Cerca nel blog

sabato 22 gennaio 2011

Morire per De Pasquale?

Un futuro Ken Follett, ammesso che in Italia sia consentito averne uno, scriverà il romanzone di quando il terrorismo islamico e le banche americane di concerto abbatterono l’euro, nella più grande speculazione della storia, agganciandosi alla lotta feroce di una giudice intoccabile annidata nel bunker del palazzo di Giustizia di Milano, contro l’uomo più ricco e potente d'Italia, l'inafferrabile Berlusconi. O forse, più che Follett, uno dell’avventura, ci vorrebbe un Ballard, per spiegare l’inspiegabile. Per ora e a noi resta solo da vedere come la politica italiana, e specialmente la buona politica, venga di continuo scavata e poi ricoperta di fango da alcuni personaggi che si annidano nella magistratura. Nell’ordine cioè più fascista d’Italia, ma che si atteggiano a gente di sinistra, rispettosi del progresso e della democrazia: Boccassini, Forno, Ingroia, Ielo, Quattrocchi, De Pasquale, gente emersa dalle terre oscure delle province come il loro vessillifero Di Pietro, che “Milano” fa suoi scudi e scudieri a difesa degli affari. Anzi, che non si atteggiano nemmeno, se si eccettuano i pregressi Colombo e D’Ambrosio che abbatterono il partito Socialista per conto dell’ex partito Comunista. Gli altri non nascondono di marciare all’avventura, i più per vendicare l’amata Dc, qualcuno all’origine scudiero di Fini prima che diventasse di sinistra – anche lui.
Già Fini di sinistra è un indicatore. Ma che dire di Caselli, che ha processato Andreotti come mafioso per ricavarne uno statista immortale? Mentre nessuno ha visto i benefici della guerra ai socialisti, anzi, a parte le (piccole) carriere personali di Colombo e D’Ambrosio. E un esito è certo: che non c’è più una sinistra. Né di governo né di lotta. E questo non si può imputare a Berlusconi. Ora a Berlusconi viene recapitato un avviso di reato non delle solite due pagine piene di intestazioni e riferimenti ai codici, ma di quattrocento piene di pettegolezzi: una gigantesca palla alzata.
Sono sbagliate le idee? Non può essere. Sono sbagliati i capi, i leader, le guide, gli interpreti. E questa non è un’ipotesi, è un fatto, se i capi, le guide eccetera sono Ielo o Boccassini. La quale sarà pure simpatica ai milanesi, finché gli serve, ma non è che la regina delle intercettazioni. Che ancora fa ridere a Roma, quando, fra le tante da lei predisposte, montò uno scandalo sul giudice Francesco Misiani, che prendeva il caffè al bar con la moglie di Vespa, anch’essa giudice, facendone polpette – di lui, il povero Misiani di Taurianuova, sincero credente, il calabrese ingenuo al solito fregato dal napoletano, seppure qui in gonnella (non ebbe infatti ragione di lei, la moglie di Vespa, ben più abile, non per nulla andreottiana). Una strada, per quanto ridicola, che porta però al dissolvimento, e a Berlusconi. A lui o a un altro come lui: alla fine della politica, e quindi della sinistra.
La sinistra solo vive di ideali e idee. Delle idee può anche fare a meno, per periodi brevi, finché non ci si raccapezza, e i tempi sono tumultuosi, in mutazione rapida e vertiginosa, non è agevole capire come orientarsi – su Mirafiori, la sanità, la scuola, l’università, e i teatri d’opera gratis per il pubblico, con migliaia di dipendenti. Ma sui principi bisogna stare fermi, tenere duro, sul noi e loro. Quando D’Alema nel 1998 candidò Di Pietro nella circoscrizione bulgara del Mugello, disse semplicemente: “Se non lo eleggiamo noi, questo porta un sacco di voti agli altri”. Era vero e Di Pietro poi l’ha dimostrato. Ma la cosa era ancora tollerabile, non c’era commistione, era una briciola di realismo in un discorso nel 1996 ancora di sostanza, se non già non più integro. Ora non c’è che il fascismo dei giudici. Che non sempre sbagliano, come Caselli, Colombo, D’Ambrosio, sicuri compagni. Cioè, sanno bene cosa fanno. Mentre a noi rimane solo Napolitano. Che però non può governare. E dunque, ci tocca morire per De Pasquale.

Stalin peggiore di Hitler, che storia è questa?

Orrendo libro (orrendamente tradotto?). Di uno storico liberale che sembra un giornalista tanto è disinvolto e prevenuto. E non si nasconde. A meno che la scrittura involuta non sia sintomo di cattiva coscienza. Uno storico liberale che deve dimostrare, a ogni pagina, a ogni capoverso, che: 1) Heidegger non fu nazista, e 2) comunque Stalin è peggiore di Hitler, Marx di Heidegger. Anche se Heidegger è “strano”: forse un prete spretato, forse un vecchio idealista di provincia.
Ernst Nolte, Martin Heidegger tra politica e storia

venerdì 21 gennaio 2011

L’infanticidio di Anaïs, giusto per la fama

Colossale tessitura (cesto…) di simulazioni, di un interesse alla persona che è puramente estetico, se non da bas-bleu, e quindi mai drammatico, se non epidermicamente, per la mostra (letteratura). Il dr. Ranke, il padre, Allenby, Henry (Miller), June, Eduardo, Hugo, perfino Artaud, a tutti Anaïs si concede, purché siano interessanti per la sua carriera di scrittrice, e come lo farebbe una prostituta – era (è?) anche un’epoca in cui la donna “si concedeva”. Come il calamaro, che butta fuori l’inchiostro per segnalarsi\celarsi – o viceversa. Intorbida le acque, non si scarnifica. Ma non è frigida: questa agitazione è il suo orgasmo, multiplo. Vedi l’aborto a sei mesi, che se fosse vero sarebbe un orrido infanticidio, e nella sua scrittura è una scossetta come un’altra alla pagina levigata.
Anaïs Nin, Incesto

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (77)

Giuseppe Leuzzi

Nel “Suicidio della rivoluzione” Augusto Del Noce nota che con De Sanctis si abbandonò Dante per l’apologia e il mito di Machiavelli. E conclude. “Il passaggio da Dante a Machiavelli è l’inizio della crisi o errore del Risorgimento”, l’esclusione dell’Italia religiosa.
È una delle varie esclusioni. un’altra è del Sud, che pure era metà dell’Italia, e un po’ di più.

Che fine ha fatto Giufà? Con le sue storie irridenti e mansuete, comprese quelle cruente, di furbizia giocosa. Per l’imprevedibilità mansueta dell’asino, il suo compagno, lo scarto della fantasia con l’irresponsabilità del folle-giovane. Il personaggio, senza età, è presumibilmente giovane, anzi adolescente – sventato come un adolescente: è scomparsa anche l’adolescenza. Sono storie del Sud, giocate sul paradosso fine a se stesso: l’uomo del Sud è Giufà, irridente e perduto. Un linguaggio comune nel Mediterraneo: Giufà è Karayozi in greco, Karaguz per i turchi jonici. Storie scomparse quindi, con tutto il folklore, per la scomparsa del Sud.

Il calciatore Neuville ha madre calabrese nelle cronache tedesche delle scommesse sul calcio. Quando ha giocato la finale del Mondiale del 2002 non aveva madre.

“Milano ai primi posti nel mondo per arte e creatività”, annuncia in prima il “Corriere della sera”, “nella lista dei 41 luoghi da visitare stilata da “New York Times” per il 2011”. Ma non ha più molto da dire, eccetto che “il Museo del Novecento è una delle attrazioni segnalate: in un mese i visitatori sono a quota 200 mila”. Senza dire che la visita al nuovo museo per il primo mese è stata gratuita.
Per dare consistenza alla “notizia”, il giornale interpella Carlo Bertelli. Che però, con tutta la buona volontà, non può che criticare le assurde mostre di un quadro di Leonardo o di Tiziano, ingombrate da videodeformazioni di particolari e altri reperti. Mentre Brera, il Poldi Pezzoli e la Fondazione Pomodoro sono vuoti.
Milano non sarà la 41ma città del catalogo newyorchese, perché bisognava includere una città italiana? Lo è, ma questo il “Corriere” non lo dice.

Celebrando il centenario di Camilla Cederna”, il “Corriere della sera” ne ricorda il “Giovanni Leone. La carriera di un presidente”, il libro che portò alle dimissioni di Leone, poi riconosciuto diffamatorio. E ricorda che Inge Feltrinelli, l’editore del libro, ha dichiarato con orgoglio: “Perdemmo tutti i processi, ma che soddisfazione… Il libro vendette 600 mila copie. Lo avevano letto anche i tassisti”.
Milano ha una vocazione giustizialista? A carico degli altri.

L’odio-di-sé meridionale
Si celebra l’unità e il Sud non trova di meglio che rivendicare l’eredità dei briganti. Sempre si vuole delinquente e ignorante, come gli viene autorevolmente suggerito.
Ma perché l’esercito non apre gli archivi della lotta al brigantaggio? O magari dice che gli archivi non ci sono, che sono stati distrutti.

Celebrando il padre, sullo sfondo del terremoto di Messina, Quasimodo si dice: “Ho portato il tuo nome\ un po’ più in là dell’odio e dell’invidia”. Molti meridionali lamentano l’odio e l’invidia locali, che ne insidiano e intossicano le appartenenze: Verga, Pirandello, De Roberto, Alvaro (il padre di Alvaro specificamente, che i figli istruiva con gravosi sacrifici, per il loro migliore futuro naturalmente, ma anche per l’invidia del paese – Alvaro sarà sempre risentito della separazione a nove anni dalla madre, dalla famiglia, dal paese). Più in Sicilia e Calabria che altrove, è vero. Ma c’è più odio minuto, più invidia sociale a Messina che in altre città a Nord?
È tutto il Sud un focolaio di risentimento, Che più facile (senza ritorsioni, senza esclusioni) si esercita sul Sud. C’è risentimento sempre nell’emigrato, e più in quello non di necessità, che potrebbe essere un senso di colpa.

L’intellettuale meridionale più spesso è depresso. Sia che viva al Sud sia che viva al Nord. Non gliene mancano le ragioni: quando esce di casa la mattina, o quando torna a Ferragosto, non vede che brutture, anche nei parenti, sporcizia, discariche, cementificazione, e non respira che veleni, quasi sempre mortali, inviati da potenze oscure attraverso la superiore mafia che lo governa, e sparsi in ogni anfratto, boschi, valloni, pozzi, fiumare, e da alcune stagioni estive anche in mare. Gli automobilisti sono maleducati, gli impiegati ignavi, i baristi incapaci, sporchi, neghittosi - a meno che non sia una giovane rumena, di cui non si sospetta che possa essere sfruttata, come invece normalmente è.
Si può dire: a chi mancano le ragioni per uscire depresso? Basta ascoltare la radio, coi Bossi, Berlusconi, la Borsa di Milano e il Ponte di Messina – il ponte dei miraggi, si sa che i meridionali sono anche creduloni. Ma l’intellettuale meridionale, un tempo si sarebbe detto il galantuomo al circolo, non ne ha bisogno, si basta da sé.

La “Gazzetta del Sud”, che si fa a Messina ma è il giornale della Calabria, è pieno ogni giorni di assassini, tentati assassini, malversazioni, reati di ogni genere. Poi uno compulsa l’annuario Istat della criminalità e scopre che la Calabria non è la regione peggiore, anche in termini relativi, per numero di abitanti, dai reati più gravi a quelli minori. È la percezione che è diversa.
Racconta il signor L.C., che ha scontato una lunga pena per omicidio, che nel carcere di Torino si faceva arrivare in abbonamento la “Gazzetta del Sud”, ma finì presto per non leggerla, preferendo “La Stampa” e cominciando, nel tempo restante, a compulsare i libri di storia. Non interruppe l’abbonamento perché la “Gazzetta” era divorata, “letteralmente”, da altri carcerati del “paese di Corrado Alvaro” – e con ciò intende dire abbrutiti, avendo essi invece a disposizione un così illustre compaesano con cui farsi compagnia leggendo (anche se ne professa grande stima: “Gente di una sola parola”). Ma il signor L.C, era, ed è tornato, imprenditore edile, affidabile. Il problema è: avere, oppure no, qualcosa da fare, qualcosa di utile.
È tuttavia vero che ovunque ci sono soprusi, dei vicini, dei prepotenti, che spesso sono stupidi, di giovani incredibilmente cresciuti male. Tutti soggetti alla depressione di genitori e zii, tanto più lagnosi quanto più sono inerti.

Fino a pochi anni fa Messina era la capitale della Calabria, culturale, commerciale e professionale – si andava a Messina anche per il dentista. Ora ogni città calabrese si può dire più ricca di Messina, che si è ridotta a fare da transito dall’A 3 all’A 18, ai traghetti canguro roll on-roll off. A pochi metri dall’approdo dei canguro ha un museo provinciale pieno di Antonello e Caravaggio, ma nessuno lo sa. Messina ha liquidato l’università e il commercio, riducendosi al ruolo di piccolo società di galantuomini, chiusa a Ganzirri mentre fuori imperversa il popolazzo vile e corrotto – che non c’è più, nemmeno quello, solo immigrati nordafricani spaesati, per piazza San martino e il viale dei Mille. Ha rifatto in piccolo la fuga da se stessa che ha fatto Marsiglia – ora però recuperata dopo un trentennio di abbandono. Mentre le città calabresi hanno ognuna la loro università, i centri commerciali rutilanti e, bene o male, l’ospedale.
Avviene in ogni stagione e in ogni paese, ci sono dei cicli storici. Particolarmente intensi, violenti, per le città. Siracusa, che fu abbandonata per secoli, ora è un gioiello in pieno sfolgorio. Ma l’abbandono di Siracusa era dovuto al clima e all’agricoltura povera, prima dei nuovi miracoli della Val di Noto, di Vittoria e Pachino, del nero d’Avola – a Avola quarant’anni fa si sparava impunemente sui braccianti, gli ultimi assassinati fra i tanti, oltre quattrocento, della Repubblica con le sue “forze dell’ordine”. Mentre Messina è stata abbandonata dalla sua borghesia - dalla sua “classe dirigente”. Che pensava di stare meglio chiusa in villa a Capo faro e ai laghi di Ganzirri. E il sorpasso delle ex città colonie della Calabria si fa “in discesa”, come se si perdessero passioni invece di acquisirle o moltiplicarle.

leuzzi@antiit.eu

giovedì 20 gennaio 2011

Federmeccanica attacca Marcegaglia, non i contratti

Dalla mancata sponsorizzazione del contratto in deroga per Mirafiori, per l’investimento congiunto Fiat-Chrysler, alla generalizzazione dei contratti in deroga a tutte le aziende, anche alle officine: c’è un salto logico nella posizione di Federmeccanica. Che il sindacato attribuisce alla “dialettica interna” in Confindustria, e quindi non se ne preoccupa più di tanto. Compresa la stessa Cgil, che sottolinea l’abnormità della decisione. Il peso di Fiat in Federmeccanica non ha inciso, si ritiene, più di tanto, così come non aveva spinto la federazione di settore a patrocinare la Fiat nella disputa con la Fiom-Cgil. La Cgil semmai teme il contrario, il disimpegno della Fiat da ogni politica confederale.
La dialettica interna riguarderebbe la posizione molto conservativa della Confindustria di Emma Marcegaglia in tema di flessibilità. Che non è piaciuta a molti associati. Le proteste contro il disimpegno di Confindustria nel referendum per Mirafiori sarebbe confluita all’interno soprattutto di Federmeccanica, nel comparto componentistica che si è sentito direttamente minacciato dalla consultazione e in altri settori. A meno di non poter mettere direttamente sotto accusa la presidente Marcegaglia, accusata da molti di usare la posizione per il suo futuro politico nel Grande Centro, Federmeccanica la attacca indirettamente denunciando la contrattazione di settore – che altrimenti sarebbe un harakiri.

Secondi pensieri - (61)

zeulig

Amicizia – È un percorso in parallelo. Senza bracci di fero, adescamenti, lusinghe, adulazioni, prevaricazioni, neppure pedagogiche. È un andare insieme, ognuno nel suo percorso, spalla a spalla, ritrovandosi a certe tappe, con commozione ma senza esagerare. È misura.

Amore – L’amore è guardare, dice R. Barthes (intr. A “Michelet par lui-même”, in Michelet, “L’amore”), è l’intimità corporea, non l’orgasmo. Che sembra corretto, ma è strana concezione “ottocentesca”, o residuo di secoli di claustrazione vestimentaria, se non di rifiuto del corpo.
Per Balzac “parlar d’amore è fare l’amore”. Con se stessi? È anche vero che di tutto non restano che parole e immagini.

Anarchia – Un’utopia che in tutte le forme nelle quali si realizza parzialmente (misantropia, droga, rivolta, terrorismo, managerismo) espelle disperazione. Si presenta sotto un velo idilliaco, da déjeuner sur l’herbe in riva al ruscello fra i gorgheggi dell’usignuolo, ma non ha nulla di gentile né di piacevole. Se non in chi vi è perdente – anche l’anarchia è un gioco concorrenziale, a sommatoria.
È il nichilismo di Dostoevslij, autodistruttivo.

Città – È il luogo della limitatezza (“Libro delle ore” di Rilke). La polemica antiurbana è, come la polemica antindustriale e antiborghese, che non è diatribica classista, l’oggettivazione del bisogno di utopia. È il moralismo dei classici, che passa dai repertori mitologici e le iterazioni alle domande espresse di utopia, sogno, mistero, redenzione, paradiso. Perché la razionalità borghese (industriale, urbana, civilizzatrice) per la prima volta ha escluso, esplicitamente, l’utopia.
Tutto ciò che è naturale è antiurbano (antimoderno). Bere acqua o lavarsi il corpo, prendere la pioggia e il vento, ma non solo questi accademici idrici, non potrebbero mai figurare in un film di Spielberg. La tecnica addomestica la natura, si sa. Ma la città implica di più: l’abbandono delle forme tradizionali, “naturali”, di superficie, dello spazio e del tempo. L’acqua non è più un bene, e così il sorgere e il tramonto del sole, il caldo e il freddo, la pioggia e il vento. Il futuro è ristretto alla vita urbana, senza spazio e senza tempo.
La rappresentazione del futuro ha sempre fatto a meno delle convenzioni realistiche. Ma la scelta delle semplificazioni è essa stessa indice di una condizione reale.

Filosofia tedesca – Intraducibile nel senso di sublime è la parola non chiara, misterica. La filosofia tedesca che si vuole intraducibile è una contraddizione in termini.
Gadamer vuole intraducibile l’ermeneutica, la parola, in “L’eredità dell’Europa”. Dove però l’eredità è tutta tedesca. Per la pretesa intraducibilità della filosofia tedesca?

Giustizia – Nella “Repubblica” Platone fa apparire “i neri giudici”, “la nera giustizia”.

Hobbes – Si applica per primo al problema che il Rinascimento apriva: dare spazio all’individuo dentro e sotto lo Stato, garanzie alla sfera privata. È ancora l’unica traccia aperta, tra l’assolutismo illuminista, fino a Napoleone compreso, e il liberalismo impolitico.
Il liberalismo si preciserà come non-politico (malgrado Spaventa e Croce, o l’hegelismo attaccato al liberalismo). E cioè economico: utilitaristico, privatistico, piccolo borghese. Oppure anarchico (l’utopia anarchica non è più poetica né piacevole).
Non c’è naturalmente il vuoto neppure in politica. Ma c’è politica e politica: quelle dei gruppi d’interesse, legate a interessi particolari, contingenti, e spesso distruttivi, che grado di politica è?

Lavoro – È condanna ne senso biblico-cattolico, è ornamento dell’uomo (il lavoro ben fatto) in quello biblico-calvinista. È oggi il miglior compagno e una seconda pelle: senza lavoro è l’abiezione. L’offesa peggiore, all’onore prima che alla sussistenza, è la disoccupazione.
È il limite della condizione umana nella società moderna, la necessità di un lavoro remunerato. È una forma di servitù. Il limite basso della libertà, il minimo comune denominatore, è la libertà dal bisogno. Quindi un lavoro remunerato, cioè un po’ di servitù, dal padrone o dal cliente.

Nazismo – Si possono dire Heidegger e Jünger i critici più radicali, anche se non espliciti, del nazismo. Che – per questo? – se ne faceva onorati alfieri. Per l’equivalenza che essi pongono fra tecnica e nichilismo, o annientamento della personalità, quale caratteristica del tempo. E il nazismo non è soltanto il loro tempo, ma è – essi non lo dicono ma il nazismo sì – espressione ideale della tecnica assimilata al nichilismo, o rifiuto dei valori, la tecnica idealizzata.
Il nichilismo, dice Jünger a lettere chiare, e Heidegger sottoscrive, per una volta con altrettanta chiarezza – è di bell’apparenza. Non è il caso, la malattia, il male, ma l’ordine, la salute, l’indifferenza morale: “Perfino nei luoghi nei quali il nichilismo mostra i suoi tratti più inquietanti, come nei grandi luoghi di sterminio fisico, renano sovrani la sobrietà, l’igiene, l’ordine rigoroso” (Oltre la linea”).
La tecnica in sé è neutra, non annienta. Può annientare nella strutturazione produttiva, che è di natura politica, e quindi comune a regimi sedicenti opposti, fascismo, neocapitalismo, comunismo. È vano pensare di evitare i trabocchetti della politica rifiutando la tecnica. Ma c’è un’incongruenza doppia di altra natura. Una è che due nazisti contestino radicalmente, Jünger nel 1932 (Der Arbeiter”), Heidegger nel 1939 (seminari su Jünger), la natura del nazismo, e il suo fascino, di primo regime nella storia nichilistico e tecnologico. L’altra è che il nazismo non si adonti di questa critica ma se ne faccia una forza, una morale di fumi di fucina (stirpi e genealogie, ordini e walhalla, guerra e sangue) per dare un’anima, per quanto fake, ai suoi piatti orizzonti di acciaio.
Queste incongruenze sono dietro (spiegano) alcuni dilemmi: se Heidegger è nazista, l’appropriazione da parte dl nazismo della critica radicale, da Nietzsche-Wagner in poi, il fascino del mostro-nazismo – che solo la rozzezza “occidentale” del Thomas Mann “impolitico” e “fratello” di Hitler, la democrazia dei checks and balances, del buonsenso, tiene ancora ristretto alla gabbia delle bestie.

Razza – Ha implicita una connotazione negativa – alla “vil razza dannata”, nell’Opera dei pupi anche “marrana”. Nel Rinascimento è usata negli improperi – Karl Rahner ne registra più casi in “Ignazio di Loyola e le donne”, p.630.

Religione – È sempre esoterica, anche quando è rivelata. Per molti aspetti: la prova (o testimonianza), la santità (o concordanza), la prova della santità. E il messia è sempre un profeta, si autocertifica.

I teologi si contestano fra di loro, gli ordini religiosi pure, e i vari infiniti gruppi all’interno del cristianesimo, dell’ebraismo, dell’islam e, chissà, delle altre fedi. La chiesa non c’era che già registrava, nei primi ani dell’evo cristiano, una costante, virulenta faida tra gruppi di credenti. La fede è incertezza? O è l’ancoraggio del dissenso? Le contestazioni infatti non vanno contro le gerarchie, malgrado le apparenze, ma a questioni di fede.

Utopia – La città ideale, l’armonia universale sono una cosa sola, ordine. L’utopia ideale è il sogno dell’ordine. Il comunismo lo è. Ma il fascismo pure.
Il nazismo non lo è: la sua utopia è la violenza, la “guerra bella”.

zeulig@antiit.eu

mercoledì 19 gennaio 2011

L’Asia è americanizzata

Dopo il secolo dell’interdipendenza con l’Europa, che ha fato grande l’impero americano, viene quello dell’interdipendenza con l’Asia. Le radici sono già antiche e consolidate. Fu la grande trovata di Nixon e Kissinger negli anni Settanta, la stretta associazione dell’Asia, come dell’Europa, dentro l’America, dapprima il Giappone successivamente le Tigri asiatiche e la Cina. Ciò attraverso la “semplice” svalutazione del dollaro: gli Usa governano non più attraverso la forza (missili, multinazionali, banche), ma attraverso un coinvolgimento degli interessi delle potenze asiatiche dentro gli stessi Usa.
La trovata di Nixon e Kissinger fu semplice, rapida e geniale, aprire alla Cina e convitare il Giappone (Andreotti testimonia, in un Bloc-Notes del 16\21 aprile 1989, la rubrica che allora teneva per l’“Europeo”, che nel 1973 si recò in visita a Tokyo su indicazione di Nixon): è la vera multipolarità presagita da Kissinger, il mondo dentro la pax americana, si chiami pure ora globalizzazione. Si dice che il Giappone prima e ora la Cina comprino l’America, ma è vero il contrario – si sa già del Giappone, si saprà della Cina: l’Asia lavora, esporta, investe secondo i criteri e gli orientamenti americani (liberismo, innovazione), come al modello americano adatta gli stili di vita e, a suo modo, l’informazione e i diritti. La maggiore novità dell’ultimo Novecento e di questo primo Millennio sarà stata promossa dalla politica conservatrice.

Letture - 50

letterautore

Baudelaire – Magris lo dice fulmineo “quel Dante moderno” (in “Libri di lettura”, introduzione alla raccolta di articoli “Alfabeti), “con i suoi giorni del male percorsi abbandonandosi alla vita e insieme instaurando un giudizio sulla vita”.

Biblioteca – Affascina perché evoca l’immortalità: la rincorsa della sapienza.
Senza obbligo d’uso, della polvere, del vecchio, dell’inservibile.

Dante – C’è solo in Gioacchino Volpe, che lo ricorda peraltro di passata, introducendo la riedizione anni Cinquanta di “Movimenti religiosi e sette ereticali”, ma Firenze ha il primato càtaro, nel Duecento, prima che finanziario.

Nel “Suicidio della rivoluzione” Augusto Del Noce nota che con De Sanctis si abbandonò Dante per l’apologia e il mito di Machiavelli. E conclude. “Il passaggio da Dante a Machiavelli è l’inizio della crisi o errore del Risorgimento”, l’esclusione dell’Italia religiosa (una delle varie esclusioni. un’altra è del Sud, che pure era metà dell’Italia, e un po’ di più).

Si può godere Dante come Joyce voleva, scherzando ma non del tutto, come un cronista del suo tempo. Colto e fantasioso, che riutilizza il bagaglio letterario e filosofico per dare corpo ai fatti del suo tempo, mascherandone le proprie passioni. Jacqueline Risset, che la lezione di Joyce recuperava in “Dante scrittore” (1984), ha poi fatto dell’“Inferno” in traduzione, ma anche delle altre cantiche, una stupenda occasione di lettura, un romanzone quale la cantica è, in filanti versi in francese. Dante si può leggere “correndo”. L’esperienza personale concorre, avendo studiato Dante al liceo leggendolo e "dicendolo" a voce alta, l’insegnante, reduce dalle università brasiliane (“Purtroppo non sanno un decimo di voi”), voleva tono e ritmo, oltre che una lettura quasi a memoria. Lo spregiatore massimo di Dante, lo scrittore espressionista austro-tedesco Albert Ehrenstein, che trovava la “Commedia” opera scolastica, noiosa, sadica, la riconosceva di “poeta musicale”.
Jacqueline Risset fa da questo punto di vista la lettura più importante dal tempo di Boccaccio, restituendo nella sua traduzione, se non accentuando, il rimo che “fa” Dante: lo fa pulsare in ogni fibra in ogni momento, anche quando l’argomento ce ne allontanerebbe, o la sua personale visione, troppo politica, troppo mistica, troppo vendicativa. Se ne legge la poesia quasi a corto di fiato, ma piacevolmente, senza soffocare. Il revival ne è la riprova: Dante “detto” da Benigni, dopo Sermonti (che ne ha fatto oggetto per più anni di seguitissime tournées nella principali città), riprende quello che è forse il suo segreto, il ritmo. Più delle metafore ingegnose, dei versi sublimi o canonici, e dell’erudizione sconcertante.
Le lecturae Dantis, linguistica, filosofica, politica religiosa, mistica, etc., sono un utile, piacevole, esercizio anche oggi che si va di fretta, se uno le affronta a mente sgombra. Lo sgombero è però impossibile per gli addetti ai lavori, la cui craftmanship si misura in linee di sottigliezza. Boccaccio, il primo grande lettore professionale di Dante, la pensava evidentemente in modo diverso e gli è andata bene, ma forse perché era Boccaccio. L’impresa è più difficile per un traduttore.

Defunti – L’enorme quantità di parole sui defunti, che si scrivono per i vent’anni, i cinquanta, i cento dalla morte, o alla scadenza dei diritti e quindi alla ripubblicazione, senza più spesso che ci sia nulla da dire, nulla di nuovo. E non è nemmeno business. C’è una tradizione italica del lutto, (solo) morto è buono.

Don Giovanni – Come la filosofia, ne ha mille e una (le donne come le idee), e nessuna perfetta. Corteggia le dame come la filosofia la verità. Il dongiovannismo intellettuale – è materia – anche – di Natalie Clifford Barney, “Aventures de lì esprit”, 22.

Italiano – L’italiano moderno è Piero Gobetti, perché scrive chiaro, in una prosa non datata. A cu fa corrispondere progetti e mentalità non futuristiche né passatistiche (non radicalmente romantiche né “machiavelliche”), ma in grado di lavorare con i tempi, e un ruolo intellettuale razionale, di chi capisce e sa spiegare, e per questo indirizzare.
Il problema dell’italiano è che ha raggiunto il top all’inizio, dell’espressività, della varietà di lessico, dell’abbondanza grammaticale e semantica, con Dante, e da allora è un continuo rotolare in basso, in convulsioni, ghigni, prosopopee, deliri. Se è vero che la prosa viene dopo la poesia, l’italiano si deve ancora inventare. Oppure Dante è una grande prosa che non si può imitare.
Manzoni è l’italiano del Risorgimento, equivoco quindi: apparentemente non romantico, apparentemente anti-retorico, e inviluppato in forme sintattiche circonvolute, forte sintomo di disagio (disonestà?) intellettuale. Suoi più costanti e convinti estimatori sono altri personaggi apparentemente non romantici etc., tra i quali i siciliani Gaetano Mosca e, nella sua seconda fase, Leonardo Sciascia.
Gobetti disturba però l’Italia dei moderni: nessuno lo ricorda, nessuno scrive come lui.

Il fenomeno delle due lingue “parallele”, latino e volgare, e poi col Cinquecento, dominazione e riserbo, lingua ufficiale (letteraria, politica, religiosa) e lingua bassa. Una per scrivere, e parlare importante, cioè per non impegnarsi, l’altra per parlare.
L’avanguardia, o rottura del linguaggio, è fenomeno ricorrente in questa divisione. Nell’ambito della quale accentua l’artificio, non dà senso al linguaggio: Arcadia, Questione della lingua, Scapigliatura, Futurismo, Gruppo 63. La poesia del Novecento lo attesta in abbondanza, in continuazione. È in questo senso, dell’artificiosità, che la lingua evolve in continuazione, malgrado la sostanziale stabilità del paese negli ultimi secoli, non più invaso né distrutto (l’occupazione tedesca del ’44 è per questo ricordo più feroce). Ma si produce la bizzarria dell’italiano, illeggibile di generazione in generazione.
Rabelais è parte del maincurrent, a differenza di Folengo, Ruzante, Aretino, etc., e si può leggere oggi come nel Quattrocento, senza speciali supporti lessicali o grammaticali. Ancora più accentuata è la continuità del linguaggio nella letteratura spagnola e in quella inglese. Uno studente straniero d’inglese può leggere Shakespeare, uno studente d’italiano non può leggere Ariosto.
Da qui l’altro limite: in queste lingue è stato possibile il romanzo, scrittura piana, e al suo interno i vari generi, dignitosi e con un pubblico, e un mestiere delle lettere. Mentre in italiano è stato olo possibile il genere alto, lirico-epico (che scende fino all’elzeviro) e niente più. È stato possibile fino a un paio di decenni fa, ora il mercato detta nuove condizioni e sembra aprirsi ai generi, ma la lingua non segue, non si modella, s’impone, e anzi s’impoverisce.
Una situazione simile all’italiano soffre l’inafferrabile tedesco. Inevitabile quindi la considerazione che i due difetti siano da imputare alle divisioni politiche. Dove non c’è stato un centro unificatore e propulsore – una capitale, una corte, un asse politico e culturale di riferimento, non per lunghi secoli – la lingua ne ha sofferto. Ma il tedesco semmai ha un limite, non due: se la pluralità dei generi langue, la lingua è sempre quella di Lutero.
Può essere l’incapacità di ironia – esprit de finesse – la causa di questa instabilità? O ne è l’effetto?

Leopardi - È capitato, può capitare, di visitare Recanati un giorno di festa, con raduno di motocross. Se ne esce afflitti, ma scoprendo che il solingo borgo natìo straziato dai rumori non è una stonatura. La vita materiale del contino, dalle malattie ai tropi gelati e ai cattivi amici bruciava allora come oggi le infernali marmitte.

Il “contemporaneo” che non amava è “l’uomo romantico” che lui era. Ma è poeta filosofo, non idilliaco, da supererudito che vive tra i libri. La Silvia che non si trova, se non in congetture fantasiose, è solo un topos.

Traduzione – È un “problema romantico”, di due secoli e non più: Ferruccio Amoroso, intr. A H.Heine, “Ultime poesie” (e “Il Mondo”, 26 marzo 1963).

Nel “Don Chisciotte” Cervantes la vuole come “il rovescio di un arazzo”. È sempre creativa. Interpretativa cioè, non automatica: del testo, della lingua del testo, e di una propria scrittura – il proprio uso della propria lingua.

L’intraducibilità è mancanza di chiarezza. La traduzione è quindi chiarimento del linguaggio? Sì, all’origine, e se vuole essere buona, ne deve essere una efficace lettura, se non la più vera. Ma non necessariamente. La musica non si deve tradurre, la parola si deve tradurre: la musica cammina da sola, la parola solo se veicolata. Intraducibile nel senso di sublime è la parola non chiara, misterica. Che può essere poetica ma non filosofica o narrativa, come non può essere discorsiva.

letterautore@antiit.eu

Il mondo com'è - 53

astolfo

Afghanistan – Gli Usa dopo l’Urss sconfitti da alcune tribù sguaiate, animate da una fede unica, l’islam. Si possono fare delle graduatorie: l’organizzazione sconfitta dalla disorganizzazione, l’ideologia meno forte della religione? Ci sono anche casi inversi. È che le guerre tutti possono vincerle, e tutti possono perderle, purché non si tratti di una guerra nazionale. La guerra senza fine di Israele ne è un altro caso.

America Latina – La politica come espressione collettiva della follia. Gli indios hanno mediato dai creoli, orfani dei loro re, anzi figli spesso ribelli, la nostalgia della patria, e tutti insieme vivono la politica come retorica. La retorica della patria è l’ideologia dei crudeli governanti e dei loro non meno crudeli oppositori. La povertà, o la ricchezza, il bisogno, la giustizia? Prima viene la retorica, che ha un bagaglio di violenza, o di stupidità.

Arabi – Gli arabi (non l’islam, oggi militante, dopo il khomeinismo) si risente per sentirsi vedovo dell’Occidente, che in parte ha generato e allevato, seppure sempre sul campo di battaglia, dall’Egira. Le oscillazioni politiche del dopoguerra sono una reazione all’imperialismo, un adattamento ai due blocchi, e una reazione al colonialismo israeliano. Ma, con tutti i loro limiti, dipovertà tuttavia e non di barbarie, gli arabi si integrano nell’Occidente: la stessa concezione della libertà, la stessa solidarietà tribale, il rapporto riservato con la donna, la nostalgia della solitudine e dell’individualità.
La cultura araba si è formata su quella occidentale, e l’ha arricchita con la poesia della lontananza, dei grandi spazi, della nostalgia, e più in generale della poesia lirica e anomica – non realista. L’Occidente si è formato attingendo al moralismo orientale della patristica, e a se stesso filtrato dalla cultura araba: la filosofia, la poesia, il decoro del potere e la spesa suntuaria, la diatribica politica – d alla precettistica del principe ala dottrina dello Stato, rinate nel secolo X a Damasco e Bagdad su derivazione persiana, da cui la commistione nel revival della res publica con Machiavelli.

Comunismo – La cultura comunista è processuale, volendo essere rigida (etica): poliziesca, inquisitoriale. È un continuo riesame delle carte di credito. E statica, cioè ferma, all’Autorità di un Qualcuno. Perché presuppone di avere un codice di riferimento preciso e perfetto.
È un’attitudine psicologica? Ereditata da una qualche cultura? Attraversa come vizio Marx, epigono dello hegelismo, dei sistemi di verità. Ma diventa una tecnica del potere, e quella dominante, con Stalin. Di cui malgrado tutto non si libera: comunista è sempre essere serio, cioè triste. Contro il calcio, contro la moda, contro lo scherzo e lo sberleffo. Borghese (il “dromedario moralista” degli scout)? Ma se caratteristica unica dell’uomo è il riso, questo comunista che uomo è? È un errore.
Alcuni vivono il comunismo come una speranza, altri come un’ipocrisia – gli intellettuali che non sono totalmente ipocriti. Togliatti lo sapeva: non ha scritto di teoria dopo il rientro, e ha lavorato a un grande e forte partito di opposizione, di idee e iniziativa. Lo sapeva perché è stato a lungo a Mosca? I suoi successori fanno figura di ingenui perché non hanno vissuto a Mosca? Togliatti non avrebbe mai pensato, tantomeno lo avrebbe detto, che il partito è “un popolo diverso” (Berlinguer, Calvino): è il cardine del familismo piccolo borghese, cioè fascista, e comunque che senso ha in politica?
A parte il comunismo, i comunisti hanno sempre avuto molto di buono. L’incomprensibile avvitamento nell’odio nasce dall’utopia dell’uguaglianza, che in sé non è male, e comprta comunque una sensibilità, perlomeno riflessiva. Ma hanno una colpa grave: l’anticomunismo. Anzi due: c’è anche l’impossibilità di dirsi anticomunisti.

Corruzione – È un segno di potere. Dunque più diffuso, decentrato, è il potere, più la corruzione si diffonde. Nelle società consolidate, gerarchiche, la corruzione è ovviamente dominio di chi detiene il potere. Ma quella minuta, diffusa, “socializzata” come vuole la sociologia dell’Italia, è tipicamente democratica.
Già il cartiglio di Ambrogio Lorenzetti, sulla parete del “Mal governo” a Siena, lo spiega. “Fuor si robba e dentro delle porte”.

Crociate – Nell’arte della guerra contemporanea sarebbero un pre-emptive strike, un attacco preventivo.

Equilibrio – La teoria dell’equilibrio (Congresso di Vienna. Kissinger) è in astratto la teoria della democrazia internazionale: nessun soggetto può prendere la supremazia, i meno forti vanno protetti, i diritti pure, civili e umani, eccetera. Ma è conservatrice: tutto il nuovo è per essa sovversivo. E può essere imperialista. Per esempio la guerra fredda, che si è fatta a danno dell’Europa, e che l’Europa ha perduto. O la decolonizzazione, col paradosso dell’apertura delle colonie all’influenza di tutti.

Masse – È la realtà fantastica? È per questo che le masse sono niente. Secondo Marx, “La Sacra famiglia”, cap. IV. Lo hegelismo critico, dice, è ragionamento, coerenza interna, logica e verbale: “Tutto ciò che è reale, vivente, è non critico, di massa, e perciò «niente»”. E: “La critica come formule… è e rimane una vecchia donna, l’avvizzita e vedova filosofia hegeliana, che imbelletta e ritocca il suo corpo rinsecchito fino alla più ripugnante astrazione”. Solo le creature ideali, fantastiche, della critica critica sono “tutto”?

Mitteleuropa - Magris la dice (Itaca e oltre”, p.152 ) “una comune vocazione cosmopolita e universalistica, un’intelligenza analitica, spregiudicata e demistificatrice ma anche fraternamente comprensiva”. E: “Una grandezza vissuta nella fine, o anzi quale fine, nell’alone di un prolungato tramonto al quale, pur rimanendone affascinati, non ci si rassegna a credere e al quale non si può perdonare di essere un tramonto”. Che è la stessa cosa: è un discorso retrospettivo, l’invenzione di una tradizione. Anche contemporanea, ma sempre retrospettiva, in forma di nostalgia: il presente non è mai stato “mitteleuropeo” fra italiani, tirolesi, sloveni, croati, e magiari, rumeni, slavi tra di loro. E non lo è tuttora, in Istria, nel Banato (il disprezzo di Herta Müller è sempre vivo per i rumeni), in Transilvania.

Oriente – La violenza – l’estrema concorrenzialità – del “Tao tö king”. Non c’è in questo Oriente il senso del dovere né il limite. Non c’è la società. Anche il santo (il saggio) è manipolato secondo criteri di furbizia, cioè di asocialità. Non c’è in Oriente la società: una sensibilità sociale, una cultura storica-popolare, di massa, la sociologia, la democrazia. C’è la sottomissione.
All’Autorità si dà manto religioso, di interprete e mediatrice presso l’Onnipotente, ma questo senso religioso, la profondità, la saggezza, ci sono davvero in Oriente? Se tutto è astuzia e accorgimento.
La tecnica è il modo di essere della cultura orientale, la craftmanship. Non della società, ma dei chierici e dei filosofi: dalla religione all’eros la riflessione è tutta sul “come”. L’Oriente è materialista. L’Oriente metafisico è invenzione (reazione) anti-Occidente. Dapprima degli orientalisti, a partire da Francesco Saverio.

Usa – Mancando la memoria storica, la parola è tutto: quello che è detto è vero, chi mente si cancella. E il numero – gli Statistical States di Adorno.
Una società informale ma molto formale, di principi, e di pregiudizi: l’osmosi sociale facendosi per dichiarazione (petizione), ognuno si tiene aggrappato alle sue. È il solo modo di identificarsi, non è una posa, e per questo è determinato.

astolfo@antiit.eu

martedì 18 gennaio 2011

Abbasso i negri: chi non lavora non mangi

È un testo dei “Latter Day Pamphlets” (1853) ma più apocalittico degli altri, mai pubblicato in evidenza, mai tradotto, di critica radicale all’uguaglianza e all’abolizione della schiavitù – già in corso peraltro, nelle Antille britanniche cui Carlyle si riferisce, dal 1807, da oltre quarant'anni quindi, e in tutto l'impero britannico dal 1838. Più violento ancora nel titolo inglese, “Occasional Discourse on the Nigger Question”, dove lo storico e filosofo scozzese volle peggiorare pure l’aggettivazione, sostituendo il “negro” della prima redazione nel 1849 col più spregiativo “nigger”. Da parte di un fautore del suffragio allargato, storico simpatetico della Rivoluzione francese, traduttore e corrispondente di Goethe, amico di John Stuart Mill, ammirato da Ralph Waldo Emerson, altro grande liberale.
Il curatore di questa traduzione cita Herbert Spencer, secondo il quale Carlyle era umorale: “Secretava ogni giorno una certa quantità d’imprecazioni e gli bisognava trovare qualcosa o qualcuno su cui riversarle”. Ma anche il ragionamento a tratti è intollerabile. Era l'anno dopo il Quarantotto, la “primavera dei popoli”, una sorta di “sorpasso democratico” sull'ordinato svolgimento della storia, che Carlyle aveva accolto con furiosa stizza. Il momento storico insomma è particolare. Ma la critica alla uguaglianza Carlyle spinge al dileggio, in particolare per gli africani, che vuole servi per così dire costituzionali: “Servi di quelli che sono nati più intelligenti di voi,che sono i vostri signori di nascita, servi dei Bianchi, se questi ultimi sono nati (e chi potrebbe dubitarne?) più intelligenti di voi”. Lo stesso Thierry Gilleboeuf, che ripropone il pamphlet in francese, ne è imbarazzato: ne fa una curiosità storica, tradotto per una sorta di completezza dell’informazione su Carlyle.
Il lettore italiano vi trova invece più cose. Anzitutto le radici della Lega di Bossi, antimeridionali, antistranieri, che poi sono una: l’indignazione (“l'indignazione”, annota Gilleboeuf citando Dario Fo, che “è l'arma dei coglioni”). Il “negro” è sfaticato, fa troppi figli, è ubriacone, non cura il lavoro né ha ambizioni – non produce. Curiosamente, J.S.Mill non si occupa nella risposta di argomentare contro questi pregiudizi, si limita a difendere l’abolizione della schiavitù in quanto “riduce” le sofferenze di grandi masse di persone. Il problema vero, dice J.S.Mill, ma questo è anche il rovello di Carlyle, è il lavoro. È il tema più interessante del libello. Il lavoro per il mercato, che sia cioè remunerabile e riproducibile. Il lavoro deve avere un costo-retribuzione, ma cosa deve dare in cambio? È il problema della produttività.
J.S.Mill ha risposto nel 1850 alla prima pubblicazione del pamphlet con una lunga critica, “The Negro Question”, specialmente acerba sulla questione dell'uguaglianza - ma senza togliere l’amicizia a Carlyle. Sia Carlyle sia il suo amico J.S.Mill hanno parole dure su che cosa è “necessario” produrre. Ma Carlyle ne parla anche da economista e, a parte le intemperanze, viene utile ancora oggi. L’abolizione della schiavitù nelle Antille britanniche, mentre vige ancora in quelle francesi, a Cuba e in Brasile, mette fuori produzione chi lavora sotto la legge britannica. Attualizzando: è il problema delle garanzie etiche e normative al lavoro in Europa e negli Usa che non vigono invece nel resto del mondo. L’abolizione della schiavitù senza correttivi ha prodotto nelle Antille britanniche carenza di manodopera, che va colmata con nuova immigrazione dall’India, retribuita, ma poco e male, in un sistema produttivo che s’impoverisce, pieno di sottoccupati e inoccupati (Carlyle cita qui l’Ignavia di Dante, degli “oziosi” che si accontentano di “mangiare le loro zucche”). Attualizzando: è il mercato del lavoro diviso e non unico, tra quello garantito, che può anche non produrre, non per il suo costo, e al limite può accontentarsi della sopravvivenza, anche se mette a rischio l’intero sistema produttivo, e il lavoro precario (occasionale, in nero, immigrato).
Dietro i sarcasmi razzisti Carlyle appare a suo modo coinvolto: è qui che conia l’epiteto di “scienza triste” per l’economia (ma dismal è di più, è tetra, sconsolante). Non è, dice, la “gaya scienza” dei trovatori – altro eco che ritornerà con Nietzsche.
Thomas Carlyle, Discours de circostance sur la question noire, Mille-et-une-nuits, pp.119, € 3,85

Mastro Dumas, fine antropologo in Calabria

Novelletta storica e antropologica, forse di maniera, ma tutta centrata. Dal Mastro del titolo al frate, a Babilana, alla figlia, al brigante padre e al brigante figlio, agli sbirri (“ammazzagesù”). Soprattutto nella feroce ironia, di grande perspicacia etnografica. Che è ribellione allo stato esistenziale prima che a quello sociale. Ironia di alcuni personaggi, e infine delle situazioni.
Dumas è fine antropologo. Rapido, cioè intuitivo, anzi fulmineo. Ma, poi, cos’altro è l’antropologia se non “afferrare” la realtà, dietro le apparenze?
Alexandre Dumas, Mastro Adamo, il Calabrese

Il primo romanzo (segreto) gay

Edizione incredibilmente datata, pur essendo del 1989 – veramente il Muro è caduto. Peraltro di una falsa redazione del racconto: il vero “Olivier ou le Secret” è stato pubblicato solo tre anni fa da Marie-Bénédicte Diethelm, nella collezione francese Folio di Gallimard. Questa è dunque la contraffazione di Henri de Latouche. Che non è pseudonimo di Mme de Duras, come si lascia intendere (la duchessa sconfessò con un inconsueto comunicato la pubblicazione), ma un letterato minore, amico di molti letterati maggiori e direttore dal 1830 del “Figaro”, col gusto delle impertinenze contro i confratelli. E la duchessa de Duras era all’epoca una delle letterate più famose, anche se più per il suo salotto che per le opere, poche e inedite.
Il racconto è presentato come cosuccia “settecentesca”, di quelle che si reggono per le annotazioni della curatela. In questa edizione Sellerio svolta da Daria Galateria, con ruoli brillanti a parte, le sorelle Mancini, Caylus, Madame, la Reggenza. E, sempre in questa edizione, per il risvolto ricavato dalle “Lezioni su Stendhal” di Tomasi di Lampedusa. Che ricorda lo “scandaletto” grazie al quale “il romanzo ebbe grande voga”. Lo comprò anche Stendhal, spiega il principe, che in dodici giorni lo riscrisse, intitolandolo “Olivier”, dal nome del protagonista del “Segreto” – titolo poi cambiato dall’editore in “Armance”, mentre il nome del protagonista diventa Octave.
È invece qualcosa di più. È il racconto sul matrimonio che non s’ha da fare per l’impotenza di lui, che sarebbe l’omosessualità. Il primo di un congruo filone. D’impianto si direbbe postmoderno: una storia che crea il mistero invece di scioglierlo. Con tecnica appropriata: attorno a un grumo che è un buco si creano torno torno figure, enigmi, aneddoti, passioni, delitti, timori, senza svelare alla fine l’arcano. A opera di una scrittrice molto colta, versata in latino, italiano e inglese, apprezzata dai contemporanei per l’esprit. Stendhal ebbe per Mme de Duras costante ammirazione. “I romanzi di Mme de Duras sono costellati di osservazioni che, per la finezza, non disonorerebbero La Bruyère”, scrisse alla morte della duchessa nel 1827 sul “New Monthly Magazine”. Di “Olivier o il segreto” sapeva da tempo, ben prima della contraffazione, e ne scrisse nel 1824 nelle sue cronache “Parigi-Londra” a più riprese – la duchessa aveva letto il racconto a Chateaubriabnd e altri frequentatori del suo salotto.
In chiave di pettegolezzo, manca a questa edizione l’aneddoto più piccante: Olivier è Astolphe de Custine. Il futuro autore di “Viaggio in Russia”, che per molti aspetti è l’equivalente del “Viaggio in America” di Tocqueville, doveva sposare Clara, figlia di Mme de Duras, ma tre giorni prima delle nozze siritirò. Si assoggetterà infine a uno dei matrimoni preparati dalla madre, la bella, colta, intelligente, vigorosa Delphine, la Delphine dell’omonimo romanzo di Mme de Staël, sua grande amica, amante di Chateaubriand. Ne avrà anche, dopo i giusti mesi, un figlio. Ma proprio mentre festeggiava a Londra con l’amante, Édouard de Sainte-Barbe. Qualche mese dopo si farà trovare a Parigi con un soldato, i cui commilitoni lo maltrattarono ed esposero al pubblico ludibrio (Heine lo dirà “un mezzo-uomo di lettere”). È il novembre 1824: Latouche lavora veloce e tredici mesi più tardi pubblica il suo “Secreto”.
Madame de Duras, Il segreto

domenica 16 gennaio 2011

Se non è golpismo

Ilde Boccassini, il vero Procuratore Capo di Milano, è il Killer Perfetto: puntuale, preciso, pulito. Sarà persona sensibile, con se stessa, in famiglia, con gli amici, in strada, alle Poste, come tutti. Ma esercita il suo compito nell’ordine che Milano stabilisce. Non esercita la giustizia, che Milano fa inorridire, ma lo spettacolo della giustizia: la Sme (che scandalo questo, da ergastolo), Mills (indagare gli avvocati degli imputati si faceva contro il Soccorso Rosso), la moglie di Vespa, col povero giudice Misiani, e ora le minorenni. Non ci libera di Berlusconi, come probabilmente potrebbe con un atto d’accusa vero: uno che paga le ragazze settemila euro per cenare con lui e ascoltarlo cantare non ha tutte le rotelle a posto. Ma lo tiene sotto scacco. Perché quest’uomo per una serie di circostanze dovrebbe governarci e potrebbe farlo con largo margine, mentre così non può. E nessun altro può. E questo è un golpe. Anche se “la stabilità politica è un bene” è saggezza residua di Ruini, che rappresenta se stesso, ed è pure cardinale e forse non vota.
Da un lato la società delle Ruby – o anche solo di Lele Mora e Emilio Fede, bastano gli amici. Dall’altro una ragazza che viene fermata per caso, pur non essendo una folle né una ricercata, dalla Polizia, una volta a Genova con la “busta” di Milano, e una volta a Milano, qui su denuncia di una prostituta. Con brigadieri che scrivono e riscrivono, a distanza di mesi, cose che si ricordano dopo avere parlato con i Procuratori. Un ludibrio, anche se Milano ci ha abituati al peggio. Ora non c’è nemmeno da immaginare lo scenario, si sa già cosa succederà, lo schema è collaudato. Ogni giorno ci sarà una rivelazione, per molti giorni e mesi. Quattordici ragazze, o quindici, a settemila euro a sera avranno ora molte deposizioni, interviste, indiscrezioni, rivelazioni, paroline magiche da fare. Un ludibrio, di Berlusconi forse, della legge certamente: indagare qualcuno senza un indizio di reato è un crimine, così come mandargli un avviso di comparizione di quattrocento cartelle, che possano leggere tutti i parlamentari, e quindi sia possibile passare, con indicazioni di lettura, ai giornalisti. Mentre in questi mesi, non è da dubitare, Unicredit farà i suoi saldi (che altro, dopo aver fregato quattro miliardi vendendosi a 2,40 euro?), Pirelli i suoi (che altro, dopo Pirelli RE?), o i Moratti (l’unica società petrolifera che non fa guadagnare gli azionisti è la loro). E l’infinita serie di “operatori” minori: a Milano si ruba liberamente, miliardi, ogni giorno. Col record mondiale del consumo di droghe, pro capite e in assoluto, senza che mai la Procura abbia trovato un solo spacciatore, neppure extracomunitario. E gli affitti di favore, a politici e potenti, delle banche e del Pio Albergo Trivulzio, perché tutto si tiene. Mentre va avanti impunito il ricatto dell’Eni – vogliono la Consob a Milano per poterla controllare meglio. E si persegue l’ideale, il sogno, il miracolo: la caduta dell’euro, di cui l’Italia è lo scudo. Le gnocche di Berlusconi si penseranno corrottisime in proprio, ma sono solo le majorettes di questa marcia.
Milano è golpista, lo è sempre stata, con Bava Beccaris, Mussolini, le stragi di Stato, o il terrorismo impunito, e le false accuse a Berlusconi nel 1994 sul giornale locale per invalidare il voto. Nel poco spazio che le lasciano, naturalmente, Emilio Fede e la ‘ndrangheta - la corruzione a Milano si copre sempre con un capro espiatorio forestiero, Virgillito e non Felicino Riva, Sindona e non Cefis, Tanzi e non Bazoli, e se ci sono banche colpevoli nel crac Parmalat sono americane, Ligresti a più riprese, Cuccia, che però fu più “milanese” di loro, ma ora è scaduta a un certo Oppedisano. Del moralismo, che chiama giustizia, facendosi scudo per poter rubare impunemente, al resto d’Italia e agli stessi milanesi, col suo “lavorerio” (Carlo Borromeo) che è ladrocinio – i migliori scappano, a tutte le epoche, l’ultimo fu Craxi. Per non dire del gusto: il Principessa Clotilde con le modelle prima da affogare nella coca, ora le veline postribolari per le serate a comparsa della ditta la ditta Corona-Mora – che si vorrebbero anche culattoni.
Nel 1992 Milano ha scaricato Craxi, che pretendeva di governare, e ci ha imposto Bossi, Berlusconi e Di Pietro. Ora ha affinato la tecnica: fare i processi prima dei processi, per tenere la politica costantemente sotto pressione, per farne ludibrio – magari portandola a Di Pietro e al suo Grillo. Altrimenti, condannato Berlusconi, sarebbe come dopo Craxi: i giudici di Milano dovrebbero occuparsi anche un po’ dei delitti, la corruzione in primo luogo, per la faccia degli altri italiani.
P.S. Questo sito scriveva due mesi fa: “Cronache da brividi dalle inchieste contro Berlusconi. In data recente, quando il dottor Forno già si lavorava Ruby, la ragazza va da Genova a Segrate, condotta da un autista di cui si tace il nome, all’ingresso delle aziende berlusconiane ritira una busta da un personaggio anonimo, e al ritorno a Genova viene per caso fermata da una pattuglia di Ps, per essersi allontanata senza permesso dalla casa d’accoglienza in cui è confinata. La stessa pattuglia sa, sempre per caso, che la ragazza ha una busta con denaro. Ruby “Rubacuori” morirà presto? È l’unico tassello che manca a una trama scontata”.
P.S. - Una glossa si impone: un Procuratore della Repubblica non può essere un killer, evidentemente. Ma è anche evidente che il Procuratore della Repubblica è, nell’ordinamento italiano, un giudice. Il cui compito sarebbe di accertare la verità, ma col potere di assolvere o condannare, insindacabile. Un killer se, come purtropo è la prassi a Milano, si vuole legibus solutus. Per non dire di chi imbastisce tranelli, trascura l’evidenza, diffonde la calunnia, monta i testimoni, specie quelli che il diritto ha sempre considerato tarati, e usa l’impunità per sferrare colpi proibiti. È pure vero che il giudice Boccassini lavora de vent’anni esclusivamente a eliminare Berlusconi – senza riuscirci, ma questo è un altro fatto (è solo incapacità?).

Sì, pochi – per la Fiat fuori dall'Italia?

Il mercato punta sulla Fiat, ma non necessariamente sulla Fiat a Torino. Che anzi potrebbe essere abbandonata entro l’anno, prima dell’annunciato investimento con Chrysler. La piazza scommette che lunedì alla ripresa delle contrattazioni la Fiat sarà premiata, ma non per l’esito del referendum, considerato deludente. O meglio sì: ma per l’esito del referendum come ultimo passo prima dell’abbandono di Mirafiori, e chissà dell’Italia, verso luoghi di produzione più convenienti, a parità di qualità.
La previsione origina dalla mancata partecipazione della famiglia Agnelli e dello stesso Marchionne alla campagna per il sì, se non in funzione antagonista: “Votate come volete, non ci interessa”. Lasciando al solo sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, l’onere di spiegare che l’accordo è in linea con gli altri accordi europei, risponde al sindacalismo europeo aggiornato, e garantisce la retribuzione insieme col lavoro – ai dipendenti della Fiat e alle innumerevoli aziende del comparto che lavorano in Italia per la Fiat. Di fronte al quale i deboli argomenti della Fiom hanno fatto la parte del leone, sui media e al voto. Rilanciando e non azzittendo il partito del no, che ora vorrà riaprire la trattativa – “riaprire la trattativa” è lo spauracchio di ogni management.
Nel referendum, insomma, la Fiat avrebbe agito come se non fosse realmente interessata al sì ma piuttosto al no. L’Italia, si dice, è in questa nuova fase mondiale sono un mercato, anche se consistente, da mezzo milione di unità vendute l’anno. Che sarebbe però più conveniente produrre altrove – ormai la qualità del lavoro nelle produzioni meccaniche è a livelli competitivi ovunque. Già oggi Fiat-Chrysler è un gruppo più americano che italiano, insomma multinazionale - italiano quanto basta per mantenere la quota di mercato, dimezzata in pochi anni ma ancora superiore a un quarto.
Nel referendum la Fiat avrebbe sperimentato anche l’isolamento di fatto dell’azienda in Italia. All’interno della Confindustria e nel mondo politico (ha avuto il sostegno del governo, ma la Fiat degli Elkann è da tempo in radicale opposizione a Berlusconi).

La Germania di Frau Merkel fa l’Europa da sola

Lo ha detto agli spagnoli, lo ha fatto capire con chiarezza a Berlusconi: ormai c’è un solo leader in Europa, ed è la Germania. La cancelliera Angela Merkel lo ha detto spiegando che la Germania contrasterà ogni tentativo di minare l’euro o, peggio, di disintegrarlo. Senza però prendere impegni istituzionali: a suo giudizio, della Germania.
Frau Merkel non lo ha detto così brutalmente, ma è quello che Zapatero e Berlusconi hanno capito. La cancelliera ha anche addolcito il messaggio, nello stile “doroteo” della vecchia politica europea, lamentando di non potere impegnare il suo governo in assetti istituzionali per venire incontro ai dubbi e superare le resistenze della sua opinione pubblica.
L’impressione dei suoi ultimi interlocutori è che Angela Merkel parli ora da vero cancelliere della Germania. Ritenendo probabilmente la sua statura politica ormai consolidata nel governo di centro-destra con i liberali, dopo il cancellierato di centro-sinistra con i socialisti, e quindi da vera leader, e non più da mediatrice in situazioni incerte. Soprattutto avrebbe pesato nella sua autostima l’esito positivo delle politiche sociali e di bilancio, dal salvataggio Opel alla nuova contrattazione, con la riduzione sensibile della disoccupazione, pur in una situazione di crisi mondiale. Dapprima col rilancio delle esportazioni, ora anche della crescita interna. Nel mentre che si chiarisce il rapporto, non più alla pari, con la Francia.
Formalmente l’asse con Parigi è sempre al centro della politica europea della Germania. Ma, stabilizzati i rapporti con la Russia, dopo il crollo del Muro, Parigi ha perduto ogni leverage sulla Germania. Mentre la Germania ha accresciuto il suo con l’unificazione, un’economia da ottanta milioni di persone contro una di sessanta.

La Resistenza fu più grande in Germania

Questa vicenda romanzata da Fallada Primo Levi disse “il libro più importante che sia mai stato scritto sulla resistenza tedesca al nazismo”. Era anche il primo. E per molti aspetti fu l’ultimo fino a epoca recente. Levi è sempre veritiero con la Germania, nel bene e nel tanto male, ma è uno dei pochi a parlare di resistenza in Germania. Nemmeno la Germania ne parla, non molto.
Questo voluminoso romanzo di Hans Fallada, finito nel 1946, poche settimane prima della morte dell’autore e della pubblicazione a Berlino Est, che pure precede la saga che la resistenza avrà in Francia e in Italia, è scritto praticamente su commissione della nascente Repubblica Democratica. E la resistenza inquadra e celebra, anche nel titolo, come opera individuale, a volte maldestra, di poche persone, di scarsa qualità. Non per caso: è l’opinione che lo scrittore Rudolf Ditzen, “Hans Fallada” (il romanzo è in questa edizione corredato da una gustosissima biocritica dello studioso australiano Geoff Wilkes), espone nel contemporaneo “Sulla resistenza”, un saggio pubblicato sul mensile “Aufbau” già a novembre del 1945 (anch’esso riprodotto in quest'ottimo volume): è una resistenza morale più che politica. È una vera azione di resistenza che Anna e Otto Quangel, controfigure di Elise e Otto Hampel, denunciati e giustiziati nel 1943, si applicano, più degli attentati avventurosi negli Appennini e le Prealpi, più spesso a opera di ragazzi sbandati, e in questo il romanzo li segue, facendosi leggere con passione. Ma di una resistenza individuale, a tratti familiare, che non incide il corpaccione tedesco.
La Resistenza in Germania fu costante, diffusa e forte, più che in ogni altro paese europea. Il primo lager si apriva qualche giorno dopo il cancellierato di Hitler, e alla fine non bastarono cento a contenerli tutti: prima della Soluzione Finale i lager furono per dieci anni pieni di tedeschi, liberali, socialisti, comunisti, cattolici, cristiani, molti tedeschi sono morti contro Hitler, più che in qualsiasi altro movimento europeo di resistenza. Ma non si celebra. E costituisce un problema storico: che dimensioni e ragioni avesse, e perché non si celebra, non c’è in Germania una festa della liberazione. Sempre la Germania è eccessiva nella compiacenza e nel rifiuto, anche se inabile, stupida all’apparenza politicamente.
La resistenza fu diffusa: quanti complotti non hanno tentato i prussiani, i generali, i banchieri, i servizi segreti, la povera gente di Hans Fallada. Ma, è questo il suo primo limite, soprattutto fu aristocratica. Anche quando fu cattolica, socialista o comunista: Circolo di Kreisau, Circolo Solf, Rosa Bianca, Orchestra Rossa. La collera di Hitler fu feroce dopo l’attentato del 20 luglio 1944: settemila arresti e 5.684 esecuzioni, di ufficiali e gentiluomini. Più o meno i numeri del Terrore Rosso nel 1918, dopo l’attentato a Lenin, che registrò 6.185 fucilati, quattromila ostaggi e ventunmila carcerati. Se non che la reazione spaventò lo stesso Lenin, il quale la prima cosa che disse quando riprese conoscenza fu: “Fermate il Terrore”. Mentre Hitler i suoi li volle impiccati con corde di piano, lacci di cuoio, canaponi di mare, filmati da centinaia di troupes, a ganci da macellaio o ai pali della luce.
Fu anche popolare la resistenza contro Hitler, e vasta. Si vogliono i tedeschi obbedienti, ma molti si opponevano. Perfino tra i soldati. E tra gli artisti: qualcuno preferì emigrare, ripartire da zero. Stefan George, il poeta reazionario, scappò a morire a Minusio di Locarno, per evitare l’onta del funerale nazista. Ma, e questo è un altro problema storico, la Germania non ama gli esiliati, né gli oppositori in armi - se non sono völkisch, nazionali, contro un nemico esterno. Una parte fu socialcomunista, il che è anatema ancora oggi nella Repubblica Federale, una parte cattolica, e questo non si può dire in nessun posto. Quella del cardinale di Sant’Anastasia, l’arcivescovo di Monaco Michael von Faulhaber, quarto dei sette figli d’un fornaio e una contadina, malgrado la particella, amico del futuro papa Pacelli quand’era nunzio a Monaco, autore nel ‘34 del libro della tolleranza Judentum, Christentum, Germanentum, fu costante e professa fin dal ’23, dal putsch fallito nella birreria. Quando in Baviera si dispose la rimozione del Crocefisso a scuola la protesta fu tale che il decreto fu lasciato cadere.
Resistette pure la chiesa evangelica, che pure nella Germania alimenterà il dubbio sui benefici della democrazia: la Chiesa Confessante dei pastori luterani ebbe martiri Bonhöffer e Franz Kaufmann, di origini ebraiche. Franz, allevato nella chiesa evangelica, creò con Helene Jacobs uno dei circoli più attivi di resistenza al nazismo e in aiuto degli ebrei, con passaporti falsi e corridoi verso la Svizzera, che gli valse una denuncia per la sparizione di un’ebrea, il solito processo e l’esecuzione il 17 febbraio 1944 nel lager di Sachsenhausen. Resistette pure Heidegger, che nel 1934 disse: “La cattiva essenza falsifica la vera direzione e la muta in seduzione”, per una volta senza sottigliezze, “la Führung trasforma in Verführung” - la cattiva essenza è la mala erba.
I cento lager non bastarono, Hitler dovette moltiplicare le esecuzioni. A un certo punto il Plötzensee, il carcere presso Berlino dove sono state eseguite un quarto delle 16.560 condanne a morte accertate nel dodicennio nazista, fu attrezzato per esecuzioni simultanee, otto alla volta per impiccagione. Più tecniche sperimentali diverse: la ghigliottina piacque a Hitler che la sostituì all’ascia. Il record fu stabilito la notte del 7 agosto 1944, sempre a Plötzensee, con trecento ghigliottinati. Tutti i prigionieri che il carcere conteneva, per il timore che scappassero dopo il bombardamento del 3 agosto.
Rudolf von Scheliha, giustiziato nella retata dell’Orchestra Rossa a fine ‘42, era uscito con varie onorificenze da Verdun nel ‘17 ed era entrato dopo la guerra nel gruppo combattente Saxo-Borussia, in difesa dell’Alta Slesia. In diplomazia a venticinque anni nel ’22, aveva servito a Praga, in Turchia e in Polonia, dapprima console a Katowice, quindi all’ambasciata a Varsavia. Era stato dal ‘33 anche membro attivo del partito Nazista, benché contrario all’antisemitismo. Allo scoppio della guerra, richiamato a Berlino alla Propaganda del ministero degli Esteri, fece filtrare all’estero informazioni su quella che sarebbe stata la Soluzione Finale, e agevolò la fuga di ebrei e polacchi, in contatto col vescovo di Berlino von Preysing, che nel ‘38 aveva creato un’Organizzazione di sostegno per i cattolici non “ariani”, e anche per i non battezzati. Corroborati i sospetti sui lager da quanto vide in missione in Olanda nel maggio ‘40, von Scheliha uscì dall’opposizione solitaria e aderì al gruppo di Henning von Tresckow. Il colonnello von Tresckow, uno dei tanti ufficiali superiori ostili a Hitler, sarà scoperto e giustiziato dopo l’attentato del ‘44.
Contro Konrad Graf von Preysing-Lichtenegg-Moos, invece, anch’egli parte della congiura del ‘44, vescovo di Berlino, Hitler non osò. Il conte Konrad, quarto degli undici figli di Kaspar von Preysing e della contessa Hedwig von Walterkirchen, aveva avuto tardi la vocazione, a ventott’anni, dopo una formazione giuridica. Meno di vent’anni dopo, nel fatidico ‘33, era già vescovo di Berlino, benché critico dell’antisemitismo e l’eugenetica, alla morte del nazionalista Christian Schreiber, che aveva retto la diocesi per tre anni. Animatore del Circolo di Konnersreuth, un gruppo di resistenza della prima ora, il conte vescovo non si scoraggiò quando Hitler fece uccidere nel ‘34 Erich Klausener, che dirigeva l’Azione Cattolica di Berlino, e Fritz Gerlich, che l’aiutava a redigere la rivista Der gerade Weg, la retta via, e mise personalmente in salvo in Svizzera l’altro redattore, Ingbert Naab. Al culmine della potenza nazista ispirò l’enciclica "Mit brennender Sorge", con profonda preoccupazione, con cui Pio XI condannò nel marzo ‘37 le violazioni ripetute del Concordato, e ne curò la stesura e la diffusione clandestina in Germania.
Oltre che di Hitler, il vescovo di Berlino s’era assunta la funzione di oppositore esplicito del cardinale decano Adolf Bertram, che passò dalla netta opposizione al nazismo al silenzio, e infine, a guerra perduta, all’elogio personale a Hitler. Prima del 1933 il cardinale Bertram aveva più volte dichiarato il nazismo “eretico”, a motivo delle sue teorie razziali e nazionalistiche, e in materia di religione. In particolare era stato intransigente alla Conferenza episcopale di Fulda nel ‘32, quando proibì ai cattolici l’iscrizione al partito Nazista, col sostegno di Faulhaber e dei vescovi di Fulda, Johannes Dietz, di Münster, Clemens August Graf von Galen, un altro conte, di Colonia, di Paderbon. Hitler si vendicò accusando i preti di scandali finanziari e sessuali, e carcerando i giovani dell’Azione Cattolica, ma non osò attaccare i vescovi. Dopo la guerra von Preysing fu nominato cardinale, vescovo a Roma di Sant’Agata dei Goti.
Nella storia italiana se ne farebbero monumenti. Ma la colpa collettiva, una forma facile di creazione del Nemico, è stranamente cara ai tedeschi. Ancora oggi, a democrazia infine accettata, non hanno cuore di ricordare quei morti, che poi sarebbe un giorno di ferie pagato. La Repubblica Federale non si dà neppure una festa nazionale, un 20 luglio, una liberazione qualsiasi. E le pensioni ai nazisti liquida più rapida che alle vedove dei caduti per la Resistenza.
Non si celebra la Resistenza forse per pudore, dunque. O per l’idea, non inconscia, che non c’è colpa se c’era una giustificazione. E per il rifiuto della politica, sia pure “buona”. La Repubblica federale non può ammettere l’esistenza dei comunisti, mentre i socialisti preferiscono tacere. Con l’effetto, non casuale, di non obliterare Hitler, padre sempre ingombrante – mentre Mussolini, che fu (quasi) tutti gli italiani, si cancella agevolmente. È che la resistenza in Germania è senza copertura politica. E anche questo è un problema storico: perché, nel quadro del Komintern, la Germania non fu un nemico. Uno vero, non di propaganda, contro il quale organizzare le forze comuniste, con i rifugiati e i perseguitati. Per il comune antisemitismo? Per i vecchi legami del Pcus con lo Stato maggiore tedesco, costanti fino al 1942?
Più studiata è la debolezza della resistenza nella politica del dopoguerra, per la divisione e lo scontro tra le due Germanie. Che ora è trascurato, ma per quarant’anni fu l’ossessione della Repubblica Federale, di Adenauer come dello stesso Brandt,e una minaccia non dissimulata.
Il curioso è che nemmeno la Repubblica Democratica celebrava la resistenza. E questo porta forse all’origine del problema storico: la sindrome della “pugnalata alla schiena”. C’è una resistenza che piace, quella di Schlageter nel primo dopoguerra, contro i polacchi nella Slesia e contro i francesi nella Ruhr. Mentre è socialista ed ebreo il “colpo alla schiena” nel ‘18, ebreo e socialista il “complotto” che tenne la Germania in miseria per i quindici anni successivi. Il che forse non era vero, anzi senz’altro non lo è, ma tutti lo credevano, compresi i socialisti e gli ebrei. Anche se la “giustificazione” fu contestata all’epoca, con vivacità, con chiarezza, da non socialisti e non ebrei. L’impero germanico non è durato cinquant’anni, e la sua sconfitta, nel 1918, venne a furor di popolo imputata al tradimento. Di questo e di quello, di chi alla fine in realtà non si è accertato, e nemmeno cercato, ma il fatto è dato per certo. La conseguenza è che non ci devono essere tedeschi che lavorano contro il paese in guerra, per la pace per esempio, o contro il genocidio degli ebrei. Hitler non fu sempre in guerra, non in senso proprio, ma evidentemente lo era – e in alcune guerre vere e proprie, l’Anschluss, i Sudeti, la Slesia fino a Danzica e alla Prussia Orientale, evidentemente con ragione.
Oppure è la concezione del diritto, che in Germania è diversa - bisogna pensarci: non occidentale, non romana. Fallada fu impente alcolista con la prima moglie, morfinomane con la seconda, e sempre nazista, non pentito, eccetto gli ultimi tre anni, vissuti a Berlino Est da comunista. Morì nel 1947 lasciando 35 scatoloni e duemila lettere inedite. A un centro di Berlino Est che scoraggiò ogni studioso o semplice curioso. Sabine Lange, che fu per quindici anni la principale archivista del lascito di Fallada, e ne ha rivelato compromissioni e omissioni in “Fallada – Fall ad Acta”? il brutto archiviato?, è stata denunziata per questo in tribunale nel 2008 a Amburgo, in quanto pregiudizievole alla reputazione dello scrittore, e della Repubblica Democratica!
Hans Fallada, Ognuno muore solo, Sellerio, pp. 745 €16

Problemi di base - 47

spock

“Kafka”, dice Magris, “Itaca e oltre”, “capisce, su un piano infinitamente più alto, ciò che aveva già capito Chesterston”: a quanti piani più alti? infinitamente?

Proust non è “Proust”, Borges non è “Borges”: ma chi sono “Proust” e “Borges” se non sono Proust e Borges?

Perché non ci dicono più cosa dice l’“Economist” dell’Italia (critica i giudici)?

Perché Berlusconi lasciava tutte quelle fighe intonse?

E se Berlusconi fosse impotente?

Ma Berlusconi esiste? E cosa fa?

Andando di conserva, si va in scatola? Ci sono scatole con le ruote?

E andare di buona lena, di bel nuovo, si fa per menare il can per l’aia, ciurlare nel manico, levare le castagne dal fuoco (operazione gradevolissima), o la patata bollente (idem), prendere due piccioni con una fava, sbarcare il lunario? Questo sarà – con le pive nel sacco?

spock@antiit.eu

Ombre - 74

Michele Ainis, giuspubblicista, illustra sul “Sole” un suo libro in uscita sulla Corte Costituzionale. Che è, quella in carica, il nec plus ultra dell’imparzialità, assicura. Fa i casi degli altri paesi di nostra comune cultura, Germania, Francia, Inghilterra, Spagna, Austria, Belgio, Svizzera, Usa, dove la Corte è sempre correlata al voto politico. E dice che non bisogna copiare, noi siamo i migliori. Perché, dice la Corte italiana è espressa per un terzo dalle “magistrature superiori”. Cioè dalle sole consorterie fasciste residue nella Repubblica. E per un terzo dal presidente della Repubblica. Cioè, quella in carica, da Scalfaro, presidente di nessuna lealtà costituzionale.

Dice anche una cosa interessante, Ainis: che a questa Corte semifascista erano contrari, nella Costituente, Nenni e Togliatti. Perché è così: perché adesso questa Corte bastona Berlusconi (dopo aver salvato le fondazioni bancarie per i vescovi, aumentato d’autorità lo stipendio ai carabinieri, e altre finezze del genere), ma domani?

A Enna, a Caltagirone, i siciliani si mobilitano spontaneamente, per nessun interesse particolare, per bocciare all’unanimità, a migliaia, l’appoggio del Pd a Lombardo. Se la Sicilia anticipa la politica italiana, è l’inizio della dissoluzione del Pd? Bersani, che voleva anticipare la politica siciliana col sostegno al centro della destra, il cosiddetto Grande Centro, avrà avuto un effetto boomerang. Imprevedibile?

Dopo gli Stati Uniti e Israele, anche la Grecia vuole il suo muro. La Grecia socialista di Papandreu. Lo vuole per ben duecento chilometri, quant’è lunga la frontiera con Turchia. Tutti immemori della Grande Muraglia. Dopo aver “prosperato”, l’Europa, l’Occidente, sull’odio del muro di Berlino. La memoria è corta, ma questo Occidente è proprio stupido – non è marcio, non è a fine impero, ma giusto perché è colmo di bombe atomiche.

Gli eventi costringono “la Repubblica” e il “Corriere della sera” il giorno dopo la Befana a un’impaginazione impressionante. A destra un caso di spionaggio industriale alla Renault spiega che l’auto francese è tutta puntata sull’innovazione, con oltre duemila nuovi brevetti nel 2010, e un investimento per la sola auto elettrica di cinque miliardi di euro fino a fine 2010. A sinistra il premier cinese designato Li Keqiang firma accordi per investimenti tedeschi per cinque miliardi di euro, quelli di Volkswagen e Mercedes centrati sulle tecnologie. Al centro, l’Italia domina la cronaca con la sfida di Landini alla Fiat.

Giogio Fedel, lo scienziato politico studioso del “linguaggio” di Berlusconi, ha accesso venerdì 7 al “Corriere della sera” per spiegare la demonizzazione del personaggio. Ne dà tre o quattro spiegazioni, ma trascura di dire la demonizzazione politica, di parte, minoritaria, e straccamente ripetitiva, giacché Berlusconi vince le elezioni - forse più italiani, e italiane, preferiscono un politico galante a uno che nega il sesso. Dimenticando quello che aveva scritto solo pochi mesi fa, nel pieno della stagione delle puttane d’opposizione, su altro giornale è vero: “Come dice Popper, il giorno della votazione è effettivamente il giorno del giudizio”. Il “Corriere” è meglio di una messa?

I giornali e periodici dell’economia fanno a gare a fine anno a offrire promettenti annuari: “Dove investire nel 2011”, “Come investire”, “Le migliori occasioni del 2011”. Di nessuna utilità, come ogni lettore può constatare – sono sterminati elenchi di fondi di ogni tipo, per la sola vanità dei gestori e per il loro budget pubblicitario. Dopo avere però speso cinque o dieci euro. L’economia degli affari, cioè dello sfruttamento, infetta anche la sua informazione.

Un fotografo diffonde una sua foto di Berlusconi con un’asta dei pantaloni impigliata contro il calzino. E trova chi gliela compra: i maggiori giornali. Una foto stile vecchio “Borghese” il settimanale neofascista. Ecco che cos’è il giornalismo oggi.
Berlusconi è fortunato che non si mette le dita nel naso. Nemmeno si gratta il sedere. E non mangia in pubblico – ma non avrà la dentiera?.

Fra i trenta manager che nel 2009 sono stati pagati più di due milioni di euro figurano due che hanno fatto praticamente fallire la loro società Pirelli Re (ceduta a poco prezzo), anzi figurano ai primi due posti: Carlo Puri Negri e Paolo De Conto. Al terzo posto viene uno che non ha fatto nulla, Montezemolo, presidente Fiat di rappresentanza. Al 26mo il presidente della Juventus Jean-Claude Blanc, nell’anno più disastroso della Vecchia Signora – che non compra calciatori per risparmiare… Doppia morale?