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sabato 18 febbraio 2012

Mani Pulite nuda alla festa

Il volume, ricostruzioni della scena d’allora e commenti d’epoca delle migliori penne, si vuole celebrativo, ma finisce per ampliare i dubbi sul significato storico (politico) di Mani Pulite. Sia negli effetti. Sul diritto: Ainis dice Mani Pulite “una sagra”, con abuso, della leva penale, “tanto da sommergerci con 35 mila fattispecie di reato”, mentre gli avvocati sono descritti colpevolmente impegnati a far confessare qualcosa ai clienti, per la benevolenza dei giudici. Su Milano: Aldo Bonomi si smarrisce su Milano allora e oggi, col giustizialismo, i capestri, Bossi e tutto, a meno che non se ne senta gravato. Sia sui presupposti. In particolare, qui, sulla funzione della stampa accanto a quella già controversa dei giudici.
Goffredo Buccini, che dei giudici non nasconde niente, si dice testimone di “grida di giubilo in sala stampa quando arrivò la notizia che a Craxi era stato consegnato il primo avviso di reato”. Ma di suo, avendo procacciato al giornale l’anteprima del famoso avviso di reato, poi finito nel nulla, che fece cadere il primo governo Berlusconi nell’ottobre del 1994, assicura che non dirà mai la sua fonte: non gli viene il sospetto che sia stato strumentalizzato (il suo giornale lo è stato fin dai tempi di piazza Fontana)? Mentre il colpevolista Ferrarella produce una statistica di cui non sembra valutare la gravità: che solo due su cinque perseguiti risultò colpevole (e ancora: non dice che molti, la metà?, di quei due, condannati in una qualche stazione penale, furono alla fine assolti).
C’è anche integrale la lettera che Moroni inviò a Napolitano, in qualità di presidente della Camera, senza risposta, prima del suicidio, nella quale si dice vittima di un “processo “sommario e violento”, e di una “decimazione” – come le facevano gli hitleriani. Mancano i pronunciamentos dei giudici, ma quelli non li difendono nemmeno i giudici, qualcuno anzi comincia a pentirsi.
1992-2012 Mani Pulite. L’inchiesta che ha cambiato l’Italia. Le parole, Corriere della sera, pp. 264 € 9,90

Il mondo com'è - 84

astolfo

Francia-Germania – L’asse franco-tedesco fu teorizzato da molti intellettuali, specie tedeschi, negli anni 1930. Tra essi Karl Epting e Otto Abetz, che governeranno Parigi nei quattro anni dell’Occupazione tedesca., rispettivamente alla politica culturale e all’ambasciata. Anche da parte francese, furono molti gli scrittori che – un po’ più tardi dei tedeschi – ci credettero: Drieu La Rochelle, Paul Morand e il diplomatico poeta, futuro Nobel, Saint John Perse.

Europa – Fu europea, negli anni della vittoria tedesca e dell’Occupazione di mezza Europa, tra il 1940 e il 1944, l’etichetta, se non il marchio, del nazismo. Era “Francia Europea” la Francia occupata, o l’Olanda, o il Belgio. “Circoli Europei”, di intellettuali di varia specializzazione, furono costituiti in tutte le capitali. Goebbels organizzò a Weimar, il 16-24 ottobre 1941, una Unione degli scrittori europei, con partecipazioni qualificate. Un fatto poco studiato se non in Francia (un breve testo di sei pagine di Maria Clotilde Angelini, “1942. Note in margine al convegno degli scrittori europei a Weimar” è l’unica traccia italiana, in aggiunta alle poche note di Giaime Pintor contenute in “Il sangue d’Europa”, la raccolta pubblicata nel 1950), per una partecipazione di cui i tedeschi si ritennero soddisfatti: Morand e Arland si defilarono, ma Jouhandeau, Drieu, Brasillach, Chardonne, Fernandez padre e Bonnard si fecero tutt’e tre le settimane di vacanza pagata. Col contorno d’importanti artisti, Vlaminck, Derain, Van Dongen, Friesz, Belmondo, Despiau, con Honegger e altri musicisti. Degli italiani preannunciati, tra essi Bacchelli, Bontempelli, Cecchi, Govoni e Papini, a quel primo congresso intervennero solo i germanisti Acito e Farinelli. Il congresso offrì la vicepresidenza a Bacchelli, che rifiutò - qualche mese dopo, ad aprile del 1942, la carica fu offerta a Papini che la brigava. L’anno successivo la delegazione italiana fu la più qualificata. Alcuni invitati anche questa volta si defilarono: Montale (per “malattia”), Alvaro, Tecchi. Disertò pure il vice-presidente Papini, forse già pentito (un anno dopo si farà terziario francescano, in espiazione delle illusioni?). Ma la presenza fu di qualità: Giaime Pintor, giovanissimo germanista, ancora Farinelli, Baldini, Cecchi, Falqui (che poi dirà il congresso “una riunione di cretini”) e Vittorini. François Dufay, “Le voyage d’automne”, ha raccontato e spiegato per esteso nel 2000 la partecipazione francese al congresso del 1941. Mauro Mazza, il direttore di Rai uno, ne ha fatto materia di un romanzo, “L’albero del mondo. Weimar ottobre 1942”, in cui immagina, dice il risvolto, che Pintor e Vittorini “scoprano” il nazismo.

Nazionalcomunismo – Non studiato, ma fu un fenomeno costante nei maggiori paesi europei tra le due guerre. Di scarso rilievo politico perché non allineato con Mosca, l’una delle due forze dominanti in Europa in quei venti anni. Ma di richiamo costante, per la “forza” del totalitarismo. Il richiamo totalitario si può dire indistinto e quasi universale in ambiente nazionalistico, di destra ma anche di sinistra. Da ultimo nelle formazioni nazimaoiste degli anni 1960-1970. Un bolscevismo nazionalista fu l’ideale di molti terroristi dei Freikorp in Germania dopo la sconfitta del 1918. Dapprima all’Est, in Slesia, e poi all’Ovest, quando la Francia occupò la Ruhr. È il tema de “I proscritti”, il romanzone-memoriale di Ernst von Salomon del 1930, che il giovanissimo Giaime Pintor, alle sue prime prove editoriali a vent’anni, volle tradotto da Einaudi nel 1940. Ben prima del patto Stalin-Hitler, una solida dottrina, da Bruno Bauer a Lenin, sostenne che il bolscevismo poteva farsi rivoluzione mondiale solo se la Russia si metteva con la Germania. Karl Radek la rivendicò nel 1923 per il Pdk, il partito Comunista tedesco, in un famoso discorso su Schlageter, il terrorista nazionalista che era già un’icona del nascente partito di Hitler. Heinz Neumann, beniamino di Stalin, quando fu segretario del Pdk, ne fece il fulcro della sua politica, invano contrastato da Ruth Fischer e Werner Scholem. In una con strani personaggi: Georg Strasser, poi finito SA, le formazioni paramilitari naziste, il tenente Scheringer, in carcere per nazismo e ivi convertito al comunismo, il capitano Beppo Römer, l’eroe Freikorp dell’assalto alla fortezza di Annaberg nell’Alta Slesia, Bruno von Salomon, il fratello maggiore di Ernst, che dirigeva il movimento dei contadini Landvolk, il nazi-comunista Niekisch, Reventlow, il generale von Seeckt, che trattò segretamente col maresciallo Tuchačewskij e l’Armata Rossa il riarmo segreto della Germania, e perfino, agli inizi della sua carriera politica, Goebbels. Fino a che Hitler non andò al potere. Per S talin del resto a lungo fuori dell’Urss ci fu un solo partito Comunista, in Germania. Werner Scholem, il fratello maggiore di Gerschom, che Neumann aveva espulso dal Partito nel ‘26, finirà nel ‘33 a Buchenwald, fino alla morte nel ‘40. Radek celebrò Schlageter all’esecutivo dell’Internazionale comunista il 20 giugno 1923: “Durante il discorso della compagna Zetkin ero ossessionato dal nome di Schlageter e dal suo tragico destino. Egli molte cose ha da insegnarci, a noi e al popolo tedesco. Non siamo dei romantici sentimentali che dimenticano l’odio di fronte a un cadavere, e neppure dei diplomatici. Schlageter, il valoroso soldato della controrivoluzione, merita da parte nostra, soldati della rivoluzione, un omaggio sincero. Noi faremo di tutto perché uomini come Schlageter, pronti a donare la loro vita per una causa comune, non diventino dei Pellegrini del Nulla”. 

Totalitarismo – L’Europa fu per essere fascista, con un paio di eccezioni, alla vigilia della guerra. E fu per essere comunista dopo la guerra, non fosse stato per l’atomica americana, e la guerra di Churchill in Grecia, e ancora fascista, nella penisola iberica, in Grecia, in Turchia. In regime di guerra fredda cioè, e quindi malgrado la presenza nel mondo e in Europa degli Usa, sicura democrazia, la deterrenza influendo negativamente sui processi politici, se non nel senso dell’accettazione delle soluzioni imposte. Ma si può dire il totalitarismo in Europa popolare – più popolare che non – nel Novecento. È una popolarità che deriva indirettamente dalle debolezze della democrazia: l’inconsistenza del voto e dell’opinione, la scarsa capacità di governo. Ma più deve all’attrattiva dell’efficienza di cui si fa bandiera: del decisionismo, si direbbe oggi, o del problem solving. È quello che Aragon, lo scrittore francese che si è voluto capofila della Resistenza, celebrava prima della guerra con odi a Stalin, alla Cekà, la polizia politica, e allo sterminio dei kulaki. Il patto Hitler-Stalin non fu solo tattico. Indelebile era fino a qualche anno fa in molti il ricordo di quando, dopo la spartizione della Polonia, i giovani Alicata e Lombardo-Radice spiegarono nelle cellule che i dittatori non erano male, il nemico è il capitalismo. Il giovane Berlinguer e il giovane Rauti del resto manifestavano assieme a Roma negli anni 1950, coi loro gruppi, la Fgci e il futuro Ordine Nero. Non fosse stato per gli eccessi, di brutalità, di “troppa efficacia” (far coincidere subito ciò che è con ciò che dev’essere), il totalitarismo sarebbe stato il regime politico dell’Europa nel Novecento.

venerdì 17 febbraio 2012

Era europea anche la Germania di Hitler

Il ricorso è sbagliato, oltre che ingiusto. Ma è vero quel tanto che fa capire cos’è l’Europa oggi, la Germania oggi, e l’Italia in questo ambito, che è cambiato radicalmente negli ultimi venti anni: fu “europea” l’Occupazione nazista di metà continente dal 1940 al 1944, in Francia specialmente, Belgio, Olanda, Danimarca, Norvegia, oltre ai territori delo spazio vitale germanico a Sud e a Est. E la Germania ha solo perso la guerra. La guerra con gli ebrei, per il momento, quella con gli Alleati l’ha poi vinta, nel 1946 e nel 1989.
La Germania, oggi come allora, non compone la sua politica in Europa ma la impone. Non con le bombe naturalmente – giusto l’America fa oggi guerre di questo tipo, peraltro remote. E oggi come allora si fa forte di tanti yes men ai bordi dell’impero, l’Olanda al solito per prima, e la Finlandia di non cancellate epopee. Ora come allora impone politiche suicide. Non l’eliminazione degli ebrei naturalmente, ma politiche che in nessun modo consente di contestare: oggi come allora ha la stessa righteousness, seppure oggi assurda e quasi ridicola.
L’asse franco-tedesco era anche allora il perno della politica di Hitler, e dei suoi uomini a Parigi, Abetz, Epting,Stülpnagel. Si creavano circoli europei. Si organizzavano Unioni europee – anche degli scrittori: per un anno ne fu vice-presidente Papini. E si abbondava in premi prestigiosi, accoglienze lussuose, lauree ad honorem.
La Germania oggi non è quella renana di vent’anni fa, l’Europa non è quella di vent’anni fa. Tutti lo sanno ma nessuno ne trae le conseguenze, l’unanimità è corriva come negli anni gloriosi della vittoria di Hitler. La Germania non ha liberalizzato nulla – sembra incredibile ma è così – ma l’ex commissario al libero mercato Monti non ha fatto, non fa, e non dice nulla. Monti sa che la politica monetaria di Angela Merkel è sbagliata, radicalmente sbagliata, glielo ha detto? Monti sa che il governo Merkel, e la cancelliera in persona, hanno umiliato la Grecia. Per esempio obbligandola a comprarsi mille panzer Leopard e due costosissimi sottomarini Thyssen Krupp (dovevano essere quattro…) di cui non ha bisogno e che non voleva. Ma, non diversamente dai Quisling di un tempo, lavora a non disturbare il manovratore.
Draghi sa che la Germania ha monopolizzato le risorse della Banca centrale europea per due anni, 2009 e 2010, per evitare il fallimento delle sue banche, e poi ne ha impedito l’utilizzo agli altri paesi, l’Italia per prima. Cosa fa Draghi, che non lo dice nemmeno – l’abbiamo saputo dai sarcasmi di Deutsche Bank e dell’Ifo di Monaco lo scorso ottobre? Monti sa, lo sanno tutti in Germania, “Handelsblatt”, il “Sole 24 Ore” tedesco, ci ha fatto delle copertine, ad agosto e a settembre, che il debito pubblico tedesco è del 50 per cento almeno superiore a quello dichiarato, ma non lo dice. Oggi come allora la Germania può barare impunita. Mai tanto cinismo nell’Occupazione, peraltro, quanto oggi tra i banchieri centrali tedeschi vicini alla cancelliera, Weber, Stark e Weidmann, compreso uno stretto collaboratore di Monti a Bruxelles nel 2003, Lars-Hendrik Röller, oggi consigliere economico di Angela Merkel, e tra i ministri del suo governo. Mai nessun uomo politico della provinciale supponente Germania, neppure i gerarchi di Hitler, ha potuto tanto blaterare come oggi del mondo che non conosce, non irriso e anzi onorato.

Declassare gli Stati per arricchire le banche

I declassamenti degli Stati si succedono senza che i mercati ne tengano conto. Non è irrazionale, è solo nella logica: i declassamenti, come i riclassamenti, servono ad arricchire i “mercati”, cioè le istituzioni finanziarie private (fondi, hedge, etc,) e le banche. Le agenzie di rating non sono dei tribunali, e non sono enti di servizio pubblico: sono aziende, al servizio degli operatori dei mercati finanziari, che sono i loro clienti.
I declassamenti si succedono ora a raffica per consentire alle banche e ai fondi extraprofitti proprio nella prospettiva di non fallimento, se non di cessazione del rischio, dei debiti pubblici presi di mira. Attraverso il trading, e con l’aumento automatico degli interessi sui debiti in essere. Di tutti i debiti in essere, pubblici e privati. Degli Stati ma anche delle regioni, le province, i comuni, le asl e ogni altro ente pubblico. E dei privati: dei muti a tasso variabile e del credito, per consumi o investimenti.
L’analogo avviene con lo spread folle: il suo andamento è solo una questione di bilanciamento per un maggior profitto complessivo degli operatori finanziari. È così che il declassamento dell’Italia un mese fa è andato di pari passo con la riduzione dello spread sui titoli tedeschi: il guadagno atteso dagli operatori sui mercati è trasferito per ora dal trading agli interessi passivi che il sistema Italia deve pagare.

Nel lutto l’amore è impossibile per Barthes

Roland Barthes ha tenuto una sorta di diario della pena nei due anni successivi alla morte della madre il 25 ottobre 1977, la cui lunga agonia personalmente ha accudito per sei mesi. Frammentario, su 330 foglietti, molti dei quali ha pubblicato via via in testa ai lavori che metteva a punto negli stessi mesi, fertilissimi. Un carnet Proust minimalista, che anche lui girava attorno alla mamma, al ricordo un  po’ recriminatorio della mamma: una “Ricerca” non svolta, o volutamente frammentaria, all’uso degli anni 1970. Ma anche un’autoflagellazione, al modo di un altro scrittore come lui amabile, Borges, che ebbe lo stesso rapporto con la madre, colpevolizzante, intensificato dopo la morte.
Il lettore di Barthes aveva già avvertito la presenza materna nell’autobiografia intellettuale compilata dallo scrittore nel 1974, “Barthes di Roland Barthes”. In questa compilazione postuma, di foglietti confusi e ordinati al modo del semiologo, sempre attento all’“organizzazione”, al suo personale modo di produzione, fogli A 4 divisi per quattro, un tenero ritratto emerge di una sofferenza, ancorché controllata. È un caso “pratico” di elaborazione del lutto, imparare a convivere con i morti. Una pratica in uso ancora di recente anche nei segni esteriori, ricorda Barthes, con il lutto “portato” nell’abbigliamento, per un anno, o due a seconda della relazione di parentela.
Lo scrittore cerca riferimenti nelle letture. Trova una “raccomandazione di leggerezza nel lutto” ovviamente in Proust, “tra il narratore e la nonna”. Ma inciampa nelle cose minime, il dolore come “punto più bruciante al punto più astratto” – intende dire irrilevante: la commessa in pasticceria che porge il pacchettino con un “ecco qua”, lo stessa interlocuzione dall’autore impiegata porgendo un ultimo pacchettino alla madre morente, un suono uguale al “sono qua” con cui ci sono tenuti compagnia tutta la vita. E la constatazione: “Ormai e per sempre sono io stesso la mia propria madre”. Con la quale ha vissuto sessant’anni –la madre muore di ottantaquattro anni, vedova di guerra con due bambini da quando ne aveva ventitré, dopo essersi sposata a vent’anni. Scoprendo poi, forse, la reciprocità dell’amore: “Per mesi sono stato sua madre. È come se avessi perduto mia figlia”.
La madre sarà protagonista di un progetto di “Vita Nova” nella primavera del 1979. Quando tutto ha già preso a derivare alla consolazione della filosofia - per Barthes alla semiologia: alla “metonimia esaustiva (panica) del Lutto, dell’Abbandono”. La conclusione provvisoria è che “per il lutto interiorizzato non ci sono segni”. Che non è possibile. Anzi, il lutto “è il compimento dell’interiorità assoluta”. Altra impossibilità. Mentre “tutte le società sagge, tuttavia, hanno prescritto e codificato l’esteriorizzazione del lutto”, questo è innegabile.
A Casablanca, dove il “divisamento” (éblouissement) del progetto di “Vita Nova” è intervenuto nella primavera del 1978, dopo un primo tentativo di spaesamento fallito in Tunisia, il “ritorno” andò male in ogni circostanza, la presenza della morta è costante. Barthes si sente, sì, “liberato dalla «paura» (dell’asservimento) che è all’origine di tante meschinerie”, dall’asservimento-paura della sessualità. Ma la constatazione è a cannocchiale rovesciato, che restringe invece di allargare e spiegare. E infatti lui stesso avverte che si chiude invece di aprirsi, continuando a “preferirsi” , nell’“«aridità del cuore» - l’acedia”. Peggio, più chiaramente, malgrado la costante riserva: “Non riesco a investire amorosamente in un essere”, se non nella madre morta. In una sessualità acculata al “Desiderio infantile”, continuano nel lutto “i flirts, gli amorazzi, …i «ti amo»” di un giorno, un’ora. La madre è il corpo della madre. Il 29 luglio 1978, a conclusione della stagione marocchina, rivedendo il film (mediocre) di Hitchcock “Il peccato di Lady Considine” (“Under Capricorn”) del 1949, che riporta al 1946 per connetterlo a altri ricordi, Barthes scopre in Ingrid Bergman il corpo della madre amata.
Roland Barthes, Dove lei non è, Einaudi, pp. 260 € 18

giovedì 16 febbraio 2012

Monti, lecchinaggio e brutte notizie

Osanna di “Repubblica” a Passera e Monti per il disegno di portare la Rai sotto il controllo del governo. Una “riforma”, dice il giornale giubilante. Ma non è una controriforma?
Si celebra l’incremento delle entrate fiscali nel 2011 come se fosse una novità, se non l’avvento dell’arcangelo Monti. Mentre è (purtroppo) un effetto dello scudo fiscale: è così che con un’economia stagnante, e redditi in calo, da lavoro o da ricchezza, le entrate fiscali sono aumentate negli ultimi due anni, nel 2011 dell’1,5 per cento – l’incremento è stato semmai maggiore prima di Monti, dell’1,6 per cento nei primi nove mesi del 2011.
“La notizia del mancato sviluppo non ci porta a prevedere un’ulteriore azione sul debito nel senso del consolidamento”. Monti può illustrare così a Strasburgo, con una triplice negazione, la notizia del “mancato sviluppo”, cioè la rilevazione Istat della recessione. Mostrandosi peraltro disturbato dalla “notizia”: possibile che solo lui, un economista, non sapesse della recessione, e aspettasse l’Istat? “Un’ulteriore azione sul debito nel senso del consolidamento” vuol dire altre tasse, il consolidamento del debito pubblico sulle famiglie.
Ci sono da un paio di mesi centomila disoccupati in più ogni mese, ma non se ne parla. C’è un’aria malsana attorno al governo Monti, di trionfalismo attorno alla sfiducia e all’ansia che il professore alimenta, e alle sue disattenzioni. Con quegli omaggi alla “stupidità” germanica ribaditi ogni paio di giorni, a Parigi, a Bruxelles, a Washington, a Strasburgo, a Roma, che ci porterà allo sfacelo, e lui meglio di ogni altro lo sa: la recessione, con centinaia di migliaia di posti di lavoro da tagliare, il no all’Olimpiade, la sofferenza innecessaria di diecine di milioni di pensionati e pensionandi. Senza mai un cenno alla “cupola” finanziaria che governa l’Italia e il mondo, con la leva tedesca. Senza mai un cenno di riflessione nei giornali, nemmeno una battuta di satirista, per non dire una critica.

Secondi pensieri - (91)

zeulig

Creaturalità - È il vecchio nichilismo. Cristiano, e anzi edificante.
È il concetto che Auerbach, analizzando il realismo nella letteratura del Medio Evo, fa emergere in contrapposizione con Dante e Rabelais. Creaturalità è la destinazione dell’uomo a larva, un mucchio di ossa con la pelle, nell’attesa della morte e della redenzione. Un concetto molto egualitario della condizione umana, ma Auerbach nota che esso si accompagna con l’acquiescenza all’ordine e alle gerarchie sociali.
A essa fanno eccezione Dante, per il quale le azioni umane sono sostantive, tardo e neo classicista. E Rabelais, del quale è stata argomentata la miscredenza, ma in contrapposizione alla concezione “creaturale” dell’umanità, al nichilismo.

Dio – È un’illustrazione, per i pochi.
Uno specchio, o troppo splendente o troppo opaco, per i pochi.

È un gioco di pazienza, richiede molta applicazione.

Evoluzione – L’evoluzionismo è antico, si trova in tutti i testi della tradizione, nella Bibbia come in Omero, Esiodo, Virgilio, etc. Con limiti, nella specificità dell’uomo.

Si dice: Copernico, togliendo la Terra dal centro dell’universo, distrugge la teoria antropocentrica. Ma se, al posto di Copernico, si mette Galileo, l’universo resta ben antropocentrico, in quanto l’uomo è letterato, padroneggia il linguaggio. Lo stesso Darwin, di cui si dice che toglie l’uomo dal centro del mondo vivente, come potrebbe, se l’uomo è Darwin stesso?

Libertà – È sociale.
Non ce ne sarà mai stata tanto poca quanto oggi che è onnipervasiva e incontenibile. Di riunione, di opinione, di voto, e soprattutto di espressione, con le tante finestre libere della Rete. Anche l’organizzazione economica e sociale appare improntata alla massima libertà, col mercato che s’intende il luogo di tutti e di ognuno. E con la microsocialità e la stessa psicologia sintonizzate sul massimo di libertà, microcosmica, e sul minimo o l’inesistenza di condizionamenti, culturali, nazionali, familiari, scolastici, pedagogici in genere. Mentre si realizza in ogni occasione, privata e pubblica, piccola e grande, dal mutuo agli affetti, e alle scelte di lavoro e di vita, di guerra o normativa (legislativa), o anche di semplice dibattito delle idee, l’irrilevanza del singolo e di ognuno. È l’irrilevanza dell’atomo che non entri in molecole o reticoli complessi. Che in fisica non è possibile ma nella società sì. Non materialmente, l’atomizzazione sociale non è possibile, ma mentalmente sì. Ed è la condizione della sudditanza, della “moderna schiavitù”: essere servi felici, ritenendosi realizzati”.
Dire la socialità oggi confinata all’irrilevanza non è vero: è confinata al
gossip (giustizia, informazione) e allo shopping, che sono rilevanti, ma per gli interessi di altri, e non del soggetto.

Morte – È non essere nati.
Dopo una vita, comunque vissuta, è la chiusura di una parentesi: il detto o scritto rimane. Chi ha vissuto sopravvive, comunque.

Politica – Si manifesta in absentia, oggi che non esiste in nessuna forma, né etica (di principi), né sociale (democratica, popolare, oligarchica), e nemmeno avventurosa (eroica, regale, conquistatrice, imperialista), come un dato sociale e non individuale. “L’uomo è un animale politico” ma in quanto è socievole. Vive in gruppi e magari, come nell’ultimo millennio, in Stati, di città, di principati, di nazioni. La funzione politica è cancellata oggi che vince l’individualismo – che non è vero dal punto di vista effettivo, ma sì da quello dei propositi e dei programmi, della dottrina.

Storia – Impianta l’aspettativa di vita, il domani. Chi fosse nato integralmente oggi dovrebbe farsi bruco prima di cominciare, guardare le cose dal basso, e non è detto che ci riesca. “La storia è la soglia della quarta dimensione. Quella di domani” (Céline).

Verità – “E poi che non è dato sapere d’ebbrezza se non nell’ebbrezza, e non si svela il senso d’una manifestazione se non nella manifestazione medesima, e la notte è ignara di sole, e il raggio di sole non sa quanto sia nera la note, dissi questi versi: Io sono quell’ansia di vento che polvere leva e vi cerca se stessa,\ Là dov’è sosta nel viaggio ho creato una strada, e poi quella percorro”. Così recita il poeta indo-persiano Dībdil (1644-1721), “materialista mistico” (nell’antologia “Poesia dell’islam”). Dell’inutilità della conoscenza?
Poi conclude: “Sono quello che narra veridico immagini Sue nello specchio”. Sue di Lui. Questo è già più vero. Finché “l’idea (non) divenne scrittura, e la libertà ubriaca porse il capo al giogo del vincolo”. Che è un fatto.

zeulig@antiit.eu

Il francese sconvolto dall’Occupazione

Un’idea geniale, e una raccolta originale che chiarisce in modo definitivo il lato oscuro di Céline: sono, riprodotte in facsimile e tradotte, con molte foto dei personaggi coinvolti, le lettere che lo scrittore inviò alla stampa collaborazionista francese dal 1940 al 1944. Con un’introduzione di Stelio Solinas che chiarisce il contesto e la biografia. Una raccolta anche necessaria, ma per un Céline per una volta ininteressante. Noioso, ripetitivo, morboso, indigesto – anche ai suoi corrispondenti se, pur vantando “Céline ci scrive” sempre in prima pagina a caratteri cubitali, per la notorietà dello scrittore, lo trattavano da vecchio, quale non era, brontolone, con tagli e qualche volta con brevi sintesi invece delle escandescenze d’autore. Solinas insiste sulla speciale abilità celiniana di fantasmizzare il reale. No, queste esasperate, orride lettere mostrano come l’umiliazione della sconfitta e dell’occupazione isolino Céline nello spirito da portinaia, da “signora mia”, che a sua volta lo immiserisce e lo isola. Anche fisicamente, lo scrittore bell’uomo, alto, biondo, ha perduto l’allure: le foto ce lo mostrano ingobbito, incupito, l’occhio glauco sornione è diventato buio. I biografi e lo stesso Solinas ce lo dicono scaduto anche nel tratto, a casa e con i vicini. Una deriva che la fuga, la condanna e l’esilio accresceranno: al ritorno è un bottegaio bisbetico, che urla alla moglie dal sottoscala, e appesta i vicini con l’immondizia dei suoi cani - chi non ha provato non sa cosa vuol dire avere vicini canari che tengono le bestie all’aperto e non le accudiscono ogni giorno. Nei pamphlet c’è un filo, qui solo furori: la sconfitta e l’occupazione lo hanno ridotto al peggior qualunquismo, il tipo che odia egualmente Hitler e gli ebrei, e odia i suoi anzitutto, i francesi, perché odia e basta. In una sorta di schizofrenia, se scrive nello stesso tempo “Guignol’s Band” e altri testi di qualità. Il complesso del reduce, che ne aveva mobilitato le energie migliori nella prima guerra e tra le due guerre, ne mina il giudizio, lasciando intatta la capacità narrativa, di trasfigurazione. “È come se da dieci anni portassi a spasso con me una prigione, attorno a me, che non mi abbandona mai”, dirà lui stesso a conclusione della memoria difensiva presentata il 20 febbraio 1950 dal carcere danese. L’odio di sé, Sartre ancora una volta ci vedeva bene, che dice di Drieu, senza nominarlo, nel numero di aprile 1943 di “Les Lettres françaises”: “Non è un venduto: non ne ha il comodo cinismo. È venuto al nazismo per affinità elettiva: al fondo del suo cuore come al fondo del nazismo c’è l’odio di sé”. Il dossier del “Magazine Littéraire”, che contiene questa e molte altre annotazioni e foto degli intellettuali francesi nei quattro anni dell’occupazione tedesca, 1940-44, copre anche inevitabilmente le renitenze di vario tipo alla Resistenza, ma sono poche. L’unica di rilievo è quella di Malraux. Mentre “convivevano” Sartre (“Non siamo mai stati più liberi che sotto l’occupazione tedesca”, è un’altra sua frase famosa), Blanchot, Bataille, Caillois, Colette, Montherlant, Cocteau, Paulhan, Jouhandeau, Sacha Guitry, Ramon Fernandez. I teatri e i cinema erano pieni, all’Opéra veniva Karajan, e si pubblicava molto, malgrado la censura e il contingentamento della carta - mentre, come si sa, Céline restava proibito in Germania, se non per una traduzione accomodata di “Bagattelle”. Claire Paulhan, nipote di Jean, curatrice della mostra “Archivi della vita letteraria sotto l’Occupazione” nel 2011 a New York e a Parigi, dice “rari... quelli che sì impegnarono rapidamente nel “combattimento dello spirito”, c’è qui un mistero…”. Nei primi due anni dell’occupazione, del resto, la guerra era vinta per la Germania. Su questo sfondo si può anche dire che il collaborazionismo è stato tiepido in Francia. Non tra i grandi intellettuali. A parte l’antisemitismo, acuito dal complesso della “pugnalata alla schiena”, o del “complotto”, magari giudeo-massonico. Lo choc della sconfitta era stato forte. A luglio del 1939 si festeggiava il cento cinquantenario della Rivoluzione, un anno dopo la Francia era vinta e occupata. Molti emigrarono oltreoceano. Tra i rimasti non ci fu viltà. La delazione, bizzarramente, che in Francia fu feroce, sembra aver risparmiato gli intellettuali. Marguerite Duras ricorderà spesso con simpatia, in particolare in “L’amante”, Fernandez, suo coinquilino, che non pensò mai di denunciarla benché fosse stato messo al corrente che organizzava col marito una cellula comunista nella Resistenza. Né Céline pensò mai di denunciare la coppia di resistenti che abitava al piano di sotto al suo e riceveva. Il caso più famoso è di Gertrude Stein, che ebrea, ricca di una collezione d’arte di prim’ordine, visse indisturbata a Parigi – il caso più tristemente famoso di delazione, contro Irène Némirovsky, si ebbe in campagna, la “Francia profonda”. Resta tuttavia molto da indagare - nello stesso dossier si capisce indirettamente dai volteggiamenti politici di Drieu, tra sinistra e destra (nel 1944 abbandona Hitler per Stalin, per un comunismo nazionale…), o di Fernandez - su una parte del nazionalismo anteguerra, ideologicamente confuso. Nonché sul rivoluzionarismo, forse confuso ma ben di destra, dei fini ingegni Blanchot e Bataille, che il dossier trascura. E sulla cultura di destra che negli anni 1930 era preminente, ben viva anche e innovatrice, in Francia come altrove, nella editoria, le riviste, i giornali. Lo stesso Céline canta qui, nell’ultima intervista a metà 1944, il Socialismo con la maiuscola: “Contro il Comunismo, non vedo altro che la Rivoluzione, ma allora quella vera! Sovracomunista!” Non senza ragione pretendendo dopo la guerra di averla invocata nel 1941, nei “Beaux Draps” (“La bella rogna”). Mentre resta del tutto vergine l’argomento forse più interessante: l’impatto della sconfitta lampo e dell’occupazione lunga sulla scrittura, dell’epoca e successiva. I facsimile di “Céline ci scrive” offrono ampia materia, ma più se ne trova nella pubblicistica riedita, di Céline, Drieu, Brasillach, anche di Sartre, che “nasceva” in quegli anni come drammaturgo e narratore, e di chi sotto l’Occupazione si formò, Vian, Nimier. Sul vocabolario, i linguaggi (filosofie), le espressioni: le céliniane sospensioni, le apostrofi, il polemismo, l’irrisione. Attorno al tema “essere buoni francesi”, “essere”. Tutto convulso, esagerato, esasperante, e classificato all’ingrosso come letteratura della crisi, ma con connotazioni molto datate. 
Louis-Ferdinand Céline, a cura di Andrea Lombardi, Céline ci scrive, Settimo Sigillo, pp. 240 € 25
“Le Magazine Littéraire”, febbraio 2012, Les Écrivains et l’Occupation € 6

mercoledì 15 febbraio 2012

Doppio schiaffo di Monti a Caltagirone

“Il Messaggero” ha incassato, il partito di Caltagirone no. Il giorno dopo il no di Monti all’Olimpiade a Roma, immobiliaristi, costruttori e tutto il generone romano è in armi contro Caltagirone. Che per conto suo sta facendo il conto dei mancati introiti. Mentre il partito del genero Casini rischia di scomparire se il no verrà letto come uno sberleffo milanese a Roma: l’Udc, che si accredita come ispiratrice e regista di Monti, sopravvive col voto di Roma e della Sicilia – dove è già a rischio per inchieste e condanne.
È stato un martedì nero, all’improvviso tutto il castello sembra crollare nel partito del costruttore romano. Anche per il nuovo asse Pd-Lega sulla riduzione immediata dei parlamentari, una riforma costituzionale cui il Pdl, si sospetta, non mancherà di allinearsi. Ma il dispetto è soprattutto forte verso Monti, che dopo aver annunciato il no all’Olimpiade, e cioè a 10 miliardi di investimenti a Roma e nelle periefrie, è andato al Tg 24 di Sky per annunciare che le entrate sono soddisfacenti, al punto che forse non aumenterà l’Iva – una sorta di schiaffo doppio. Che coglie Caltagirone di sorpresa , in gergo calcistico in contropiede: il costruttore aveva appena ripreso l’avvicinamento a Milano, dopo quello fallito dieci anni fa su Rcs-Corriere della sera, spostando l’investimento da Mps su Unicredit, al costo di grosse perdite.

Il pasticciaccio milanese di Edison

Alla fine ci perdono tutti, Électricité de France, le milanesi, e la gloriosa Edison, la più antica società italiana fra quelle quotate in Borsa, ma più di tutti ci perde “Milano”, l’immagine che la città vuole dare di sé. Con un’operazione di sottopolitica da brivido.
Edf si arrende, dopo una guerra di trincea di dieci anni, con una minusvalenza di 600 milioni sulle centrali che Edison aveva a suo tempo rilevate da Enel e ora passano a A2A, l’azienda pubblica milanese. A2A si prende con le centrali un debito di 1,1 miliardi, e una difficile gestione. Edison rimane un qualsiasi (piccolo) grossista di gas.
Edf era sbarcata a Milano per creare un grande polo elettrico, forte del monopolio in patria, tecnico più che economico, un’azienda “tutto nucleare”, con un costo medio del kWh dimezzato rispetto a quello italiano. Ma non aveva calcolato la politica milanese, di provincia e comune, che le hanno creato ostacoli a non finire, col cappello in più occasioni del ministro dell’Economia paraleghista Tremonti. Una vicenda che, in altro luogo, avrebbe comportato più di un procedimento per corruzione, soprattutto nei rapporti tra gli enti locali milanesi. Edf si dice ora soddisfatta dell’accorso, ma in questo quadro.

martedì 14 febbraio 2012

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (117)

Giuseppe Leuzzi

Il Sud leghista di PasoliniIl poemetto “L’umile Italia”, spiega l’ottima voce “Pasolini” di Wikipedia, “apparve nell’aprile del 1954 su “Paragone-Letteratura” e rappresenta la contrapposizione tra la cupa tristezza dell'Agro romano e la limpida luminosità del settentrione. Il Nord, il cui emblema sono le rondini, è puro e umile e il Meridione è “sporco e splendido”, ma: “È necessità il capire/ e il fare: il credersi volti/ al meglio”, cercando di lottare pur soffrendo senza lasciarsi andare alla “rassegnazione - furente marchio/ della servitù e del sesso -/ che il greco meridione fa/ decrepito e increato, sporco/ e splendido”.
È questa una figura del linguaggio, “sottospecie dell’oxymoron, che l’antica retorica chiamava sineciosi”, annota Fortini, che la dice “la più frequente figura del linguaggio di Pasolini, “con la quale si affermano, d’uno stesso soggetto, due contrari”. Per non dire nulla, giusto un po’ d’irritazione?

Pasolini fa sempre una distinzione netta fra “Italia del Nord” e “Italia del Sud”. I giovani sono “del Nord” e “del Sud”. La storia lo è. È diverso l’operaio della Breda da un disoccupato romano o un bracciante calabrese – il che è solo ovvio ma non in virtù dei meridiani: che ha in comune l’operaio della Breda con i contadini di Olmi? Anche se molto, poi, ce l’hanno in comune, tutti questi simboli.
Anche il fascista è diverso al Nord e al Sud, Pasolini spiega il 19 novembre 1960 su “Vie Nuove” (ora in “Le belle bandiere”, p.83), a proposito dei suoi “amici” friulani: “Mentre si può dire quasi con l’assoluta certezza che un fascista centro-meridionale è un disonesto, un profittatore, o, nel migliore dei casi, uno che si arrangia servendo, questo giudizio non vale sempre per un fascista settentrionale, e, nella specie friulano. Spesso, nella condotta, nel lavoro, nella vita privata i nazionalisti o fascisti di lassù sono delle persone oneste e inappuntabili”.

Il Sud di Pasolini è Napoli e la Calabria. Di Napoli apprezza tutto, anche il manolesta che gli ruba il portafoglio in un rapporto intimo. Della Calabria gli dà fastidio quasi tutto, malgrado lo stretto rapporto con Ninetto Davoli, il premio Crotone, un riconoscimento da lui molto apprezzato, e la sua stessa volontà. Più per esteso ne parla il 10 dicembre 1960 su “Vie Nuove” (ora in Le belle bandiere”, pp. 90-92): “Tra tutte le regioni italiane la Calabria è forse la più povera: povera di ogni cosa: anche, in fondo, di bellezze naturali”. Ed è stata, “oltre che bestialmente sfruttata, anche abbandonata”, per millenni: “Da questa vicenda storica millenaria non può che risultare una popolazione molto complessa, o per dir meglio, con linguaggio tecnico, «complessata». Un millenario complesso d’inferiorità, una millenaria angoscia pesa nelle anime dei calabresi, ossessionate dalla necessità, dall’abbandono, dalla miseria”. E poiché “i «complessi» psicologici impediscono uno sviluppo normale della personalità”, i calabresi “sono molto infantili e ingenui”. Questo per quanto riguarda il popolo. La borghesia “è forse la peggiore d’Italia: appunto perché in essa c’è un fondo di disperazione che la irrigidisce, la mantiene, come per autodifesa, arroccata su posizioni dolorosamente antidemocratiche, convenzionali, servili”. E con essa la gioventù: “Sarà forse un caso, ma tutti i giovani che ho incontrato casualmente o che mi sono stati presentati in Calabria sono fascisti”. Naturalmente quando vota per il Pci la Calabria fa eccezione, le volte che lo vota.
Pasolini è partito dicendo che il suo reportage dalle coste italiane dell’estate precedente non ha detto della Calabria, di Cutro in particolare, ciò che ha detto (“una calunnia”, dice, “umiliante per i calabresi e ingiusta per me”, che “ha creato uno dei più esasperati equivoci che possano capitare a uno scrittore”). Ma ne pensa, nella bontà, peggio.

Uno degli epigrammi de “La religione del mio tempo”, sotto il titolo “Alla bandiera rossa”, è catastroficamente odioso:
“Per chi conosce solo il tuo colore, bandiera rossa,
tu devi realmente esistere, perché lui esista:
chi era coperto di croste è coperto di piaghe,
il bracciante diventa mendicante,
il napoletano calabrese, il calabrese africano”.
Dove anche della bandiera rossa, la degradazione non si sa se sia una sua insufficienza (colpa), o un suo effetto (delitto).

Nel 1975, nel famoso articolo delle lucciole sul “Corriere della sera”, Pasolini mette l’Italia all’inferno con la solita differenza: gli italiani “sono divenuti in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale”.

Sicilia“L’anarchia si pone fin dall’inizio dalla parte dell’unificazione tecnica del mondo”. È un tema ricorrente di Ernst Jünger, ma l’annotazione insorge tra i primi appunti del suo breve “Viaggio in Sicilia”.

“Astuti nel fare il male e neutri di fronte all’offesa”: così i siciliani per Quatrarius Familius, il vescovo normanno di Palermo che costruì Monreale.
Quatrarius dice il dizionario è chi abita o frequenta i quadrivi o le piazze. Per estensione anche ragazzotto o monello.

Il 20 e 30 dicembre 1836, in due numeri successivi del suo periodico “Il vapore”, che editava a Palermo, il giornalista di Licata Vincenzo Linares s’inventò “I Beati Paoli”, banditi buoni medievali. La storia piacque subito. Quattro anni dopo il poeta messinese Felice Bisazza la consacrava in un poemetto. Molte altre versioni furono pubblicate nella stampa popolare, fino alla lunga serie di Natoli nel 1909. Anche per la mafia la Sicilia vuole i quattro quarti.

Il gusto è insaziabile nell’isola di accuse e controaccuse, sospetti, killeraggio morale, oltre che fisico. Anche somaticamente: era bella la Sicilia, benché narcisistica, perfino spiritosa, e comunque sapiente. Ora è inarticolata, gonfia, insipida, affetta da nanismo indotto se ne esistesse uno. È forse questa la mafia, l’autosconfitta.

Si è infine sconfessata nel fine settimana a Reggio Calabria, dopo trentasei anni, una vicenda di giustizia, per così dire, che altrove non sarebbe possibile. Di quattro giovani ventenni che nel 1976 furono accusati di avere ucciso due carabinieri e condannati all’ergastolo, pur sapendo tutti che non erano i colpevoli: i carabinieri, i giudici, e probabilmente anche i giornali. I quattro erano stati assolti a Trapani ma condannati a Palermo in appello. Poi ricondannati tre volte, sempre da Palermo, quindi da Catania e Caltanissetta, su altrettante sconfessioni della Cassazione.
Quattordici anni di processi e ventidue di carcere.
Con i tribunali locali pervicacemente colpevolisti, contro ogni evidenza e contro la stessa Cassazione.
Dei quattro, due sono dovuti fuggire in Brasile, uno è stato suicidato in carcere (impiccato, benché fosse monco), e uno è rimasto vivo in cella. La cosa si è risaputa solo ora che il caso è stato ri-giudicato fuori Sicilia, a Reggio Calabria. L’omertà, certo.

Buttarsi la mafia gli uni sugli altri è in Sicilia impulso irrefrenabile e forse piacevole. È questo che più gonfia la mafia:, l’omologazione, la “nazionalizzazione” nel carattere (sarà questa l’omertà?). Che finisce per inghiottire tutto, la politica, gli affari e l’antimafia. Non mafioso, dichiarato, a muso anche duro. Ma sicofante della mafia vera, muta.
In questo contesto la mafia è la politica. Politica in senso lato, comprendente le istituzioni e dunque anche l’antimafia e la stessa Legge, giudici cioè, carabinieri e poliziotti.

leuzzi@antiit.eu

Nostalgia del Pci, in Francia

Napolitano è il Pci al Quirinale, dice l’ultimo “Nouvel Observateur”, e il Pd è il vecchio Pci, dice l’ultimo, altrimenti bene informato, “Le Monde Diplomatique”: oltralpe c’è in po’ di confusione, o tanta nostalgia.
Sul settimanale, nella corrispondenza su “Supermario”, la fotina di Napolitano con Monti ha una didascalia a firma M.P., che sotto il titolo “Il re Giorgio” dice: “Il suo senso profondo dell’interesse nazionale l’ha ereditato dal più grande partito comunista d’Occidente, il Pci, che otteneva ai suoi giorni migliori il 34 per ceto dei suffragi. Era nel 1984”. Che non è nemmeno vero per la storia: il Pci nel 1984 aveva il 33 per cento alle elezioni europee, “grazie” alla morte di Berlinguer, ma veniva da due sconfitte alle politiche, dove era sceso sotto il 30 per cento, e Napolitano è stato sempre un intruso in quel partito.
“Le Monde Diplomatique” ha come inviato Francesca Lancini, “giornalista a Milano”, che va a Brescia a cercare la sinistra. E la trova, sotto una titolazione nostalgica del “vecchio Pci”, tra i circoli, le sezioni e i vecchi militanti del Pd. Il Pd è il Pci… Confusione o nostalgia?
Probabile è la nostalgia, sanno tutti che il Pci non c’è più. La nostalgia di chi è stato sempre anticomunista, è il caso dei due periodici, è però curiosa: è un altro segno della decadenza (insignificanza) dell’Europa?

lunedì 13 febbraio 2012

L’uomo è al meglio un animale

“Bestiale” è ciò che non vorremmo, e tuttavia, fa rilevare Dionigi nel saggio centrale di questa raccolta, i re nella favolistica europea vengono allevati dagli animali. L’insigne latinista fa qui un excursus sulle fonti greche: in tutta la classicità gli animali simboleggiano le qualità e i vizi dell’uomo, il toro naturalmente, il lupo, il leone, l’aquila, la colomba, e il gregge, il cane, il corvo, il serpente, i porci (fino a Orwell). Un excursus nella letteratura che Eco, sempre “facile” (leggibile, sorprendente) corrobora con uno nella filosofia: più spesso che no gli animali hanno per i filosofi un’anima. E anzi un abbozzo di evoluzionismo si deve, tra Sei e Settecento, a tre religiosi, due gesuiti e un protestante, Pardies, Bougeant e Boullier. Ma già l’antichità, nota Dionigi, era per la continuità, Democrito prima di Lucrezio, che la tecnica fa derivare dagli animali: “Gli uomini per le scoperte più importanti sono stati a scuola dagli animali: i ragni nel tessere e nel rammendare, le rondini nella costruzione, gli uccelli canori nel canto”. Con Enzo Bianchi Darwin è già, ampiamente, nella Bibbia.
Un godimento per gli amici degli animali e un punto fermo nell’animalismo che ci sovrasta – l’uomo Dionigi vuole d’acchito “il più furbo e il più fragile di tutti gli animali”. Si parla degli animali per parlare dell’uomo. Per la nuova concezione “creaturale”, se non già “neo creaturale” dell’universo – Bianchi la dice “co-creaturalità tra uomo, animali, piante e cose”. Danilo Mainardi, che è etologo e quindi gli animali li frequenta dal vivo, dice che l’antropomorfismo degli animali è totalmente irrispettoso degli animali stessi.
Ivano Dionigi, a cura di, Animalia, Bur, pp. 159 € 9,90

Ombre - 119

Marco Nese vuole la Grecia jugulata da Merkel e Sarkozy “per ottenere commesse militari”. Non è vero, ma lo è. I due si sono assicurati tra marzo e maggio del 2011 contratti per 4 e 4,5 miliardi di euro rispettivamente. In un bilancio disastrato, la spesa militare greca crescerà di quasi un quinto rispetto alla cifre già alta di 6 miliardi del 2011.
A metà 2009, a crisi già conclamata, Karamanlis dovette comprare 4 sottomarini Thyssen-Krupp – oltre a un migliaio di carri armati Leopard. Papandreu tentò di far saltare l’accordo dei sottomarini, ma a marzo 2011 ha dovuto controfirmare per due dei quattro.

Divieto di motorino a Roma nei giorni del ghiaccio? Twitter minaccia sfracelli contro il sindaco. Il “Corriere della sera-Roma” gliele manda a dire tramite Margherita Buy. La quale non va in motorino, non c’è mai andata. E se avesse un figlio che va in motorino si preoccuperebbe e glielo impedirebbe. Ma non ha un figlio. E allora? È una questione di libertà, dice: “A me non piacciono i divieti”.
Ma, poi, la Buy non sembra stupida come il “Corriere” la fa apparire.

Coi diecimila voti che avrebbe preso alle elezioni, Marco Doria si è aggiudicate le primarie democratiche e sarà il candidato del Pd a sindaco di Genova. Le primarie del Pd, prima che inaffidabili e talvolta corrotte, sono assurde: vince chi, come Renzi e il vendoliano Doria, riesce a mobilitare i suoi, per quanto pochi.

Monti ha sottratto ai Comuni mezza Ici, i Comuni protestano, e il “Corriere” per giustificarlo imputa la decisione “all’ex ministro Tremonti”. Sintassi incerta – un ex non decide – ma utile a sviare l’attenzione: il problema non è perché pagare l’Ici al governo ma chi l’ha fatto. Sempre ci imbrogliano.
Sia l’ex ministro dell’Economia, che ha affossato il governo Berlusconi, sia Monti che l’ha sostituito sono i pupilli del quotidiano.

Antonio Del Giudice, dopo un decennio al “Centro” a Pescara, dove i rom sono stanziali da decenni, occupano due vasti quartieri con case moderne, Rancitelli e San Donato, molti in case popolari, e sono sempre protetti dal suo giornale, li trova pervicacemente impegnati nella malavita, droga, furti, ricettazione, estorsioni, riciclaggio, e lo scrive al professor Spinelli al “Sole 24 Ore”. Il professore ha per questa pervicacia un concetto interessante, la sindrome del ghetto, l’autoghettizzazione. Ma dice che sono i pescaresi a imporla ai rom. Liberiamo i rom dai pescaresi?

Ferruccio de Bortoli si domanda domenica sul suo giornale, per il ventennale di Mani Pulite, perché la lotta alla corruzione non ha funzionato. Ma non si dà la risposta che tutti sanno: che era una lotta “corrotta”. Che non conduceva, e non intendeva condurre, a leggi e atti più efficaci contro la corruzione, ma solo a combattere alcuni partiti. Nel migliore dei casi, in altri all’interesse dei denuncianti e sanzionatori, alla corruzione propriamente detta.
E che dire delle “condanne” inflitte a mezzo giornale?

Si arrestano a Londra giornalisti e dirigenti dell’impero Murdoch, dei giornali scandalistici come del “Times”. Pagavano gli informatori, a Scotland Yard e alla Difesa. Ma la cosa non fa notizia in Italia. Per rispetto al “venerabile” “Times”? Perché Murdoch-Sky paga bene? Perché in Italia è peggio?
Una ragione non esclude l’altra.

Napolitano va fino a Helsinki per dire che “l’Italia non è la Grecia”. Bella scoperta. Di rara finezza, anche, per un popolo che combatte contro l’immiserimento. L’abbiamo scampata proprio bella!

Lacrime e sangue a Atene per l’ultimo piano varato dal governo, con tagli a tutto, anche all’aspettativa di vita, mezzo governo dimesso, mezzo paese in piazza. Ma, dice il governo tedesco, mancano ancora 300 milioni di tagli, e rifiuta per questo di salvare la Grecia. Trecento milioni, anzi 325 per l’esattezza. Non ci si crederebbe.

“Come’è possibile generare crescita con politiche di bilancio restrittive?”, ha chiesto il presidente americano al presidente del consiglio italiano. Di cui non è riportata la risposta.

Straordinaria ricostruzione di Colaprico su “Repubblica” venerdì, di Mani Pulite con due protagonisti, il corruttore Cusani e il giudice Greco. Cusani non esce dal suo nuovo ruolo angelico. Il giudice Greco deve riconoscere che Mani Pulite si limitò a derubricare la corruzione: da politica (partitica) a personale. Ma non ci dice perché. Per stupidità? Per malvagità?

Baltasàr Garzón, il Giudice Mondiale, si faceva pagare come conferenziere negli Usa dal Banco Santander. Di cui indagava il padrone. Che poi non perseguì. Il fatto è stato sanzionato in Spagna, ma tra le polemiche: si vuole il Giudice al di sopra del sospetto.
Anche Di Pietro prese cento milioni, nel 1992, da un imprenditore su cui indagava – che poi dice di avere restituito in contanti in una scatola da scarpe. Il fatto non è stato, nonché sanzionato, seppure tra polemiche, neppure indagato.

L’opinione dei media vuole il Giudice al di sopra del sospetto, nel mentre che l’opinione comune si mobilita nei referendum contro i giudici. Non ci sarà qualcosa di losco nell’opinione dei media?

domenica 12 febbraio 2012

Il progressista è reazionario, con passione

Il reazionario appassionato: una nuova categoria, che abbraccia la contemporaneità, è elaborata da Francesco Piccolo oggi su “La lettura”, il supplemento domenicale del “Corriere della sera”:
http://lettura.corriere.it/debates/la-sinistra-e-come-mia-zia/
Da uno scrittore e non da un sociologo, della politica o della cultura, e in breve, in un articolo di giornale e non in un trattato, ma l’ipotesi è perfettamente delineata, anche inequivocabile, e ha tutta l’aria di cogliere e condensare l’epoca storica. Viviamo all’epoca della sinistra che si vuole reazionaria, e alla reazione si appassiona – cosa che un reazionario classico non farebbe, che è essenzialmente un cinico. Il nuovo fronte della reazione con passione Piccolo chiama “ceto medio riflessivo”, ma quella è: la società civile, o (ex) sinistra.
Lo scrittore ci arriva con semplicità. Guardando il film “The Artist”, sul fantasma del cinema muto che per protesta – per difendersi-ci – si fa film muto. E allargando il fuoco sui comportamenti oggi e le riflessioni del “ceto medio riflessivo”, i flautisti appunto del buon tempo antico. Un’operazione facile, in tanti da tempo se lo dicono, ma Piccolo coglie il fatto “nuovo”: c’è passione emotiva e commozione in questo ritorno, che esaurisce ogni impegno.
È vero. Il reazionario è sempre stato un tipo arido. Ora è progressista e si vuole appassionato. Ma questo avviene nella decadenza - Santo Mazzarino lo ha censito dell’antichità classica: quanta nostalgia nella decadenza!

Murdoch e la merda made in Italy

Tremano le redazioni, con le case editrici. Quello che Berlusconi non ha osato, potrebbe diventare una pista gratificante per qualche giudice: rompere l’asse stampa-apparati. A Londra si rompe e l’esempio, si teme, difficilmente non tracimerà in Italia. Dove gli stessi delitti sono più vasti, e le responsabilità più elevate.
A Londra sono ripresi da un paio di settimane gli arresti di giornalisti e dirigenti del gruppo Murdoch. Dieci del “Sun”, il giornale più venduto, dopo il “News of the world” che Murdoch ha dovuto chiudere, e uno del “Times”. Con un poliziotto e un impiegato di Scotland Yard e uno della Difesa. Quali divulgatori pagati di indiscrezioni e segreti, o intermediari.
In un primo tempo l’offensiva britannica è stata trattata con sufficienza. Per due motivi. Quella britannica è un’altra civiltà giuridica, in Italia è saldissimo il legame media-giudici. I giornali italiani che usano le indiscrezioni non sono scandalistici ma d’opinione: sono l’establishment e non la stampa d’assalto di un tycoon australiano. Ora, però, per lo stesso motivo, l’iniziativa britannica crea apprensione. Anche nelle editrici, dove si raccolgono, si smistano, e si pagano i dossier.
Un’altra differenza è che in Italia gli informatori sono ufficiali di grado elevato (della Guardia di Finanza e talvolta dei Carabinieri, non della Polizia, curiosamente). Un parterre anch’esso nobile, per un’informazione in buona parte non pagata, anche se strumentale – a manovre politiche, alla carriera, alla concorrenza in affari. Ma anche questa differenza ora appare insidiosa: potrebbe ingolosire qualche giudice in cerca di ribalta.