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sabato 21 dicembre 2019

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (412)

Giuseppe Leuzzi


“Tulipani – Amore, onore e una bicicletta”, del regista olandese Mike Van Diem, premio Oscar 1998, è una commediola fiabesca su un olandese trapiantato in Puglia dopo la guerra, che finisce ubriacone ma la spunta con i tulipani: la sua piccola fattoria si riempie all’improvviso di tulipani. La cosa non piace, al capoccione locale, ai mietitori, agli altri contadini, ma lui tira dritto e alla Bud Spencer li rimette a posto: il capoccione finisce sbeffeggiato eremita - anche se con una coltellata a tradimento ha ragione dell’olandese. Il ridicolo non ha ucciso nessuno? Come no. Se al Sud la gente si abituasse a farsi giustizia dei soprusi.

Nella graduatoria dei paesi che più dedicano tempo, ogni giorno, ai social vengono prime le Filippine, con quattro ore a testa, la Nigeria, con tre ore e mezza, e il Messico, con tre ore e un quarto – in Italia l’uso medio dei social sarebbe di un’ora e tre quarti. Sono statistiche inverosimili – quattro ore sono tante. Ma indicative. Della natura del sottosviluppo – i primi tre paesi dei social appartengono a quello che si chiamava il Terzo mondo, l’area del sottosviluppo, e tuttora hanno problemi di connessione elettrica. Che è anche di risorse economiche (materie prime, infrastrutture, istruzione, credito), ma soprattutto è psicologica e mentale. Per accumulare bisogna avere, ma avere è soprattutto opera d’ingegno.

Immortale ‘ndrangheta
Forse per magnificare la retata ordinata dal giudice di Catanzaro Gratteri, i comunicati parlano di arresti in tutta Italia e all’estero. Mentre i 334 arrestati risultano tutti di Vibo e provincia, più una dozzina di Cinquefrondi ma con attività a Vibo, uno di Alessandria, e uno o due di Roma. Ma non si magnifica piuttosto la ‘ndrangheta, diventata grande piovra , furbissima, accortissima, intrallazzatissima, al comando in Olanda come in Bulgaria?

Lo stesso con i filmati che vengono offerti ai media. Per la retata del giudice Gratteri i Carabinieri hanno riproposto il vecchio filmato di Polsi, che definiscono il cuore della ‘ndrangheta, mentre è un luogo di culto - probabilmente il più longevo di Europa. 

Si dice la retata fatta di “politici, avvocati, commercialisti, funzionari dello Stato,  massoni”. Ma un buon terzo, forse la metà, dei 334 carcerati in un colpo solo dal giudice Gratteri in Calabria è identificato col nomignolo. Segno che tanto moderna e avveniristica la ‘ndrangheta non dev’essere. Trenta-quarantenni identificati col nomignolo sono in Calabria di un certo ceto, non propriamente branché.

Una cosca di 334 persone è in guerra un battaglione e modernamente un reggimento. Tutti concentrati a Vibo Valentia e dintorni. E non sono i soli: arresti di calabresi si fanno a dozzine ogni giorno, in Calabria e altrove. Specie in questa stagione di nomine aperte al Csm nelle grandi Procure. Possibile che gli ‘ndranghetisti siano così tanti? Perché stando in Calabria se ne avverte la presenza malgrado gli arresti.

Non è che si arrestano le persone sbagliate, magari su confidenza degli ‘ndranghetisti veri? Una precedente retata del giudice Gratteri e dei Carabinieri, un legione di mille militari, a Platì nel 2003, con 112 arresti, compresi il sindaco e il pazzo del paese, si è conclusa con 109 assoluzioni.

E comunque il problema resta di Salvini. Che è senatore della Calabria, con 59 mila voti. È vero che la Calabria è la regione dove Salvini ha preso meno voti – appunto 59 mila. Ma ci sono 59 mila calabresi non ‘ndranghetisti o non collusi?

Il Sud non ha testa
Niente più dopo i “notabili”. Nessuna novità dopo Salvemini. Un secolo abbondante cioè: il Sud è fermo a prima della prima Guerra. È da allora che non ha una borghesia, per quanto compradora, asservita. O come si dice oggi, con rinnovato linguaggio elitario, non ha classe dirigente. Non ha testa, si dice in dialetto calabrese.
Ne ha, anche buoni amministratori e qualche politico, e molta imprenditoria, ma piuttosto disperata, senza infrastrutture, e comunque non abbastanza per competere. È per questo che va indietro? È la causa più probabile: le società meridionali in larghe parti, in Campania, in Calabria, in Sicilia, sono destrutturate. Un’inesistenza che compensano con un assurdo anarchismo in forma di democrazia, che inevitabilmente finisce nell’imbuto della mala economia. Dell’assistenzialismo, quando non della corruzione, o della violenza.
“Il divario tra Nord e Sud è troppo ampio e la qualità nelle scuole troppo variabile. Lo dico con sofferenza, da mezzo calabrese di origine e da mezzo italiano all’estero”, lamenta Vittorio Colao, il manager italiano di successo più internazionalizzato, con Ferruccio de Bortoli su “7 Corriere della sera” – rammaricato (“Vorrei sbagliarmi però”). Lo dice per dire, è impensabile un Colao nato al Sud – lui è nato a Brescia e ha studiato a Milano? No, tanti nati al Sud sono altrettanto vispi e intraprendenti. Il problema è quello che lui dice: la scarsa qualità.
Che non è etnica, naturalmente, Colao testimone. E non è culturale, ci sono buone scuole anche al Sud. Nemmeno determinata dall’emigrazione: l’emigrazione c’è sempre stata, al Sud come al Nord, dal Veneto alla Padania e alla Liguria, senza impoverire le aree di origine. La scomparsa della classe dirigente meridionale, in una col meridionalismo, lattenzione meridionale al meridione, 
viene con la scomparsa di chi le aveva meglio onorate: Moro, Mancini, Colombo, e la Cassa per il Mezzogiorno. Dal picco, anni 1970, il salto è al nulla, senza progressività. La generazione di grandi politici si estingue, si abolisce la Cassa e ogni legge speciale, si abolisce l’Iri e ogni altra impresa pubblica, i fallimenti al Sud si moltiplicano, nella sanità, nell’amministrazione, nella banca – falliscono tutte le banche meridionali, Sicilia, Napoli, di risparmio, popolari. 
O forse no, politici e intellettuali di razza non sono più emersi al Sud, a seguire dietro Mancini, Moro, Colombo, per l’inabissamento anteriore del corpo sociale, databile anni 1960, quando camorra, onorata società (‘ndrangheta) e mafia uscirono dalle fogne e si presero gli appalti, i terreni e gli affari, con bombe, pistolettate, incendi, grassazioni, anche omicidi, nonché rapimenti di persona. Senza essere contrastati.
I Carabinieri (si dice i CC per dire i tutori della legge) non intervenivano a difesa della proprietà. Non è vero? Chi ci è passato lo sa, e sono molte migliaia. Nessuno – cioè: nessuno – ha mai avuto difeso un avviamento commerciale, un’impresa edile o di altra materia, un campo, una fabbrica, quando è andato soggetto alla violenza. Se si è arrivati a processare i criminali, si è dovuto “difendere” da solo in Tribunale: nessun atto istruttorio, nessuna prova. I “Carabinieri” vanno per dirizzoni, e la proprietà non è mai stata uno. Nemmeno quando c’erano i rapimenti di persona, che hanno coinvolto il Nord: zero.
E non è finita, anche se ogni mattina si denunciano decine di arresti. Saranno gli arretrati – l’anno scorso sono stati arrestati un gruppo di Alvaro di Sinopoli, che da almeno sessant’anni imperversano, in nome proprio, non si negano. O è l’effetto dei dirizzoni: ora sono di turno i sindaci (gli Alvaro sono stati arrestati per arrestare un sindaco), dopo le processioni, dopo il caffè degli impiegati, dopo le pensioni fasulle, e in mancanza di altro il voto di scambio, reato vasto e  intramontabile. Insomma, i tutori dell’ordine non stanno con le mani in mano. Ma se voi uscite di casa, un semisconosciuto ha bisogno urgente di 500 euro che vorrebbe da voi, voi naturalmente non avete disponibilità sul bancomat, e la mattina dopo le quattro gomme sono squarciate, o la notte la macchina ha preso fuoco, non succede nulla, assolutamente. Il controllo del territorio non prevede nemmeno un ammonimento.
Mancano le scuole? In un certo senso sì. 

Milano
Ambrogino d’oro ex aequo quest’anno per l’Immacolata a Borrelli, il Procuratore Capo dello sfascio, e a Penati, il sindaco di Sesto San Giovanni, carcerato per tangenti e “disconosciuto” dalla politica (dal Pd), prima di essere assolto. Milano si cautela, non è ipocrisia, Milano non è ipocrita. Ha anche smesso il collo torto.
 
“A Milano la ‘Dolce Vita’ di Fellini fu fatta conoscere per la prima volta dai gesuiti di San Fedele”, Montale, “Auto da fé”, p. 290 – “(non senza qualche ‘conseguenza’ per alcuni dei promotori)”. Era il 1960.

Capitale sicuramente è, degli hater. Da tempo, da prima di Bossi e la Lega. Quando usavano le targhe di provincia, e la targa Roma veniva mutata, inevitabilmente. O contro Craxi, “figlio di un siciliano”, benché avvocato rispettato e prefetto della Liberazione a Como  – l’odio è forte ancora a vent’anni della morte, contro i suoi figli, nei social, nelle lettere ai giornali, che le pubblicano, il “Corriere della sera” riquadrate.

La città dove si vive meglio è quella dove uno su quattro non riesce a pagare l’affitto – la città col più alto tasso di morosità. E dove uno su sette è povero. Si può permettere molta eroina, questo sì – quella dell’oppio. Ma perché la Procura “napoletana” chiude un occhio.  
E si può permettere, certo, “Il Sole 24 Ore”, che fa le benefiche classifiche.

“La terra dei fuochi? È giù al Nord”, ironizza “la Republica”. Anticipando una ricerca sull’inquinamento diffuso, a cielo aperto, concentrata su “50 criticità ambientali dimenticate, luoghi perduti – e ancora pericolosi – distrutti da sversamenti, amianto, inquinamento industriale, devastazione del suolo”. Una denuncia particolareggiata – “solo in Lombardia si contano più di1.800 siti contaminati o potenzialmente pericolosi”, etc.. Ma confinata al magro supplemento “Scienze”, che nessuno legge. Per la buona coscienza. .,

Dell’azienda napoletana che lavora à façon per i grandi milanesi della moda scoperta con decine di lavoratori in nero non si fa il nome. Nemmeno degli stilisti milanesi per cui lavora. Solo si fa sapere – “Corriere della sera” - che “le aziende dell’alta moda richiedono situazioni trasparenti e  lavoratori «in chiaro», preferibilmente italiani – per questo tanti si rivolgono agli opifici napoletani che non impiegano manodopera cinese”. Non è mafia.

Di un giovane faccendiere milanese dice un comico milanese alla trasmissione di comici “Stati generali” su Rai 3: “Non c’è un momento in cui non si senta superiore”. Ma è una debolezza o una forza?

Juventus-Milan: il Milan gioca bene ma perde. Cancan di “Corriere della sera” e Gazzetta dello Sport” contro l’arbitro. Nelle grandi e nelle piccole cose, la legge Milano è quella: produrre molta spazzatura, e buttarla accanto, di sotto, dove capita: aggredire per essere.

Sei mesi prima l’arbitro  Rocchi “fa” letteralmente la partita per il Milan in Milan-Lazio. Dà al Milan un rigore che non c’è, nega alla Lazio un rigore che invece c’è, ammonisce chi gli pare, eccetera. Ma questo non si sa: il “Corriere della sera” gli dà 6.5, la “Gazzetta dello Sport” 7, “un arbitro che il calcio italiano rimpiangerà”.

Questo lunedì. Il giorno dopo, quando la polemica monta e i fatti non si possono nascondere, la “Gazzetta dello Sport “ astuta la annacqua con ben due pagine sugli errori degli arbitri. In cui quelli di Milan-Lazio sono annegati con tutti gli altri, della serie A, e anche della serie B.

Il “Corriere della sera” si distingue nella contorta campagna della Procura di Milano contro Eni. Il gruppo petrolifero pubblico è l’unico fattore di corruzione a Milano, città in affari pulita per eccellenza: la città dove si vive meglio senza Eni vivrebbe ancora meglio?

Il più curioso qui è che i processi terminali della Procura di Milano contro Eni non intimoriscono, come dovrebbero, gli investitori istituzionali e i grandi fondi, che continuano a comprare. 
I processi in corso vanno iscritti dalle società nelle comunicazioni periodiche agli azionisti. Ma quelli della Procura di Milano contro l’Eni non fanno paura. Nessuno crede a Milano?

leuzzi@antiit.eu

Nel 2011 la Francia voleva bombardare le installazioni Eni in Libia

La guerra alla Libia del 2011 non fu un intervento Nato, come si tende a far credere. La Nato fu coinvolta dall’Italia, dal governo italiano, per evitare l’asservimento ai piani bellici francesi. Questo si sapeva. Ma c’erano probabilmente altri motivi per non fidarsi dei piani francesi, e il generale Camporini, l’ex capo di Stato Maggiore, su start.mag ora lo spiega: avevano puntato i campi petroliferi in concessione all’Eni.
Scrive il generale: “Grazie al fatto che le operazioni furono gestite da una sala operativa della Nato, dove avevamo un nostro «guardiano», le installazioni dell’Eni furono tolte dalla lista degli obiettivi, dove una «manina» li aveva inseriti”.

Le guerre della Repubblica solo a guida comunista

L’Italia repubblicana è entrata in guerra due volte, entrambe a opera di leader (ex) comunisti: Massimo D ‘Alema a capo del governo nel 1999, quando l’Italia dichiarò guerra alla Serbia – che non ne aveva bisogno, era già più che bombardata dagli americani anche senza l’Italia. E nel 2011 contro Gheddafi, l’alleato dell’Italia nel Mediterraneo, per volontà del presidente della Repubblica Napolitano.
Sull’“intervento” di Napolitano c’erano dei dubbi. Il presidente della Repubblica è stato lealmente “coperto”, come vuole la prassi costituzionale, da Berlusconi, presidente del consiglio in carica -  benché Berlusconi stesso avesse stabilito con Gheddafi cinque anni prima il trattato di amicizia. Ma lo dice chiaro ora il generale Vincenzo Camporini su startmag.it: senza le basi italiane l’operazione non si poteva fare, stante la riluttanza di Obama: “Forse le cose sarebbero andate in modo diverso se qualcuno avesse spiegato a Napolitano che senza la nostra partecipazione, senza le nostre basi, molto difficilmente l’operazione si sarebbe potuta fare, con gli Usa riluttanti, Uk senza portaerei e la Francia che avrebbe potuto lanciare non più di una dozzina di strikes al giorno, dalle sue basi (con onerosi e ripetuti rifornimenti in volo) e dalla sua portaerei De Gaulle, che non ha mai brillato per efficienza”.
Il generale sa di che parla. Era stato capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, e fino al gennaio 2011 capo di Stato Maggiore Difesa. Al momento della guerra era consulente del ministro degli Esteri Frattini.

Sul Maometto di Dante la legge del taglione

Un gruppo di saggi per la “storicizzazione delle culture letterarie del Due e Trecento” – questo il sottotitolo: “Dante’s World: Historicizing Literary Cultures of the Due and Trecento”. Le uniche  cose certe in argomento sono che Dante ha posto Maometto nel profondo dell’inferno, e alcuni pensatori islamici nel limbo. C’è una ragione? Sì, una cosa è la fede e un’altra la conoscenza. Sembrerebbe di no, ci può essere fede senza conoscenza?, ma così è – era. La sconnessione John Tolan collega alle vite di san Francesco, che Dante mostra di avere utilizzato, nelle quali si fa grande caso della missione del santo presso il sultano d’Egitto al Kamil.
Il tema specifico di Maometto all’inferno è trattato in apertura da Maria Esposito Frank e Karla Mallette. Quest’ultima spiega il trauma fisico inflitto a Maometto, al canto 28, come una inversione sottile dell’ortodossia islamica – una sorta di legge del taglione. Maometto è tra i “seminatori di discordie”, la cui pena è di essere fatti a pezzi da un diavolo munito di spada. Maometto gli appare “fesso”, diviso in due, con le interiora pendenti tra le gambe: è lui stesso a mostrarsi a Dante, aprendosi il petto. E profetizza la morte violenta anche di fra Dolcino, altro eretico.
Un affascinante contributo, di Giorgio Battistoni, racconta come nel 1921, per i seicento anni della morte di Dante, il Comune di Verona avendo deciso di aprire la tomba di Cangrande della Scala, il corpo fu trovato avvolto da indumenti di fattura islamica, riconducibili alla dinastia Ilkhanide, mongolo-persiana, 1256-1335: Verona commerciava con l’Oriente islamico. E non è tutto: Dante a Verona incontrò, secondo Battistoni, due letterati ebrei, Hillel ben Samuel e Immanuel ben Solomon (“Manoello Giudeo”), già membri a Roma di un’accademia di traduttori dall’arabico.
David Abulafia completa la raccolta con un saggio sugli “ultimi mussulmani” d’Italia, - la vicenda degli arabi internati da Federico II a Lucera – che non furono però gli “ultimi” arabi in Italia: ce ne saranno lungo la costa tirrenica, specie in Calabria e in Liguria, e nel Salento..
Una discussione spassionata, si tratta la questione senza pregiudizi né entusiasmi – uno pensa a Maria Corti, pure dotta filologa, e rabbrividisce. Il titolo ricalca quello di Asìn Palacios, la ricerca di un secolo fa che ancora sconvolge il politicamente corretto italico.
Jan M.Ziolkowski (a cura di), Dante and Islam, Fordham University Press, pp. 384 $ 28  

venerdì 20 dicembre 2019

Problemi di base dietristi (529)

spock
Com’è possibile che dietro la Brexit non ci sia Putin, le famose spie inglesi dormono?

E dietro i missili di Haftar?

E dietro Salvini?

E anche Grillo?

Dietro Kim Jong-Un?

E dietro Nancy Pelosi?

Non sarà Putin il Grande Improsatore?

spock@antiit.eu

Un’Inghilterra vecchierella

È stata uno spettacolo ridicolo, quest’anno, più che solenne la “processione”, amorevolmente seguita dalla Bbc, in automobile grigia, sotto un cielo cinereo, le guardie infagottate in costumi e pennacchi, per il “Discorso della Regina”. L’intramontabile sorretta da un erede bolso, più senile di lei, che legge un testo incomprensibile ai più. Che non ha scritto e di cui poco si cura. Cosa che si sapeva ma ora ha un altro senso. Malinconico,  polveroso.
È l’effetto Brexit. Dell’estraniazione, per cui le cose si vedono a distanza, e quindi in prospettiva. Gli inglesi non se ne vanno a cavallo, fieri, ma indietreggiando, coi forconi. Il ripudio  dell’integrazione con l’Europa è come un rifiuto del nuovo, di un confronto in campo aperto, per un retroterra chiuso, stinto, esausto.
È la platea che rinviava questa immagine. Affollata come uno stadio di calcio. Di tipi sanguigni, corpulenti, arruffati. Si sarebbe detta la nave dei folli. Ma contenti, sorretti dalle bevute.  

Cronache dell’altro mondo - democratiche (51)

Il più determinato, perfino violento, contro Trump è il gruppo editoriale Condé Nast, “The Ballot” e “The New Yorker”, che sono acquisizioni recenti. Condé Nast è l’editore di “Vogue”. E di “Vanity Fair”, “Glamour”, “GQ”, “GQ Style”, “Allure”, e di buon numero di pubblicazioni per palati fini. Trump si direbbe indigesto, nel paese dell’hot dog e dell’hamburger.
Fanno campagna per la presidenza quindici candidati nel partito Democratico – erano venti un mese fa, sei si sono ritirati, uno si è aggiunto, Bloomberg. Con carriere politiche molto diseguali, da sindaco di paese a governatore di Stato, a senatore, all’ex vice di Obama, Biden. Con grandi differenze di età, fra i 37 e gli 88 anni – Sanders ne ha 78, Biden 77. Un paio miliardari, Steyer e Bloomberg. Dodici hanno maturato il diritto a candidarsi in tv, in dibattiti serali, con lo stesso tempo, rigidamente calcolato. Ora ridotti a sette, con esclusione dei candidati di colore o ispanici. Tutti con ghostwriter e biopic, cioè con un tesoretto elettorale già nutrito.
Le campagne elettorali sono molto dispendiose. In minima parte coperte dai partiti, e solo per i candidati vittoriosi alle primarie. Le quali invece si combattono a spese proprie. Hillary Clinton aveva fondi elettorali senza confronto rispetto a quelli messi in campo dal pur miliardario Trump nel 2016 – è vero che Trump ha vinto.
Il finanziamento largo della campagna elettorale è ritenuto prerequisito di democraticità: il miliardario Bloomberg è escluso dai dibattiti in tv perché non vuole “donazioni”.
Quello di stanotte è il sesto dibattito promozionale televisivo di cui i candidati Democratici ala presidente hanno beneficiato in tre mesi. In America non c’è la par condicio.

Giuda tradito da Gesù

L’embrione della pandemia letteraria di “Giuda” che nel secolo scorso ha imperversato. Di un Giuda guaritore, come Gesù e gli altri seguaci, che si aspettava la ribellione a Roma, e alla fine deluso li abbandona. Una delle ultime opere di De Quincey, probabilmente l’ultima pubblicata, nel 1853 – tre anni dopo seguirà la nuova edizione  del saggio per cui è famoso, “Le confessioni di un mangiatore d’oppio”, ancora ben lucido. Brillante, naturalmente.
Sulla traccia dei suoi soliti “eruditi tedeschi”, De Quincey riflette sui pochi cenni alla fine (alla vita) di Giuda dei suoi compagni di avventura, gli apostoli. Dei quali pure era il tesoriere, cioè uno con esperienza di mondo, oltre a saper fare di conto, non un anonimo: poche parole nel vangelo di Matteo (“egli andò e si impiccò”), e notazioni stravaganti negli “Atti degli Apostoli”. In una “cadde a testa in giù”, in un’altra “si spezzò nel mezzo”, in una terza “i visceri si riversarono fuori”. Ne conclude che non ci fu tradimento ma delusione. I suoi compagni di avventura erano impacciati a trattarne, perché ne avevano condiviso le aspettative – prima di continuare l’opera alla quale col Cristo si erano avviati, di guaritori. 
Giuda è un eroe, in un sentito nazionalistico: uno di “un profondo patriottismo ebraico”. Infine deluso, come tutti i discepoli, dall’incapacità del Cristo di realizzare la restaurazione del trono di Davide. “Non era affatto la religione quello che, prima della crocefissione, ritenevano oggetto dell’insegnamento di Cristo; per loro era la pura e semplice preparazione di un progetto miseramente prosaico di espansione terrena” – loro, i discepoli. Il popolo attendeva un cenno per ribellarsi. E Giuda, “essendo il tesoriere degli apostoli, era verosimilmente quello dotato di maggior discernimento nelle cose terrene e aveva più dimestichezza con gli umori del tempo”.
In originale con la traduzione.
Thomas De Quincey, Giuda Iscariota, Ibis, remainders, pp. 95 € 4


giovedì 19 dicembre 2019

Ombre - 492


A Norcia tutto fermo tre anni dopo il terremoto. “La burocrazia non fa sconti”, deplora Sergio Rizzo su “la Repubblica”: “Il nemico era il sisma, ora è lo Stato”. No, sono i giudici: nessuno firma nulla perché i giudici non lo consentono. A L’Aquila, dove si è voluto fare presto, i giudici hanno processato tutti: i giudici di destra i politici di sinistra (Regione), i giudici di sinistra quelli di destra (Protezione civile). Poi assolti, ma ai giudici non gliene frega: sono una casta terremoti-esente. Nessuno li manda dentro per i loro interessi privati in atto d’ufficio, che anzi sono titolo di carriera.

Una militare quarantenne di Caserta, di stanza a Piacenza, in trasferta a Roma nell’operazione Strade Sicure, si uccide per motivi personali, che spiega in una lunga lettera. Ma per i 5 Stelle si uccide per protesta contro Strade Sicure  - i controlli anti-terrorismo islamico, le coltellate, i furgoni. Che ci dice il cervello? È un film. Ma questi governano Roma e l’Italia.

Macron alza da 62 a 64 anni l’età della pensione e la Francia si rivolta. Monti e Fornero l’hanno alzata da 62 a 67, e nessuno ha fiatato. È vero che si appoggiavano al Pd. Utile cinghia di trasmissione, via Cgil. I partiti servono ancora a qualcosa, e i sindacati?

Volendo leggere le cronache romane del delitto Sacchi non si capisce nulla. Tempi e luoghi sbagliati, nomi vaganti, testimonianze divaganti. Come d’estate nelle cronache dell’assassinio  Cerciello, sempre opera di giovani drogati. Anche le cronache nazionali non sono meglio. Le cronache giudiziarie mostrano la corda di cui sono tessuti, indiscrezioni, e fumo.

Lo stesso, senza il fumo?, per le cronache nazionali della Procura di Milano vs. Eni. Si sa che sì fanno molti processi, e tutti terminali per l’Eni, ma non si capisce perché e per come.
Il più curioso qui è che i processi terminali della Procura di Milano contro Eni non intimoriscono, come dovrebbero, gli investitori istituzionali e i grandi fondi, che continuano a comprare.  

Il presidente del consiglio Conte può andare a Ballarò”, su La 7, e dire incontestato: “Con i proventi della lotta all’evasione fiscale taglieremo le tasse del 20 o del 30 o addirittura del 50 per cento, e liquideremo nei conti correnti sino a 2.000 euro a chi paga in modo digitale”. Come no. Ma del 20 o del 50 infifferentemente, come capita?

Conte è confortato nel suo disinvolto proclama da Bersani. Che abbiamo dimenticato ma è il capo del Pd che aveva vinto le elezioni del 2013 e si fece distruggere dai 5 Stelle con lazzi e beffe.   

Sembra assurdo che tre giudici di Catania, Roberto Corsa, Nicola La Mantia e Sandra Levanti, chiedano in continuazione al Parlamento l’incriminazione di Salvini per sequestro di persona, nella questione immigrati, e lo è. Lo chiedono di nuovo perché ora la maggioranza parlamentare è contro Salvini, e quindi l’autorizzazione arriverà. È assurdo perché i tre, che presumono di attaccare Salvini, gli fanno una campana promozionale da mago delle urne – non ce lo fanno dimenticare un giorno.

Una pagina di quindici classifiche internazionali sul “Corriere della sera” conferma l’Italia per quello che è: un paese ricco, abbastanza bene organizzato, con molti quozienti di qualità, dalla formazione all’ambiente – in deficit si direbbe soltanto demografico, non si fanno più figli. Ma tra gli indici basici si mette incongruamente , in senso negativo, il “maggior utilizzo di contanti”, che l’Italia non utilizzerebbe – in compagnia del Giappone, certo.

Festa grande in Inghilterra per i giovano conservatori working class, che hanno sbaragliato il partito Laburista nei suoi feudi tradizionali. Con un’ombra: qualcuno di loro ha criticato George Soros. E questo non si può. Per quale motivo? Non si sa. Non è Soros uno speculatore – affossò la sterlina, oltre che la lira? Ci sono buchi neri nell’informazione.

Al primo posto per  tempo speso ogni giorno nei social vengono la Filippine, con 4 ore e un minuto al giorno per ognuno, la Nigeria, con 3 ore e 36 minuti, e il Messico, con 3 ore e 10 minuti. Chi meno ha elettricità più se la gode. O l’inversione dei bisogni.


Cronache dell’altro mondo – trumpiane (49)

Trump viene rinviato a giudizio - dopo tre anni di tentativi alla cieca, col Russiagate, le tasse, gli stupri - al Senato. Dove sarà assolto. È un’esercitazione mediatica, questa dell’impeachment, ma contro Trump?
L’accusa è che Trump ha negato gli aiuti militari all’Ucraina, condizionandoli a un’indagine sugli affari dubbi nel paese del figlio di Biden, il vice di Obama. Affari di cui per ora non si parla ma che inevitabilmente saranno al centro della campagna elettorale dopo giugno, se Biden dovesse risultare il candidato presidenziale democratico.
Nessun responsabile ucraino, né della passata presidenza, né di quella eletta quest’anno, testimonia nel senso voluto dall’accusa, che Trump ha condizionato gli aiuti militari alle accuse contro i Biden. I testimoni sono tre funzionari del dipartimento di Stato. Del partito Democratico.     
L’incriminazione è stata voluta dalla presidente della Camera dei Deputati Nancy Pelosi. Che, ottant’anni a marzo, si esibisce nell’incriminazione di Trump con look da quarantenne. Un siluro a Biden?

Leonardo francese

Una superba edizione dei taccuini di Leonardo, per le celebrazioni vinciane che si chiudono. Una edizione che manca in italiano, non da ora. E illustra Parigi come il centro delle celebrazioni – a Milano c’è solo una coda (a Firenze niente…). .
Tutti i taccuini, morali (filosofici), letterari e scientifico-tecnici. Con la famosa presentazione che nel 1942 ne fece Paul Valéry. Una cronologia estesa, molto illustrata. La riproduzione delle opere di pittura. Molti disegni in facsimile, un paio di centinaia.
I testi sono sempre quelli del 1942, asseverati e annotati da Edward McCurdy.
Il volume è doppiato, sempre in chiave celebrativa, da un album musicale, “Leonardo da Vinci, la musique secrète”. Con notevoli testi e illustrazioni, e musiche dell’epoca che in qualche modo si riconducono ai canoni leonardeschi. Collazionato e presentato dal complesso Doulce Mémoire, di Denis Raisin Dadre.

Léonard de Vinci, Carnets, Quarto Gallimard, pp. 1.656, ill. € 33



mercoledì 18 dicembre 2019

Problemi di base alluvionali - 528

spock
Lannutti contro la Banca d’Italia: tempo d’alluvione, pure gli stronzi vengono a galla?

O il ministro Patuanelli contro Mittal – Patuanelli?

O meglio Lezzi, con i boccoli?

E Di Maio contro Erdogan?

I missili di Guerini contro quelli di Putin?

E gli avvocato di paese commissari alle grandi aziende, di cui non capiscono nulla, Ex Ilva, Alitalia, Popolare di Bari?

Saranno i grillini il partito degli avvocaticchi?

spock@antiit.eu

Appalti, fisco, abusi (162)

Si prospetta e si impone attraverso i media il pagamento di qualsiasi cifra con carta di credito come rimedio all’evasione fiscale e al riciclaggio di denaro sporco. Mentre non ha nulla a che fare con queste finalità – il denaro è tracciabile comunque. Ma serve solo a pagare un quid alle banche e agli intermediari finanziari. A farlo pagare ai consumatori-utenti. Impercettibile, ma comunque un costo.

“Nel 2018, dicono Ocse e Cgia, le pressione fiscale reale ha superato già di oltre sei punti quella ufficiale, toccando il 47,9 per cento” – il “Corriere della sera” conferma quanto questo sito spiegava un mese e mezzo fa.

Si continua a presentare il mercato libero, ora dell’energia, come un beneficio per gli utenti. Mentre è palese a tutti, si vede dalla bolletta, che il costo dell’energia è aumentato sul mercato libero e in molti casi (le utenze a basso cosumo) più che raddoppiato. Ciò si vede nella voce di costo materia energia, e più nelle due voci sussidiarie (ma enormemente costose) del trasporto-trasmissione e del contributo alle fonti di energia rinnovabili, che si pagano a prescindere dai consumi.

Senza contare il costo dell’Aurorità di settore, che non serve praticamente a niente - se non ad avallare i “ritocchi” alle varie voci della bolletta, a beneficio sempre degli operatori, Terna, Tim, Snam, e le miriadi di fatturatori. Non a garantire i consumatori, funzione per la quale Prodi l’ha creata tredici anni fa.

Il costo di elettricità e gas è più che raddoppiato con la liberalizzazione del mercato. La liberalizzazione è una grossa truffa reiterata, a danno dei consumatori: il mercato resta oliogopolistico, controllato da pochi soggetti dominanti, esente da regolazione.

Il contributo alle fonti di energia rinnovabili, “oneri di sistema”, va a operatori  ignoti e ad attività opache. Niente è certificato e riscontrato: l’ammontare esatto delle quantità di energia da fonte rinnovabile prodotta, e soprattutto il loro utilizzo in rete. A fronte di un contributo per kWh e mc. che è fisso, e può essere superiore al costo della “materia energia”, del consumo effettivo di fonti di energia.


Che ci stiamo a fare in Afghanistan

Non si sa perché stiamo in Afghanistan. Cioè si sa, ma non è una ragione: siamo buoni, distribuiamo aiuti, proteggiamo le ragazze che vogliono andare a scuola, educhiamo il paese a vivere in democrazia. Manteniamo l’ordine democratico, si dice. No, il paese è sotto il giogo occidentale, per quanto benefico. Ma non efficiente, poiché siamo lì da quasi vent’anni e, al costo di decine di morti ogni giorno, anche dei nostri, e fuori dai nostri ridotti, il paese è talebano – era e resta tribale, a dominanza talebana.
Distribuiamo anche migliaia di stipendi ogni mese, ai volenterosi collaboratori, e alle truppe di un esercito afghano che di fatto è lì solo per la diaria. E lo sappiamo: siamo stati e restiamo truppe d’occupazione, intelligenti e generose quanto si vuole, ma straniere. Con gli stessi soldi, molti meno, e meno morti ogni giorno, avremmo potuto organizzare un’emigrazione ordinata, degli afghani che intendono emigrare, nei nostri o in altri paesi – invece di lasciarli alle mafie.
Si dice l’Occidente, la democrazia, la scuola. Ma che scuola? Di che intelligenza? 




martedì 17 dicembre 2019

L’aeroporto di Berlino tra errori, corruzione e ritardi – dieci anni

È in ritardo già di otto anni, è costato fino ad ora tre volte il preventivo, e potrebbe non entrare in funzione nemmeno nel 2020. Non è il Mose di Venezia ma l’aeroporto di Berlino, “Berlino Brandeburgo”, o “Willy Brandt”. Perché, ultima tegola, è abusivo: la costruzione è stata avviata senza le autorizzazioni di legge, in zona depressa non adatta, anche se costituisce l’ampliamento del preesistente aeroporto di Schöneberg, una struttura minuscola al confronto - dovrebbe diventare uno dei cinque terminal della nuova struttura..
Il nuovo aeroporto è in sostituzione dei tre della guerra fredda, Tegel e Tempelhof (già chiuso una dozzina d’anni fa) a Ovest e Schönefeld a Est. Doveva entrare in funzione,  secondo i piani originari nel 2007. Scadenza poi aggiornata a seguito delle vicissitudini del concorso per la progettazione, di quattro anni, a ottobre 2011. Poi a metà 2012: le compagnie ci credettero, riprogrammarono le rotte e vendettero i biglietti, il ritardo ha avviato una serie interminabile di cause per danni. Poi a ottobre 2013. Altre scadenze, annunciate e disattese, furono il 2015 e il 2017 – gli annunci di apertura successivi al primo sono undici: l’ultmo è ottobre 2020, ma si sa che l’aeroporto non sarà pronto a quella data, e nemmeno nel 2022.
Il costo è salito dai 2,2 miliardi del progetto iniziale e 7,3 miliardi. Ma si sa già che non sarà inferiore ai 10 miliardi.
I ritardi sono stati addebitati a errori di progettazione. E a calcoli errati di costo. Il progetto subì rinvii già prima dell’avvio della costruzione. Il concorso internazionale per la progettazione ha subito rinvii e annullamenti: l’appalto fu assegnato una prima volta nel 1998, poi nel 2003, e infine nel 2005.
Ora si scopre che tutta la costruzione è abusiva. Ci sarà un condono. Ma andranno rivisti molti parametri.

Molière (non) era Corneille

E dunque Molière non è Molière, era Corneille? Il dubbio non c’era per i molti, e tuttora non c’è, ma avanza. Gli stessi studiosi, l’ingegner Cafiero e il filologo Camp, che provano con l’intelligenza artificiale in questa ricerca a dissipare ogni dubbio, di fatto finiscono per consolidarlo: quella che finora era solo un’ipotesi, e di un letterato arguto più che attendibile, anche se molto colto, Pierre Louÿs cent’anni fa, ora diventa materia di conteoesami e controperizie – in Francia il gusto non c’è del pettegolezzo autoriale, del tipo “Shakespeare non è Shakespeare” o “T.S.Eliot è sua moglie”, ma una “questione Molière” diventa ora probabile, una querelle Molière.
Attore itinerante, Molière cominciò a scrivere a quarant’anni. Aveva dovuto cambiare nome, per non creare problemi alla famiglia di considerati artigiani, e a corte, dove i Poquelin erano introdotti quali tappezzieri. Attore giovane, si era legato a un’attrice già madre di un bambino senza padre, Madéleine Béjart. Con la quale crearono un gruppo teatrale che ebbe varie vicissitudini, compreso il fallimento, e il carcere per lui. Il gruppo si ricostituì girando per anni la provincia.  E solo tardi poterono tornare a Peìarigi, protetti da Monsieur, il fratello minore di Luiigi XIV, e poi dallo stesso re, entusiasta.  Era già il 1658, Molière andava per i quarant’anni, e solo allora avrebbe cominciato a scrivere le sue commedie, a partire dal 1662. Ma di questa sua opera non resta nemmeno un manoscritto, benché abbia vissuto ancora undici anni, fino al 1673. Il che, nel secondo Seicento, a corte, sembra impossibile.
Pierre Louÿs un secolo fa, svolgendo queste considerazioni, avanzò l’ipotesi che le commedie fossero invece di Corneille. Che scriveva per il genio istrionico di Molière, capocomico ormai di fama e quindi di successo più facile. Louÿs si basava sulla mancanza di autografi, e sul fatto che Molière era un capocomico e non uno scrittore. Ma questo è meno vero. Molière aveva fatto gli studi dai gesuiti, e aveva avuto la licenza in Diritto a diciannove anni. Non era un seplice attore.
Le macchine pensanti, azionate dai linguisti francesi Florian Cafiero e Jean-Baptiste Camp, un ingegnere e un professore di Umanità numeriche, hanno sottoposto a verifica testuale alcune commedia Molière insieme con testi di Corneille e altri drammaturghi dell’epoca. Lavorando su un programma inteso a riconoscere sei caratteristiche stilistiche: lemmi, forme, parole utili, rime, affissi, n-grams (frequenza di una o più parole). Il cervello elettronico ha separato le opere di Molière dalle altre, a costituire una sorte di “monte Molière”. 
La ricerca ha però riaperto il problema Molière, invece di affossarlo. Intanto, per il fatto stesso di porre il problema – Molière non è Corneille, ma chi è “Molière”? Controdeduzioni naturalmente ha suscitato la stessa ricerca. Si contesta in particolare la scelta delle “parole utili”. E delle commedie esaminate, solo undici su trentatré.
In precedenza, nell’ultimo quindicennio, numerose ricerche linguistiche avevano rilanciato, e in qualche misura fondato, l’ipotesi di Pierre Louÿs, rilevando una comunanza di vocabolario tra i testi di Corneille e quelli di Molière troppo estesa perché si possano attribuire a due autori diversi.
Florian Cafiero-Jean Baptiste Camp, Why Molière most likely did write his plays, “Science Advances”, 27 novembre 2019
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lunedì 16 dicembre 2019

Il mondo com'è (389)

astolfo


Carlo I Stuart – Si consegnò a nemici repubblicani fuggendo. Una parabola politica però non eccezionale, anche se difficilmente si arriva al grado stolidità che gli costò il carcere, e poi la decapitazione, a opera del feroce Cromwell. “Un principe di grande abilità” lo dice De Quincey in margine al trattatello “La casistica dei pasti romani” – ma per questo tanto più “stupisce osservare con che scarsa lungimiranza egli si sia avviato alla difficile impresa di fuggire dalla sorveglianza dei suoi carcerieri”. Una prima volta fuggì agevolmente: gli scozzesi suoi fedeli erano accampati davanti a Newark, alla sua prigione. La seconda volta sembrò voler andare incontro al destino di morte. De Quincey lo racconta bene:
“Il re era al sicuro. Nella casa di campagna di Lord Southampton godeva della protezione di una famiglia leale, pronta ad affrontare ogni rischio per aiutarlo. Il suo nascondiglio era completamente sconosciuto”.  Ma si faceva assistere “da due gentiluomini, Berkeley e Ashburnham”, puntando “sulle loro qualità di coraggio e prontezza e sulla loro conoscenza dei luoghi e gli eventi”. Dei quali “uno era da sempre sospetto di tradimento”, e “entrambi erano degli imbecilli”. Fu così che il rifugi segreto fu comunicato al comandante militare della regione: “Di colpo la scena cambia. Il comandante militare dell’isola di Wight viene graziosamente informato della sistemazione del re e condotto in sua presenza, con un drappello di soldati”. Anche se il solo e preciso obiettivo del colonnello Hommond era di ricercare e arrestare il re. Lo si pensava degno di fede perché era i nipote del cappellano del re, il dr. Hommond. “Il colonnello Hommond era il nipote del cappellano del re”, riconosce De Quincey: “Sta bene. Ma al tempo stesso era marito della nipote di Cromwell, e su Cromwell puntava le sue aspettative di carriera.
E non è finita. Dalla nuova prigione, continua De Quincey, “era possibile tentare ancora la fuga, e di nuovo si organizzò una fuga”. Se non che “rivedere le circostanze di questa fuga è come leggere una pagina strappata alle cronache di un manicomio”. In breve: “Carlo doveva uscire da una finestra. Questa finestra era chiusa da sbarre di ferro. Queste sbarre erano state un po’ corrose con dell’acquaforte. Il re riuscì a farci passare la testa e confidava in questo risultato per la fuga, poiché collegava il tentativo a questa strana massima o postulato: ovunque può passare la testa, può passare tutta la persona”. Ma “alla prova finale” naturalmente “si scoprì che questa regola assurda non era da ritenersi corretta. Il re si incastrò con le spalle e il torace e venne liberato con difficoltà”. Dalle guardie di Cromwell. Per non dire, aggiunge De Quincey perfido, che sotto le sbarre “il re ebbe modo di vedere”, con la testa incastrata e “alla debole luce, un gruppo di persone che non annoverava tra i suoi fedeli”.

Galli – Erano i più numerosi, e i preferiti, nelle armate di Cesare, galli della Gallia Transalpina e di quella Cisalpina, anche Cispadana – finché Cesare guerreggiò sul fianco occidentale di Roma, nelle Gallie fino al Reno. I galli no erano barbari. Erano guerrieri, al modo dei romani, e civilizzati, anche se non altrettanto bene organizzati politicamente – giuridicamente - né bravi architetti o costruttori. Organizzati ancora prevalentemente su base tribale. Cesare combatté contro molti nemici, le tribù germaniche, gli spagnoli, gli elvezi, gli illiri, africani di ogni tipo, isolani del Mediterraneo, asiatici nemici di Roma o arruolati da Pompeo. Ma molto vinse con i galli. Anche nella battaglia decisiva di Farsalo: la V legione poi famosa dell’Alaudae, che portava un elmo a forma di allodola, era stata reclutata in Gallia da Cesare con i suoi fondi privati. Erano combattenti svelti, con la famosa Terza legione costituivano un terzo dello schieramento cesariano, e furono decisivi nella vittoria.

Occhio di lince – Non si sa se la lince veda “in profondità”, al di là della superficie, secondo il detto. Che di suo ha tutta l’aria di un “refuso”, del tempo degli amanuensi, quando i testi venivano copiati, in unica copia, a mano. E quindi ogni errore di copiatura faceva testo per i lettori.
La lince vede in profondità a partire da Oddone di Cluny, santo e colto monaco francese, 878-942. Oddone è all’origine della ideologia della carogna – il corpo umano è una carogna, fetida – con i suoi “Disprezzi”, che tanti altri monaci faranno propri, e poi papa Innocenzo III in un suo famoso “De contemptu mundi”. In uno dei “Disprezzi” Oddone così sintetizza il suo pensiero, rinverdendo un monito di san Giovanni Crisostomo: “La bellezza del corpo si limita alla pelle. Se gli uomini vedesse­ro quel che c’è sotto la pelle, cosi come si dice possa vedere la lince di Beozia, rabbrividerebbero”.
È questo richiamo che è enigmatico: della Beozia, patria di Pindaro, Esiodo, Plutarco di Cheronea, del Parnaso e di Elicona, e anche un po’ di Delfi, ombelico del mondo, non si sa che ospitasse le linci.
Di linci ai raggi X parla Boezio, “La consolazione della filosofia”, 3, 8: “Se, come dice Aristotele, gli uomini avessero l’occhio di lin­ce, e potessero vedere oltre l’ostacolo, arrivati alle viscere in­terne non apparirebbe bruttissimo perfino il famoso Alcibiade, così bello da fuori?”. Oddone, che ha tratto il suo riferimento da Boezio, potrebbe voler dire “la lince di (cui parla) Boezio” (anche Alcibiade fu sfortunato: Francis Villon lo fa femmina e cortigiana, “cugina germana” di Taide).
Ma il caso può essere più complicato, se di Boezio si prende la trascrizione heidelberghiana, che reca la dizione “Lyncei oculis” e non “lynceis oculis”, dando più corpo alla visione terrificante. Poiché chi va in profondità è in questo caso Linceo, l’argonauta figlio di Alfareo re di Libia (putativo per Poseidone), imbattibile se in compagnia del gigantesco gemello Idas - coppia antagonista dei loro più famosi cugini Casto­re e Polluce. “La sua vista”, di Linceo, secondo Apollodoro, “penetrava nelle profondità della terra”. Acuita forse dalla terribile notte in cui le sue 49 cugine, figlie di Egitto, re di Arabia, un fratello di Alfareo, fecero fuori i suoi 49 fratelli - ponendo fine a una serie di tentativi di questi di uccidere quelle con promesse di matrimonio (lui ebbe salva la vita perché, risparmiandone la verginità, s’era conquistato l’affetto della cinquantesima sorel­la, Ipermestra sua moglie). Si direbbe però che ha visto “dopo” la strage, e non “prima”.

Terza Repubblica - Il film di Polanski “L’ufficiale e la spia”  ricostruisce e richiama di prepotenza un assetto politico-militare, quello francese di Fine Secolo (Ottocento) che è e sarà quello italiano della Repubblica. La Repubblica italiana nasce, nel dopoguerra, sulle spoglie, si può dire, della Terza Repubblica francese, di cui assume le connotazioni: il nazionalismo sterile (sconfitto brutalmente nel 1870, resistente a caro prezzo, per impreparazione, nel 1914, e finito in un 8 settembre rovesciato (anticipato) nella drôle de guerre dei pochi mesi, giusto alcune settimane, svogliate, del 1939-40. Con il confessionalismo al posto della massoneria. Il leguleismo. La politica di consorteria, di gruppi ristretti e anonimi – con ministri e presidenti del consiglio venuti da non si sa dove né come, tipo Conte. L’apparato militare e di polizia al di sopra delle leggi. Il senso solo formale delle istituzioni. Una stampa condiscendente, seppure di parte, in ruoli predefiniti. La giustizia politica, o il complotto giudiziario costante. Questa soprattutto: il controllo surrettizio della vita nazionale attraverso mezzi poliziesco-giudiziari.
La Terza Repubblica si richiamava naturalmente alla rivoluzione del 1789, e non pochi studiosi con essa: la Rivoluzione sarebbe continuata, secondo questa corrente di pensiero, seppure a sbalzi, nel 1830, nel 1848, nel 1870 e poi ancora fino alla Grande Guerra. Gramsci fa suo questo approccio (“Quaderni del carcere”, 13, (XXX) § (17)): “Le contraddizioni interne della struttura sociale francese che si sviluppano dopo il 1789 trovano una loro relativa composizione solo con la Terza Repubblica, e la Francia ha 60 anni di vita politica equilibrata dopo 80 anni di rivolgimenti a ondate sempre più lunghe: 89-94-99-1804-1815-1830-1848-1870”.
Gramsci dà anche, nel prosieguo della nota, il meccanismo d’influenza esterno: “Una ideologia, nata in un paese sviluppato, si diffonde in paesi meno sviluppati, incidendo nel gioco locale delle combinazioni. (La religione, per es., è sempre stata una fonte di tali combinazioni ideologico-politiche nazionali e internazionali, la massoneria, il Rotary Club, gli ebrei, la diplomazia di carriera, che suggeriscono espedienti politici di origine storica diversa e li fanno trionfare in determinati paesi, funzionando come partito politico internazionale che opera in ogni nazione con tutte le sue forze internazionali concentrate”).


astolfo@antiit.eu

Macron nudo

A metà mandato, due anni e mezzo di governo monocratico, si può dire del presidente francese Macron che è “in mezzo al guado” con le sue riforme liberiste. Oppure che è nudo rispetto ai tanti equivoci con cui è stato eletto e che poi ha nutrito, di liberista e progressista.
È nudo, oggi per gli scioperi in continuo ma anche prima. E si è denudato da se stesso. Il suo movimento è solo lui stesso, e non basta il “mediatismo” er tenere, consolidare, un fronte progressista – quello di cui Macron si è paludato per vincere. Ci si compiace della parola, che però poi si distingue per le cose. E le cose di Macron sono illiberali: l’aumento dei carburanti e la riforma delle pensioni non rispodono a una logica di mercato aperto, ma agli interessi di determinati gruppi.
Peggio, Macron è illiberale senza essere di destra. A  diferenza di tutti gli altri movimenti o raggruppamenti o partiti centristi, i cristiano-democratici in Germania, Berlusconi in Italia, i conservatori oggi in Inghilterra, non ha disinnescato la destra politica (il neo-nazismo in Germania, Fini e Bossi in Italia, Farage in Inghilterra): il Rassemblement National e Marine Le Pen sono sempre testa a testa con Macron e il suo En Marche – peggio: Marcon compete con Le Pen, ma En Marche non compete col Rassemblement.

Lontano vicino, espatriare a Tor Tre Teste

Come far valere la pensione, magra, un po’ di più? Ma emigrando. A Santo Domingo pare che non si paghino le tasse. Ma no, perché così lontano, il riccone casalingo Herlitzka ha il posto giusto, il Portogallo, le Azzorre. E i due amici, poi tre, si mettono all’opera. Un po’ ignoranti un po’ incapaci, e il finale s’immagina: il viaggio è la preparazione del viaggio – se non altro, usciranno da porta Settimiana, che delimita Trastevere.
Un modo come un altro per Di Gregorio per raccontare la sua Roma d’un tempo, lenta e pigra. Per fare scena col niente. Per fare storia con le minute occorrenze quotidiane, il bar, la tabaccheria, la figlia parrucchiera, i ricordi naturalmente, essendo i tre in età, e la sana voglia di fare niente. È un racconto straordinario il viaggio dei due amici ideatori del viaggio, “il Professore”, lo stesso Di Gregorio, e il nullafacente Giorgetto, Giorgio Colangeli, a Tor Tre Teste, che è solo un sobborgo di Roma – alla ricerca di un Attilio che dovrebbe indirizzarli a Santo Domingo, ma non sa dove sia, ed è un Ennio Fantastichini a tutto volume, benché forse già colpito dalla leucemia fatale.
Continua la galleria dei buonannulla di Di Gregorio. Che è già una bibliotechina di culto, dal fulminante “Pranzo di ferragosto” dieci anni fa, con “Gianni e le donne” e “Buoni a nulla”. La vita come viene, che non si smette di vivere come nuova. Coi toni sommessi, di un realismo irreale, e tuttavia palpabile.
Gianni Di Gregorio,
Lontano lontano




domenica 15 dicembre 2019

Problemi di base di senso bis - 527

spock


“Su tutte le cime\ è pace”, Goethe (“Canto del viandante notturno”)?

“Ogni uomo superiore si sente come un avventuriero”, Nietzsche?

Svuotarsi di sé per riempirsi delle idee del tempo, che alla fine lasciano vuoti  - quando non rivoltano?

È l’idea di sé e anche del mondo che diventa infine cava - rivoltante?

È la parabola della conoscenza?

Dell’ottimismo?

Semplicemente dell’epoca, raziocinante a km. 0?


spock@antiit.eu

I tulipani liberano il Sud

Senza distribuzione in Italia, quindi presto finita su Sky, la favola dell’olandese arrivato in Puglia in bicicletta nel 1953 a impiantarvi i tulipani, nelle pause dell’ebbrezza, è come vuole essere una bizzarria. Specie nel montaggio, Mike van Diem, il regista olandese premio Oscar nel 1998 per “Character – Bastardo eccellente”, si è divertito a costruire una storia non storia. Se non quella di una libertà totale, anche da se stessi. 
Ma racconta un altro Sud, molto libero da mafie e oscurantismi. Proprio, come si suol dire, solare.
Mike van Diem, Tulipani – Amore onore e una bicicletta