emily Dickinson, per la quale in meno di vent’anni la traduzione, che prima privilegiava un’interpretazione “clinica” della poetessa, s’era spostata sul lato religioso e mistico. È inevitabile, essendo la traduzione una lettura, legata alla sensibilità della lettura, che è eminentemente storica. Quella dei poeti è un adattamento. Più corposo, e quindi deperibile, della traduzione prosastica, di romanzo, filosofia, storia. È “dire quasi la stessa cosa” per U. Eco, che ci ha dedicato da ultimo il volume dallo stesso titolo. Dove quasi può essere niente e tutto (“la Terra è quasi come Marte….”). Eco che ora ripropone “Il nome della rosa” riscritto. Quasi riscritto, rivisto. Per dire che la retorica è inutile, sia pure accresciuta nella semiologia? Un’infiorettatura e un divertimento. Una scienza fatta per gioco. “La traduzione implica due messaggi equivalenti in due codici diversi”, avrebbe detto Jakobson, “Saggi di linguistica generale”, 58. Confermando la semiologia quale scienza della denominazione, senza pedagogia. La traduzione era per Seferis una “prova di resistenza” della sua propria lingua. In questo senso egli stesso la esercitava saltuariamente, per sperimentare fino a che punto poteva “dilatare” la lingua greca, e la sua propria “lingua”, riuscendo ad assorbire altri linguaggi. Della traduzione in francese dell’“Inferno” operata da Jacqueline Risset venticinque anni fa si è potuto dire che era “più comprensibile” dell’italiano. Senza tradire l’originale - una traduzione, notava Antonio Porta (“Corriere della sera” 6 marzo 1988) “che ha sorpreso un po’ tutti”. letterautore@antiit.eu

lunedì 16 gennaio 2012

La crisi colpisce la Germania

Primo e secondo trimestre in recessione, anno 2012 a crescita piatta. Esportazioni in contrazione, consumi in contrazione, investimenti fermi, la crisi dell’euro ha cominciato a ripercuotersi sulla Germania. La finanza tedesca gode ancora della massima fiducia dei mercati. Non tanto per l’indebitamento pubblico, il cui reale ammontare è contestato (la Germania non contabilizza molte poste), quanto per il ridotto indebitamento privato, o esposizione a rischio delle banche, grazie ai prezzi da sempre contenuti del mercato immobiliare. Ma le esportazioni sono da dicembre in calo. Che incidono per oltre un quarto sul pil tedesco. Mentre si è appiattita la curva degli investimenti. Nell’ultimo quadrimestre 2011 molti settori produttivi hanno registrato una crescente capacità inutilizzata.
Il ristagno tedesco viene ricondotto alla crisi dell’eurozona, alle rigide manovre che si sono rese necessarie. Il 60 per cento delle esportazioni tedesche va nella Ue, il 45 per cento nei paesi dell’euro.

Il gruppo Fiat sarà Chrysler-Peugeot

L’apporto principale della Fiat sarà il suo amministratore delegato Marchionne. Per il resto, dovesse la trattativa con Peugeot andare a buon fine (più esattamente: decollare, una trattativa non è in corso, Peugeot spende Fiat-Chrysler come nome dello schermo), il gruppo italiano sarebbe sempre più straniero, con un ruolo ridotto e in contrazione per i marchi Fiat veri e propri. In relazione alla contrazione del mercato italiano, e della quota Fiat in questo mercato, che è il maggiore del gruppo torinese, e alle contestate condizioni della produzione in Italia.
Il gruppo francese ha problemi di produzione in Francia ancora più ardui di quelli della Fiat, avendo delocalizzato poco. E per questo cerca un accordo internazionale. Ma apporterebbe alla joint-venture o fusione una larga fetta del mercato europeo, con 3,5 milioni di auto vendute. Le sue entrature nel mercato cinese, quello in maggiore spansione. E alla Chrysler, ipoteticamente, che ne è alla ricerca per un mercato americano sempre più “verde”, la sua tecnologia ibrido, molto avanzata (Peugeot-Citroen accoppiano l’elettrico alla motorizzazione a gasolio).

Problemi di base - 87

spock

Venerdì 13, a cento anni dal “Titanic”, con Marte in trigono su Plutone, perché l’affondamento della “Concordia” non sarebbe un complotto?

Tra libertà e destino c’è una strada oppure un muro?

E il destino, comincia dall’inizio oppure dalla fine?

Se l’inimmaginabile è ben immaginabile, perché l’Europa vi è tanto attratta?

O non sarà Angela l’Anticrista?

Rotelli s’è preso finalmente il San Raffaele, a quando don Verzé santo?

“Senza di noi non ci sarebbero sogni” (Wysława Szymborska), e senza i cani, i gatti?

spock@antiit.eu

domenica 15 gennaio 2012

Guerra alle agenzie canaglia?

C’è chi vede nelle nove degradazioni di S&P, di cui alcune doppie, tra esse quella dell’Italia, la conferma di un assalto all’euro. O di una capacità di giudizio sopravvalutata – di un ruolo sopravvalutato. È possibile. Un’affidabilità del debito italiano portata al livello di quello del Kazachstan o della Colombia è evidente che non ha senso.
La sindrome del “complotto” questa volta non è italiana. Bruxelles ne parla apertamente. Denuncia un attacco concentrato sull’euro, una offensiva a tappeto che isola la Germania e i suoi tre satelliti. E blatera d’inverosimili guerre diplomatiche che la vedono barattare i sostegno agli Usa sull’Iran contro una remissione delle agenzie di rating, leggi gli stessi Usa, del debito europeo. Come se Obama fosse il patrono, e non l’avversario, delle stesse agenzie. Parlano le aurorità europee che non hanno fato nulla in quindici ormai lunghissimi mesi per recidere il bubbone del debito pubblico insolvente, e per cerare condizioni per una ripresa dell’economia in Europa. Gli Usa hanno inventato gli Stati canaglia. L’Europa vorrebbe inventare le Agenzie canaglia, una Spectre della finanza che governa sotterraneamente il mondo. Niente meno di questo.
Non è questo però il giudizio della stampa anglosassone. Né della Germania di Angela Merkel. Perché, c’è anche da dire questo, il giudizio di S & P non è sbagliato: la manovra di Monti è recessiva – potrà salvare i conti pubblici contabilmente, ma non economicamente. Detto in parole semplici: noi sappiamo che pagheremo comunque i nostri debiti, ma dove prenderemo i soldi se la ricchezza diminuisce? Il dato Istat incombente sul pil trimestrale peserà più della retrocessione di S & P.

S & P lo scoglio dell’Italia

Da domani è come se l’Italia ripartisse da zero. Anzi da meno due. I venti o quaranta miliardi di maggiori entrate della manovra Monti non basteranno a pagare i tassi d’interesse su Bot e Btp che necessariamente dovranno tornare a crescere. Mentre prestiti e obbligazioni per le imprese e le stesse banche verranno a costare di iù. Paragonare l’Italia alla nave che si è incagliata al Giglio è improprio, il debito almeno non fa morti, ma il fatto è quello.
La doppia degradazione dell’Italia, la tripla in un mese, col collocamento del debito nella fascia B, la esclude automaticamente dagli investimenti delle banche e dei fondi. I grandi operatori dovranno anzi affrettarsi a liquidare le residue posizioni in titoli italiani, soprattutto a lungo termine, che vengono ad appesantire sempre più l’attivo. Il Btp, ora contabilizzato a due terzi del valore facciale alla scadenza, potrebbe dimezzarsi. Il costo delle nuove emissioni schizzare ben oltre la temuta soglia del 7 per cento.

Il Sud tradito dai suoi chierici

Si finisce con l’inizio, con un “tuttavia”: “Tuttavia, la pesante presenza nella storia dell’Italia unita di un pregiudizio anti-meridionale non può essere messa in dubbio”. Con una vasta bibliografia aggiornata agli anni dopo il 1980. Sui presupposti già avanzati da Giarrizzo: la Questione Meridionale è una questione politica, la libertà del Sud è dal meridionalismo.
Gli assunti della studiosa in prefazione al libro sono già la verità: “La Questione Meridionale richiede un contesto italiano, reale o immaginario”, e la Questione Meridionale è tante questioni meridionali, l’arretratezza, la mafia eccetera, reali, circostanziate. Qui si parla della questione “parlata”, la “rappresentazione costruita”, dagli stessi esuli meridionali (“il fascismo, nel bandire l’uso dello stesso termine di «Questione Meridionale», giunse più vicino a coglierne il carattere linguistico”... ). Rappresentazioni del Sud prima e dopo il Quarantotto è il sottotitolo del libro.
Il libro è in realtà una vindication del primato culturale del regno di Napoli, o comunque della sua non arretratezza, nei decenni successivi a Napoleone e prima dell’unità – “curvato” in fine nel senso del titolo. Una scena di grandissima modernità. L’associazionismo era diffuso e influente, economico, agrario. Le università private erano di elevatissimo livello. Molte le pubblicazioni scientifico-tecniche, anch’essi diffuse, lette, commentate. Il “Giornale del Regno delle due Sicilie”, governativo, di divulgazione scientifica e tecnica, veniva ripreso da importanti giornali straieri. Si piantavano alberi ovunque - in Abruzzo e Molise i parroci li davano in penitenza ai peccatori in confessione, piantare alberi invece che dire giaculatorie. C’era un Collegio universitario Italo Greco a San Demetrio Corone. C’era un giornale tecnico-scientifico italo-albanese nel crotonese, e uno italo-maltese nell’isola. In Calabria c’erano quattro teatri d’opera, con stagione lunghe otto mesi, e una diecina di opere ogni anno in cartellone. La piaga fu il protezionismo, o la vecchia concezione annonaria dell’economia, oggi si direbbe autarchia, che con tutto il modernismo degli studi sempre afflisse i vari governi di Napoli. Ed è questa ambivalenza che ne fa uno studio prezioso, l’ininfluenza dell’opinione sul potere e lo stato delle cose.
C’è molto in questo libro, prima che venisse “curvato” nel senso che vuole il titolo . C’è anche un ritratto conciso e veridico di Ferdinando IV. Mentre sir John Acton è liquidato come avventuriero. E tante altre vicende poco note - Petrusewicz ha letto per noi una vastissima bibliografia, che arricchisce il volume. Ma, soprattutto, c’è l’uso del vecchio termine di intellighentsia per l’élite intellettuale – che Petrusewicz recupera in fine, cioè licenziando il libro, dopo la galoppata sui primati morali e civili del Regno borbonico. È la parola giusta, poiché recepisce alterigia e nomenklatura insieme, per l’ineffettualità, se non fu nocività, dei “grandi idealisti e cattivi politici” (Croce) di cui Petrusewicz fa il censimento. Che culminerà nello “spergiuro” di Ferdinando II, dopo tanta modernizzazione, nel corso del 1848. Il distacco, e quasi il disprezzo, dell’intellettualità verso il suo mondo, il mondo contadino, terragno, incolto che pure l’ha espressa. Che è come dire l’incapacità della borghesia, di cui quella intellettualità, tutta post-manomorta, era – è – l’espressione.
Marta Petrusewicz, Come il Meridione divenne una Questione