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venerdì 16 luglio 2010

Le lucciole, luce che non fa luce

Un omaggio a Agamben, a tratti critico, in un pascolo brado di letture contigue, di Pasolini prima, l’articolo delle lucciole, che non fanno luce, ma sono luce, di Benjamin estesamente, e di Klemperer, Charlotte Beradt, Bataille, Laura Waddington. Il filo sono le immagini e le persistenze (sopravvivenze), di cui Didi-Hubermann è appassionato ricercatore e filosofo (in Botticelli e nel Beato Angelico tra gli altri, lì appassionante), “immagini di pensiero”, “esperienze di immagini”.
Di Pasolini l’iconologo fatica a seguire gli umori politici. Una spiegazione provvisoria tentandone, della disperazione politica (l’articolo delle lucciole, l’1 febbraio 1975, s’intitolava “Il vuoto del potere in Italia”), nella perdita, o trasformazione, del desiderio sessuale, in Pasolini stesso e nella società italiana. Se non che la Repubblica è fascista per Pasolini ben prima del 1975, praticamente da sempre, come lo stesso Didi-Hubermann rileva sorpreso nel breve scritto sul poeta che apre il volume – un fatto perfino evidente nella chiave analitica, il rapporto con la madre, col fratello, con la madre e il fratello, con gli amici (Sergio Telmon), con la Resistenza, col Partito.
Georges Didi-Hubermann, Come le lucciole, Bollati Boringhieri, pp. 100, € 16

Letture - 35

letterautore

Ambiguità – È un passepartout – un ruolo, un criterio psicologico, un chiave letteraria – del riduzionismo intellettuale. Della cultura urbana (borghese), non più di corte (governo) né aristocratica (individuale), che ininterrottamente fa la cultura, dal Settecento a oggi. Dell’unificazione della cultura, fra colta e popolare, in un genere medio, regolato, con canoni classificabili (le storie delle letterature) e per questo semplificati. Su tutte le esperienze cassate della narrazione – della rappresentazione - s’imprime il cachet dell’ambiguità: doppio, mmetismo, ermafroditismo.

Arbasino – Nei testi e infine nelle poesie è lui l’Ingegnere, grande scienziato e sociologo politico, il rap è genere che lui inventa, piuttosto che adattarvisi. Ma oberato dall’irrilevanza (isolamento). Senza colpe, per non essere passato dalle ferree non scritte regole del Partito. Da qui la smania di presenziare, e l’ironia moralistica. Come se parlasse di sé. E gli stilemi che lo disseccano: non raccontano né illuminano la sua intelligenza, anzi ne coprono le indiscutibili verità,

Benjamin – “Le quotazioni dell’esperienza sono crollate”, o “L’arte del romanzo volge al tramonto”. Queste e altre facezie si leggono ne “Il narratore. Riflessioni sull’opera di Nicolaj Leskov”, del 1936, della maturità: “L’arte del romanzo si è fatta sempre più rara”, e “Il narratore è la figura in cui il giusto incontra se stesso”. I si ppuò domandare cosa significhi questo nell’opera e negli intendimenti di Benjamin. Ma cosa significano per noi? Niente. La scrittura è comunicazione e non propaganda,

Bertolucci, Bernardo – È cineasta sovietico. Riesce bene da comunista di tipo sovietico, negli apparati e nei rapporti di potere, in “L’ultimo imperatore” e in “Novecento”. Si smarrisce nelle storie individuali - è peraltro uomo di tic, in perpetua analisi: non sa di niente “Il confo0rmista”, di “Ultimo tanto”, rivisto a distanza, finita la magia della ragazza dalle grandi tette, si ride, è scombinato il film toscano con Liv Tyler, è calligrafico il “Budda”.
Lo stalinismo, come lo hitlerismo, ha lasciato manufatti artistici solo al cinema, è già stato detto, perché il cinema si presta agli apparati, alla propaganda – la propaganda è immagine. Ma sono manufatti sempre vivi, anzi, la Riefenstahl, splendenti. C’è qualcosa di vero, evidentemente, in questi totalitarismi, nella loro capacità di catturare l’immagine.

Borges – La verità è che era uomo di esperienza. Ha viaggiato giovane, e non per turismo, in Svizzera e in Spagna, ha sofferto il fascismo, il bisogno, la cecità. Come Petrarca, civetta con la biblioteca.
Resta da dimostrare che il mondo è la biblioteca. Se non, appunto, ironicamente.

Ma è heideggeriano integrale! O viceversa. Il Chisciotte ricopiato che è un altro Chisciotte. I sentieri che si biforcano. La vita in biblioteca…

Casanova – Scrisse per “godere una seconda volta”, cioè per sé. Si può scrivere per sé? Improbabile nel suo caso, ma non impossibile: c’è un esibirsi a porte chiuse, in teatrino privato. Non l’esame di coscienza. Una rappresentazione.

Céline- È un longilineo che si era fermato a pensare, la testa sproporzionata sul corpo magro, anche in gioventù, dai tratti però belli, l’occhio glauco, più sorridente che incerto, gli zigomi forti, da amico sicuro, il naso diritto profilato, la fronte illimitata virginale, prima che le rughe precoci la occupassero come onde in rictus inarrestabile.
Ma ha l’odio del declassato. La disperazione anche.

Confessione – C’è sempre un santo, dopo sant’Agostino, nelle confessioni, compresi gli spropositi di Sade, che non cessa d’interrogarsi su Dio. Confessio è del resto l’elogio della grandezza di Dio.
Solo Casanova fa eccezione, che scriveva per “godere una seo0nda volta”.

Dante – Già reazionario per Sanguineti, “Dante era un intellettuale di destra”, conferma Eco sul primo numero di “Alfabeta “, la rivista, “(pensate,… il ritorno all’Impero mentre stavano fiorendo i liberi comuni!)”. Eco è l’intellettuale semplificatore che sta criticando. Non Dante, che viveva una guerra civile. Per non dire del significato dell’unità. Dell’impero come aspirazione all’unità sociale e non come dominio.

Ironia – Si ribalta sull’autore. Lo espone, e anzi lo mette n scena, sotto i riflettori, in recital solitario, antagonista.

Lettore – Nelle parole cerca emozioni. Anche intellettuali – raramente.

McCullers, Carson – La difficoltà di lettura di Carson McCullers, dei suoi prefatori, curatori, critici, viene risolta all’americana (alla Sainte-Beuve?) con la biografia: androgino, ambiguità sessuale, difficoltà di amare, il triste intreccio coniugale. Anzi, nemmeno dalla biografia, che resta approssimata, ma da stili di vita successivi. Letture che vogliono dare un frizzo a materia altrimen ti inerte, ma che non sono all’evidenza verità.
La verità è invece il mondo del Sud, un mondo diverso, fuori dai canoni, urbani, nordici, evidentemente insondato anche in America. Diverso e non assimilabile, ecco la differenza da altre diversità, la provincia del Nord per esempio o le comunità etniche: non riducibile perché solido, storicamente ancorat0o e radicato, e forse, chissà, anche perché è più umano, rispondete a ritmi interiori più umani.
Personaggi e contesti non sono ambigui ma complessi. Non rientrano nel ruolo urbano dell’ambiguità ma fuoriescono, per la complessità e la novità, dai canoni della critica. Critica peraltro legata negli Usa al mercato editoriale. O, chissà, anchilosata: la città ha perduto gli umori e la scrittura s’ingessa. Londra, Parigi, che furono teatro di umanità ridondanti, dickensiane, vittorughiane, sono ormai fondali indistinti di avulsi noir. È lo stesso per le città americane?
In termini urbani, dice la stessa scrittrice del suo personaggio femminile dei “Riflessi”, “aveva una rotella fuori posto”. Fa scattare lei stessa il cortocircuito del canone, o linguaggio dominante. Ma questo è il segreto narrativo, o meccanismo: lo scarto “personale”, il differenziale dalla psicologia letteraria. Più produttivo dello scarto sociale, proprio della letteratura del Sud e in Italia, scontato (“sono cattivo perché sono povero, sono povero perché sono sfruttato, sono sfruttato perché lo Stato è venduto”).

Narrare - È sempre costruire, per quanto in forme aperte, ambigue, erratiche, dispersive. È sempre scegliere e fissare, disporre degli elementi, scrittura automatica compresa, libero corso delle associazioni, flussi di coscienza. Anche i sogni prendono forma nel ricordo, che è narrazione.

Proust – È tutto nella benjaminiana “durata assoluta, paradossale, del Giorno del Giudizio”. È allora autore etnico?
O, essendo Benjamin dichiaratamente etnico, è la caratterizzazione epimenidea - alla Epimenide cretese?

Romanticismo – È maschile? Le scrittrici non sono romantiche: mademoiselle Scudéry, madame de Lafayette, le Duras, Jane Austen, le Brönte, Carson McCullers, Flannery O'Connor.

Romanzo – È un tentativo di dare senso alla vita. Poiché la vita trascorre nella sopravvivenza per lo più, quindi oggi in atti insensati (pendolarismo, gesti ripetuti, discorsi fatti), il romanzo ne riprende le fila. Quello d’autore come, naturalmente, la telenovela. E perfino la soap-opera, che si ambienta nella quotidianità, è un format di vita vissuta nel suo modo più squallido, la ripetitività: avrà un potenziale di catarsi (transfert, identificazione, proiezione) ridotto, e tuttavia efficace.

L’autore è lo stratega, ma ne è anche il fante: il teatro d’operazioni lo può sopraffare.
Come stratega dev’essere soprattutto distaccato. Di poche dee, se non di una sola.

letterautore@antiit.eu

giovedì 15 luglio 2010

D’Alema all’incasso – con Napolitano?

A un anno dall’annunciata offensiva giudiziaria, e con due elezioni perdute, D’Alema passa all’incasso. Chiedendo il governo. Il passo è meno risibile di quanto appaia. Primo, perché D’Alema ha riacquisito la vecchia sponsorizzazione di Milano – di Bazoli, il “Corriere” e Mediobanca. Secondo, perché può sperare in un ripensamento di Napolitano, il presidente di cui D’Alema fu lo sponsor – e poi, D’Alema non è Montezemolo.
Il presidente Napolitano ha orrore dei ribaltoni. Perché li ha sperimentati da presidente della Camera, quando le Camere furono sciolte due volte in due anni, e la cosa ripugna alla sua cultura politica – fu allora un vero e proprio golpe di Scalfaro. Lo ha anche scritto in un libro. Né si può pensare di andare a elezioni con un Parlamento solidamente in mano a Berlusconi, e con una maggioranza parlamentare confermata in tutte le elezioni locali successive. Ma ora, assicurata la manovra finanziaria necessaria alla stabilità dell’euro, Napolitano potrebbe avere un ripensamento.
Quello che è certo è che il presidente della Repubblica è sconcertato dalla debolezza “politica”, se non elettorale, di Berlusconi. All’origine di questo sconcerto in particolare il fatto che Berlusconi si faccia mettere in un angolo da un personaggio chiacchierato come Bocchino, e più in generale la sua mancata resistenza all’offensiva, della sua Milano e della magistratura. Che è amplificata non solo dai grandi giornali a lui ostili, ma anche dai giornali e telegiornali a lui vicini, il gruppo della “Nazione”, “Il Tempo”, Bruno Vespa.

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (62)

Giuseppe Leuzzi

Di pentiti (spioni, delatori, informatori) è piena “La certosa di Parma”.

S’immagini per ipotesi che non ci sia “Palermo”, non ci siano cioè le Procure, la Rete, i Ros, la Dia, e la catena di sant’Antonio dei giornali, ebbene, la mafia scomparirebbe. Ci sarebbero delle violenze e dei taglieggiamenti che però la polizia punirebbe – se per ipotesi ci fosse una polizia, una vera, con mezzi idonei a colpire i delinquenti.
Cos’ha portato al Sud la giustizia, l’apparato repressivo? I briganti dapprima, poi la mafia, con l’omertà, e la corruzione universale, partendo dagli appalti pubblici. Impunita finché della corruzione non hanno preteso la loro parte i meridionali. Ora punta allo sradicamento della politica, cui la scuola di Cordova nella magistratura si applica da un trentennio – compresi i “patti scellerati” con le “logge segrete”, insomma i complotti.
L’apparato repressivo della giustizia non interviene se c’è un taglieggiamento, un appalto truccato, un attentato dinamitardo, un assassinio, interviene solo se si può mettere d imezzo qualche politico. Tolta la politica, in effetti, al Sud non resta nulla.

La legge ce l’ha anche la mafia, terribile. Senza bisogno delle sottigliezze che hanno imbastardito la giustizia, il concorso esterno e il voto di scambio.

Milano
Si arrestano molti calabresi malfattori in Lombardia. Noti peraltro a tutti da decenni per essere malfattori. “Emerge”, si legge qui e là nei giornali, “uno spaccato di subalternità”, una “Lombardia avamposto di Reggio Calabria”, il “vero scoglio dell’autonomia e del federalismo”, “politici e imprenditori soggetti ai calabresi”, “cantieri nei quali i calabresi fanno il bello e il cattivo tempo”. In virtù di che? Alla prima violenza, tra l’altro contro uno dei loro, li hanno messi dentro – hanno dovuto, dopo avere aspettato quasi tre anni.
La criminalità è contro lo Stato, se per tale s’intende il buongoverno, ma non contro gli affari: è gli affari. Chi è Chierico? Chi è Oppedisano? Boccassini, ancora uno sforzo.

"E' eufemistico", scrivono i giudici antindrangheta di Milano, "definire collaborativo l'atteggiamento degli operatori economici in LombardiA". Ma con loro non si possono usare le maniere forti? Boccassini, ancora uno sforzo! Eufemistico.

Gli allevatori lombardi non vogliono pagare le multe per il lette prodotto in eccesso, contro i regolamenti europei, e il governo Berlusconi li accontenta. Sobbarcandosi il pagamento a Bruxelles delle multe a spese dell’erario, cioè di tutti noi. Ma nessuno lo spiega. Al più si dice che Bossi si è imposto al governo. E nemmeno questo è vero: l’idea è di uno dei figli di Bossi, che costui vuole, anche se recalcitranti, in politica. Non si dice neanche l’ammontare delle multe che dovremo pagare – sono quasi 500 milioni di euro. Il terribile ministro Tremonti qui non fiata.

Malpensa è costata almeno dieci volte Gioia Tauro. E continua a costare, per l’infinita serie dei servizi che non riesce, dopo quasi quarant’anni, a completare, per la corruzione e per il campanilismo lombardo (i treni, l’autostrada, il gas, eccetera). Ha fatto fallire l’Alitalia. Regala agli sca confinanti un valore aggiunto enorme, che potrebbe restare in Italia – una diecina di milioni di viaggi aerei l’anno. Impedisce l’integrazione di Milano come area metropolitana, come avviene dagli anni 1970 attorno a Francoforte, a Parigi, a Londra, con beneficio del pendolarismo, dell’uso efficiente del tempo, della produttività, della qualità della vita. Ma non ci sono Sergi Rizzi o Stelle che ce lo dicano. Magari in un articolo invece che in uno dei loro vendutissimi libri. Solo si scrivono pagine per dire che, lentamente, ma Malpensa si sta riprendendo dalla crisi in cui l’aveva precipitata l’Alitalia – come se fosse stata la compagnia a far fallire lo scalo e non viceversa. E per dire che si sta riprendendo si citano alcuni milioni di passeggeri. Che sono la metà di Fumicino. Meno di un terzo del bacino di utenza milanese.

C’è sconcerto tra i forcaioli per la condanna a metà di Dell’Utri. Non basta loro che il senatore sia condannato come mafioso, volevano mafiosa anche Forza Italia. Il “Corriere della sera” apre così la prima, a firma Giovanni Bianconi: “Marcello Dell’Utri è stato condannato, Forza Italia assolta. “Il senatore è stato amico dei mafiosi e «concorrente» nei loro reati, ma il movimento politico che ha contribuito a fondare non è il partito della mafia”. La mafia è un reato meno grave che Forza Italia?
Quando il Sud infine si libererà del Nord, questa storia della mafia universale dovrà fargliela pagare cara. Radere al suolo Milano sarà la soluzione minima: ci mettono la mafia dappertutto, nell’aria, nell’acqua, nel sonno, e non per stupidità. Non gliene frega nulla della mafia, se non per farci gli affari, e poi buttarla addosso al Sud.

I lombardi prestavano denaro.

L’odio-di-sé meridionale
“La ‘ndrangheta finirà quando non ci sarà più l’uomo sulla terra”: la sentenza è di un magistrato, il procuratore della Repubblica Nicola Gratteri, che è diventato best-seller con la ‘ndrangheta. Ma Gratteri è procuratore a Reggio Calabria, dove la ‘ndrangheta c’è per davvero, e la sua è una delle battute cui lo spiritaccio calabrese indulge. Mai però in senso opposto, a separare il destino umano da quello ‘ndranghetista.

Amici d’infanzia fanno le vacanze di mare in Sicilia, fra Taormina e Giarre. È un uso che hanno preso da tempo, benché la vacanza a Taormina o Letojanni costoi il doppio che sulle spiagge dei paesi d’origine in Calabria, perché “lì ci si diverte” – anche se non sono più giovani. Da alcuni anni lo Jonio siciliano sotto Taormina è molto sporco e infestato di meduse. “È lo sporco che ci manda la Calabria”, dicono gli albergatori e i bagnini, e gli amici ci credono, ogni anno ci ritornano, dopo essere rimasti due settimane, magari un mese, in secco, senza la possibilità di mettere anche solo un piede in acqua. Anche se la Calabria sta molto più a Nord, e i suoi mari, lo Jonio come il Tirreno, sono trasparenti e puliti.
Si può essere buoni amici e un po’ stupidi, le due cose si conciliano. Ma perché soffrire, pagando, nell’acqua infetta? Perché l’odio-di-sé non è mai abbastanza?

Non rimane altro Sud che quello di Verga, dell’ideologia dei vinti: non c’è più pathos se non vittimista. Il Sud che per secoli aveva divertito l’Europa, e anche l’Italia, è prigioniero di Verga. Verga avrà pure ragione – ha ragione. Ma il Sud?
La squalifica del Sud arriva tardi, con l’unità. Come la napoletanità, altro flagello, o i briganti, e ora la mafia. Ma il Sud è certo colpa del Sud.

Calabria
È la regione che più si è identificata e si identifica con Roma, con l’Italia unita, e più ancora con la Repubblica. Bisanzio, i normanni, i baroni, i Borboni sono cancellati prima che rifiutati. La dipendenza modella psicologie mostruose: si passa dall’abbandono all’abbandono di sé stessi.

Il Procuratore Capo di Reggio Calabria non riesce a trovare più di 250 mafiosi, dice, su quindicimila abitanti a Rosarno. Ma Rosarno resta città di mafia. Nessuno vuole vedere la rivolta contro gli immigrati come una ribellione al degrado, indotto dagli immigrati nell’interesse dei dieci o venti padroni di agrumeti.

La Calabria ha il record della spesa sanitaria pro capite, 3.100 euro l’anno, contro una media nazionale di 2.250 euro. E ha la sanità peggiore.
Un buon terzo della spesa (la differenza tra la spesa in Calabria e la media nazionale) va per ricoveri e interventi fuori regione.

Gioacchino da Fiore, Tommaso Campanella ne sono i prototipi. Di spirito infiammato, molto calabrese. Molto intuitivo, poco coltivato – uncouth. O allora Cassiodoro, che sa tutto della vita e della storia e quindi è remissivo, rassegnato. Sempre “laterali”, fuori dal flusso.

Palmi ha un mare di trasparenza cristallina, spiagge di chilometri e un entroterra omerico, ma non ha un piano regolatore. Non che si veda: ognuno costruisce dove vuole, con l’acqua corrente e col bagno, o anche senza, e chiede milioni per l’affitto. Per quante volte?

Può darsi sia stata feudale, come vogliono i suoi (inutili) libri di storia. Nel 1100 potrebbe esserlo stata. Ma dopo, per un millennio ormai, è stata semmai oggetto-terra di fedecommessi e padroni assenti. Il che può essere stato una buona cosa, non avere avuto padroni. Ma implica alcune conseguenze. Per esempio, non essere serviti come turisti: nella contigua Sicilia, che tutto della Calabria, la lingua e anche il linguaggio, ma ha avuto anche solidi padroni, dai quali ha potuto imparare, un turista è sempre ben servito per quello che spende, in Calabria quasi mai – a volte non si riesce nemmeno a mangiare nelle trattorie familiari. Per esempio la mancanza di applicazione: il disprezzo dei padroni si traduce nell’incostanza (si abbandona un investimento o un mestiere pochi mesi dopo averlo avviato, “non si guadagna abbastanza”): è l’incapacità di avviamento, prima che la mafia, che si traduce in incapacità di industria o di commercio. Per esempio l’avidità: si ha diritto a tutto. Per esempio l’insocievolezza: manca l’attitudine a farsi un po’ più in là, magari nel proprio interesse.
È difficile spiegare una carenza sociale con una mancata fase di asservimento nella storia. Ma entrambe sono evidenti. La ragione può essere che un ordine sociale, per quanto squilibrato, ha comunque una funzione pedagogica (sociale). Che è sempre meglio del nulla – non si nasce “imparati”.

I calabresi terragni che ora popolano il Canada e l’Australia nel Quattrocento erano a Tripoli, Tunisi, Algeri, e a Costantinopoli in una Nèa Calabria.

leuzzi@antiit.eu

mercoledì 14 luglio 2010

Malinconia dell’intellettuale

zeulig 

Se è ingaggiato l’intellettuale è disimpegnato Le follie intellettuali i copti impersonano in una bella donna. Tolstòj invece nota che “Rousseau mentiva e credeva alla sua menzogna”, il prototipo dell’intellettuale nella storia. E questo chiude il discorso, o lo riapre: l’intellettuale è fangoso. Certo, non è il ragno della logica: la provvidenza è altalenante e non c’è razionalità nella ragione, non necessariamente, l’astratta ragione è aritmetica povera. L’onestà intellettuale è il fondamento imprescindibile di una categoria, se ancora c’è, dell’intellettuale. Ma più che l’astratto genere, aiuta la figura dell’intellettuale nella storia. In quella recente, poiché la figura è recente. Maschile e femminile, è opportuno ricordarlo, alle origini, a Parigi, Berlino e Londra nel Sei-Settecento (ma i primi intellettuali, si sa, furono i gesuiti, del potere a chi sa, o lo presume, i primi e i più veri libertini intellettuali). 
Il numero 1 di “Alfabeta” seconda serie è dedicato all’intellettuale con un’ottica tutto sommato derisoria. Eco deride l’intellettuale di destra. Andrea Cortellessa individua l’imbuto nel quale l’intellighenzia è precipitata in questa età del mercato, di Santoro e Maria De Filippi, e di Berlusconi, a partire da Pasolini, dal suo misoneismo radicale, là dove non opera lui, accoppiato al suo povero gigionismo – ma senza dirlo: non si può dire? Ma, poi, tutto il pianto è sull’Italia. E sulla Francia, di cui l’Italia è sorella minore – almeno fino a che, se Dio vuole a lungo, si leggerà il francese. Si vede subito a un approccio comparatistico. 
Un quadro dell’intellettuale oggi sarebbe partito altrove da Internet. Dal blog, dalla scrittura breve (dal pensiero breve? o forse semplice), dalla comunicazione istantanea, dalla comunicazione allargata. Se l’organicità è criterio utile (buono, morale), oggi l’intellettuale è disorganico. Anarcoide, e anche un tanto ignorante – dichiaratamente, l’estemporaneità, l’improvvisazione, la cosiddetta rabbia facendo premio, una sorta di canescioltismo. 
Ma prendiamo lo status classico dell’intellettuale per buono, anche se è un altro segno che l’Italia è ancora “sovietica”. In Germania l’intellettuale ha avuto una funzione guida eccellente per almeno un secolo, da von Humboldt al primo Bismarck. Finché lo spirito di caserma prevalse nel prussianesimo, respingendo l’intellettuale nell’area deprecatoria, da Nietzsche in poi. Che si avvale del crisma dell’anarchia ma confusamente, compresa l’anarchia di destra, di Jünger e Thomas Mann, borghesaccio impunito (il Thomas Mann italiano, dei suoi traduttori e mediatori, non ha nulla del violento originale): si pensi agli intellettuali tedeschi nella prima guerra, e alla Novemberrevolution, da Rosa Luxemburg a Spengler e alla generazione degli adolescenti che finiranno nei Freikorps. La Germania rimane intellettualmente superiore, ma per il mito di Sadowa. Un mito intellettuale: i liberali abiurarono in massa in favore della Prussia. “Una vittoria soprattutto intellettuale” dirà il Blitzkrieg di Hitler Marc Bloch, storico francese volontario di entrambe le guerre, prima ovviamente della Soluzione Finale, e della sua personale persecuzione da parte degli occupanti. Ma Sadowa fu anche la fine dell’intellettuale, che da allora non ha più avuto alcuna funzione nelle tre Germanie che si sono succedute, di Bismarck, di Weimar, della Repubblica Federale, né critica né retorica.
Analoga la funzione dell’intellettuale in Italia, si pensi solo al pre-Risorgimento: Leopardi, la questione della lingua, Genovesi, Galiani, Palmieri di Micciché, Cuoco, Parini, Foscolo, Manzoni, Cattaneo, Verdi e gli operisti tutti. Con una deriva immediata dopo l’unità, pur senza guerre, al notabilato, che costituisce, sono ormai centocinquant’anni, la cifra probabilmente indelebile dell’intellettuale italiano, nell’Italia “bizantina”, in quella giolittiana, nella fascista, e nella Repubblica. Se non per i filoni liberale, di Croce, Gobetti, Salvemini, Einaudi, dello stesso Gentile, grande imprenditore culturale, e confessionale, da Toniolo in qua, marginali però benché vivaci. L’eclisse insomma non è nuova, ed è indotta. La Repubblica è dominata dal “compagno di strada”, non si sarebbe cos’altro trovarci, la creazione cominternista di Willi Münzenberg, il più grande imprenditore culturale di tutti i tempi, utile per la propaganda, utilissimo, e nient’altro. In confronto a esso non si trovano che “battitori liberi”. Ma non nel senso proprio, del gergo calcistico, dell’atleta che chiude la difesa e rilancia l’offensiva, bensì nel senso del gigionismo. L’intellettuale viene in sospetto in Italia come dannunziano ma in realtà è malapartiano, presenzialista e volutamente futile, furbastro più che no, a suo modo sempre “politicamente corretto”, cioè sull’onda. E comunque, dannunziano o malapartiano che sia, è sempre “francese”. Per l’equivoco della stagione illuministica, dell’Intellettuale Re. Che preparò la Rivoluzione, l’unica finora riuscita – con ripensamenti. Dimenticando che la Francia, paese di saldo spessore culturale, che si vuole anche politico, ha però una cultura politica fallimentare – e non da ora, già dai tempi celebrati del Re Sole (perché la Francia non ha avuto un impero?), con l’incredibile oorte di mantenute in titolo, gli ultimi bagliori li ebbe con le regine italiane. Tutt’altro mondo l’America, dove l’intellettuale ha sempre avuto un ruolo decisivo. Tra i padri della patria, e della costituzione. E nella successione dei presidenti. Basti pensare al ruolo ultimamente di Kissinger, Schlesinger, Brzezinski, della scuola di Chicago, dei conservatori di Bush. O dei filosofi: William James, Emerson, Thoreau, Dewey, o i contemporanei Chomsky, Rorty, Rawls, Walzer, Williams, l’intellettuale non è ritenuto mai superfluo. Ma l’America, e non solo per questo, è termine inconfrontabile, non è Europa. Il piccolo intellettuale italiano Pensa di divertirsi l’intellettuale tra le mura ma è avaro e muore triste. Il problema è che Thomas Mann ha ragione: l’intellettuale è un politicante, bassa lega. Se il letterato politico è il vero intellettuale, alla Zola, lo Zola di Heinrich Mann, allora il letterato e l’intellettuale sono poca cosa, ruota di scorta. Politicanti dilettanti. Di idee non digerite, per fini minuti, mimati, che si magnificano ultimi, la lode, un premio, l’egemonia di Gramsci e Platone. E si coronano d’i-deali, rivoluzioni, resistenze, utopie, il mondo spregiando. Minutanti degli spacci della parola. La politica è invece seria, essendo la democrazia. Anche quando fanno parte di aristocrazie, anzi specie in questi casi, gli intellettuali finiscono per rivangare luoghi comuni. Anche, dice Tocqueville confrontato alla brusca democrazia americana, per “una certa mollezza di spirito e di cuore che essi contraggono in mezzo al lungo e tranquillo uso di tanti beni”. Per cui “preferiscono essere divertiti piuttosto che scossi, vogliono essere attratti ma non coinvolti”. Un groviglio, alla Epimenide cretese. L’intellettuale Thomas Mann è uno che quando ha ragione si arroga “un diritto d’infamia”. La politica è ardua: “Odio la politica e la fede nella politica, perché essa rende l’uomo borioso, dottrinario, testardo, disumano”, afferma. Benché capisca che “l’impoliticità è anch’essa politica”. È che “l’ironia come modestia, come scetticismo volto all’indietro, è una forma della morale, è etica personale, è «politica interna»”. L’intellettuale vi è senz’arte né parte, ohne Kunst ohne Gunst, potrebbe dire lo stesso Thomas Mann se parlasse maccheronico. La sua debolezza (scomparsa) è piccola e grande. È grande nei testi epocali che Andrea Inglese cita nello stesso numero di “Alfabeta 2”, di Lepenies, Wallerstein. In Italia la crisi è invece piccola, di parrocchia e non di sistema. Per lo straordinario carrierismo e amoralismo (consortile, politicante, e perfino familistico, a favore di amanti, figli, nipoti, mogli) che regolano lo studio (la ricerca) e l’università, la giustizia, la sanità, il giornalismo, tutte professioni intellettuali, e concludono alla loro straordinaria inefficienza, dispersione di risorse e di valori, di cui poi l’intellettuale si lamenta vittima. E di cui il predominio mediatico, che se ne vuole la causa, è invece lo specchio. Nel suo piccolo l’Italia fa anche – ha fatto – le prove delle grandi trasformazioni. La produzione di sapere essendo insufficiente da tempo nei maggiori paesi europei per la stessa produzione di sapere (centri di ricerca e università), l’Italia ha parzialmente supplito, negli ultimi trent’anni grosso modo, fornendo ogni anno migliaia di dottorandi e dottori nelle più diverse discipline. L’emigrazione negli Usa, senza ritorno, si può anche inquadrare nella politica americana di centralizzazione (accaparramento) delle intelligenze, deliberata, costante, in tutte le discipline, a tutti i fini, teorici e pratici. L’emigrazione delle intelligenze in Germania, Gran Bretagna, Francia, Olanda, Svezia, va invece a riempire i buchi della mancata produzione di intelligenze in quei paesi. Se questo è il futuro che aspetta anche l’Italia, allora l’eclisse dell’intellettuale sarà effettivamente un fatto. E questo sarebbe tutto. Se non che, si che in realtà si parla? Si parla dell’Italia dopo il 1989. Che si vuole l’inizio della globalizzazione, con tutto ciò di negativo di cui si carica l’entrata del Terzo mondo nel Mondo – che rivoluzione! -, mentre invece è l’inizio, in Italia, di un passato che non passa. Su cui non si è riflettuto, se non tra reduci. L'intellettuale dopo la Caduta dice fascista ogni mollusco Si parla solo dell’Italia, e di una certa cultura italiana, seppure materialmente preponderante nei posti deputati alla riflessione e alla cultura: l’università, la ricerca, l’editoria, e anche i giornali e la Rai. Ma Santoro è, come la De Filippi, solo più bravo a sfruttare un palco che la cultura crea. L’Italia è un reality. Non da ora. Né lo hanno creato Santoro o De Filippi. Lo hanno creato il giornalismo qualificato scandalistico e una università corriva. Il giornale d’opinione specializzato in scandali è specialità tutta italiana, che si dice di gossip ma quello è: non sembri strano appaiare il “Corriere della sera” alla “Bild” o al “Sun”, tolte la pagine culturali che “Bild” e “Sun “ non hanno, e compresi i commentarioli di cui si ornano, a diecine ogni giorno, per creare il frizzo là dove la cronaca latita, tolto questo non c’è altro – e anche le pagine culturali, fatte dagli uffici stampa delle case editrici, non sono granché virginali. Dall’università non arrivano da molti anni, dall’irrobustimento dell’autonomia col decentramento, che cattivi esempi. Compresa la moglie di Asor Rosa. E questo è il problema: la cultura di chi lamenta l’eclisse dell’intellettuale, e non Berlusconi, che è solo un venditore di pubblicità - se la “Santa Giovanna d’Arco” di Dreyer attirasse pubblicità non si farebbe pregare a proiettarla notte e giorno: Berlusconi è uno che vende spazi, soprattutto quelli gratuiti dell’etere, e si attacca quindi al carro vincente, della grossolanità e dell’ipocrisia . Non si cita del resto nemmeno per caso Elemire Zolla, che “L’eclisse dell’intellettuale” scrisse cinquant’anni fa. Tema a lui più congeniale, essendo propriamente conservatore, e anzi reazionario - il reazionario attua e ritroso il "principio speranza", che presiede a ogni atto dell'intelligenza. Si può anche piangere con l’ubiquo Pasolini sull’avvento della televisione nel 1958. O sulla scomparsa delle lucciole nel 1975. Ma questo si fa perché amiamo tutto sommato consolarci – un prete direbbe assolverci. Il lamento di Pasolini, riformulato, è questo: la cultura è “quello stesso ambiente in cui prosperano le forme intelligenti della nuova barbarie” (Alain Brossat). Se così è, l’intellettuale è succube? È parte attiva? Per Pasolini la Repubblica è il fascismo con altri mezzi già nel 1969, prima di piazza Fontana (colloqui con Jean Duflot, “Da un fascismo all’altro”). Per Scalfari e Malaparte la Repubblca è corrotta già negli anni 1950. Per Ernesto Rossi già al tempo di De Gasperi. Può darsi che l’intellettuale debba essere misoneista, non riconoscere il tempo presente – quello del si stava meglio quando si stava peggio, e della tecnologia fascista (eversiva, distruttrice). Ma è il misoneismo rivoluzionario (utopico)? La "Teoria del giudizio politico" di Hannah Arendt prende atto che la politica non può esistere senza la facoltà d'immaginare. Né la democrazia, si può aggiungere. O non c'è democrazia senza la politica? Sarebbe opportuno saperlo in questa età di antipolitica, sia pure la politica disgustosa. Quanto al disgusto del mondo, il nodo si scioglie con la forma della Resistenza. Se debba essere dichiarata, onesta, oppure disimpegnata (poetica, mitica). Pasolini ha scritto bei versi sulla Resistenza (“La Resistenza e la sua luce” e altri), ma al tempo della Resistenza, 1943-45, fu un imboscato – malgrado l’esempio del fratello minore Guido, che fu invece un combattente, vittima perdipiù del tradimento dei suoi compagni. Dunque, questo intellettuale che si sente tradito non vuole avere funzione pedagogica, se tradisce le parole, non vuole essere parte in causa, avendo ribrezzo di questa Italia, oggi come nel 1950, e non vuole essere testimone, Se si eclissa, questo è il problema, che farci? Il Paese va avanti anche di giorno, anche se questi intellettuali vegliano. Verità vorrebbe che si dicesse l’intellettuale nostrano un notabile. L’intellettuale è infatti tipicamente nostrano, anche se la specie è universale, come il suo linguaggio: il ruolo e la funzione sono locali, e quindi le abitudini e le attitudini. Non il notabile ottocentesco, che accedeva alla dignità del ruolo per servizi resi alla comunità, di qualità, costanti, ed era tenuto al giudizio superiore, equo, saggio. L’intellettuale è subentrato in questo ruolo quando la figura era ormai svuotata, ed era anzi suo compito svuotare. E oggi ben s’attaglia all’usa-e-getta della audience, cioè degli umori e della moda: un chiacchierone piuttosto che un riflessivo, e sbracato invece he riservato, csi valuta se accresce di un ette l’ascolto, chiamato in tv peraltro non per quello che sa ma nel ridicolo ruolo di chi sa tutto. Ma questo è già un discorso storico. L’intellettuale è una chioccia, che per un qualche motivo in Italia degenera: bellicoso dell’ideale, manda gli arditi all’assalto e si fa disfattista. È intellettuale della guerra etica, eroica, liberatoria, eccetera. Per cui la guerra vera, di fango, attese, scoppi sfiatati, asincroni, e il ferro tagliente delle granate, grida, rantoli, lacerti, mutilazioni, sembra a loro sempre mal fatta. Né la migliorerebbe una guerra all’arma bianca. C’è questa bufala della guerra di liberazione. Di chi? Gadda ventenne si sarebbe arruolato fra i brigatisti, o tra gli arditi. La buona coscienza e l’odio-di-sé Con Santoro e De Filippi stiamo male, siamo afflitti, non vogliamo, ma possiamo, fare i pirla e nulla più Il problema del qui e oggi naturalmente non è De Filippi. Ne parliamo per ipocrisia - residua? – ma noi stessi non ci crediamo: il problema è l’intellettuale, che altro? “Ogni volta che il Macedone è alle porte risorge la domanda sulla giustificazione dell’otium filosofico e letterario, e ogni volta Diogene cade nella tentazione di lasciarsi andare all’attivismo”, spiega Ranuccio Bianchi Bandinelli, che fu un compagno, ma era antichista, e aveva conosciuto cinque Germanie oltre all’ultimo kaiser. Il fatto dunque è remoto. Anche se di questi macedoni c’è una rifioritura. E tuttavia, ciò di cui parliamo non è Maria De Filippi. Né Santoro - e a essere sinceri neppure Berlusconi, che è venditore, di pubblicità e di se stesso, di ciò che ha. Diogene era quello che, affaccendandosi i cittadini alla difesa contro il Macedone alle porte, si mise a rotolare su e giù nella botte, nella quale aveva scelto di vivere, per non parere inattivo. Senza colpa, allora l’autocritica non era stata inventata, ma per noi è diverso. Prendiamoci dunque le misure, ogni tanto si cambia taglia. La nostra condizione parte da Gioberti. E non per scherzo: fu l’abate ad aggiogarci al nazionalpopolare, le lega dei borghesi intellettuali con il popolo. Ma non è tutto. Non bisogna farsi colpa di essere intellettuali. Anche se dietro il napalm c’è un professore di Princeton, o di Uppsala, un ottimo chimico La bomba è dei fisici. È opportuno distinguere con Schopenhauer le qualità intellettuali dalle qualità morali, o di carattere - “Non ci sono che gli intellettuali per fare buoni poliziotti”, diceva Nizan. L’orgoglio è il primo dei vizi, che è dell’intellettuale, ma non bisogna nemmeno illudersi. “Simili agli asini che scalciano o si azzuffano davanti a una mangiatoia vuota”, Chamfort trovava i letterati suoi simili, gli intellettuali dell’epoca. “Come molti intellettuali, è profondamente stupido”, usava dire la saggia Madame de Merteuil, che tutti gli intellettuali hanno ambito farsi, benché cattiva – doveva essere di gelo. La creazione della categoria era recente – i primi intellettuali sono le “preziose ridicole” del salotto secentesco di madame Rambouillet, molto italianeggiante peraltro – e la diffidenza è scusabile. L’intellettuale si costruisce in modo semplice: non rinunciare ai minuti privilegi, tra essi l’abitudine, e appellarsi all’aristocrazia dello spirito. Come se non si potesse essere intellettuali e responsabili? Siamo qui a faticare per non far cadere Nietzsche nella vittoria che non avrebbe voluto, il nazismo, e a difendere il sofistico Socrate e il cristianesimo agostiniano. Sapendo che Lenin arrivò alla rivoluzione su un treno militare tedesco, pieno di marchi, con la moglie e l’amante. L’intellettuale fatalmente è borghese. E quando diventa comunista, come deve, si odia – non si sa se più per essere comunista o per essere borghese, ma si odia. Diventa quindi feroce. Dev’essere come l’odio di sé ebraico, o il Sud dell’antimafia, di chi odia la rappresentazione che di se stesso se ne fa – lui stesso fa. Un operaio della Fiat non farebbe la pelle agli Agnelli, non ci pensa e non gli piacerebbe, un intellettuale invece lo teorizza, e gli piacerebbe farlo se non ne fosse incapace. L’incapacità è forse la causa del dispetto. L’equivoco l’ha creato Lord Acton, che nel 1886 ha descritto “quel presidio d’illustri storici che ha preparato la supremazia prussiana e adesso tiene Berlino come una fortezza”. Il vero tema è: quante divisioni hanno gli intellettuali. Figura recente e curiosa. Che, essendo concrezione della nostalgia del non democratico Platone, il dittatore del sapere, dovrebbe sapere di non sapere – in quanto depositario di verità è, al meglio, Epimenide cretese. L’intellettuale ingaggiato è disimpegnato, si vuole libertino o eroe ma è triste. E vanitoso, la superficialità è suo titolo di vanto: quando l’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti chiese nel 1938 circostanziata certificazione di “arianità” si ebbe risposte accurate dai migliori intellettuali, tra essi Einaudi, Pasquali, Sapegno, Marchesi, e tutti accettarono di giustificarsi, eccetto Croce ( “L’unico effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo me, che ho per cognome Croce, all’atto odioso e ridicolo insieme di protestare che non sono ebreo, proprio quando questa gente è perseguitata”), ma Croce era in qualche modo un aristocratico. Si può prenderla filosoficamente. L’Europa si vuole razionale, euclidea. Ma il matematico a lungo confuse con Euclide di Megara, ancora nel Trecento, per via del Bene che quegli identifica con l’Essere o Uno. Che è dove iniziano i guai, perché questo Uno è la pura astrazione, di fronte alla quale tutto quanto si agita nel mondo sensibile, dalla larva all’uomo, perde ogni consistenza di realtà. Senza contare che questo Euclide, che anche Petrarca immaginò severo misuratore della realtà, fondò la scuola delle doppie contrastanti verità, il paradosso del bugiardo cretese, contro il principio aristotelico del terzo escluso. E si arriva, senza il terzo escluso, all’Europa borghese e quindi smarrita – impaurita perché smarrita. Il borghese è inquieto, Quinet ne ha fatto il paradigma: il borghese dell’Ottocento, della borghesia trionfante, trovava il diritto roma-no contrario alla proprietà, il vangelo e gli atti degli apostoli comunismo puro, il medio evo pieno di jacqueries, le rivolte dei contadini, mai sazi, con i saraceni alle costole, e comunque un inferno, di riforme, eresie, livellatori, giacobini, asce, forche, ghigliottine. Nel Novecento l’inquietudine non ha bisogno di storici, la classe non classe si lacera di terrore. Ma ci sono dei limiti. I maggiori traditori, più numerosi, più efferati, sono intellettuali, Giuda non è isolato. E mai gli intellettuali hanno tradito tanto come in Russia e in Germania il secolo scorso, in massa, con coscienza e anzi con diletto. Diavoli nient’affatto luciferini e anzi marchettari, confidenti di polizia, col ghigno freddo tra i denti. È o no il “tema dell’epoca”, la fine dell’illuminismo? Quando l’intelligenza è diventata democratica s’è imputtanita, senza vergogna, in senso proprio, l’orgoglio rovesciando nel farsi fare. L’intellettuale ha tradito la lingua, gli altri e se stessi. Con la pretesa dell’autocritica superiore. Superiore nei riti di umiliazione: uno legge di Ejzenštein davanti al CC e vomita. Per non dire degli storici, che ancora non sanno chi era Lenin, e non solo in Italia, bisogna riconoscerlo, e forse nemmeno Stalin. Può essere che l’intellettuale è tale in quanto è traditore. Dovendosi identificare alla politica, ai servizi meniali in politica, dice quello che deve, non ha più occhi per vedere. Il 3 ottobre 1914 un centinaio di rinomati intellettuali tedeschi, scienziati, filosofi, poeti, sottoscrisse un Appello al Mondo Occidentale, in cui, per respingere le accuse di militarismo, affermava la superiore cultura della Germania. Non respingevano la guerra, respingevano le cri-tiche. Tenendosi sempre, anche grazie all’Appello, lontani dalla guerra, che come ogni altro avrebbero potuto fare al fronte. Gli intellettuali, nel loro piccolo, sono demagoghi. Perfino Rilke cantò il “dio della guerra”. Perfino un marchio riconosciuto come Thomas Mann, uomo di carattere, sospese nel 1914 la sua attività di creatore di personaggi per dedicarsi al pensiero politico. Per esplodere dopo quattro anni di fatica, di cui due di rifacimenti, lui che non riscriveva mai, in fondo alle seicento pagine delle Considerazioni di un impolitico, un malloppo che è una partita Germania-Resto del mondo, all’annuncio del negoziato di pace con la Russia: “Pace con la Russia! Pace anzitutto con lei! La guerra, se dovesse continuare, continui solo contro l’Occidente, contro i trois pays libres, contro la «civiltà», la «letteratura», la politica, la retorica borghese”. Mann anti-borghese, dunque, questa mancava, nel mentre che ribadisce la superiorità tedesca alla fine, non percepita, della Germania. Hitler come Stalin, come la stessa Rivoluzione dell’89, questa Europa è un caso, forse unico, della forza enorme che le idee possono avere nella storia, più del denaro, degli interessi, dei clan, degli eserciti, e della loro insensatezza. Ma un governo dei filosofi sarebbe letale: un ideologo userebbe la Bomba. “La Russia prende sul serio gli scrittori” lo scriveva l’onesto Fortini. Tra i bolscevichi, Sklovskij ricorda, i quali vinsero per essere più crudeli, gli intellettuali mostravano forte tempra: spaccavano il ghiaccio, scrivevano orazioni, si accusavano. A Sklovskij fucilarono due fratelli, che amavano entrambi la rivoluzione. L’irrilevanza non è dell’impegno, l’impegno lascia comunque tracce, ma dell’impresa intellettuale. L’aneddoto celiniano è perfido ma è sintomatico: lo scrittore crede all’unicità della sua opera. Venga la guerra, la peste, l’olocausto, per l’autore indispensabile è la sua opera. Questo è giusto, ognuno si fa valere per quello che sa fare, ma è sciocco. Se la scrittura è la memoria. Di che? Della malinconia di Proust, ottima memoria. Della visione teologica di Dante, profonda. Dell’aneddoto del conte di Foxa, l’ambasciatore spagnolo, raccontato a Malaparte, che ne ricavò il meglio di Kaputt, l’armata che il ghiaccio si prende inesorabile (altra fonte sono i Capriccios, sic, mezzo italiano mezzo spagnolo, del generale tedesco Grüninger, come subito li rifece Jünger nei Diari, n.d.C.). Vero, anche se probabilmente mai accaduto. Ma nulla a che fare col destino dell’uomo e delle masse. A meno che esso non sia fantasia. Ma fantasia non sono le malattie, i debiti, la fame, la fine cruenta dei milioni, miliardi di uomini non memorizzati nelle scritture. Di cui si fa a meno. Il “lavoro intellettuale” di Sartre e Fortini è niente, se non è una vergogna. È come dice Schmitt: “L’intellettuale fu rappresentativo solo in un’epoca di transizione, nella ribellione alla Chiesa”. L’intellettuale di Platone è un dittatorello. Quello “organico” sa di rifiuto – Schmitt lo di-rebbe della natura del teologo, della teologia che nei primi secoli fu fonte di controversie cruente, con identico arsenale - esegesi, ipse dixit, anatema - ma non grato: un intellettuale dovrebbe essere semmai contro il Partito. Il tema, non detto ma noto, è il decennale della morte di Togliatti. Di cui si decide, senza dirlo, di non dire nulla. Per l’amnistia, che col ritorno della destra pesa. I giudici, per dire, del tribunale speciale che condannarono a trent’anni il padre e la zia di Anteo Zamboni non fecero un giorno di carcere. Anteo è il balilla che a Bologna nel ’26 sparò a Mussolini, forse, non si sa, perché fu pugnalato all’istante dai balilla del federale Arpinati. Che aveva organizzato l’attentato, finto, se non fu lo stesso duce. L’unico fascista colpevole resta Pound, da manicomio. Idoni il di-scorso di Togliatti alla Camera sul Vaticano e l’art.7 dice da padre della chiesa: un giorno magari lo fanno santo. Ma ora non sappiamo che dirne. L’intellettuale ama rappresentare la sua funzione, con ricorso aperto sulla scena all’omissione e l’ipocrisia, ma questo ne fa un cantante d’opera più che una autorità. Il suo è un lavoro, usurante. Garboli, che è stato bello e ricco di suo, e ospitale, e l’intellettuale voleva proletario, aveva ragione: più proletarie di tutte sono le attività intellettuali, lavoro non pagato, una schiavitù, seppure volontaria. Pensare o scrivere non sono un lavoro nel vocabolario e l’opinione, sono ritenuti e si vogliono uno svago, roba da dilettanti. Mentre sono l’occupazione più assidua, minuto per minuto, giorno per giorno, senza soste né vacanze, vengono idee pure la notte, sia la scrittura creativa, poesia, filosofia, o politica, d’occasione, di scopo, più spesso senza retribuzione, nel più puro stile stakhanoviano, volontaristico. C’è piacere evidentemente in questa professione, all’opposto che nel puttanesimo, ma allora sorge il problema: perché? per cosa perdersi? La realtà di cui si pretende scrivere in presa diretta è muta? Sì, si sa, non si scrive in realtà se non di ciò che è stato scritto, libri su libri. È l’iperfetazione della critica nell’atrofia creativa, perfino muscolare, riflesso condizionato dell’industria. La realtà si dà per lampi, al cinema, com’è nella sua natura di barbagli di luce. Il cinema ha rispondenza pronta e mobile col reale. occhio, linguaggi, tagli, diversa dalle altre arti, che vanno per decenni, e diverte, letteralmente svia, determinando il gusto che rappresenta - ottima pubblicità fa. Ma il caso di Veronesi che il Partito obbliga a lasciare il seggio di parlamentare se diventa presidente dell’Agenzia per la sicurezza nucleare, un incarico governativo? Senza che nessuno obietti, nemmeno il presidente della Repubblica che ogni giorno ci richiama al destra-sinistra. Eppure non si tratterebbe di un atto di coraggio ma di mera sensibilità giuridica: un partito che cacca dal Parlamento un parlamentare eletto, sia pure nelle sue liste. Si vede che il centralismo democratico non è una politica ma un imprinting, la famosa servitù volontaria. Eco, invece che di Dante, avrebbe potuto parlare di Veronesi, il parlamentare in questione, Umberto Veronesi, lo scienziato, quindi ben intellettuale, gustose deduzioni, se non conclusioni, avrebbe potuto trarne – ma Eco ha perso la lingua, pure lui. Ricapitolando: l'intellettuale va col tempo - dopo tanto vagare, conviene tornare alla cosa. Se è inefficace, e in Italia lo è, dal almeno un quarantennio, da quando non ha nemmeno capito il Sessantotto, lo è perché è sterile: l’ipocrisia lo rode malgrado se stesso, anzi proprio per questo, per le sue buone intenzioni. Si crea i suoi mondi irreali di “significati” per il desiderio di fare filosofia, ma la buona educazione fatalmente degrada a protervia. Il rovesciamento non è isolato, tutta la realtà partecipa dell’irrealtà. Ma quello dell’intellettuale è voluto, è di programma: nell’assurdo pretendere di conoscere tutto, sistematizzarlo, e perfino, con la forza del proprio pensiero, cambiarlo – si direbbe prometeico, ma l’ingegner Prometeo non era scemo, l’originale. “Si esprimono i sentimenti quando si parla e le idee quando si scrive”, stabilisce Rousseau. Così non si scrivono più lettere d’amore, genere fermo alla fonte, Abelardo e Eloisa, le Portoghesi di Guillerages, l’amico di Molière, qualche Lafayette. E si solleticano le attese: liberare gli accessi, liberare l’uomo, liberare la libertà, astretta negli stazzi del pensiero pensato, storia di storie, riscrittura. L’intellettuale non ha più potere, ma mai è stato tanto conformista. “La scrittura altera la lingua”, insiste Rousseau. L’avvilisce? Rousseau, uno “nel quale la coscienza non era l’elemento dominante”, dice Proudhon. Per fortuna. P.S. Un addendo si rende necessario estratto dall’intervento di Alfonso Berardinelli sul “Corriere della sera” giovedì 15, a proposito di “di che stiamo parlando?”: “Il fatto è che Berlusconi è andato al potere in un Paese intossicato da decenni di cattiva politica, di immobilismi politici, di ideologizzazioni politiche forsennate, di politicizzazione coattiva di tutti gli ambiti di vita. Berlusconi è la proiezione sullo schermo politico di una società italiana nuova e diversa rispetto al passato, una società nella quale alla nobiltà e serietà dell'agire politico nessuno riesce a credere più. La nuova politica che Berlusconi ha portato nel nostro sistema non poteva e non può trasmettere agli italiani niente di più di quello che gli italiani socialmente e culturalmente sono diventati in questi ultimi trent'anni, dopo la fine della Guerra fredda, dopo la crisi autodistruttiva, fra un compromesso storico immaginario e un terrorismo reale, che ha demolito la sinistra e le sue tradizioni”. Pasolini ha ragione, si può aggiungere, ma al contrario: la politica s’è ingroppata la letteratura e l’ha seccata. Il presente è povero se pure la politica, che è arma maestra, e si vuole bella e buona e avventurosa, isterilisce. È la parabola dell’intellettuale, il barone di Münchhausen il giorno che cadde nello stagno, e impugnò la sua capigliatura per tirarsene fuori.

È all’Ansa il Cominform

I lettori di giornali italiani sanno oggi che l’Onu ha condannato il disegno di legge sulle intercettazioni. Non sanno che l’Onu in questione è un suo funzionario a Roma, Laura Boldrini. Che da un paio di legislature è in attesa di un collegio sicuro Pd. Che l’Onu non è organizzata per condannare alcunché. Eccetto gli scarsi poteri del suo segretario generale, che li esercita in casi eccezionali, di minaccia grave alla pace o ai diritti di sopravvivenza di intere popolazioni. Soprattutto l’Onu non può esercitarsi sull’autonomo potere nazionale di fare le leggi. Figurarsi su un disegno di legge.
Il modulo peraltro è ricorrente. Su ogni disegno di legge si fanno interventi cadenzati dell’Onu, dell’Unione Europea (fino a un paio d’anni fa, ora della Corte europea di giustizia), dell’Organizzazione per i diritti civili, Oapesc o qualcosa del genere, un organismo antisovietico nato tardi una trentina d’anni fa, di un giornale britannico, e di uno di Murdoch, meglio se il “Wall Street Journal”. È la vecchia tattica Comintern-Cominform, di sparare cannonate anche contro le mosche, tanto non costano, se non alla verità, che comunque è quella del Partito. Che si fa oggi in economia: basta passare l’intervento all’Ansa, che se ne fa gratuitamente megafono. Nei giornali e nei telegiornali i dirigenti di stanza negli uffici centrali provvederanno a evidenziare la condanna negli occhielli o nei sommari – un tempo se ne facevano titoli, ora si punta all’evidenza del particolare. Anche nei giornali e nei telegiornali di Berlusconi.

martedì 13 luglio 2010

Le pale sarde della massoneria

La P 2 ricostituita da Carboni a ottant’anni. Con Verdini, che è il politico meno segreto. Per l’eolico in Sardegna – ma quante pale ha questo eolico in Sardegna? Con seimila pagine di informative dei carabinieri, dice l’informato Bocchino, alias Fini. Seimila, e c'è chi dice sedicimila. Con un sicilano, naturalmente, e un napoletano: nessun giudice riunicia alla crminalità organizzata, che quindi verrà a far parte della loggia.
E qualche giudice, che magari ha condannato Carboni, ma il cui posto, rimesso in gioco, apre utili prospettive.
Il giorno in cui il generale dei carabinieri comandante dei reparti speciali è condannato a quindici anni, restando in carica, il giudice Capaldo, ex scalfariano, procuratore della giustizia pronta e assoluta, vuole forse prendersi la rivincita, per la prima pagina dei giornali. È possibile. Ed è possibile che i massoni siano stupidi, o folli, oltre che vili. Quanto a Berlusconi, si sa che i giudici, ora i giudici del suo camerata Fini, gli aprono tutti i dossier possibili ogni volta che ne annuncia la riforma, ma sono quindici anni che annuncia la riforma dei giudici e mai la fa: magari si sorreggono a vicenda. E la verità? Essa è ineffettuale, direbbe Sciascia. E tuttavia c’è qualcosa di intollerabile in questa ultima sceneggiata, anche per hi è assuefatto all’infetto bordello mediatico.
Quello che riesce indigesto è che i giudici e i giornali, che non sono ubriachi anche se si sorreggono a vicenda, né sono ingenui, siamo costretti a pagarli, con laute carriere a cieli aperti, di grande prestigio e di nessuna fatica, e li compriamo, perché ci prendano in giro. Come dire che l’Italia potrebbe privarsi con grande profitto della giustizia e dell’informazione, che sono i pilastri della democrazia.

Il mondo com'è - 40

astolfo

Capitale - È la moneta in azione. Vedi le sempre sorprendenti letture (definizioni) del denaro, che diabolicamente s’infiltra come inarrestabile spinta psichica, se non spirituale. Lievitando sul pecus, è pervasivo come i fantasmi ma solido.

Complotto – Spiega sempre tutto. Dov’è la sua ratio? Nel costruire il complotto, cioè nel divisarlo.

Destra-Sinistra – Ma sono forme di compensazione-gratificazione. L’una assertiva, l’altra privatva. Il privato-individuale dell’uno e l’uguaglianza dell’altra, nelle forme escludenti del Tipo radicale, sono pulsioni e non dottrine. Pulsioni che si aggiustano (coprono) nelle dottrine. Le “cose” possono essere perfettamente eguali a destra e a sinistra, la violenza, o la nonviolenza, il classismo, la redistribuzione, la protezione del povero e dell’indifeso, il bisogno di libertà, e la prevaricazione (faziosità,ipocrisia).
Ma in quanto tali, in quanto forme di compensazione, la destra è più duratura – ha con sé la storia – perché coerente con se stessa, con la conservazione. La contemporaneità, già prima del crollo delle ideologie e in loro compresenza, è l’individuo che vuole aiutare, con le automobili, la carriera, la seconda casa, il sesso, e non la classe o la società.

Europa – Si celebra al declino. Si celebra disprezzandosi, anche. A opera di mediocri: Sarkozy, Merkel, Berlusconi. Si celebra litigando. Non per uno scopo ma per gelosia.

Risalgono al 1978, l’elezione di Giovanni Paolo II, e al 1979, la decisione di schierare gli euromissili, gli ultimi atti di autonomia dell’Europa. Entrambi originati in Italia, il conclave a sorpresa con l’elezione del papa polacco, che combattente, e il sì di Craxi agli euromissili, che vinse le solite titubanze democristiane. Entrambi avvitarono il crollo dell’Unione Sovietica e la supremazia Usa, non più contestata. Tutto d’allora in poi è stato ed è americano: i diritti civili, i diritti religiosi, l’etica in economia, il multiculturalismo, malgrado le critiche di Rorty (deboli), la guerra giusta, il giusto mercato.

Fascismo – Fatta la tara della brutalità (violenza fisica, intolleranza, perbenismo), comune al secolo (e alle sue code), è una forma di revanscismo egualitario. Un egualitarismo applicato alla lettera, a favore dei più bisognosi, ma anche degli ignoranti e dei moralmente sordidi.

Fondamentalismo – S’intende oggi religioso, della religione quindi che regola tutto. E s’intende islamico, per la sharià che è legge religiosa e civile. M la sharià perpetua, dichiaratamente, la teocrazia mosaica, per cui tutto, dall’agricoltura al rito, è regolato da norme religiose, e quindi dal prete.

Giornalismo – Si fa in redazione. Attorno al direttore. Si decide di “montare” di giorno in giorno questo o quel tema. Secondo un certo “taglio” – la lettura che si propone dell’evento. E lo si “scandisce” – si sceneggia, decidendo anche chi scrive che cosa, quanto lungo, e in che posizione nel giornale. La “scansione” può prendere più pagine, se si hanno più “aperture”, più temi-titoli che reggano una pagina.
È uno degli agenti, non uno specchio. Armato di cannone, non di pistola. Non per la legge, ma per il proprio interesse (dell’editore, del direttore e degli altri dirigenti del giornale, del giornalista). E inattaccabile, sotto l’ombrello della libertà d’opinione.
È un’arma.

Gesuiti – I veri – i primi, prima degli Illuminati – libertini intellettuali. I primi intellettuali, del potere a chi sa, o lo presume.

Giustizia – È in Italia un problema fra “giusti”. L’apparato repressivo e quello giudiziario, procedure, pene, magistrature, polizie giudiziarie, sono conformati a regolare punitivamente quella parte della società che subisce un torto, o che comunque ricorre alla giustizia – il cittadino che ricorre alla giustizia in Italia si sente “costretto”. Il ricorrente, anche se parte offesa in delitto grave, deve dimostrare e giustificare tutto, con dispendio di tempo, soldi, energie psichiche.
Il violento è invece, letteralmente, fuori dalla giustizia, dalle sue jugulazioni. Deve solo scontare – attuariamente: mettere nel conto – qualche mese di carcere di tanto in tanto. Facendo le somme dei costi di un malfattore abituale, in carcere e avvocati, e di quelli subiti mediamente da un cittadino nel sistema italiano, in tempo, pratiche e soldi, e pur lasciando fuori dal conto le perdite patrimoniali e psichiche da furti, scippi, rapine, minacce, non c’è dubbio che il cittadino ci rimette di più. In virtù della giustizia.
La giustizia è il fondamento dell’eguaglianza, dunque della democrazia. La Repubblica la interpreta, continua a interpretarla, in senso sovietico, o politico. Un sistema di potere, sotto l’ombrello di comodo della ridistribuzione o del risarcimento sociale. Se c’è un fascismo in Italia, dichiarato, quotidiano, violento, è quello del sistema repressivo, compresi gli ermellini alle assise. Che la giustizia riduce a un apparato – di norme e uomini – inutile, costoso, iugulatorio. La giustizia è in Italia un apparato repressivo della società.

Masse – Sono gli zero del numero.

Neutralità – È un fatto di diritto. Èd è utile per gli affari. Ma è un disimpegno, e non risparmia le persone, anche se ne salva la vita: le marchia (sono comunque conniventi con la parte sbagliata).

“Primato” – La vera storia della rivista “Primato” è questa: nel 1940-41, quando Hitler sembrò avere vinto la guerra, gli artisti e gli scrittori che sino ad allora erano stati guardinghi e anche critici, decisero di schierarsi.
Si può anche argomentare all’inverso: il regime, sentendosi forte, vuole insudiciare con la lusinga l’opposizione. Ma la cooptazione, nella scienza politica e nella legislazione (il regime dei “collaboratori di giustizia”), è sempre infida.

Razzismo – È il jingoismo nella forma contemporanea, delle comunicazioni di massa, e delle grandi periferie urbane, le città-periferia. Una forma di primazia nazionale, di patriottismo. Che si esercita indifferente contro albanesi, o rumeni, e africani. Non c’è in campagna. Non c’è al centro borghese delle città.

Pubblicità – Ha connotazione negativa per gli italiani, se Costanzo la evita, la chiama “consigli per gli acquisti”, e normalmente passa col nome di spot, perfino di spot pubblicitario. Non è negativa la cosa in sé, evidentemente, poiché come tutti ci abboffiamo di pubblicità, e la libertà di stampa, e quindi di opinione, ci vive sopra. Ma rientra nella generale ipocrisia, che resta la cifra dell’Italia repubblicana anche dopo la caduta del sovietismo, far finta di non credere alla propria maniera d’essere, cioè alla realtà. La nostra è, altrettanto evidentemente, una libertà posticcia, o almeno incerta, se si corrobora di questi accorgimenti falsi – una libertà fatta di falsità.
È sintomatico che sia uscita dal vocabolario propaganda. Che è italiana, e più chiara di pubblicità. Che non è italiana ed è, tra l’altro, ambivalente, con tutte le connotazioni attinenti la sfera pubblica, o della pubblica opinione (politica, informazione, mercato), che si vuole – vorrebbe – trasparente.

Resistenza – Ha diritto Bin Laden di opporsi senza limiti? Probabilmente sì, avendo scontato il sacrificio di sé: la guerra si combatte senza limiti, anche dove apparentemente ci sono delle regole. Lo spiega, a contrariis, la vicenda giuridica delle Fosse Ardeatine: a Priebke non si è contestata l’assurda decimazione, a carico dei primi italiani che si ritrovava tra i piedi, ma solo di aver sbagliato il conto. O l’uso americano dell’atomica, alla fine della guerra. O la storia che si riscrive dell’orrenda guerra civile tra popolazioni jugoslave. La guerra si può solo rifiutare.

astolfo@antiit.eu

domenica 11 luglio 2010

Quando l'Europa adottò l'islam, che risate!

Il problema, alla fine, è il voto: se consentire alla nuova maggioranza mussulmana, che si riproduce a tassi elevatissimi, di votare con “un segno ricurvo, che potrebbe essere un mezzaluna”, invece che con la croce. Nella vecchia traduzione, purtroppo, di Gian Dàuli, e con una nota volage di Enrico Ghezzi (Chesterstocn con Pynchon…), questo romanzo del pub chiuso da un’Inghilterra che già un secolo fa si voleva islamizzare è anzitutto esilarante. E soprattutto per la finezza politica che sottende ogni sua pagina. Chesterston è morto, e quindi non può essere colpito con una fatwa, ma l’editore sì, e forse per questo - per passare inosservato: perché il libro non sia letto, malgrado l’attualità - l’ha redatto di malavoglia.
Prima della fine resta insoluto il problema della canapa indiana. Che non si adotta, ma per un motivo preciso. “Ci sono sempre di mezzo quegli assassini”, considera il Lord Protettore dell’islam, cioè gli Hashishin, terroristi del Vecchio della Montagna, “e inoltre i loro rapporti con san Luigi li discreditano alquanto” – l’hashish non si adotta perché gli Hashishin erano stati in contatto con la cristianità.
In sospetto per la professa cattolicità, e per questo diminuito, Chesterston è probabilmente lo scrittore di maggiore fiuto e capacità politica del primo Novecento – “concretezza fantastica dell’astratto”, dice Ghezzi; no, concretezza fantastica del reale, perfino del politico. L’Inghilterra (l’Europa), da poco finita la lunga agonia di uno dei molti e vani sforzi diretto a spezzare la potenza della Turchia e a salvare le piccole tribù cristiane”, adotta l’islam. Religione del “crescente” e quindi del progresso, eccetera, per il bene degli alcolisti, delle donne (non più tenute alla fitness), degli uomini (l’Alta Poligamia). Per finire ai quadri di cui il nobile islamizzante deve privarsi, come di ogni immagine.
Un pretesto per una critica dell’Inghilterra un secolo fa, dal Parlamento alle strade, “le barcollanti strade inglesi”, in prosa e in versi. Di un Chesterston in forma, in grado di recuperarle situazioni più disperate – che più incontrano il senso comune. Non sotto forma di complotto, com’è l’uso oggi, né di persecuzione, ma svagata – sulla crosta razionalistica dell’eugenismo, dell’igienismo, dell’aristocratismo cui l’Europa ambisce. Un’Inghilterra che sembra anticipare in copia l’Unione Europea di oggi, così regolamentista, politicamente corretta, e anticristiana. Il “moderno filantropo” non rinuncia mai al superfluo, rinuncia “alle cose più semplici e più comuni: al manzo, alla birra, al sonno”, alle cose che lo accomunano al popolo, per essere quindi speciale, e “perché questi piaceri gli ricordano che egli è solo un uomo”). Da qui il sottile effetto comico, che regge le trecento pagine.
Gilbert K. Chesterston, L’osteria volante, Bompiani, pp. 321, €8,40

Le dieci Gioia Tauro di Malpensa

Non ci sono solo Berlusconi, Bossi e Tremonti, Milano ci impone anche le quote latte e Malpensa. Mai storia d’Italia sarà stata così deficiente come questo ventennio lombardo. Cui solo la boria tiene testa, dei lombardi che sono i più morali, risparmiosi, industriosi di tutta l’Italia. Senza la quale anzi, dice il lombardo professor Ricolfi, sarebbero la crema della terra, con la panna.
Gli allevatori lombardi non vogliono pagare le multe per il lette prodotto in eccesso, contro i regolamenti europei, e il governo Berlusconi li accontenta. Sobbarcandosi il pagamento a Bruxelles delle multe a spese dell’erario, cioè di tutti noi. Ma nessuno lo spiega. Al più si dice che Bossi si è imposto al governo. E nemmeno questo è vero: l’idea è di uno dei figli di Bossi, che costui vuole, anche se recalcitranti, in politica. Non si dice neanche l’ammontare delle multe che dovremo pagare – sono quasi 500 milioni di euro. Il terribile ministro Tremonti qui non fiata.
Malpensa è costata almeno dieci volte Gioia Tauro. E continua a costare, per l’infinita serie dei servizi che non riesce, dopo quasi quarant’anni, a completare, per la corruzione e per il campanilismo lombardo (i treni, l’autostrada, il gas, eccetera). Ha fatto fallire l’Alitalia. Regala agli sca confinanti un valore aggiunto enorme, che potrebbe restare in Italia – una diecina di milioni di viaggi aerei l’anno. Impedisce l’integrazione di Milano come area metropolitana, come avviene dagli anni 1970 attorno a Francoforte, a Parigi, a Londra, con beneficio del pendolarismo, dell’uso efficiente del tempo, della produttività, della qualità della vita. Ma non ci sono Sergi Rizzi o Stelle che ce lo dicano. Magari in un articolo invece che in uno dei loro vendutissimi libri. Solo si scrivono pagine per dire che, lentamente, ma Malpensa si sta riprendendo dalla crisi in cui l’aveva precipitata l’Alitalia – come se fosse stata la compagnia a far fallire lo scalo e non viceversa. E per dire che si sta riprendendo si citano alcuni milioni di passeggeri. Che sono la metà di Fumicino. Meno di un terzo del bacino di utenza milanese.