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mercoledì 30 luglio 2008

Problemi di base (3)

Perché la professoressa Gelmini non porta il grembiule?

Piazza Navona: è meglio Grillo o Di Pietro? Sabina certamente, sa di che parla.

Perché Dio ha la barba e il papa no?

Perché i clandestini dall’Africa non sbarcano a Gibilterra?

Perché i giudici italiani non fanno i giudici?

Perché gli inglesi sono sempre stati infami con gli irlandesi?

Chi ha dato alla Rai, alla vigilia dell’attacco alla Juventus e alla Nazionale, il video di Cannavaro che “si drogava”?

Perché la Rai ha ripetutamente mostrato quel video, sicuramente apocrifo?

Perché non si fa un Bovary uomo?

Cosa fa l’analista quando va a letto? Con la luce accesa e con la luce spenta.

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (20)

Giuseppe Leuzzi

Cos’è la mafia? “Secondo me”, dice l’investigatore Lupin (“Arsène Lupin contro la mafia”), “è una parola a effetto, che denuncia il male in tutte le sue forme”.
Anche al Nord?

Si pubblica nel 2008 la prima edizione critica e completa dei poeti siciliani del Duecento, i poeti che hanno avviato la storia della letteratura italiana. A opera di Mondadori, editore in Milano.
A cura di tre professori di Roma, Napoli e Lecce, un lombardo, un presumile veneto, e un pugliese – uno, questo, che tira la coperta sulla Puglia.

Sudismi\sadismi. Marisa Fumagalli è stata sull’Aspromonte. Accompagnata da Antonio Pellegrino, presidente di un’associazione Gente in Aspromonte, e dallo studioso Domenico Raso. Con i quali vede solo rapiti, Celadon, Casella, nel “Corriere della sera” dell’11 luglio, e Corrado Alvaro, lo scrittore del 1895 che non amava l’Aspromonte. Marisa Fumagalli, donna lombarda, leghista della prima ora, nell’area più dura del leghismo, in Veneto. Migliore inviata del "Corriere della sera" l'Aspromonte non poteva augurarsi
Fumagalli afferma di essere stata al bosco san Giorgio. E ci ha visto rapiti?
Chiunque al bosco san Giorgio si sarebbe emozionato, tra i castagni millenari, accanto alla chiesetta bizantina, sebbene diroccata, sotto la Pietra Cappa, sopra le Rocche di san Pietro, le piccole Meteore di Careri. Tutto l’Aspromonte del resto è la meraviglia di molti, tedeschi, francesi, svizzeri.

Sudismi\sadismi
Il “Corriere” taglia un promettente articolo di Felice Cavallaro sabato 26 su “Clandestini e affari” a Lampedusa, e lo impagina al centro, il posto degli invisibilia. Ma la riscrittura è sapiente: di tutti traffici sui clandestini si documenta solo il sottogoverno. Dice il sindaco: “C’è il caos da undici anni, ma il centro (di accoglienza) vale 60 mila euro al giorno”. E: “I (nuovi) centri di accoglienza vanno fatti solo in Sicilia, i sindaci li vogliono”. Vogliono gestire 60 mila euro al giorno.
È verosimile. E poi l’articolo lo firma Cavallaro, che da una vita lavora alla verità sulla Sicilia. Ma il leghismo siciliano (il sindaco è del Movimento autonomista di Lombardo) vi è ridotto alla più spregevole indigenza politica. La Sicilia, che invece avrebbe tutto per porsi a guida della nazione, a un posto da mentecatti. E l’onesto Cavallaro al ruolo di Caronte carogna. Senza cattiveria, naturalmente.

Il programma di Rai Due “Nati in Italia” di Edmondo Berselli rubacchia l’11 luglio l’idea dell’Italia rovesciata, col Sud al Nord, sceneggiandolo con un brillante comico che sogna “nebbia in val siciliana, sole in val padana e le Alpi”. Pezzo forte del programma sono le dolenti immagini dei minatori di zolfo, nudi a cinquecento metri sotto terra, e di Sciascia e Modugno che dolenti parlano dei minatori. Ma le miniere di zolfo sono chiuse, per il bene e per il male, in Sicilia da cinquant’anni.

Reggio. I Calcidesi fondarono Zancle e, poi, anche Reggio, portandosi dietro in entrambi i casi i Messeni, quelli scacciati dalla loro patria dopo l’episodio della violenza sulle vergini spartane a Limne. L’oracolo di Delfi prescrisse di fondare Reggio sulle rive dell’Apsia, “il più sacro dei fiumi”, dove una femmina fosse abbrancata a un maschio, e ciò spiegherebbe la natura della città. Il posto fu identificato dove una vite si maritava a un leccio. Secondo Diodoro, però, e anche Dionisio di Alicarnasso, il maschio era un fico selvatico, che è ermafrodito.
Reggio in realtà la fondò Mussolini, mettendo insieme una dozzina di borghi diversi, per lo sfizio di restaurarne l’antica gloria, che secondo il canone bulleista del fascismo s’identifica col voluminoso, e ne fece uno dei comuni più estesi d’Italia. La città, cioè, dopo Mussolini si è gonfiata, di alterigia vuota.

La New York italiana è Napoli
Con la solita boria, ma col collaudato mestiere, i giornali inglesi non si sono lasciati sfuggire i napoletani indifferenti in spiaggia di fronte ai cadaveri di due ragazze annegate, che nei giornali italiani erano una fotina con didascalia in pagina interna. Ne sbagliano però la lettura. Anche perché non sanno che Napoli non è l’Italia. Cioè lo è ma nel senso che è l’Italia di domani, più veloce, e insensibile.Napoli è la prima e ancora l’unica metropoli italiana. Non più prima per numero di abitanti, ma sì per la mancanza di sensibilità, che si accompagna all’atomismo sociale, e si esprime nell’indifferenza, la rapidità, la crudeltà anche. A questo portata forse da una predisposizione in qualche modo “naturale”, per essere etnica, o storica, o proprio tellurica, naturale nel senso proprio della parola. Quando l’Italia dopo la guerra scopriva l’America, scoprì che a New York la gente andava di corsa e magari non si avvedeva che sul marciapiedi c’era un morto. Napoli è la New York italiana. La città, o meglio gli intellettuali di cui la città è vittima, le hanno cucito il mito dell’anema e core, della canzonetta e di Piedigrotta, ma Napoli e i napoletani sono tutt’altro: sono realisti, e di altro non si curano che di sé, tanto sono rapidi, intelligenti, spietati.Si può dire la loro una frenesia da ex o neo schiavi, bruti liberati, perciò senza tempo, eccitata, vio-lenta. Ma la condizione urbana è questo: sradicamento, ingegno, impegno, sempre soverchiato dai ladri, i corrotti, i furbi. Da qui il ricorso, per proteggersi, a compari, astuzie, aggressività, con l’unico limite della convenienza. È la condizione urbana di sempre e non della modernità, di cui anzi rompe l’equivoco. È la vivacità di chi è sempre stato solo in un agglomerato sociale, la cui storia cioè è impersonale, un evento. Nel traffico, che prima della spazzatura la connotava, Napoli ricostituisce la libertà primordiale d’individuarsi sottraendosi, senza genealogia e senza posterità.Questo quadro è perfettamente riconoscibile uscendo dalle sabbie mobili dell’antropologia. Napoli, è il maggiore distretto capitalistico in Italia, d’imprenditoria capillare e caparbia, che si nasconde per meglio non pagare tasse né oneri sociali, sforzo sovrumano raddoppiato dalla leadership costantemente rinnovata nel contrabbando e nell’industria dei falsi, dove la concorrenza è aspra. Se la santità c’entra in queste cose, san Gennaro è altrettanto spietato che Calvino e gli altri numi riformati, o san Carlo Borromeo tra i buoni lombardi - quello che è certo del capitalismo è che vuole pelo sullo stomaco. Max Weber, che il capitale lega alla religione, non poteva saperlo, a Napoli ci andava in vacanza, anch’egli reputando i napoletani fannulloni, mentre sono ingegnosi e applicati. E, avendo penetrato la natura della ricchezza, vanitosi e spendaccioni. Napoli è il maggiore distretto industriale e mercantile d’Italia, se non d’Europa, col record mondiale di società di capitali e individuali in rapporto alla popolazione, innovativo, competitivo nei prezzi, preciso nei tempi e negli standard, anche di qualità, seconda area industriale d’Italia, dopo Torino, prima di Milano e Roma, se si conta l’industria della copia e quella al nero. L’asocialità è perfino esibita nella previdenza. Non si pagano contributi sociali, metà delle automobili non è assicurata, e un’arte si fa del raggiro delle assicurazioni, infinite sono le combinazioni. Non si pagano tanti rimborsi, e altrettanto salati, in altre città anche più grandi. Per la povertà, si dice a titolo di giustificazione, per la disoccupazione, l’ignoranza. No, i napoletani sono tutti avvocati, conoscono i codici. E non è macchiettismo, né arte d’arrangiarsi. I napoletani ne sono le vittime: si può trarre beneficio dalle assicurazioni per un periodo a danno della nazione, ma presto si fa a danno di se stessi. le assicurazioni sono il connotato della società solidale e produttiva, sia le sociali che le private. Ma l’asocialità è più forte anche della convenienza.E il discorso torna così all’indole, se non alla cultura, se non germina da nuclei infetti. La stessa povertà, l’altro clichè napoletano, è fuori luogo con una natura così fertile e l’immaginazione ferace. La violenza resta filosoficamente ancora da spiegare, è solo saturnina. Ma convive a Napoli con un capitale di urbanità. Il vivere, pensare, parlare accelerato che produce la nobiltà del repartee, anche per il senso filosofico delle cose, accumulato nei secoli, che non va trascurato nel giudizio – se non per l’unica filosofia che l’Italia ha espresso da alcuni secoli, il post-idealismo di Croce, di Gentile.È antica civiltà urbana d’affari, di microcosmi anarchici. Per questo non è mai stata capitale a nessuno, da Castellammare in giù e al di sopra di Caserta. Era città di corte, la prima città di corte, il modello che Luigi XIV costruirà, piena di cortigiani sradicati. E per questo è festaiola, ma non è allegra. Né ha avuto in realtà una corte, delle classi stratificate, un’etichetta, la regola. Il ruolo e le caratteristiche di metropoli non essendole riconosciute, e anzi negate, Napoli ha per questo latenze cupe. È nevrotica con la faccia della festa. Anche Parigi non è la Francia, non la conosce, non se ne cura. Ma ha fatto la Rivoluzione e ne fa gli ingegneri, i direttori generali, i filosofi. L’Europa è ricca per questo, che ha molti centri, che s’irradiano nella nazione, Napoli s’irradia in se stessa.

Nella serie tv “Il giudice Mastrangelo”, che è un procuratore della Repubblica, né il Procuratore né la sua amica commissaria di polizia risolvono mai un caso. I casi si risolvono per le chiacchiere dell’autista-attendente del procuratore, che dice quello che tutti sanno.
Forse per questo la serie dura: riflette il modo d’essere dell’apparato repressivo al Sud, dove le Autorità nulla sanno di quello che tutti sanno. Che dev’essere grande fatica, il giudice Mastrangelo è sempre affaticato.

Il detto del non dettoSi imputa al Sud la resistenza a dire, la renitenza. Specie nei verbali dei carabinieri, che poi sono tutto quello che c’è sul Sud, di studi, critiche e opinioni. Specie della renitenza ad accusare. Mentre invece il Sud è sommerso dal detto del non detto. Che è un’arte. Nel senso della recitazione, della rappresentazione – il detto della vista.
In nessun altro posto si dice tanto di sé e degli altri come da Napoli in giù, senza misura anzi, in privato e pure in pubblico, perfino con sfacciataggine. Altrove si parlerà forse con più proprietà, come vorrebbero i carabinieri, ma la reticenza è vastissima. Com’è tipico delle donne – non al Sud però – e degli indifesi in genere, e degli aggressivi (perseguitati, colpevoli, ipocondriaci).

Deve essere difficile vivere al Sud senza più le certezze che la scuola insegnava: lo Stato, la legge, l’unità (l’Italia). Nella diffidenza. Nel dichiarato disprezzo.
Una volta che era appena vent’anni fa, trenta.
Se non si ha forza di rivoltarsi.

C’è un parterre di grandi pentiti, dal non confessato Provenzano ai capi mafiosi di Napoli e Reggio Calabria, e di pentiti da lungo tempo confidenti e collaboratori di giustizia, seppure ufficialmente latitanti, tale da rovesciare l’assioma della mafia vincente culturalmente. I mafiosi per primi non ci credono. I mafiosi veri, per intendersi, perché c’è sempre un pulviscolo di killer e giovinastri che farebbero qualsiasi cosa pur di non lavorare, e uccidono per niente.
Si riscontra in questi mafiosi anche una singolare perspicacia a evitare l’assassinio, diretto o a essi riconducibile, perché sanno che comporta pene certe. Questo da quando sono nati, per dire.
Sono anche persone dotate di capacità imprenditoriale. Si vede nella piana di Gioia Tauro e nella Locride, dove sono gli unici agricoltori capaci, moderni, e investono con acume nei servizi, i centri commerciali, la ristorazione, il tempo libero.

Gli Usa faranno Doha con Cina e India

Ci sono due letture della rottura dei negoziati per il commercio internazionale a Doha, nel Qatar. Una sottolinea l’intransigenza di Cina e India. L’altra lo scarso interesse americano, e quasi una forma di abiura dalla globalizzazione.
Una terza lettura, dell’America boia, globalista o antiglobalista che sia. Ma è solo italiana - solo in Italia, che conta quanto il re del Tonga, è d’ordinanza l’antimericanismo, l’America considerare un bruscolino. Insomma, se ne può fare a meno. Il negoziato del resto è fallito senza ragioni, al di sotto di quelle pretestate per farlo fallire.
Il negoziato di Doha è fallito su un fatto minore, la clausola di salvaguardia per i paesi in via di sviluppo. Che consente loro tariffe e contingenti a protezione delle colture nazionali contro le importazioni di beni agricoli. Nel presupposto che la protezione si debba comunque limitare, per evitare che i quattro-cinque miliardi che vivono nei paesi più poveri debbano pagare prezzi esosi per mantenere in vita le attività nazionali, poche o molte che siano.
La clausola di salvaguardia è un fatto minore nella maglia gigantesca della World Trade Organization, considerata l’entità e la tipologia delle produzioni che Cina e India vogliono proteggere: il riso, alimento di base nazionale, il cotone e poche altre. Ma è in realtà un fatto sostanziale, per due motivi.
Cina a India hanno deciso di proteggere le produzioni nazionali a fronte degli enormi sussidi che le attività agricole nei paesi ricchi hanno dai loro governi. Per darne un’idea: Usa e Ue spendono per contributi agricoli a fondo perduto 300 miliardi di dollari l’anno. Una cifra impensabile – tutti gli aiuti internazionali ai paesi in via di sviluppo non superano i 50 miliardi di dollari. In molti casi sono sussidi per “non produrre”, il che è uno scandalo nella penuria degli ultimi due anni di beni primari.
L’altro motivo è l’accresciuto peso internazionale delle due economie negli otto anni dacché il negoziato è partito a Doha, all’indomani dell’1 settembre. Sia negli scambi commerciali che nella politica del dollaro. La globalizzazione d’ora in poi non si potrà fare solo a Washington. C’era il superamento della divisione Nord-Sud, sviluppo-sottosviluppo, nella concezione della Wto, e l’esigenza emersa a Doha ne è solo un naturale sviluppo. A uno stadio tale che non è possibile tornare indietro: non hanno senso i discorsi sulla fine della globlizzazione.
L’agricoltura sussidiata è la pietra d’inciampo della globalizzazione. Lo è di qualsiasi politica di libero scambio, che la Wto è chiamata a realizzare. Ma nel quadro attuale, per l’appunto della globalizzazione, con uno speciale rilievo. La Wto è creatura americana. Ne è americana l’idea, e anche la gestione, solo la segreteria può andare a un non americano, e anche a un europeo, Renato Ruggiero prima e ora Pascal Lamy. Ma americani sono anche i sussidi agricoli. Lo sono stati per quasi un secolo, e sembrano ormai l’ennesimo emendamento, come gli altri intoccabile.
L’esito probabile è che gli Usa cercheranno in via diretta con Cina e India un accomodamento. Sia alla riduzione dei sussidi, che l’Asia a Doha avrebbe voluto dell’80 per cento. Sia all’uso controllato della clausola di salvaguardia. È un esito perfino obbligato, visto il peso relativo della globalizzazione in atto, per i manufatti e i servizi, rispetto a quella che si voleva aprire a Doha, dei beni agricoli: il rapporto è di dieci a uno. L’accordo non sarà facile. La liberalizzazione dei prodotti della terra dovrà garantirsi con l’adesione severa di tutti i paesi partecipanti ai criteri fitosanitari e ambientali più avanzati. Ma si farà, ce ne sono già i segni .
La storia si fa nel Pacifico. L'Europa entra in gioco solo nei fori multilòaterali - e questa può essere una delle ragioni per cui senza ragione gli Usa e le potenze asiatiche hanno fatto fallire Doha. L’Ue resterà spettatrice, malgrado la presenza di Lamy al vertice della Wto, e dovrà acconciarsi a una riduzione dei sussidi agricoli. Ma questa potrebbe non essere una catastrofe, e forse è addirittura una liberazione.

Secondi pensieri (15)

zeulig

Apocalisse – Ma che roba è, “Io sono colui che scuote i reni e i cuori”, 2, 23? Che magari è eufemismo del traduttore.

Decostruzione - È un gergo. La brillante idea di smontare i meccanismi del linguaggio si è tradotta in un linguaggio artificioso e subito perento. Il decostruzionismo ha inventato, per denunciare l’ipocrisia del potere, del linguaggio, un linguaggio criptico e insignificante.
Ciò pure nella conversazione corrente e nella terapia analitica: il dialogo non può non essere guastato (corrotto) dalla forma espressiva nella quale coagula. Al cinema, quando si gira, le due facce si esprimono autonomamente, e il dialogo è “darsi la battuta”. Il botta e risposta, la reazione, si collega direttamente all’azione, ma entrambe recepiscono il condizionamento culturale e psicologico della forma espressiva e dell’immaginazione-ruminazione.
Il segreto del (buon) teatro è che sconta questi condizionamenti: il suo dialogo è espressivo.

Dio – Non gli devo nulla.
Nessuno gli deve nulla: è dunque gratuito.
Un gratuito obbligato, dal momento che si vive. Si bestemmia per questo, Dio resta sempre ingombrante.

Ebraismo – È molto contaminato dal cristianesimo. L’ebraismo di oggi, morale, legale, politico, ha fatto suo il vangelo e la chiesa – la storia, certo. Quello della Bibbia è molto diverso.
Molto diverse restano alcune espressioni della cultura ebraica, quali l’esoterismo e la numerologia. La vecchia idolatria spirituale.

Esegesi – Allontana Dio. Come la teologia.

Eterosessualità - È acquisizione apprezzabile in quanto recente. L’omosessualità fu a lungo privilegiata e scoperta, specie in filosofia. E fino a recente nelle società di soli uomini, circoli, società sportive, massonerie, e tuttora nella chiesa cattolica.

Europa - È la cultura irreligiosa, il primo caso nella storia. È stata cristiana ma da tempo è laica: dal Quattrocento, in vari modi, umanesimo, liberalismo, socialismo, nazismo, e ora irenismo.
È da tempo sterile e arida. È l’effetto dell’irreligiosità?

Evoluzione - È più vera in senso opposto, non come selezione ma come éclosion, moltiplicazione. In senso biblico, ex uno plures. Anche se il conto delle specie dovesse essere in diminuzione – razionalmente ciò è ininfluente nell’evoluzione, che implica sviluppo, crescita.
Si va per in realtà differenziazioni. Le specificità si moltiplicano e si accentuano per componenti culturali originarie, e per il condizionamento territoriale (contiguità, distanza), climatico, storico.
Lo stesso schema è sociale (storico). Le particolarità diminuiscono in questa fase di globalizzazione-occidentalizzazione. Ma anche si moltiplico, e addirittura rinascono. Lo stesso Sistema Moda, che prospera uniformando i gusti, le abitudini e i consumi, privilegia lo scarto.
Due scimpanzé o due gorilla sono molto più diversi tra di loro che non due essere umani. Questi essendo sempre più uniformati dalla cultura, l’ugualitarismo e il mercato, cioè dalla comunicazione. Dove l’habitat naturale prevale la diversificazione è costante.

Giallo - È il racconto che corre alla fine. Verso una verità che si sa essere un gioco: è una rassicurazione per chi non se ne cura.
La narrazione è – era – tipicamente aperte, seminativa. Il giallo è un ventaglio che si chiude.

Giovinezza - È il sogno della vita secondo i narratori memorialisti, ma in realtà la vita ne è il rifiuto. Di un’età vissuta nella collera e l’ansia, il rifiuto, l’incertezza, il mal di pancia cronico e violento. Si vive essendo sopravvissuti al’adolescenza.

È l’età dell’amore, ma questo si dimentica.

Moderno - Il nuovo e l’ignoto, direbbe Baudelaire, sono la chiave del moderno. Cioè di Odisseo, Gilgamesh, e ogni altra che abbia lasciato traccia di sé. Anche di Eva.
Ma non c’è da ridere, se non del moderno. Categoria moderna, che pretende di fermare la storia, e il moderno

Si potrebbe anche dire che comincia con l’usura. C’è – c’era – la questione dell’evento o della data da porre a confine fra evo medio e evo moderno: Gutenberg, Colombo, eccetera. Ma l’evo moderno, urbano, manifatturiero, politico, s’introduce di fatto progressivamente. E la leva (fermento, mastice, lievito, colla) è l’economia monetaria, il credito. La modernità cresce e s’impone col credito.

Morte – “Lo scopo di tutta la vita è la morte… Il non essere esisteva prima dell’essere”. È di Freud e non poteva essere di un altro – della cultura della morte. Filosoficamente l’essere – la vita - esisteva prima dell’essser-ci, e esiste dopo la morte. Lo stesso Freud, del resto, dice bene: “Ogni essere vivente muore necessariamente per cause interne”. Anche quando c’è chi lo vuole morto.

Il senso della morte è poco filosofico. Si è sempre nati, e si è sempre vivi.
Il senso della fine è della storia - della politica, la letteratura, l'arte, insomma l'immaginazione - che è un sostituto e non un'approssimazione della realtà. E va con le promozioni, i premi, i primati, va per accumulo.

Opinione Pubblica – O è come vuole Habermas, consistente con la borghesia, di cui è specchio e coscienza critica, o non è. Ma se la borghesia non è, come sembra, non è nemmeno l’opinione pubblica, che infatti è un fantasma quando non è una bugia.
Si vede in Italia: la Rai e i primi cinque giornali sono, con Sky e Canale 5, anti Berlusconi. Costantemente e insidiosamente. Ma Berlusconi, pure politico improvvisato e gaffeur, vince sempre le elezioni.
La cosa si può dire anche storicamente. Con la stampa, scompone il potere, dal Settecento in poi, la “sfera pubblica” di Habermas cambia. Il pubblico viene separato dal privato, lo Stato dalla società. La politica diventa anonima. La storia critica che scompone il potere, da Marx a Foucault, laora materia vecchia e già inerte, ed è essa stessa parte della “stampa” il circuito autoreferente che scacciala realtà.
Da qualche decennio l’opinione pubblica in Italia s’identifica con i resti del Pci – la famosa egemonia culturale di Togliatti e Amendola che si perpetua. La sua inconsistenza quindi non è zero, è negativa, posto che il Pci si è sciolto alcune volte, e continua a sciogliersi.
Un’opinione pubblica che fosse quello che si vuole che sia, la coscienza della nazione, non tollererebbe l’ipocrisia, lo spergiuro, la sopraffazione, che invece caratterizzano i suoi soggetti.

Rivoluzione – È il tema del Novecento, delle Grandi Guerre quindi e dell’Olocausto. Sotto il segno della Bomba.

È stata per tre secoli, dal Sette al Novecento, l’ordine delle cose intellettuale, da sinistra e da destra, più che di classe.

Sociologia – È quella cosa che non si sa cos’è.

Storia – È interpretazione, sul filo dell’intuizione, sorretta da testimonianze, anche mute.

È inutile, la nostalgia, il risentimento, la voglia di rifarlo. Il Santayana proverbiale, “chi non la conosce la ripete”, invita a rifarla meglio, e quindi a riparare gli errori, Monaco, il Vietnam, Praga. Ma la storia è conservatrice. Non reazionaria, non necessariamente: è scettica, la storia come le discipline storiche, sulla stessa sua logica e razionalità.

zeulig@gmail.com

Berlusconi non chiama Passera: non ha i capelli

Doveva essere il presidente del consiglio in persona a chiamare Passera e convincerlo a lasciare il transatlantico Intesa per la goletta Alitalia. Il piano di rilancio prevede “una forte discontinuità gestionale”, e molti nella maggioranza, da Fini a Letta, Bossi incluso, ci avrebbero visto volentieri l’ex ad delle Poste, che ha risanato e rilanciato al punto che hanno migliorato il servizio e fanno pure utili. Berlusconi però non l'ha chiamato.
A corte nessuno sa perché, e le ipotesi si moltiplicano. Si dice che Passera è in fondo l’uomo di Bazoli, dopo esserlo stato di De Benedetti, due nemici di Berlusconi. O che la cordata che Passera ha messo su contiene nomi non graditi. O che l’uscita di Passera verso Alitalia doveva essere bilanciata da una nomina gradita in Intesa-San Paolo. Insomma, si vaga nel buio.
C’è anche la teoria che Passera non è gradito perché è pelato. Gli uomini di Berlusconi devono avere chiome folte, o rinforzate - le eccezioni Urbani e Bondi, che Berlusconi non ha propriamente scelto, sono confinate alla cultura.

Che liberalismo è se chiude gli accessi?

Lo strumento monopolistico (padronale, baronale) più brutale è chiudere gli accessi, impedirli. Il governo del liberale Berlusconi si è segnalato finora per forme specialmente insidiose di questa odiosa pratica, sopratutto là dove la società si forma: nell’istruzione, nella ricerca, nell’istruzione universitaria..
Nell’America dell’Ottocento, nel pieno del delirio del liberismo e del liberalismo, della frontiera, delle opportunità per tutti, il monopolismo si praticava con le bastonate. Bertrand Russel nella poderosa “Storia delle idee del secolo XIX” ha ricostruire con gusto queste forme trascurate di storia, le (future) grandi famiglie americane che facevano bastonare e se necessario uccidere i concorrenti. La pia ministra Gelmini si limita a un comma, ma è più micidiale. Ha cancellato qualsiasi rinnovamento nella scuola, nella ricerca, all’università con una cosa che si chiama “niente turnover”, semplice semplice. Efficace efficace, non c’è che dire, nella sua Milano meriterà monumenti, durissima.
Lo stesso avviene in tutta la funzione pubblica. Dove non si correggono le storture: i carichi di lavoro inesistenti; il mancato controllo in tutta la catena organizzativa, sull’efficienza nel lavoro, sui tempi medi, sulla spese, eccetera; le storture sindacali, che proteggono il non fare e perfino l’assenteismo; la mancata formazione continua sul lavoro (uno entra col suo limitato peculio di conoscenza, e tale rimane per 35-40 anni). No, si condanna la funzione pubblica nell’insieme, non siamo liberali? per il mercato? per il rendimento?, e si realizza, chiudendo gli accessi, la sua totale inefficienza.

martedì 29 luglio 2008

Class action all'università

Un caso Poste-Rai moltiplicato per due, se non per tre. L’università ha accumulato in dodici anni dalla riforma Berlinguer tanti di quei precari (alcuni a trecento euro, l’anno!) da togliere il sonno ai contabili del Tesoro che prima o poi dovranno stabilizzarli. Mentre i giudici del lavoro affilano i coltelli aprendo le porte per i ricorsi. Il numero non si sa, ma è sicuramente superiore alle cinquantamila unità, e forse anche il doppio. I tredicimila precari delle Poste, e i tre-cinquemila della Rai, contro i quali sarebbe stata presentato proditoriamente in Parlamento l’emendamento anti-precari, sono quisquilie di fronte alla valanga che si annuncia all’università. Le associazioni degli utenti e consumatori sono già in allarme, per una possibile class action, da proporre agli interessati, o anche da proporre senza la loro delega.
Non è sfuggito al Codacons la segnalazione che il blocca-precari colpisce soprattutto l’università (“Il blocca-precari riguarda l’università” di ieri). Anche altre associazioni ne discutono. Dopo la stabilizzazione avviata dai due precedenti governi nell’insegnamento medio e superiore, quello universitario ne attende uno. La presunta autonomia dell’università consente ai governi di fare come se l’università non ci fosse. Ma l’utonomia finanziaria è in realtà inesistente all’università, che è tutta e solo statale.
La class action, recentemente introdotta nell’ordinamento italiano, riguarda propriamente i reati finanziari. È la possibilità per gli azionisti singoli e i sottoscrittori di obbligazioni di promuovere iniziative congiunte a protezione dei loro interessi contro pratiche illegali o anche solo nocive degli amministratori e degli emittenti. Ma la class action rafforza il ruolo delle associazioni d’interessi, quali quelle degli utenti e consumatori. E in un certo senso le abilita a qualsiasi iniziativa legale di massa a protezione dei loro interessi.

Tremonti già solo nella palude romana

Tremonti sembrava destinato all’intoccabilità dopo lo strabiliante successo alle elezioni della Lega, ma in pochi mesi la palude romana ha ripreso ad asfissiarlo, e non l’ha già sommerso. C’è già chi si prepara un invito a palazzo Koch da Draghi, come già fece Fini con Fazio, il governatore destituito della Banca d’Italia che era cinque anni fa il dichiarato nemico di Tremonti.
I centri romani “di opposizione” sono sempre gli stessi: la Banca d’Italia con la sua potenza di opinione, il mellifluo Letta, che governa palazzo Chigi, e Fini con i suoi colonnelli. Il ricorso a Draghi dice tutto. Il governatore, come già Fazio, non nasconde l’ambizione di sostituirsi a Tremonti. Ma in un governo senza Berlusconi, Draghi è un dichiarato Democratico. È però anche l’uomo di Gianni Letta, la luce dei suoi occhi – Letta che, se non Andreotti, è il maestro di Gianfranco Fini.
Sarà più difficile ora giubilare Tremonti. Non perché Draghi possa meno di Fazio, ma perché Berlusconi ancora conta. Legge i numeri e sa che senza Lega non ha maggioranza. Ma gli avvisi si accumulano sulla testa del superministro, in privato come usa a Roma: un tempo nei salotti, ora nelle trattorie, le gelaterie e al telefono – sì, malgrado le intercettazioni, se non a loro beneficio. Non si può vendere il patrimonio pubblico, nemmeno la caserme e le case vuote. Non si possono bloccare le assunzioni. E non si possono tassare i petrolieri: è dannoso, e poi è inutile – in questo rinfoltendo i ranghi con l’opposizione Democratica.

L'Europa è solo un teatrino

Non ci sono stati i mutui, né i fallimenti bancari, né il petrolio nei colloqui europei di Obama. Non il dollaro, o il supereuro. Non la Russia, il Libano o l’Iran. Né Bin Laden e il terrorismo. Neppure l’Afghanistan, se non l’Iraq. L’Europa è servita da palcoscenico per le tante tv al seguito, scenari storici grandiosi a Berlino, Parigi e Londra a maggior gloria di Obama, un lungo spot pubblicitario. Con ospiti europei che, non sapendo che fare, hanno fatto gli americani: alzano gli indici e dicono frasi fatte.
Del fuso freddo Obama, che incanta giusto perché è magro, alto e africano, questo viaggio sarà stato come il monolite metallico di “Odissea nello spazio”: chissà cos’è. Cosa pensa, cosa intende fare.
L’Europa da tempo non rappresenta più o meno nulla per l’America. Dai tempi di Reagan e Gorbaciov, dal crollo del comunismo. Comprese le presidenze Clinton, forse le più estraniate dalla vecchia madrepatria – George W. Bush in qualche modo ne ha avuto bisogno. Né in Europa c’è stato nessuno, compresi Mitterand, Kohl, e altri governanti forti, in grado di ricordare il continente a Washington. Altro che per ripicche.L’Europa tifa Obama, ma Obama non sa che dirle, altro che per fare scena. Ma poi il fatto non dipende da Obama, questo grande oggetto misterioso della politica: è con i democratici che l’estraniazione è totale, culturale, quasi genetica.

L'Anti-Europa, fra globalizzazione e tribù

È un libro evidentemente composito, forse per questo discontinuo e fragile, sebbene entusiasta. Il programma è impegnativo, l’autore non nasconde l’ambizione: ricentrare l’umanità, che va a onde. Fin dal titolo, l'originale, Un nouveau paradigme, e l'italiano. Touraine era autore, appena dieci ani fa, di un "Come liberarsi del liberismo". Questo Anti-Europa è, indirettamente, la conferma dell’inconsistenza della modernità. Del concetto, poiché la modernità è il reale ora. Di una sociologia che è retorica, presto quindi perenta, e anche ideologia. Mentre il cambiamento è industriale e politico. È stato militare sessantacinque anni fa, ma da allora si è scavato. È ora un dollaro l’ora, per quattordici ore al giorno. E questo si considera ancora abbondanza, la miseria del Terzo mondo è inimmaginabile. È la fine della storia, sì, dell’eurocentrismo.
L’esito è zigzagante, mai diretto come una freccia, come un programma vorrebbe. Ci sono anche errori e incongruenze. “Gli Usa da due anni non cessano di giustificare l’unilateralismo”, cioè dal 2003, dalla guerra all’Irak. No, gli Usa non si giustificano dal tempo di Kissinger, trentacinque anni fa, se non di Eisenhower. La globalizzazione è posta alla pari dell’ideologia del mercato e dell’individuo, fattore di disintegrazione, mentre invece è un disegno politico. E rivoluzionario: il mondo è plurale. Touraine lo sa, i miti di Hollywood si fabbricano anche a Londra, Parigi e Tokyo, ci sono ovunque ristoranti stranieri, molte tradizioni ritornano, anche questa è una novità, mentre i sindacati sono morti che parlano. Insomma, la globalizzazione moltiplica i soggetti, Touraine lo vede. Ma conclude che la mondializzazione è un modo capitalistico estremo di modernizzare, che non ha più una sua società, come un tempo ci sono state la società feudale e quella industriale. Il “vuoto sociale” è possibile? “Nessun tema è oggi più diffuso”, si giustifica Touraine, ma che pensarne?
Sul tema principale Touraine oscilla. Riconosce che “la globalizzazione è caratterizzata dalla circolazione accelerate dei beni e servizi, ma anche delle opere e pratiche culturali…, e delle rappresentazioni sociali e politiche… Un modo di trasformazione del mondo che resta multilaterale”. Ma al punto da dare spessore all’altermondialismo, a Seattle e Porto Alegre, che furono due vacanze alternative: “L’altermondialismo occupa un posto altrettanto importante oggi che il socialismo nei primi decenni della società industriale”.
La globalizzazione è un fatto politico e storico, di allargamento mondiale del mercato, e di spostamento del baricentro della storia dall’Atlantico al Pacifico, dopo alcuni millenni di storia eurocentrica. Questo fatto è dirimente, ma a Touraine non interessa, interessa il “quadro”. Vede così la globalizzazione da sinistra, per dire, e anche da destra. A metà libro ne dà questa ragione: “Il nostro mondo è dominato dalle forze incontrollate del mercato, della guerra e della violenza”. Roba insomma da fine del mondo. Ma questo mondo è anche “sempre più sollecito delle scelte morali”.
Touraine è contro la concezione critica, che al solito favorisce “il trionfo della dominazione” che critica, magnificandone la potenza, e contro il pensiero neo liberale, di un edonismo debole. Ma senza criterio, e senza scopo: “La sociologia critica ha scoperto con ragione nel funzionamento della società più dominazione che razionalità”. C’è ingenuità nel suo progetto. C’è coraggio: è il concetto di modernità che va rinnovato con quello di società, “non dobbiamo più pensare socialmente i fatti sociali”. Che non è possibile, anche se è un necessario approccio diverso. Ma l’antidoto alla disgregazione e alla dominazione è l’individualismo bene inteso. Quale? La vecchia libertà? L’interesse? Un fondo di razionalità, sia pure la mera sopravvivenza?
Il libro è tutto ai punti 8 e 9 delle “Conclusioni”. La pagina risolutiva è a metà del libro, all’inizio della seconda parte, argomento “Il soggetto”: “Abbiamo a lungo cercato il senso della nostra vita in un ordine dell’universo o in un destino divino, in una città ideale o in una società d’eguali, in un progresso senza fine op in una trasparenza assoluta”. Ora “tutti i cieli si sono vuotati della loro divinità”. Ora costruiamo in noi stessi, in quanto cittadini, lavoratori, esseri culturali, bellicosi, sessuati. Insomma, il programma d’azione della vita ordinaria, quale si è sempre fatta.
Distinto è, con la globalizzazione, il ritorno del comunitarismo - del tribalismo si sarebbe detto un tempo con più verità. Anche sotto la forma diluita che Touraine patrocina dei “diritti culturali”, da osservante e credente della Francia repubblicana: “Bisogna risolutamente difendere la cittadinanza contro il comunitarismo”. La vera modernità è il soggetto, che reca diritti culturali. Insomma, il multiculturalismo, che è altrettanto inconsistente che il pluralismo politico, quando non è una tautologia – è una maniera di negazione di sé, dello stesso soggetto. Touraine è personalmente sensibile a questo tema, avendo scoperto nel 1940, come confessa in una pagina, l’inconsistenza del nazionalismo, e alla liberazione “la mediocrità che era stata del mio paese prima e durante la guerra”, e per questo si è aperto al mondo, gli Stati Uniti, il Canapa, l’Italia, la Spagna, e poi a lungo e soprattutto l’America Latina. Inoltre, è dal Sessantotto che insegna l’emergere dei bisogni, i diritti culturali. Disse allora che l’ispirazione principale del movimento degli studenti, e quindi dei giovani, era di tipo culturale. Un’esperienza, disse poi, soffocata, soprattutto all’università, sotto il verbiage marxista rivoluzionario, che dava la preferenza alla “parola morta” rispetto all’“azione viva”. Ma non ha in realtà la soluzione, il giusto mix, il nuovo punto di equilibrio direbbe l'economista marginalista.
Touraine cita di passata Belgio e Olanda, in quanto società multiculturali che le differenze riconoscono come “pilastri”. Che sono però società palesemente tribali, e un esempio negativo, malgrado spendano molto la parola tolleranza. La squadra dell’Ajax per un secolo è stata la squadra degli ebrei. In Belgio le due comunità non si parlano tra di loro neppure per le esigenze minime, come fare un governo.
La cittadinanza Touraine difende anche contro le divisioni di genere. Ma per cadere nella nozione ambigua di queer: “Le più grandi femministe, Judith Butler in testa, hanno denunciato l’idea di gender, e hanno cercato di riabilitare tutte le forme minoritarie (queer) di vita sessuale”. Tutte le forme minoritarie imponendo come forme primarie, il che è una della cause primarie dell’insofferenza della vita associata oggi, delle derive politiche populiste, dell’intolleranza verbale, se non sociale e razziale. La democrazia si qualifica per la protezione delle minoranze, ma non al punto da scompaginare le maggioranze.
Forse i piani di lavoro delle componenti del libro erano diversi, questo può spiegare la confusione. Il punto di partenza è la rottura del patto sociale: delle classi e i movimenti, e degli agenti della socializzazione, la scuola e la famiglia (non dello Stato sociale, la sanità, la previdenza, l'istruzione?). Dopo la società politica e poi quella economica, l’Occidente moderno si organizza su un nuovo paradigma prevalentemente culturale. In ragione dell’informazione e dell’informatizzazione. Dopodichè tutti i nodi restano aggrovigliati.
È questa modernità il mondo virtuale di Baudrillard? Lo è, ma non nel senso di Baudrillard, di un mondo vuoto: la virtualità è tosta. L’11 settembre, un’azione militare limitata, e anzi un atto di terrorismo, è più di una guerra vinta proprio in ragione della sua virtualità, della diretta televisiva, è un evento secolare, millenaristico. Gli Stati Uniti avevano perduto una guerra durissima, contro il Vietnam, e quella a basso voltaggio contro Cuba, e tutto era rimasto come prima. Anzi, il presidente Kennedy che ne fu l'artefice è tuttora un eroe. E gli Usa sconfitti hanno semplicemente spazzato via il comunismo vincitore, europeo e asiatico. Ma l’11 settembre è indelebile.
Dove Touraine incide è sotto forma di pamphlet anti-Europa. Uno stato senza nazione. E anche senza consistenza: “L’Europa, ingrandendosi, si ripiega su se stessa”. L’Europa che s’è fatti fare i massacri dell’ex Jugoslavia non è una società e non è uno Stato: “L’indebolimento delle identità nazionali non è compensato dalla formazione di un’identità continentale”. Senza alcun peso politico, specie nel Medio Oriente: impotente militarmente, in diplomazia, nella cultura. Touraine confessa di sentirsi più di casa a New York che a Parigi: “Tutto, nel metodo seguito fino ad ora per costruire l’Europa, ha fatto ostacolo a che l’Europa sia uno Stato democratico”, un cosa nuova, moderna. Un continente di pensionati.
Un libro entusiasta e confuso. Se non si condivide la tesi che la sociologia è quella cosa che non si sa cos’è. Non ultimo perché non è teorico e non è pratico, è solo ripetitivo nell’annuncio della nuova soggettività. Qualcosa di già sentito, che Touraine però vuole il rovesciamento della storia: ciò che la modernità ha diviso e negato, nel suo disegno di razionalità semplificante, espressione del potere, ora si ribalta nell’avvenire del soggetto ritrovato. Ma il nuovo paesaggio sociale è noto ai più: centinaia di milioni sono stati licenziati a cinquant’anni, e qualche miliardo vive da precario, anche generazionalmente cominciano a essere di più quelli che non hanno vissuto la società protetta. Ma sembra sempre quello cubista, dei piani disgiunti, continua a mancare la vecchia prospettiva, la tela di fondo.
Alain Touraine, La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il mondo contemporaneo, Il Saggiatore, pp. 283, € 22.

Se i grattacieli proteggono l'ambiente

Giedion si perde alla ricerca dell’unità tra architettura, pittura e scultura. E del core (non il cuore?) della città oggi. Come il Campidoglio di Michelangelo fu per Roma (ma non fu sommerso per quattro secoli dalla sporca suburra? Fino ai mattoidi che costruirono il Vittoriano). “Architettura e comunità”, questo il titolo originario del libro, fu pubblicato nel 1956 in Germania da Ernesto Grassi, il filosofo napoletano emigrato, nella collana enciclopedica tascabile dell’editore Rohwolt. Dove aveva una funzione, segnalando un’esigenza. Dopo cinquant’anni è una raccolta di testi d’occasione, un po’ ripetitiva, un po’ giornalismo di seconda mano. Con rare accensioni del Giedion seminale di “Spazio tempo e architettura”: il punto di vista dell’esterno e il punto di vista dell’interno (“aver voluto misurare l’Egitto col metro della Grecia”), il dovere del critico di riconoscere il genio, cioè il proprio tempo, la modernità, la controvertibilità di ogni atto, l’architetto ridotto allo stile in una civiltà senza core.
L’infatuazione ripetitiva per Le Corbusier è tutto dire, per i falansteri di cemento armato in vista, che si frantumano, e le pitture a piani verticali, che si slavano, dopo un anno. Come tutto il razionalismo di quegli anni, entusiasta ma povero. Curiosamente, Giedion denuncia “l’irrimediabile devastazione del paesaggio” che i regolamenti urbani compirebbero impedendo la costruzione senza limiti in altezza. Questi vincoli impongono il logis prolongé, i fascioni ingovernabili che ora tutti vogliono abbattere. Che erano però il sogno di Le Corbusier. E che pensare di un falansterio di cento piani, che proteggerebbe il paesaggio? Che è meglio non si sia fatto. Con un’appendice sull’urbanistica di Walter Hess.
Siegfried Giedion, Breviario di architettura, Bollati Boringhieri, pp.250, € 10

lunedì 28 luglio 2008

Il blocca-precari riguarda l'università

Tre volte i precari messi assieme delle Poste e della Rai. È questa la valanga di possibili stabilizzazioni contro cui la norma senza padri che vaga in Parlamento fa diga. Sono i precari dell’università. Una figura composita di una dozzina di figure contrattuali diverse, ma tutte finte, che un qualsiasi giudice sarebbe costretto a stabilizzare. Un numero che nessuno conosce, ma che è “più di cinquantamila” secondo il ministero, e forse il doppio.
Presentato in un primo momento come un emendamento a protezione dell’industria, il blocca-precari è in realtà inteso a proteggere lo Stato. Sarà ritirato, ma avrà avuto la funzione di segnalare la voragine aperta nella funzione pubblica allargata, se non è stato presentato appunto per questo: le Poste e la Rai sono del Tesoro, e anche l’università, sebbene abbia uno statuto ambiguo, è indubbiamente un’istituzione pubblica e statale, specie per le figure professionali.
Non si tratta di “quattro milioni” di precari, come si sente dire in Parlamento, contro cui la norma farebbe argine. Questo è il parterre dell’occupazione giovanile. Nel quale, da una parte e dall’altra, il precariato ha perduto rapidamente i suoi connotati: non è più maledetto per i giovani lavoratori e non è più apprezzato dai padroni. Il precario è pubblico. Ed è essenzialmente scolastico. Ma, con l'università, è ancora una mina temibile.
Dopo i piani di stabilizzazione per l’insegnamento medio e superiore, quello universitario ne attende uno. L’ambigua autonomia dell’università consente ai governi di fare come se l’università non ci fosse. Ma la cosa evidentemente non sfugge al legislatore, ancorché anonimo.

Per la gestazione Pd un'altra elezione

Un tempo si sarebbe richiesta una generazione, o due. Ma un’elezione è pur sempre necessaria, se non due, anche oggi che il tempo va di fretta: ci vogliono dai cinque ai dieci anni per stabilizzare un partito. Un progetto, per quanto bello, ragionevole, appropriato, atteso e anzi privilegiato dal mercato, non si realizza all’istante. E il partito Democratico è un progetto. Non c’è stato un movimento di masse. Le quali anzi, nei rispettivi schieramenti confluiti nel Pd, sono guardinghe. Gli ex Dc magari erano pronti, essendo minoranza e sapendolo. Ma gli ex Pci no. In Puglia, a Massa, a Viareggio e in altri posti hanno votato per vecchi compagni piuttosto che per il candidato bianco, benché democratico.
Veltroni lo sa. Come sa che non c’è altro leader che lui, se il Pd vuole crescere, anzi semplicemente durare. D’Alema, Rutelli, Parisi, per dire Prodi, e i giovani Franceschini e Letta, possono agitarsi, dichiarare, creare fondazioni, riviste e consuetudini al cenobio, per non chiamarle correnti o frazioni, possono dare interviste di una pagina ai grandi giornali democratici, diventare protagonisti dei talk-show per due e tre ore, ma alla conta tutti li fuggirebbero. Ora, il Pd non vuol’essere un partito d’opinione, finire su “Repubblica” e il “Corriere della sera”. Ambisce a crescere, per farlo deve arrivare a un sottile equilibrio tra le sue due anime, la rossa e la bianca, e questo solo l’abiurante Veltroni può tentarlo.
Al partito Democratico non si sfugge. Un Pd ci vuole, Berlusconi lo impone: non può vincere tutte le elezioni. Si tratta dunque di aspettare. Quando le masse (gli assessori, i portatori di voti, i collettori) avranno capito che o si va con Berlusconi o ci si unisce, il passo decisivo sarà stato fatto. Non ci sarà da aspettare molto, perché l’alternativa in realtà non c’è. Berlusconi sta intasando tutte le piazzole , e cinque anni fuori dal potere sono lunghi. L’uomo poi non è generoso, ha perfino perso un paio di elezioni per non voler mollare briciole di sottogoverno. Una scelta definitiva quindi urge, magari prima della seconda elezione.

L'equivoco petrolio, risorsa e cappio

Documenta Marco Niada sul “Sole” di ieri come i fondi sovrani gestiscano 3.240 miliardi di dollari. Di cui 2.100 sono gestioni di surplus finanziari petroliferi. Nei passati shock petroliferi, 1973, 1978, si è fatto largo ricorso ai fondamentali del mercato: il petrolio è risorsa deperibile, la crescita degli investimenti per la ricerca di nuovi giacimenti è esponenziale, le riserve sono comunque sempre meno adeguate, il valore aggiunto è maggiore per i consumatori che per i produttori-esportatori. Sui quali è stata costruita una miniera di ricca valuta, già dal primo shock del 1973. Argomenti dimenticati nel 2007-2008, sia da parte dei produttori, che delle compagnie e dell’Agenzia internazionale dell’energia, ammesso che ci sia ancora: nessuno e niente giustifica il prezzo del petrolio, se non la bolla speculativa.
Un bene primario che schizza, in otto giorno lavorativi, da 130 dollari a barile a 160, e poi a 120 è sicuramente oggetto di speculazione. Nessuna configurazione di mercato, neppure l'ipotesi (gonfiata) di guerra all'Iran, dò fondamento a tale volatilità. Ma l'opinione prevalente è attestata sul mercato, e bisogna far finta, ragionare come se. Ma, ragionando come se un mercato ci fosse, le cose non quadrano.
Il petrolio, come si sa, “non ha prezzo”. La formula, letta dallo scià di Persia nel 1973 nel senso che “il petrolio sarà venduto in farmacia”, ha sempre significato che è difficile e anzi è impossibile quantificare il costo di un barile di petrolio. Il costo unitario le compagnie lo hanno sempre “costruito”. Per cui quello saudita era di un dollaro al barile, e quello dell’Alaska dai dieci dollari in su. Ma nulla impedisce che quello dell’Alaska sia di un dollaro, se il giacimento è consistente. I prezzi del petrolio sono valutazioni medie delle compagnie e dei paesi esportatori, su medie regionali o locali. Questo per la parte produzione: ora che i paesi produttori sono padroni del petrolio, la differenza fra costo reale e costo imputato fa già una bella differenza.
Poi c’è il prezzo di mercato. Su cui influiscono la stagionalità e la sostituibilità. La prima è l’andamento giorno per giorno della domanda. Rispetto a un’offerta che per vari motivi è rigida: investimenti, programmazione della produzione, trasporto, raffinazione, distribuzione. Ma la stagionalità è arbitraria, e solo un modo di dire: il freddo puà accrescere il consumo di petrolio, oppure ridurlo, e così il caldo (la stagionalità modula in realtà la domanda fra i diversi prodotti raffinati). A termine più lungo agisce la sostituibilità. In forma di deperibilità dapprima, per un senso di equità: si paga un paese, una nazione, per lo sfruttamento di una risorsa che non potrà sostituire. Poi si paga la sostituibilità vera e propria del petrolio come fonte di energia: quanto costa un litro di benzina di mais, o un chilowattora di fonte nucleare. Questo dice l’economia.
La realtà è tutta diversa, e i fondi sovrani ne sono il monumento. Più che una più equa redistribuzione delle risorse, i prezzi altissimi del petrolio configurano una liquidità eccessiva, che i paesi del petrolio non sanno come maneggiare. Avviato nel 1973, il fenomeno non si è riassorbito col tempo, man mano che i paesi del petrolio si modernizzavano e investivano, ma al contrario è cresciuto. Il premio alla deperibilità e lo schema sviluppo\sottosviluppo non reggono più: le eccedenze finanziare sono state indirizzate in misura irrisoria all’energia. La sostituibilità non è più un argomento, dacché nessuno sviluppo alternativo serio è stato individuato tra le fonti di energia. Sono due crisi completamente diverse, quella degli anni Settanta e la odierna, in due mondi totalmente diversi. Svanito è il rilancio degli investimenti, nello stesso petrolio e in altre fonti di energia, che allora imperava, nel mondo di Reagan e Bush. Non si può più parlare di un’economia dell’energia, se non nel senso che impera chi fa il prezzo, e il mondo si adegua.
I fondamentali odierni del mercato del petrolio - o dell’energia che è la stessa cosa - sono radicalmente diversi rispetto a trent’anni fa, e tutti negativi. Influenzano negativamente forse più della crisi dei mutui in America il moto ondivago della domanda mondiale complessiva, e dell’economia internazionale. Per effetto dell’inflazione e, più, della deflazione. Là dove l’energia costituisce un onere che alcune economie non si possono pagare, quelle dei paesi poveri, e fra i paesi ricchi quelle con più lacci, come l’italiana. Per la promozione di investimenti che mai saranno competitivi, se non a prezzo d’affezione. Come oggi tutte le fonti di energia nuove o alternative, eolica, fotovoltaica, solare, il ciclo dei rifiuti. Per gli sconquassi provocati nei consumi primari, dacché le granaglie, con reazione scomposta come nelle economie di guerra, sono state indirizzate alla produzione di benzina.
Gli effetti sono deleteri sugli stessi paesi produttori di petrolio. Essi pagano molto più caro tutto, e non si rifanno, non possono rifarsi, con i piazzamenti finanziari. I fondi sovrani sono necessari, ma ripagano solo in parte lo sconquasso da cui si alimentano. L’argomento del circolo vizioso, impostato già nella prima crisi, nel 1973, sembrò capzioso. Oggi non più, il problema principale dei fondi sovrani è investire in sicurezza.L’equivoco petrolio, da risorsa a cappio
Documenta Marco Niada sul “Sole” di ieri come i fondi sovrani gestiscano 3.240 miliardi di dollari. Di cui 2.100 sono gestioni di surplus finanziari petroliferi. Nei passati shock petroliferi, 1973, 1978, si è fatto largo ricorso ai fondamentali del mercato: il petrolio è risorsa deperibile, la crescita degli investimenti per la ricerca di nuovi giacimenti è esponenziale, le riserve sono comunque sempre meno adeguate, il valore aggiunto è maggiore per i consumatori che per i produttori-esportatori. Sui quali è stata costruita una miniera di ricca valuta, già dal primo shock del 1973. Argomenti dimenticati nel 2007-2008, sia da parte dei produttori, che delle compagnie e dell’Agenzia internazionale dell’energia, ammesso che ci sia ancora: nessuno e niente giustifica il prezzo del petrolio, se non la bolla speculativa.
Il petrolio, come si sa, “non ha prezzo”. La formula, letta dallo scià di Persia nel 1973 nel senso che “il petrolio sarà venduto in farmacia”, ha sempre significato che è difficile e anzi è impossibile quantificare il costo di un barile di petrolio. Il costo unitario le compagnie lo hanno sempre “costruito”. Per cui quello saudita era di un dollaro al barile, e quello dell’Alaska dai dieci dollari in su. Ma nulla impedisce che quello dell’Alaska sia di un dollaro, se il giacimento è consistente. I prezzi del petrolio sono valutazioni medie delle compagnie e dei paesi esportatori, su medie regionali o locali. Questo per la parte produzione: ora che i paesi produttori sono padroni del petrolio, la differenza fra costo reale e costo imputato fa già una bella differenza.
Poi c’è il prezzo di mercato. Su cui influiscono la stagionalità e la sostituibilità. La prima è l’andamento giorno per giorno della domanda. Rispetto a un’offerta che per vari motivi è rigida: investimenti, programmazione della produzione, trasporto, raffinazione, distribuzione. Ma la stagionalità è arbitraria, e solo un modo di dire: il freddo puà accrescere il consumo di petrolio, oppure ridurlo, e così il caldo (la stagionalità modula in realtà la domanda fra i diversi prodotti raffinati). A termine più lungo agisce la sostituibilità. In forma di deperibilità dapprima, per un senso di equità: si paga un paese, una nazione, per lo sfruttamento di una risorsa che non potrà sostituire. Poi si paga la sostituibilità vera e propria del petrolio come fonte di energia: quanto costa un litro di benzina di mais, o un chilowattora di fonte nucleare. Questo dice l’economia.
La realtà è tutta diversa, e i fondi sovrani ne sono il monumento. Più che una più equa redistribuzione delle risorse, i prezzi altissimi del petrolio configurano una liquidità eccessiva, che i paesi del petrolio non sanno come maneggiare. Avviato nel 1973, il fenomeno non si è riassorbito col tempo, man mano che i paesi del petrolio si modernizzavano e investivano, ma al contrario è cresciuto. Il premio alla deperibilità e lo schema sviluppo\sottosviluppo non reggono più: le eccedenze finanziare sono state indirizzate in misura irrisoria all’energia. La sostituibilità non è più un argomento, dacché nessuno sviluppo alternativo serio è stato individuato tra le fonti di energia. Sono due crisi completamente diverse, quella degli anni Settanta e la odierna, in due mondi totalmente diversi. Svanito è il rilancio degli investimenti, nello stesso petrolio e in altre fonti di energia, che allora imperava, nel mondo di Reagan e Bush. Non si può più parlare di un’economia dell’energia, se non nel senso che impera chi fa il prezzo, e il mondo si adegua.
I fondamentali odierni del mercato del petrolio - o dell’energia che è la stessa cosa - sono radicalmente diversi rispetto a trent’anni fa, e tutti negativi. Influenzano negativamente forse più della crisi dei mutui in America il moto ondivago della domanda mondiale complessiva, e dell’economia internazionale. Per effetto dell’inflazione e, più, della deflazione. Là dove l’energia costituisce un onere che alcune economie non si possono pagare, quelle dei paesi poveri, e fra i paesi ricchi quelle con più lacci, come l’italiana. Per la promozione di investimenti che mai saranno competitivi, se non a prezzo d’affezione. Come oggi tutte le fonti di energia nuove o alternative, eolica, fotovoltaica, solare, il ciclo dei rifiuti. Per gli sconquassi provocati nei consumi primari, dacché le granaglie, con reazione scomposta come nelle economie di guerra, sono state indirizzate alla produzione di benzina.
Gli effetti sono deleteri sugli stessi paesi produttori di petrolio. Essi pagano molto più caro tutto, e non si rifanno, non possono rifarsi, con i piazzamenti finanziari. I fondi sovrani sono necessari, ma ripagano solo in parte lo sconquasso da cui si alimentano. L’argomento del circolo vizioso, impostato già nella prima crisi, nel 1973, sembrò capzioso. Oggi non più, il problema principale dei fondi sovrani è investire in sicurezza.