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sabato 15 aprile 2023

Il mondo com'è (459)

astolfo


Berberi – Massinissa, Giugurta erano berberi, il regno di Numidia era berbero, anche quello di Libia. Molti arabi con i quali abbiamo avuto e abbiamo più commercio sono invece berberi. Che conoscono e parlano l’arabo per via del Corano, ma hanno una loro lingua, di cui sono sempre più orgogliosi – che non è l’arabo, anche se dello stesso ceppo. S’incontrano soprattutto in Marocco e in Algeria, specie sull’Atlante (Rif, Cabilia, Aurès), ma anche in Tripolitania, e qualcuno pure in Tunisia e in Egitto, nell’oasi occidentale di Siwa. E probabilmente tra i barbareschi che a lungo hanno infestato le coste tirreniche, dalla Calabria e la Sardegna fino a Ostia e alla Liguria.
Gli Stati barbareschi, vere e propri sultanati autonomi dentro l’impero ottomano, furono molti e a fioritura continua – la Treccani ne elenca una ventina. Dovevano il nome non a “barbaro” ma a “berbero”. Gli Stati barbareschi delle corrispondenze diplomatiche erano detti anche Barberia, o Costa berbera. E di fatto denominavano il Maghreb, il Nord Africa Occidentale, anticamente detto Libia, fino a Tipasa-Cherchell (Cesarea) e oltre.
Per lungo tempo, fino al primo Ottocento, la Barberia era accomunata alla pirateria, dei corsari saraceni. he però erano accreditati anche diplomaticamente, con le lettere corsare” – avevano cioè diritto di abbordaggio. Ma erano prevalentemente turchi, sotto la denominazione “ottomani” - anche cristiani, più o meno rinnegati. I berberi sono gente di terra, agricoltori e allevatori. Combattivi anche, e battaglieri, come si vede dagli Stati che in continuazione crearono nei secoli, fino all’occupazione coloniale del Maghreb, cominciata dalla Francia in Algeria nel 1831, e proseguita con la Tunisia nel 1881.
Lo sbarco francese in Algeria cominciò in risposta a incursioni barbaresche. Nel 1825 perfino una flotta sardo-piemontese aveva forzato il porto di Tripoli di Libia: scopo della spedizione imporre al bey le scuse per avere oltraggiato la bandiera sabauda esposta al consolato. Una prima “guerra di Libia”.
Una “prima guerra barbaresca” fu combattuta dagli Stati Uniti, durante la presidenza Jefferson, 1801-1805, per garantire alle navi americane, non più protette dalla Marina britannica dopo l’indipendenza, il passaggio attraverso il Mediterraneo. In una seconda guerra barbaresca, o di Algeri, nel 1815, la Marina americana, spalleggiata da quella britannica e quella olandese, impose al bey di Tripoli di la cessazione delpizzo”, la taglia imposta ai legni commerciali per navigare liberamente nel Mediterraneo. 
Un revival berbero, avviato dopo l’indipendenza dell’Algeria sessant’anni fa, è attivo un po’ in tutto il Maghreb, non in contrasto con i governi, a predominanza araba, ma appena tollerato. Da qualche tempo è vivace soprattutto nel campo culturale, linguistico. E ove possibile - in Marocco e in Algeria, i due paesi dove il berbero è riconosciuto lingua ufficiale, rispettivamente dal 2011 e dal 2016 - di un principio di bilinguismo, all’insegnamento primario.
Si stima che la popolazione di lingua berbera sia al 40 per cento in Marocco, al 30 per cento in Algeria, e al 10 per cento in Libia. Si parla berbero anche nel deserto egiziano occidentale, prospiciente alla Cirenaica. E a sud del Sahara, in Mali, Niger, Ciad e Burkina Faso. Per lo più a opera dei tuareg, le cui parlate, variamente denominate, sono dialetti berberi – un dialetto berbero, zenaga, è parlato anche in Mauritania.
Qualcuno ha contato fino a 5 mila dialetti berberi. Si vogliono berberi anche sant’Agostino, e Zinedine Zidane. E da qualche anno si impone un’altra denominazione per berbero, parola inevitabilmente associata a barbaro (anche in arabo): per dire berbero si dice da qualche anno imaziy, “uomo libero”, plurale imaziyen. E per la lingua si cerca d’imporre il termine tamaziyt.


Massimo Fagioli – Morto poco prima del covid, nell’anonimato, fu una figura di peso a Roma negli anni 1960-1970, psicoanalista critico di Freud, teorico e animatore dell’analisi collettiva. Delle sedute di analisi collettive, sul tipo dell’Anonima Alcolisti. Un’influenza che Marco Bellocchio mette bene in rilievo, evocando i rapporti col fratello maggiore Piergiorgio, sul “Venerdì di Repubblica” il 24 marzo, passati a causa di Fagioli dallo strettissimo all’insofferente, e mai veramente più riannodati: “I nostri rapporti si diradarono, dopo la sfortuna di avere avuto una fortuna troppo precoce, quando iniziai a seguire il percorso dell’analisi collettiva di Massimo Fagioli, psichiatra radicalmente antifreudiano. Piergiorgio venne al Festival di Locarno, che presentava una retrospettiva completa del mio lavoro e anche una mostra dei miei quadri di gioventù, di cui lui fece una presentazione nel catalogo. E dove fu presentato il film di Massimo Fagioli Il cielo della luna che raccolse a Locarno tutti i “fagioliani”. Piergiorgio se ne andò irritato dalla presenza di Fagioli che era l’opposto di Amleto, il suo eroe antieroe, ma ancor di più attonito dai fagioliani che lo avevano seguito fin lì per applaudirlo e adorarlo. Non li capiva. E soprattutto: non capiva più me. Mi scrisse una lettera molto dura e io, che ero in un profondo coinvolgimento fagioliano (sia pure con alcune perplessità), non la presi bene. …. Dopo la mia separazione da Fagioli (non rinnegato), i nostri apporti sono ripresi, seppure con un’intensità minore che in passato”.
Lo psicologo (parapsicologo) aveva rotto un’armonia, invece di rinsaldarla. Non per colpa: è che il suo approccio fu fortemente divisivo, e fortemente anche avversato. C’era Lacan negli anni del suo debutto, con la psicoanalisi selvaggia, come molta cultura anche universitaria in quegli anni, c’era la psichiatria in ebollizione (si arriverà presto alla legge Basaglia), e Fagioli ci giocò un ruolo, a Roma molto ampio.
L’analisi collettiva nacque casualmente nel 1975, e si tenne alla Sapienza di Roma, luogo centrale dell’ortodossia, all’istituto di Psichiatria, dove Fagioli aveva l’incarico di supervisore degli specializzandi. Attività che svolgeva con un seminario a settimana. Affollandosi i seminari anche di non psichiatri, com’era l’uso in quegli anni all’università, di auto-formazione, Fagioli moltiplicò i seminari, fino a quattro a settimana. L’analisi collettiva sedusse molti dei partecipanti: gratuita, e anche anonima – relativamente: gli intervenuti non declinavano le generalità. Si moltiplicò – l’affollamento richiamava la curiosità. E divenne invisa all’Istituto di Psichiatria, che a fine 1980 revocò l’incarico a Fagioli, precludendogli gli spazi nella città universitaria - continuerà la pratica nel suo studio privato, a Trastevere.
Con Bellocchio Fagioli ha lavorato ai film “Diavolio in corpo”, “La condanna” “Il sogno della farfalla”. All’uscita di “Diavolo in corpo” risale la condanna di Fagioli da parte della critica dominante, legata al Pci – contro Fagioli furono utilizzate le accuse mosse da destra contro Braibanti, che la stessa opinione di sinistra negli stessi anni combatteva, quelle di dilettantismo e di plagio. Il successivo “La condanna”, Orso d’argento al festival di Berlino nel 1991, fu denunciato per apologia di stupro.
Lo stesso Fagioli farà cinema, un paio di docufilm, musica, scultura, allestimenti, anche col giovanissimo Sgarbi, e poesia. Ma senza più il richiamo forte degli inizia, degli anni 1970-1980. Un’ultima celebrazione ebbe al Parco della Musica nel 2015 o 2016, qualche anno prima della morte nel 1917, con l’invito “abbracciamoci” al pubblico che affluiva.
 
Tedeschi-Francesi – La guerra tra russi e ucraini, che durerà cent’anni, a meno di conflitto maggiore, ha messo in ombra e probabilmente cancellerà quella tra francesi e tedeschi, da Luigi XIV a Hitler, per due secoli e mezzo. Ma, come ora tra russi e ucraini, riesce difficile separare etnie e interessi, se non come questioni di clan, di sottotribù – il nazionalismo è difficile da definire (registrare, delimitare), come si sa in Italia, dopo un secolo e mezzo e oltre di unità. Se i tedeschi sono francesi era tema dieci anni fa di “Gentile Germania”, il libro-reportage su cosa i tedeschi sono (e non sono). Ma come tutti i nazionalismi, anche questo è probabilmente inesauribile, nuovi aggiornamenti si propongono.
La maggior parte dei tedeschi parla francese, i franchi.
Nicholas Fréret voleva i franchi tedeschi, come erano all’origine.
Molti tedeschi si sono voluti fino al Settecento francesi. Non solo Heine. Il barone d’Holbach, il cavaliere Grimm della “Correspondance littéraire - il “piccolo profeta” della sua amante madame d’Epinay e del di lei amico diletto abate Galiani. Il giovane Anacharsis Cloots, il nobile prussiano che si ribattezzo Jean-Baptiste du Val-de-Grâce, rivoluzionario prima di essere ghigliottinato,  “oratore del genere umano”, “cittadino dell’umanità”, “nemico personale di Dio”. Gli antisemiti Vacher de Lapouge, Drumont.
I tedeschi sono in realtà “francesi” anche in questo, nota Savinio (“Scatola sonora”, 137-8): “I Tedeschi, tre volte in meno di un secolo, hanno mosso guerra ai Francesi. Per vincerli? No. Per distruggerli? No. Per manducarli a scopo eucaristico. Per infranciosarsi (per indiarsi… Dieu est-il français?” - con una coda: “In altri tempi, e quando non la Francia ma l’Italia era la sirena di turno, i Tedeschi, e con lo stesso fine eucaristico, cercavano di manducarsi l’Italia (Goethe)”.
L’antisemitismo teutonico è anche ben francese, fino a Drumont, il più bravo e cattivo di tutti, e a Bernanos (ne parla molto J. Roth, “Al bistrot dopo mezzanotte”, l’antologia francese degli anni di Roth inviato in Francia – non ancor a esule – pp. 230 segg.). Fino all’ultima guerra: furono francesi i rastrellamenti di ebrei, censiti uno per uno, anche di pochi quarti, oppure di passaggio (quelli che si erano rifugiati in Francia per sfuggire a Hitler, soprattutto gli intellettuali, Hannah Arendt, Walter Benjamin, lo stesso Roth). Collaboratori volenterosi in questo campo degli occupanti germanici dopo la drole de guerre. Perseguitavano gli ebrei anche se tentavano di lasciare la Francia, ai porti d’imbarco, Le Havre, Marsiglia, alla frontiera con la Spagna – per esempio Walter Benjamin. Ancora nel 1944, con la Germania in rotta, all’Est, a Sud e sullo stesso fianco Ovest, si facevano denunce di singoli ebrei e arresti a Parigi. Max Jacob, che pure era buon cristiano da molti anni, molto pio, fu arrestato il 24 febbraio 1944 all’uscita dalla basilica dove aveva servito messa, la messa del mattino: morirà nel campo di concentramento per ebrei di Drancy.
Nell’anno 49 a.C., del ritorno di Cesare dalla Gallia, “un gran numero di Germani – centoventimila venne riferito – ha attraversato il Reno e si è stabilito nelle terre degli Elvezi, una tribù bellicosa, la cui risposta è stata di spostarsi a loro volta verso ovest, all’interno della Gallia, in cerca di nuovi territori” (R.Harris, “Conspirata”, p. 336).
Stefan George, che ha rifatto la poesia germanica, solo da grande a Berlino scelse il tedesco, essendo cresciuto col francese lungo il Reno, dopo aver fatto tesoro a Parigi di Mallarmé e Verlaine. Lo stesso Rilke.
Molta letteratura d’appendice nell’Ottocento, decine di migliaia di pagine, divide la Francia tra franchi oppressori e galli onesti lavoratori, oppressi.
S.Weil, “L’enracinement”, pp.138-43 racconta l’atroce conquista della Francia sotto la Loira da parte dei francesi-franchi - i tedeschi di un tempo erano i francesi, nella Francia attuale sotto la Loira, di Albigesi e trovatori che non erano francesi, in Borgogna, nelle Fiandre, in Sicilia: “La Franca Contea, libera e felice sotto la lontanissima sovranità spagnola, si batté nel Seicento per non diventare francese. La popolazione di Strasburgo si mise a piangere quando vide le truppe di Luigi XIV entrare nella sua città in piena pace, con una trasgressione della parola data degna di Hitler”.
Nella conquista feroce del Sud i francesi-franchi hanno creato l’Inquisizione, per meglio perseguitare i felici popoli sottomessi.
Jünger, che è nazionalista sensibile, voleva dare “tutto Stendhal per un poesia di Hölderlin”. Poi si pentì, e riscrisse il romanzo. Ma fu l’edizione originale a fare il successo di “Cuore avventuroso”.
La Linea Maginot, la vantata postazione bellica allestita dalla Francia nei vent’anni tra le due guerre, fronteggiavano sul Reno l’artiglieria e i corazzati tedeschi con i cannicciati nel diario di Junger, “paraventi” o “contrevents” di canne.
Le Männerbunde inventate da Höfler, le leghe maschili, e i berserkir, Dumézil e i francesi invidiano
ai tedeschi, i feroci guerrieri del dio norreno Voden, “furore”.
Nerval al Reno ha il grido: “Germania, nostra madre a tutti!”

astolfo@antiit.eu

Uno Schiavone d’autore

Un Marco Giallini-Rocco Schiavone un po’ meno scettico del personaggio di Manzini, ma molto più stiracchiato: non due episodi in due ore, ma uno in quattro ore, due intere serate. Con le novità-verità risolutive ammassate negli ultimi pochi minuti, senza seminare indizi che coinvolgano lo spettatore. Lo salva la regia.
Spada - delegato ormai alle scenografie fredde e cupe dei paesaggi innevati, dopo il successo di “Hotel Gagarin”? - ravviva la spenta sceneggiatura, con tagli e inquadrature a sorpresa. Memorable la scena inziale, della scoperta del cadavere affidata al topo: un grosso ratto balza dal pantano su per un tubo di discarica, fino al water di un’abitazione, e poi lungo il corridoio, fino al salotto, e al cadavere sul tappeto.    
Simone Spada,
Rocco Schiavone, Rai Due

venerdì 14 aprile 2023

Problemi di base infelici - 743

spock


“Il male non conosce pietà”, Svetlana Aleksievič?
 
“Si possono insegnare la menzogna e il male tanto quanto la verità”, id.?
 
Il calo delle nascite è “una perdita di speranza nell’avvenire”, papa Francesco?
 
“Poche coppie sono infelici come quelle troppo orgogliose per ammettere la propria infelicità”, P.D.James?
 
“La solitudine è il campo di gioco di Satana”, Nabokov?
 
“Non spero niente, non temo niente, sono libero”, N. Katzantzakis?

spock@antiit.eu

La perdita di sé

Un uomo sfugge a se stesso. E alla moglie, agli amici, al lavoro onesto e passionante. L’ansia immotivata lo immerge in un gorgo – “disagio, malessere, malattia” - da cui non esce, né con la chimica, né con gli appigli che cerca ma non lo legano, né con i gesti automatici, il fumo, l’alcol, le fughe. Il racconto anche di una catapulta, un distruttore. Ma quieto, piatto: distrugge per nessun motivo. Se non che si distrugge.
Un racconto colto e semplice. Sulla traccia del primissimo Camus, “Lo straniero”. Nell’atto gratuito: come si può arrivare a uccidere senza un motivo. Nel soggetto che sfugge a se stesso. Nel malessere fisico e metafisico più che psicologico. Al racconto di Camus rinviano anche alcuni spunti narrativi. Ma innervato dalla tecnica del thrilling: piano, “normale”, e svelto, ogni capitolo una sorpresa. La suspense si accende piano, senza forzature, da sorpresa senza sorprese. Tra personaggi e eventi veri, non traumatici, freddi. Con una scrittura elementare, anche rutiniera, anche di modi di dire. E molti dialoghi ma ordinari, scontati. E tuttavia di effetto.
Si ripubblica il romanzo a vent’anni dalla prima uscita. Nel quadro di un recupero di Carbone, letterato e narratore morto giovane in un incidente col motorino, a opera dei due superstiti dei “quattro amici”, partito un anno fa con “L’assedio”. Emanuele Trevi ne ha avviato il ricordo, col premiato “Due amici” (Strega 2021) – l’altro amico è Pia Pera, morta anch’essa giovane, di malattia. Di Marco Delogu, il quarto amico, il fotografo romano nel cui studio a Trastevere i quattro spesso si ritrovavano, è la foto di copertina, “Sole Nero”.
Rocco Carbone, L’apparizione, Castelvecchi, pp. 141 € 17,50

giovedì 13 aprile 2023

Letture - 517

letterautore


Classicità
- “Avete mai visto ‘Cleopatra’ con Liz Taylor senza doppiaggio? Sembra “Beautiful’”, Francesco Vezzoli.
 
Nazionalismi
– Due cosmopoliti, Giordano e il “franco-americano” Littell “La Lettura” fa incontrare a Barcellona di Spagna in una profusa conversazione per parlare (male) della Russia. “Ho letto Shevcenko nell’anno passato”, lo scrittore Taras Shevchenko non il centrattacco di Berlusconi, russofono, “non l’avevo mai fatto prima, ed è meraviglioso…”, dice Littell a Giordano: “Ma il vero passo successivo per gli ucraini, a cui prima o poi arriveranno, è di rivendicare come propri molti degli autori che sono considerati russi. Gogol’ ovviamente ma non solo; Isaac Babel’ Vasilij Grossman, anche Michail Bulgakov”. Poi gli viene un dubbio: “Con Bulgakov ci sono dei problemi. Poiché denigrava il nazionalismo ucraino, ora vogliono chiudere la sua casa-museo a Kiev. Ma, se ci pensi, quanti stronzi abbiamo nella letteratura francese? Prendi Louis-Ferdinand Céline”.
Gli stronzi in letteratura è una novità, potrebbe valere a Littell la posterità. Ma quando la Francia farà guerra agli Stati Uniti, Littell dve avrà il monumento, sarà avocato dalla Francia o dall’America?
 
Littell, che è anche operatore umanitario, critica l’arte militare di colpire i civili. Che è il modo di fare la guerra dei russi, dice: “L’uccisione dei civili, la tortura e l’assassinio dei prigionieri, la scomparsa dei cadaveri dei loro stessi soldati per evitare di registrarli; i bombardamenti di massa delle città, l’uso di armi illegali come le bombe a grappolo e i missili termobarici”. Si è dimenticato i russi che si mangiano, si mangiano i prigionieri e i loro stessi commilitoni – ma è novità recente, del “New York Times”. Niente di questo in America, spiegato a Giordano (che forse non ha afferrato bene l’inglese – o il francese, in che lingua si parlavano), niente bombardamenti né armi illegali: “Gli Stati Uniti sono andati fuori controllo con le torture in Afghanistan e in Iraq ma è l’unico esempio che conosco, dopo la seconda guerra mondiale, in cui degli eserciti occidentali hanno agito deliberatamente, per policy esplicita, in violazione delle leggi internazionali”. Sì ma prima? Con i bombardamenti a tappeto, quotidiani, dei civili, a grappolo, in Germania e Italia? E in Giappone? Mai sentito del generale Curtis LeMay, “l’incendiario”, da Guam a Hiroshima (l’Usbus di Galbraith, United States Strategic Bombing Survey, ha accertato a fine guerra l’inutilità militare dei bombardamenti: gli Alleati distrussero le città tedesche e gli abitanti ma non l’industria bellica)? E dopo, in Vietnam col napalm, in Serbia con le bombe al neutrino, a Guantanamo? O, per dire, della Francia in Indocina, o in Algeria, con Massu e senza. La guerra è brutta. La guerra di civiltà è peggio.  
 
Neologismi – L’Italia ne è la fucina, secondo Palazzeschi (una delle bizze raccolte in “Ieri, oggi e non… domani”: “Senza che nessuno se ne sia accorto e a dispetto di tutti fu sempre un paese di precursori e avanguardisti il nostro”. Ma non porta altri esempi – lo dice a proposito di “spogliarello”, il romanesco dolce che tanto amava.
 
Nudo – “Fra tutti gli animali della creazione il solo vestito è l’uomo”, si sa, ma per Palazzeschi (Ieri, oggi e non … domani”, 35) è diverso: “Ci vuol poco a capire che si tratta del più brutto e, per conseguenza, il solo a godere di questo inestimabile privilegio. Viceversa, “quale motivo di scandalo formano, intorno a noi, gli animali con la loro nudità: un bel cavallo, un cane, un gatto, o altro meraviglioso e domestico? Godono di una purità che con tutti i nostri cenci noi abbiamo perduto; e non sarà da ricercare in questa mania del nascondere e coprire l’origine della corruzione e del vizio? Che cosa ha mai questo nostro sciaguratissimo corpo di tanto odioso da doversene vergognare, anche quando è bello?”
 
Palazzo – Pasolini ne aveva fatto la metafora del potere – riprendendolo da Guicciardini. Jhumpa Lahiri ci ha fatto la tesi di dottorato, in Studi del Rinascimento. Ma del palazzo in senso proprio, palladiano. Il palazzo italiano come lo immaginavano i drammaturghi giacobiti, della Restaurazione inglese. Sempre nell’ottica, che poi sarà la sua come scrittrice, dell’interscambio culturale, della possibilità e il senso dello scambio culturale. “Di gente come Inigo Jones che viaggia in Italia”, spiega al “Guardian”, e “la faccia di un paese cambia”. L’importazione dell’architettura palladiana essendo il “risultato di un gruppetto di persone che fa un viaggio per diporto”.

Romanzo – Quello di Chesterston è “una narrazione fittizia (quasi variabilmente, ma non necessariamente, in prosa) in cui l’essenziale è che la storia non vi è raccontata in funzione della sua nuda incisività aneddotica, o dei paesaggi e delle visioni marginali che possono finirvi impigliati dentro, ma in funzione di uno studio delle differenze tra gli esseri umani”. Tra gli esseri e gli eventi. Altrimenti si avrebbe il romanzo come genere di tipi psicologici – anche se di avventure, orrori, mistero, fantasmi, crimini, soluti e insoluti, e romanticismi. Tutto quello che manca nella vita ordinaria e si ha voglia di immaginare. 

O non uno studio, una moltiplicazione degli esseri umani – una gestazione, non necessariamente di gemellarità plurime, di gemelli non omozigoti.

 
Sartre – In malafede lo dice Chiaromonte, “Credere e non credere” nel 1971. Cioè non lo dice, lo rappresenta. Nemmeno lo rappresenta direttamente, indirettamente: “La nostra non è un’epoca di fede, ma neppure d’incredulità. È un’epoca di malafede, cioè di credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre e, soprattutto, in mancanza di altre genuine”. Particolramente scandalosa nel caso di Sartre, innominato, perché opportunistica. In effetti Sartre non era un ideologo (lo era debole, palesemente controvoglia), ma uno scrittore, incerto: si è voluto ideologo per bisogno di riconoscimento, in ciò diminuendosi come scrittore – si rilegge sempre con interesse Camus, che invece affrontò l’ostracismo comunista, si rilegge con più senso e anche gusto de Beauvoir, che di Sartre fu l’alter ego dai vent’anni, senza bisogno di conformarsi. A Auctoritates tanto tanto astute  (“mi si nota di più se rifiuto il Nobel?”) e dure (sovietismo) quanto caduche.  


Spogliarello – “Quale scrittore non avrebbe voluto inventare un vocabolo così grazioso come questo”, si domanda Palazzeschi (“Ieri, oggi e non … domani”, 31): “Di un provincialismo così autentico, genuino, gustoso, e così irrimediabilmente italiano”.


Sciascia - In una delle ultime interviste, se non l’ultima, nel giugno del 1985, col “London Magazine”, Sciascia lamenta con l’intervistatore Ian Thomson una sorta di cattivo trattamento degli scrittori siciliani. Acculati alla mafia (evidentemente l’intervistato inglese insisteva su quel tasto), di cui hanno scritto poco o pochissimo, mente si tace della loro abilità di narratori, di racconti, narrazioni brevi. Ma è vero che Sciascia ha aperto il redditizio filone editoriale col successo del “Giorno della civetta”. Un doppio filone, imponendo in Italia anche il genere del giallo, fino ad allora molto marginale.


Stendhal – Fu bonapartista contro venti e tempeste, fino alla fine, anche se di Napoleone non ha poi scritto il romanzo che doveva essere il suo più voluminoso, l’avventura dei suoi anni migliori, in contrasto radicale con lo squallore, il ridicolo anche, che del campo di battaglia, il preferito del suo preferito, fa vedere al suo alter ego Fabrizio Del Dongo nella “Certosa di Parma”. Il romanzo è più vero della volontà? 


letterautore@antiit.eu

L’Europa non ha mai avuto pace

“Era la prima guerra europea”, dice Barbara Cupisti, licenziando il suo docufilm “Hotel Serajevo”, sulle guerre etniche alla dissoluzione della Jugoslavia, “e l’Europa è rimasta a guardare”. Non se n’era accorta. Molto si dice anche da un anno, dalla guerra all’Ucraina, che l’Europa ha goduto di settant’anni di pace. Ma non è così: l’Europa ha fatto molte guerre dopo la seconda guerra mondiale. Fuori e dentro l’Europa.
La Francia in Indocina e in Algeria - qui con mezzo milioni di morti, fino al 1962. La Russia a Berlino Est, 17 giugno 1953, con molti morti, in Ungheria (1956) e in Cecoslovacchia (1968), vere e proprie guerre militari. E in Polonia a fine giugno 1956, rivolta di Poznan, e a marzo del 1968 (quanti profughi, soprattutto intellettuali, si rifugiarono in Italia). La Germania Est a Berlino e lungo tutto il confine con la Germania Ovest, con centinaia di morti, nei quasi trent’anni del Muro, dal 1961 al 1989.
Ma già prima, non se ne parla per non alimentare i nazionalismi (e il ridisegno delle frontiere), tra il 1945 e il 1949 dodici milioni di tedeschi furono sloggiati con la forza dalla Prussia Orientale, la Pomerania, il Brandeburgo, la Slesia, la Galizia, i Sudeti (Cecoslovacchi) e il Banato (Romania). Rifugiati obbligati in Germania, che non aveva di che mangiare per sé.

Quelle bestie sembrano uomini, o viceversa

Un favoliello, un po’ arcigno, un bestiario. Evocazioni elegiache, liriche, citiche, di animali, vezzi, lazzi, epifanie realistiche e leggendarie come moralità.
Un libro di evasione nel 1917, quando l’Italia era alle prese con la guerra sanguinosa, che tuttavia portò Tozzi all’attenzione del pubblico, grazie all’editore Treves, allora grande nome. La raccolta più breve, e più lieve, di uno scrittore “realistico” nel senso della disperazione. Localistico benché urbanizzato, appartato. Che molto deve, postumo, a Giacomo Debenedetti, al suo “Romanzo del Novecento”, anche lui appassionato di animali.
In un ricordo che accompagna la riedizione del “romanzo” critico di Debenedetti, Mario Andreose si sofferma su un particolare non insignificante: mentre, “a metà degli anni Sessanta”, si litiga molto, “tra tradizione e innovazione”, lui “scrive”, lui Debenedetti. Scrive appartato: “Trascurando i giganti dell’arte del Novecento, si sofferma su Franz Marc, un pittore animalier. Un po’ particolare: si tratta bensì di un pittore di animali, precisa Debenedetti, ma non di un ritrattista di animali”. Uno spunto che viene naturale mettere in rapporto con l’animalismo del Tozzi delle “Bestie”.
Di bestie ce ne sono poche, tutto sommato, rispetto al titolo, e tenuto conto che si tratta di 69 prose, ancorché brevi: qualche gatta, cani spersi, un’asina non materna. Ma gli uomini sono altrettanto muti - dietro il dialogare fitto, che ne agevola la lettura: dicono che fa caldo e fa freddo, e si interrogano sul perché hanno gioie e dolori, nei pochi momenti in cui non si odiano, per nessun motivo. Bestie sono in realtà i personaggi, gli  ambienti, gli eventi, muti – ossessivi – e allucinatori.
Di bestie ce ne sono poche, tutto sommato, rispetto al titolo, e tenuto conto che si tratta di 69 prose, ancorché brevi: qualche gatta, cani spersi, un’asina non materna. Ma gli uomini sono altrettanto muti - dietro il dialogare fitto, che ne agevola la lettura: dicono che fa caldo e fa freddo, e si interrogano sul perché hanno gioie e dolori, nei pochi momenti in cui non si odiano, per nessun motivo. Bestie sono in realtà personaggi, ambienti, eventi muti – ossessivi – e allucinatori.
È il testo forse più ripreso di Tozzi, appena scaduti i diritti, in edizione economica, da Garzanti, Edimedia. Intra e altri. Questa è un’edizione critica, opera della comparatista Valentina Sturli, nel quadro di un’edizione nazionale di Tozzi. Densa soprattutto di apparati filologici e del commento critico.
Federigo Tozzi,
Bestie, Edizioni di Storia e Letteratura, pp. 176 ill. € 22

mercoledì 12 aprile 2023

La banda Nato, al seguito di Biden

Più che le cose trovate (rivelate) dalle carte del Pentagono pubblicate, normali note dei servizi d’informazione degli Stati Maggiori, meraviglia la meraviglia dei media italiani. Che pure, in teoria, hanno un numero straordinario di inviati sui fronti di guerra. Ma solo ora scoprono quello che si sa. Perché ne parla il “New York Times” - a cui quelle carte sono state date, non le ha rubate, non si può. E perché l’America comincia a chiedersi chi è veramente Biden, dietro il rictus del sorriso, e cosa vuole.
Si “scopre” che l’Ucraina combatte con mezzi e armamenti Nato, soprattutto americani. Che in Ucraina (e nella finitima Polonia) operano migliaia di “specialisti” Nato. Cioè militari, non formalmente combattenti, non stando in trincea, ma per ogni altro aspetto sì, combattenti: americani la più parte e inglesi, con i francesi, addestratori. In artiglieria, contraerea (antimissilistica), uso dei droni.
Difendere l’Ucraina è un conto. Ma bisogna anche sapere come va la guerra, a che cosa tende, che cosa si prepara. E chi ci è in mezzo. Che siamo cioè in guerra, seppure come fornitori di mezzi e armamenti e, per ora, come addestratori – lo erano gli americani di Kennedy, quando decisero di “aiutare” Saigon nel 1963 con migliaia di consiglieri. E che la guerra sarà lunga, quindi imprevedibile, quindi rischiosa più di quanto appare. Si penserebbe che sia questa l’informazione. Che invece si esaurisce nei bimbi ucraini, che Putin massacra o ruba, e tutte le altre “notizie di guerra” fabbricate a tavolino, come se ce la rendessero meno cruenta, e meno pericolosa.
Nelle bande c’è il cheerleader, e c’è chi suona il piffero. Ma tutti hanno concertato prima, hanno provato e riprovato. La “banda” Nato suona veramente a caso? Questa sarebbe una informazione terribile.

Problemi di base piddini - 742

spock


PD, partito delle donne?
 
Ma donne-donne, o un partito dall’identità incerta?
 
Con Elly Schlein Pannella al governo?
 
Se il fumo nuoce gravemente alla salute ma quello delle canne no?
 
Iscriversi al Pd per andare al potere, subito (prima che con Grillo)?
 
Vorranno le donne del Pd di Schlein, ancorché neofite, assumersi la pulizia delle strade di Roma?

spock@antiit.eu


I bombardamenti liberatori

Una microstoria dei bombardamenti del 1943, terrificanti benché limitati, a Cosenza e dintorni. Un centinaio di schede per capire perché gli Alleati bombardarono nell’estate 1943 Cosenza e il resto della Calabria, benché non fosero grandi piazzeforti tedesche. Con una’appendice antologica di testimonianze, e moltissime illustrazioni – fotografie e disegni, molti del’autrice.
Nell’area d Cosenza il primo bombardamento colpì Amantea, il 20 febbraio 1943, facendo 26 morti. Poi, il 12 aprile 1943, le fortezze volanti americane, che quel giorno dovevano bombardare Napoli, per il cattivo tempo cambiarono percorso e buttarono il loro carico di morte a Cosenza e a Vibo Marina: 75 i morti a Cosenza, tra essi cinque scolari della scuola elementare dello Spirito Santo, 10 a Vibo Marina, di cui 7 bambini. In cinque mesi ci furono nove incursioni aeree in città, con oltre 150 morti. Altri danni, con morti e mutilazioni, si sono avuti successivamente per le molte bombe inesplose.
I primi che diedero un proprio contributo «a favore dei sinistrati di Cosenza» furono gli ex internati di Ferramonti, politici o ebrei, che il 9 novembre 1943, al Cinema Italia tennero un concerto di beneficenza.
Una larga parte del libro ricostruisce i danni causati dai bombardamenti in città, via per via. Tutta la città, sia vecchia che nuova, fu coinvolta.  
Roberta Fortino, 1943 Cosenza bombardata…. e la morte arrivò dal cielo, Editoriale Progetto, pp. 224 € 10

martedì 11 aprile 2023

Secondi pensieri - 511

zeulig

Fede - Si vuole la fede universale. Ma i testi sacri non dividono, più delle liturgie? Per non dire delle pratiche di fede per censo o condizione sociale, aristocratica (danarosa) come un tempo, oppure popolare come ora si vuole – ma l’aristocrazia non escludeva il popolo, che viveva per farsi aristocratico: il populismo non è buona religione, quando lo è stato, il primo Lutero, subito ha deragliato.

La fede non è semplice.


Fede e malafede “La nostra non è un’epoca di fede, ma neppure d’incredulità. È un’epoca di malafede, cioè di credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre e, soprattutto, in mancanza di altre genuine”, Nicola Chiaromonte, “Credere e non credere”, 1971. Detto della fede come ideologia, la fede politica. Ma può valere per le fede religiosa.
 
Liturgia – Non c’è religione senza, la religione è tradizione, radicamento.
Abolendola di fatto il Concilio Vaticano II ha ristretto la chiesa – le chiese, i sacerdoti, la stessa preghiera, e i sacramenti - a uffici generici. Di battesimi, matrimoni, funerali, sempre meno, una sorta di stato civile un po’ meno asettico o generico. E se il parroco ha tempo e voglia di un po’ di opere di bene.
Un’abolizione che lascia la chiesa nuda. I suoi sacerdoti, vescovi, cardinali sono una sorta di figure buffe, per lo più adipose, che difficilmente ispirano spiritualità, deprivati della liturgia: sono solo uomini solitamente solitari, poco ispirati e ispiranti. Non sono più “sacerdoti”, ma mini-sindaci o podestà, amministratori dell’ufficio religioso.
 
Formalmente sono liturgici anche i riti postconciliari. Ma, curiosamene, al modo come la parola e il concetto si elaborarono agli inizi, come adempimento di un servizio. Non cerimonia o esercizio di fede, ma prestazione. È noto il significato originario della parola, meglio sintetizzato da Luigi Einaudi, nei “Miti e paradossi della giustizia fiscale”, della liturgia in Atene come adempimento fiscale, una sorta di “sostituto d’imposta”: “Le imposte dirette erano considerate incompatibili coni la libertà e con la qualità di cittadino. Solo gli stranieri, le cortigiane e gli schiavi vi erano sottoposti. Gli stranieri permanentemente domiciliati nella città pagavano il «métoikion», a guisa di compenso per i privilegi di cui essi godevano nella città. Era un pesante uniforme testatico, a cui si aggiungevano particolari tributi, ad es. per il diritto di lavorare sul mercato. Anche le cortigiane erano soggette ad un tributo fisso. Più incerta era la situazione degli schiavi e dei liberti”. Per i cittadini, le imposte erano sostituite dalle liturgie, volontarie ma obbligate, una sorta di proclamazione periodica di fede patria.  
“Le liturgie ordinarie… sostituivano, per i cittadini, le imposte da cui erano immuni. Distinte in varie sottospecie, come le «coregie» destinate a coprire le spese dei giuochi drammatici e musicali e delle danze, le «gimnasiarchie» a copertura dei giuochi atletici, l’«estiasi», a sopperimento delle spese delle pubbliche cene a carattere religioso delle tribù, poggiavano sul concetto che ad ogni spesa si dovesse provvedere con una particolare entrata all’uopo stabilita e sovratutto facevano affidamento sull’ambizione tradizionale nei ricchi greci di fare buon uso della propria ricchezza e sul desiderio di rendersi popolari con generose largizioni ad incoraggiamento di feste religiose, giochi e spettacoli”.

“Le liturgie ordinarie… sostituivano, per i cittadini, le imposte da cui erano immuni. Distinte in varie sottospecie, come le «coregie» destinate a coprire le spese dei giuochi drammatici e musicali e delle danze, le «gimnasiarchie» a copertura dei giuochi atletici, l’«estiasi», a sopperimento delle spese delle pubbliche cene a carattere religioso delle tribù, poggiavano sul concetto che ad ogni spesa si dovesse provvedere con una particolare entrata all’uopo stabilita e sovratutto facevano affidamento sull’ambizione tradizionale nei ricchi greci di fare buon uso della propria ricchezza e sul desiderio di rendersi popolari con generose largizioni ad incoraggiamento di feste religiose, giochi e spettacoli”.
Ma più che un obbligo, era un adempimento spontaneo, un gesto fatto in coscienza a anche a propria soddisfazione: “La liturgia era dunque in origine e rimase sempre in principio una oblazione spontanea. Lo spirito di emulazione tra i ricchi, la brama di cattivarsi il favore del popolo innanzi alle elezioni inducevano non di rado i ricchi greci ad eccedere, nelle pubbliche largizioni, i limiti considerati normali dall'opinione generale. Testimonianza di volta in volta di patriottico amore alla cosa pubblica e della sua degenerazione demagogica, le liturgie non sempre bastavano a coprire la spesa, sovratutto quando essa assumeva dimensioni insolite”.
Finché non subentra la stanchezza, e la disorganizzazione. E così “all’oblazione spontanea sottentrava la coazione”. In un primo tempo “morale. Si compilavano liste dei ricchi messi a contributo; problema sempre arduo, a causa del piccolo numero dei chiamati e della gravezza del contributo”. E si finisce per farne un’operazione di semplice spesa, con l’istituto dell’“antidati”, la delega del servizio, retribuita. La funzione liturgica essendo ritenuta un impiccio veniva confidata a un altro soggetto, in qualche modo compensato per questo. Resta, nella liturgia postconciliare, una forma soggettiva di esercizio della fede, oppure è sociale, di gruppo, di classe? La lingua sacra – ieratica, immutabile, universale – è impraticabile perché unisce e non divide? La fede non è immutabile?

“Qualcosa di simile a questo apparecchio si può immaginare nella filosofia”, è la prima delle “Tesi di filosofia della storia” di Walter Benjamin. L’apparecchio è quello inventato nel 1770 dal barone ungherese von Kempelen per l’imperatrice Maria Teresa d’Austria, che di dilettava, oltre che di politica, di magnetismo e magia. Un apparecchio che vinceva sempre a scacchi. Il barone poi lo vendette a un Maelzel, “un inventore tedesco” naturalmente, che ci ricavò una piccola fortuna nelle fiere negli Stati Uniti. E. A. Poe incuriosito ci scriverà sopra una sorta di reportage, “Maelzel’s Chess Player”. C’era un trucco, spiega Benjamin: “Un fantoccio vestito da turco, con una pipa in bocca, sedeva di fronte alla scacchiera, poggiata su un’ampia tavola. Un sistema di specchi suscitava l’illusione che questa tavola fosse trasparente da tutte le parti. In realtà (sotto il ripiano, n.d.r.) c’era accoccolato un nano gobbo, che era un asso nel gioco degli scacchi e che guidava per mezzo di fili la mano del burattino”. Questo per dire, conclude la prima “tesi”: “Vincere deve sempre il fantoccio chiamato «materialismo storico». Esso può farcela senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è noto, è piccola e brutta, e che non deve farsi scorgere da nessuno”. Oggi nel 1933, o 1934. Il sacro è in ritirata da tempo.


Cristina Campo poteva vedere nell’abbandono della liturgia al Concilio Vaticano II “i terrificanti, estremi pericoli di un mondo divenuto aliturgico”. Senza cioè più radici, quindi senza regole. Se non proprie - la società dei diritti oggi, che si vuole libertaria mentre distrugge la trama che la libertà sottende, di reti, ponti, dialoghi.


Occidente – Nacque con Mosè, con l’“Esodo”, è tesi ora ripresa dall’egittologo e studioso del monoteismo Jan Assmann, maturata in tarda età – come dire: frutto di una grande esperienza. Non quindi con Omero, non con Erodoto, non con lo stesso Egitto. Non nella Mesopotamia di Giovanni  Pettinato - anche se è un po’ Oriente. Un Occidente dalle plurime radici, anche se tutte localizzate nel Mediterraneo orientale.
L’Occidente nasce dal monoteismo mosaico, dalla formazione, per quanto recalcitrante, del popolo di Israele? Delle due componenti storiche dell’Occidente, anche cristiano, l’ellenica e la galilea o semita, quest’ultima si fa preponderante. Ma più per un fatto etnico, tribale – il ragionamento di Assman passa dalla storia al mito, e quindi autocertificato.
La trasposizione non regge storicamente, a una minima riflessione – l’Occidente è storia, non mito. E si espone a un tribalismo di ritorno, violento, non dissimulato. È come se si volesse giocare d’azzardo. Per non dire dell’appiattimento scientifico. Assman rimprovera  Freud di avere “limitato” Mosè, le peregrinazioni dell’“Esodo”, i quarant’anni o quanti furono di risse tribali, la verità storica. La verità storica è un’ubbia, non può essere “accertata”, tantomeno nel caso di Mosé, Assmann ne conviene. Ma il mito sì. Ora, su chi ha operato il mito Esodo? Nemmeno sul popolo ebraico.
L’Occidente, in crisi come ideologia da tempo (democrazia, libertà, individuo, etc.) e ora perfino come geografia, è sotto attacco. Ma dall’interno, si dissolve. Con un secolo forse di ritardo: è sopravvissuto nel Novecento per la sfida del bolscevismo, della potenza sovietica -  per pochi anni per quella nazista.
 
Storia – L’angelo della storia che guarda all’indietro sempre si fa risalire a Walter Benjamin. Ma è già in Dante, al canto XX dell’“Inferno”, dove il poeta iperprofetico ha relegato chi profetizzava, Tiresia per esempio. Manto, la figlia di Tiresia, ha il viso rivoltato all’indietro. Per effetto del contrappasso – chi guarda avanti è condannato a guardare indietro, oppure viceversa. Ma lo stesso si può dire dell’angelo di Benjamin, non esente da millenarismi.
Nella nona “Tesi di filosofia della storia” Benjamin lega l’“Angelus Novus” di Klee, l’immagine che aveva voluto per sé e possedeva, come l’“angelo della storia”: “Un dipinto di Klee intitolato Angelus Novus mostra un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’Angelo della storia deve avere questo aspetto. Il suo volto è rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, lui vede una sola catastrofe, che continua ad accumulare rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. L’angelo vorrebbe trattenersi, risvegliare i morti e riparare ciò che è stato infranto. Ma una tempesta spira dal Paradiso, e ha ingabbiato le sue ali con tale violenza che l’angelo non può più chiuderle. La tempesta lo spinge irresistibile verso il futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo di rovine davanti a lui cresce verso il cielo. Questa tempesta è ciò che chiamiamo progresso”.
 
“L’eccesso di storia è un danno per la vita: noi dobbiamo avere coscienza storica, ma quanto basta per la vita”. Ovvio. Ma: “Noi soffriamo di una febbre storica”. La seconda Inattuale di Nietzsche   quanto attuale? Si può fare il liceo classico senza sapere nulla del Rinascimento: che storia è questa,  dell’Italia, dell’Europa?

zeulig@antiit.eu

Non c’è amore se non si canta

Ritorno senza pretese al successo di “Mamma mia!” quindici anni fa – bissato peraltro da un “Mamma mia! 2”. Ancora più melenso ma di altrettanto successo: la figlia riunisce i divoziatissimi genitori per il suo proprio matrimonio.
Un inno al matrimonio, e all’amore filiale, in tempi infausti. Ma parecchio scontato. Tanto da chedersi perché il successo dell’originale, “Mamma mia!”: Julia Roberts non è da meno di Meryl Streep. Anche se qui i ruoli sono rovesciati, quasi sempre parla lui, George Clooney. Comunque lei è meno stinta dei mariti scialbi di Meryl Streep in “Mamma mia!”, seppure di gran nome, Colin Firth, Pierce Brosnan e Stellan Skarsgård, ognuno un paio di pose, svogliate.
Forse perché era un musical, con gli Abba onnipresenti. Non c’è amore senza musica?
Il solo divertimento qui sono Bali, i suoi cieli e mari d'autore, e due grandi divi che recitano senza credersi - come nelle scene rubate che ornano i titoli di coda.
Ol Parker, Ticket to paradise, Sky Cinema

lunedì 10 aprile 2023

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (521)

Giuseppe Leuzzi


La donna del Sud
Nell’elzeviro “dolore”, anni 1960, poi raccolto in “Ieri, oggi e … non domani”, 1967, Palazzeschi ricorda l’uso del lutto: “Accadeva d’imbatterci lungo le vie cittadine in persone che dal cappello alle scarpe, ai guanti, e al bastone, fino al manico dell’ombrello, tutto era di un nero opaco e tremendo”. Era il lutto “stretto”. “E veniva portato per un anno giusto, dopodiché con l’aprirsi dell’anno nuovo aveva inizio il mezzo lutto”.
Se non che, si sa, i lutti non finiscono mai. “Se poi, dopo due anni un altro componente di quella prospera famiglia se ne volava al cielo, si rifacevano da capo”, il lutto stretto e il mezzo lutto.
Palazzeschi li ricorda, il lutto e il mezzo lutto, “parecchie decine d’anni fa”. Ma non dovevano essere molte decine, poiché lui ne aveva sei, più o meno.
Del lutto perpetuo, che Palazzeschi deve aver visto a Firenze, o a Roma, le sue città, si è fatto per  un secolo e passa, subito a partire dall’unità, il. cliché della “donna del Sud”.
 
Il nostos – o restanza
Il cardinale Ravasi, milanese di formazione e di storia, romano ormai da qualche decennio, porporato e accademico in Vaticano, vicino a entrambi gli ultimi due papi, confida a pranzo con Paolo Bricco sul “Sole 24 Ore”: “Mi è stato molto utile per lungo tempo rientrare, ogni fine settimana, in parrocchia a Osnago, in Brianza, per dire messa e per fare le confessioni ai fedeli. Con le persone più anziane parlo ancora in dialetto lombardo, che ho appreso quando ero piccolo dai miei genitori e dai miei nonni nella versione lecchese e che poi ho affinato studiando le poesie in milanese di Carlo Porta”.
Il ritorno è un ritrovarsi. Non si emigra mai veramente. Non del tutto. La vita non si può spezzare, non lo sopporta e non è possibile – il senso di una vita, il gusto, la lingua. Giustamente la lingua si dice natìa, del luogo in cui si è nati – e non come morfologicamente sarebbe più giusto, “natale, “familiare”. E la lingua resta un pezzo di noi indefettibile, sia pure declinata o esercitata in forme, caratteri e suoni nuovi e diversi. Anche quando ne adottiamo una di forme, caratteri e suoni diversi, a Cleveland essendo partiti dall’Abruzzo. Pure se mutiamo il nome, le generalità. E con la lingua non perdiamo il gusto, il palato, l’odorato, perfino l’occhio - i sensi, quali si sono primariamente esercitati e formati.
Ci sono permanenze nel mutamento, anche in quello radicale, l’alluvione, il terremoto. Perfino nella morte. Vito Teti ha analizzato il caso di Vaccarizzo, un agglomerato calabrese semidistrutto da una frana, che il governo ha ricostruito piuttosto prontamente e con materiali di pregio, che i vecchi abitanti si rifiutano di abitare. Teti ha anche successivamente teorizzato la “restanza, o restare per ripartire, “andare per ritornare”, “il recto e il verso di un radicamento «in cammino»”:
http://www.antiit.com/2022/08/restare-per-ripartire.html
Un pendolo che il radicamento agita. Il radicamento di cui poco si è riflettuto, forse solo Simone Weil (con Cristina Campo) prima di Teti.
Ma poesia è casa: vigilie, feste, quiete, tempeste. E casa è se stessi, in Leopardi, il più cosmopolita dei poeti e letterati - più di D’Annunzio, per dire, che scrive in francese (lo farà anche Malaparte): D’Annunzio non scrisse di Pescara, o di malavoglia – è lo sradicamento che di lui lascia perplessi (lo relega all’estetismo). Nomi, luoghi, figure, albe, tramonti, suoni, attese, eventi, più o menol reali, più o meno narrativi. La poesia è appartenenza, anche solo di ritorno, il ritorno è necessario.
Il giovane Scotellaro che tardivamente si celebra - che il Pci dominante volle ai margini (si dice “la critica marxista”, ma Gramsci, che era marxista, avrebbe apprezzato) – diceva: “La terra mi tiene”.Il poeta di “Sud è il mio amore” (“Margherite e rosolacci”). E: “Dove si nacque, è arca di memorie” (“La casa”).
 
Sudismi\sadismi
Si vuole il “regionalismo differenziato” - che è un atto di superbia del Nord, ognuno lo vede -   l’arco di volta della costituzione, della democrazia, del diritto, eccetera. Poi quando il presidente della Regione Sicilia Schifani dice che non vuole i pannelli solari, il “Corriere della sera” lo rimbrotta, con Ado Grasso, in prima pagina, con asprezza. I pannelli, dice Schifani, “non sono belli, danneggiano i terreni, non producono lavoro e sono gestiti da remoto”. Rovinano il paesaggio, aggiunge, oltre che i terreni, sono un incentivo all’abbandono della terra, non danno nessun utile localmente – “questi impianti danno il 3 per cento di energia ai Comuni come risarcimento per il danno ambient le”.
Per Grasso è già tanto, bisogna contentarsi, il Sud si lamenta, e quando ha qualcosa da offrire – “c’è più sole in Sicilia che in Val d’Aosta” – è ingeneroso. La devoluzione va bene solo al Nord, lì è giusta, equa, salutare, buona, perfino affettuosa, il Sud si ferma al “sovranismo energetico” – sovranismo?
 
La cucina italiana è americana
Il miglior parmigiano si fa nel Wisconsin. La carbonara è una ricetta americana. La pizza è americana: la prima pizzeria fu aperta non in Italia ma a New York, nel 1911. La pizza è una novità degli anni 1950, “la maggior parte degli italiani non ne sapeva nulla prima”. Il panettone e il tiramisù sono invenzioni recenti. Curioso dialogo a due voci, di grande attrattiva per il settimanale “Financial Times Week End” un paio di settimane fa, che lo spalanca a due pagine, con foto lusinghiere e interrogativi-esclamativi, di un professore italiano di storia, Alberto Grandi, con la vice-capo redattore centrale del giornale londinese, Marianna Giusti. Con la quale il professsre ha anche registrato un podcast fortunato. Sempre per parlare male del cibo italiano, che comunque non è italiano. Curiosa duplice negazione del professore. Ma questo non importa.
Il professore di fatto non dice nulla che non si sappia – eccetto il parmigiano del Wisconsin, e la pizza all’anagrafe di New York. Per esempio che la pancetta è stata aggiunta alla carbonara durante l’occupazione americana – fu aggiunta perché all’improvviso ce ne fu in abbondanza, seppure in scatola, n.d.r.. Ma lo dice con astio. Per cui tutto, o quasi, finisce per essere americano – perfino inglese, della famosa cucina della regina…. Anzi, a Giusti lo dice: “La cucina italiana in realtà è più americana che italiana”. Ma lo dice professandosi marxista, cioè uno che va al fondo delle cose. Allievo nella sua disciplina, lo studio delle tradizioni, di Eric Hobsbawm, uno storico marxista inglese rimasto famoso per la “invenzione della tradizione”.
Il professore è un tipo strano. Non sembra quello a caccia di presenziate in tv, come parrebbe dalle sciocchezze che dice. Con Giusti insiste, che è andata a parlarci a Parma, dove insegna: “Qui mi odiano”, e al ristorante parla sottovoce. Si sente bisognoso di “protezione, come Salman Rushdie”. Ma al telegiornale che gli chiede conto dell’uscita sul “FT WeeekEnd” si diminuisce, professandosi unicamente storico. E sembra vero, sembra un timido. Invece si scopre che sono anni che si diletta di fare propaganda contro il made in Italy, in particolare contro le 800 igp, indicazioni geografiche protette, riconosciute giuridicamente dalla Ue. Pur sapendo, da storico, che è una pratica commerciale, ma tra le più onorevoli, quantomeno non disonorevole. Lo ha fatto in convegni internazionali, pare, lo fa nell’intervista, e nel podcast, ghignando: “Ho sempre odiato la montatura che si fa della cucina italiana”.
Grandi lo spalleggia con ricordi familiari. Della Nonna Fiore a Massa, Fiorella Tazzini, 88 anni, che da bambina la rimpinzava di roba surgelata, facendole l’occhiolino: “Non dirlo a tua mamma” – e ora vanta di avere servito le lasagne ad alcuni ospiti inglesi, su richiesta del figlio (Antonio, l’ospite generoso di Montale?), sempre surgelate. La nonna ha visto la pizza “la prima volta a 19-20 anni”, ora ne ha 88, cioè nel 1963, a Viareggio, e attorno a quell’anno scoprì pure la mozzarella. Per il padre del professore peggio: “Per mio padre negli anni 1970 la pizza era altrettanto esotica che il sushi oggi per noi”. Mentre per la prozia di un’amica siciliana di Giusti, la signora Serafina Cerami, di 95 anni, la mozzarella era ben un cibo comune anteguerra. Era cioè roba meridionale - non lo era, la mozzarella è campana, non siciliana, del basso Lazio che una volta era Campania, la Sicilia l’ha scoperta dopo Milano, probabilmente via Galbani. Ma anche questo non importa. Né che Giusti ricordi che suo nonno in guerra sia sopravvissuto mangiando castagne – le Apuane vissero di castagne nel lunghissimo inverno della Linea Gotica, dell’occupazione tedesca – e che la dieta comune era fatta di fagioli e patate (“non ingredienti tipicamente associati con la cucina italiana”: chi glielo ha detto? dove ha vissuto, coi bastoncini Findus della nonna?).
No, il problema è la tradizione. Hobsbawm ne criticò l’invenzione in epoca coloniale, quando fu utilizzata per tenere meglio sottoposte le popolazioni colonizzate – era strumento dell’indirect rule, con cui Londra gestiva l’impero, attraverso intermediari locali, reucci, regine, capetti, stregoni, legati dalla “tradizione” che Londra gli creava attorno, piuttosto che con le armi.
C’è del resto un’invenzione della tradizione che è anche buona, positiva. Walter Scott ha letteralmente inventato la sua Scozia, per sottrarla alla fama – e alla realtà – di terra barbarica, di pastori irsuti incolti. Inventò i clan, inventò i colori dei clan, ne assortì il pedigree, e oggi anche gli indo-africani che governano il Regno Unito si esibiscono in kilt, onorandosi di qualche clan. Personalmente, la scoperta della tradizione culinaria avvenne in Germania, al primo Goethe-Institut, a Grafing bei München, dove il direttore professava la cucina toscana, mentre la moglie dichiarava di preferire la cucina emiliana - una coppia di ragazzi cinquantenni che viaggiava in Bmw 250, la ricostruzione in Germania era partita dal nulla, anche per i marchi prestigiosi (la Bmw 250 era la Isetta della Iso Rivolta, un modello che la casa bavarese aveva rilevato e rilanciato, un quadriciclo a quattro posti, di cui i due posteriori rivolti verso il retro – una macchinetta che toccò sperimentare una domenica, perché, incrociato a fare autostop con la ragazza, la moglie del direttore fu fuori di sé dalla felicità di dare un passaggio a due giovani innamorati). La differenza fra le due cucine diceva qualcosa, avendo fatto gli studi a Firenze, non molto. Ma l’idea fu geniale un decennio dopo, operando presso l’Eni-Agip, di specializzare i posti ristoro del Cane a sei zampe (allora quasi monopolista) lungo l’autostrada nella cucina locale (“regionale”), per un revamping lusinghiero immediato. E di cosa in cosa, la cucina “regionale”, e la cucina italiana (come la moda, specie il prêt-à-porter milanese, inventato di sana pianta) a fronte della francese per esempio, nella ristorazione, diventò ottima impresa - e poi, gradualmemte, agroindustria. Gradevole anche – come poi sarà la cucina etnica, abbiamo ora perfino la cucina ahmarà.
Per chi viene da una formazione cosmopolita, anni 1950-1960, non è il caso del professore, classe 1967, la professione identitaria, dal “buy American” in poi, è stata spiacevole – come del resto oggi la Critical (Race) Theory. Ma è un fatto, ormai da un cinquantennio.
Che c’entra tutto questo con il Sud? Che sentendo il professor Grandi è come sentir parlare un intellettuale del Sud, causidico e masochista – come pure la giornalista, Marianna Giusti: sembra quella che, dalle Apuane invece che dall’Aspromonte, ha fatto carriera a Milano, e ritorna a casuccia giusto per la nonna.
 
Calabria
Caminia, il borgo a mare di Stalettì sullo Jonio nel golfo di Squillace, è spiaggia celebrata, di colori e profumi. Kaminia nell’isola di Lesbo è il luogo di una stele del VI secolo a.C., col profilo di un armato e 33 parole in grafia greca di una lingua della famiglia etrusca. “Fu portata dagli Etruschi migranti dall’Anatolia o arrivati dall’Italia”, Emanuele Papi si chiede sul “Sole 24 Ore” domenica. L’una è l’altra ipotesi è affascinante, anche gli Etruschi “migrati dall’Anatolia”. Almeno loro, non erano ‘ndranghetisti.
 
“The Good Mothers”, ottimo racconto dello scrittore inglese di viaggi Alex Perry,  
http://www.antiit.com/2018/07/la-mafia-e-delle-donne.html
sulle donne di ‘ndrangheta pentite, mogli o figlie, e sulla Pm Anna Colace, che le aveva capite, ne aveva capito la funzione, trasposta in tv in una serie Netflix, non piace al critico. Gianluigi Rossini rimprovera “il moralismo e certa superficialità” – “personaggi un po’ tropo monodimensionali e poca suspense”. E non piace alle dirette interessate. Giuseppina Pesce, benché sempre sotto copertura, quindi a rischio, obietta al ritratto del padre capo-‘ndrangheta: “Descritto come un orco”, invece è “sempre stato amorevole con la figlia”. Mentre Marisa Garofalo, sorella di Lea, una pentita trucidata dal marito, si vede in scena a una festa attorniata da ‘ndranghetisti: lei, la sorella, la sua famiglia, non ci avevano nulla a che fare, è stato il matrimonio di Lea sfortunato.
 
“La parte più interessante” di “The Good Mothers”, continua il critico, “forse è quella visiva, gli scorci dei paesi calabresi privati di ogni romanticismo, fatti di case abbandonate, muri senza intonaco e abusi edilizi”. O non di un luogo comune al rovescio, non romantico?
 
“The Good Mothers”, libro importante oltre che di lettura, non è stato tradotto. Si pubblicano in Italia mediamente un centinaio di libri tradotti ogni giorno. La Calabria non legge, e agli altri non interessa.
La serie tv è Disney, autore il britannico Stephen Butchard, con qualche attore italiano.
 
È di Falerna, sotto Cosenza ma in provincia di Catanzaro, Sonny Vaccaro, che ha creato il mito delle Nike, cinquant’anni fa, puntando col modello Air sul principiante Michael Jordan. Se suo papà nel 1938 fosse emigrato in Italia invece che in Pennsylvania?
Un po’ come Rocco Commisso, che invece è emigrato con i suoi piedi.
 
Fazio è riuscito a fare una puntata di “Che tempo che fa” sul film “Air”, parlando a lungo col regista Ben Affleck, specie del protagonista, Matt Damon, un Matt Damon gonfiato, com’è ora il protagonista della storia, che racconta la storia di Vaccaro e Jordan, senza mai nominare Vaccaro. Sembra incredibile, ma è vero.
 
Ha due sole entrate nella classifica Fai-Banca Intesa dei 138 Luoghi del Cuore, anche se a un onorevole 20mo posto, per un museo Mulino Belfiore di San Giovanni in Fiore, che ha saputo mobilitare 11 mila firme. E al fondo della classifica per un forte militare a Campo Calabro, nobilitato da un migliaio di firme. Non si apprezza, forse – o il Fai è poco attivo nella regione. Di sicuro non sa che la pubblicità è l’anima del commercio.
 
Ha il record dei risarcimenti giudiziari. “Dei ventottomila risarcimenti per ingiusta detenzione pagati in Italia tra il 1990 e il 2018, la maggiore incidenza rispetto alla popolazione si registra in Calabria” – Alessandro Barbano, “L’Inganno”, p. 153: “Nei primi nove mesi del 2018, nel distretto della Corte d’Appello di Catanzaro si contano 182 ordinanze di pagamento su 895 nazionali, con un costo pari quasi a un terzo del totale: 103 milioni su 333”. E “la Corte d’Appello di Catanzaro, competente su questa materia, ha fissato con il contagocce le udienze per ingiusta detenzione”.
A Catanzaro istruisce i processi il simpatico giudice Gratteri, che non se la prende mai in tv e sorride, ma ha l’arresto facile, ogni volta ne sbatte dentro a centinaia. Meglio abbondare che scarseggiare? Ma poi scarseggiano le spese per la giustizia – in Calabria ognuno lo sa.
 
Nel raccontino “Finanza”, il secondo della raccolta “Ieri, oggi e... non domani”, Palazzeschi evoca il padre commerciante che gli insegnava come i buoni affari volessero onestà, e per ammonimento gli mostrava nella Loggia del Porcellino a Firenze un certo marmo sul quale usava dare “giusto castigo e pubblico scorno al mercante fallito, tirandogli giù i calzoni e a posteriore scoperto sbattendolo e risbattendolo per un’infinità di volte su quel marmo”. È la vecchia pena dell’Acculattata – che il vocabolario più non registra. Ma è rimasto nel dialetto: avere o sbattere “il culo ‘a cciappa”.
 
È calabrese, di genitori calabresi, emigrati in Germania da Caulonia, Daniela Cavallo, la prima donna a capo del consiglio di fabbrica Volkswagen – dei 66 mila lavoratori del gruppo cioè – e per questo parte del consiglio d’amministrazione. In una posizione, per gli statuti sindacali tedeschi (codetermianzione, cioè cogestione), per molti aspetti la più importante dirigente. In VW dai 18 anni, ora ne ha 47, bella dona, due figli, sorridente e tenace. A lei si è rivolto il mese scorso il cancelliere Scholz, per promuovere la transizione verde nella mobilità – al centro dello sforzo tedesco per mantenere in Europa l’industria “verde” dell’automobile: “È importante che questa sia sempre stata la tua preoccupazione e che tu faccia un tale sforzo” – il tu usa ancora in Germania tra “compagni” socialisti.
 
“Mio nonno Enrico era un figlio illegittimo, nato in Calabria nell’anno della battagia di Mentana, cui dovette il suo cognome” – Enrico Mentana a Cazzullo sul “Corriere della sera”. Sempre risorgimentale, garibaldina, anche nelle piccole cose.
 
Napoleone nell’esilio di Sant’Elena, apprendendo che uno dei suoi carcerieri, l’ammiraglio Sidney-Smith, aveva combattuto alla testa di irregolari calabresi contro le sue truppe, lo apostrofò “comandante di traditori”. 

leuzzi@antiit.eu

Tradizionalisti crescono, e sfidano il papa

C’è un LMM, un movimento di massa per la messa in latino - tanto agguerrito quanto è allitterante.  La rivista newyorkese ripercorre la questione, prendendo spunto dalla recente insubordinazione dell’arcivescovo di San Francisco, Cordileone – che è pure no wax. Ma fa con minuziosa ricerca il peso della questione.
Non c’era un movimento col papa precedente, Benedetto XVI – ma già con Giovanni Paolo II, che pure si esercitava personalmente, famosamente, in attitudini e linguaggi molto “localizzati” nei uoi frequenti viaggi: lo scisma di Lefebvre sembrava rientrato. I tradizionalisti potevano esercitare la liturgia latina, il Vaticano non s’intrometteva – il canto gregoriano aveva diritto di cantarsi in chiesa come le chitarrate. E quando emerse fra i tradizionalisti il vecchio antisemitismo, per bocca dell’intemperante “vescovo lefebvriano” (ordinato da Lefebvre) Williamson, questi fu sospeso a divinis, e nuovamente scomunicato, dopo una prima remissione.
Il dialogo, seppure in sordina, si è interrotto col papa Fancesco. Il tema non sarebbe nemmeno in agenda al prossimo sinodo a ottobre. E ora il rischio di scisma è concreto. In America, pare, non marginale. Francesco avrebbe adottato il criterio di governo di Pio IX, il papa del “Syllabus” di Donoso Cortés, e dei dogmi: non c’è posto nella Chiesa per chi non accetta la decisioni prese da un Concilio.
Paul Elie, What’s behind the fight between Pope Francis and the Latin Mass Movement, “The New Yorker” 10 aprile, free online

domenica 9 aprile 2023

Ombre - 662

“Acqua, una babele di 30 mila enti”. Ecco dove il referendum sull’acqua bene pubblico risultava stravinto in partenza. Centinaia di migliaia di stipendi, per non fare nulla. Anzi per sprecare l’acqua, al 40 e anche al 50 per cento: le condotte sono quelle d’anteguerra – non si può dire di Mussolini, però….
 
“Plusvalenze fittizie, il doping finanziario nei bilanci della serie A”: Marco Bellinazzo documenta sul “Sole 24 Ore” “il ricorso eccessivo a transazioni e scambi di calciatori” – “ha generato in 10 anni 5,3 miliardi di ricavi e 6,2 miliardi di ammortamenti”. Tutti della Juventus? No, ma solo quelli interessano alla Guardia di Finanza - garantiscono un avanzamento. E a Chiné, il procuratore dell’“aggiustizia” federale, del calcio - l’uomo di Lotito, il vecchio potere “di centro”.
Sport, energia, ricerca, scuola, poste, Rai: il Potere è inscalfibile.
 
S’incontrano pochi cristiani in chiesa giovedi santo, o dei sepolcri. Anzi nessuno, a parte le solite vecchiette. E anche il sepolcro: è spoglio, un simulacro. Mentre se ne incontrano molti lo stesso giorno alla Posta, alla circoscrizione, scorrendo il giornale, in piazza pacificamente, per il volontariato, pro e contro qualsiasi cosa. Per non dire di Montecitorio e delle cronache politiche. O giudiziarie - una sagra, sia quella penale che quella sportiva. Ci sono più democristiani che cristiani.

Singolari coccodrilli anticipati di Berlusconi sui media che lo hanno per decenni osteggiato, ogni giorno, con le peggiori infamie. Ora coccolandolo di Cavaliere, titolo da cui si affannarono a dirlo decaduto per infamia. Trascurando i molteplici processi. Per esempio quelli che l’infaticabile Boccassini, di nient’altro interessata in trent’anni, gli ha buttato tra i piedi – anche perché trombava. Berlusconi è discutibile. Ma nessuno che ricordi che ha sdoganato la destra, dopo mezzo secolo e più, l’incredibile Bossi della secessione e i neofascisti di Fini. Solo si punta sull’effetto funerale: l’unico che smuova l’Italia.
 
Il tg 5, di Berlusconi, si riferisce a Trump sempre coma al tycooon, “affarista”, “padrino”.

La rivista americana The Atlantic posta in rete, tra le foto della settimana, un campo di tulipani in Italia, vicino Milano. Sarà quello postato da Berlusconi prima del ricovero?

La curva della Lazio allo stadio Olimpico di Roma è squalificata per insulti razzisti. Ma la squalifica è sospesa per la partita con la Juventus. La curva della Juventus a Torino è squalificata per insulti razzisti. Ma la squalifica non è sospesa per la partita con il Napoli.
 
Anche la Roma aveva avuto una squalifica – dell’allenatore Mourinho – per insulti all’arbitro, ma la squalifica è stata sospesa, per la partita con la Juventus.
È da ridere ma è il campionato, e sarebbe lo sport. Mentre invece è corruzione: ci sono interessi di mezzo, di soldi e di influenze, c’è un potere non tanto sotterraneo. Che qui s’impone sguaiato, indifferente al ridicolo, ma è ben duro anche altrove, anche in gangli vitali, non per una partita di calcio tra i signorotti Lotito, Gravina, Chiné, eccetera. Poi si dice che la mafia è al Sud.
O i tre sono del Sud - Lotito nasce a Roma, ma il nome?
 
A Roma la Procura non ha voluto saperne, non si indagano Lazio e Roma, le squadre di calcio. La Guardia di Finanza ha così dovuto portare il suo dossier sulle pratiche illecite dei due club alla Procura di Tivoli. La giustizia penale come quella sportiva, roba di amici e amici degli amici.
 
Nelle case popolari della provincia di Roma, 11 mila alloggi, nove su dieci assegnatari non paga il canone, seppure ridotto. E uno su cinque non è assegnatario ma abusivo, un occupante di forza. Da sempre, da decenni.
L’Ater, l’azienda che “gestisce” le case popolari, è in sofferenza anche per i consumi non interrompibili, acqua e elettricità, che quasi nessuno paga. Anche questo è normale.
 
È curiosa la presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, che va in giro dispensando elogi all’accoglienza, mentre il suo paese, Malta, non solo non accoglie nessuno ma non presta nemmeno soccorso, nemmeno d’urgenza.
 
Curioso anche come il Parlamento europeo, a maggioranza di sinistra, prende raffiche di provvedimenti radicali in materia di transizione energetica, che tre quarti della popolazione europea non potrà permettersi: una nuova auto green, tra l’altro costosa, una casa green. Dà per scontato che non dovrà occuparsi di realizzare le sue decisioni, che tra un anno non ci sarà più, spazzato via dall’onda conservatrice? Che esso avrà affrettato – basta vedere il partito Democratico in Italia. Insolenza? Imprevidenza? Menefreghismo? Dov’è la politica?
 
Shangai dopo Hong Kong, la Cina rossa inflessibile manda in galera vescovi e cardinali, ancorché nonagenari. E ne nomina i successori. Solo il papa non lo sa.
 
Un solo paese ha autorizzato la “carne coltivata in laboratorio”, Singapore. Una città-stato, senza territorio.
Sarà la carne – le proteine – della luna.

Berlusconi defunto - 32

Singolari coccodrilli anticipati di Berlusconi sui media che lo hanno per decenni osteggiato, ogni giorno, con le peggiori infamie: corruttore, ladro, mafioso, e anzi stragista. Ora coccolandolo di Cavaliere, titolo da cui si affannarono a dirlo decaduto per infamia. O di inventore del pluralismo televisivo. Non più imputato, come per decenni, di commercializzare la tv, di “interrompere un’emozione”, con referendum popolare per chiuderlo - a opera del buonissimo Veltroni, che ora interrompe anche lui con profitto le emozioni. Trascurando i molteplici processi. Per esempio quelli che l’infaticabile Boccassini, di nient’altro interessata in trent’anni, gli ha buttato tra i piedi – anche perché trombava. A partire dall’incredibile Sme, quando la giudice napoletana processò non Prodi che aveva regalato un colosso alimentare a De Benedetti, a zero lire e con una dote di centinaia di miliardi, ma chi si era impegnato a evitare l’incredibile ruberia. O quello, fra i tantissimi altri (la Guardia di Finanza sollecita non passava giorno senza perquisirlo – ma è così inetta?), sui diritti tv commerciati estero su estero con provvista di fondi neri, lasciati cioè all’estero, esentasse: il “filone d’indagine” per cui è stato condannato, desenatorizzato, decavalierato, e mandato ai servizi sociali. A gloria della giudice Alessandra Galli (piangerà anche lei?). E di più del giudice Antonio Esposito, napoletano, naturalmente nipote, figlio e padre di giudice, talmente corretto che rinunciò alle ferie per poter presiedere alla condanna di Berlusconi definitiva - con una camera di consiglio da Pulcinella, secondo la ricostruzione del giornale ex di Scalfari, arcinemico del condannando. Berlusconi che è forse l’unico a non avere usato la pratica, pur comprando tantissimo, tra le tante tv operosissime all’estero a fine Novecento, specie quella della Rcs-Corriere della sera, a comprare diritti per tv che non c’erano (strano che la Guardia di Finanza non lo sapesse: allora è veramente inetta? anche il servizio I?).
Singolare sfogliare otto-dieci pagine, più o meno pietose, di giornali per quali il “caimano” di Moretti  è stato ogni giorno da quaranta o cinquant’anni una nuisance. Pur essendo stato uno che non ha mai licenziato e non ha mai fregato nessuno, a differenza dei giornali che lo hanno quotidianamente svillaneggiato, mentre contemporaneamente derubavano la previdenza dei giornalisti al punto da mandarla al fallimento. Al coperto di uno schieramento politicamente corretto che solo la costituzione ipocrita del Pd poteva avallare.
Berlusconi è discutibile. Ma nessuno che ricordi che ha sdoganato la destra, dopo mezzo secolo e più: l’incredibile Bossi della secessione, e i neofascisti di Fini. Solo si punta sull’effetto funerale: l’unico che smuova l’Italia. I figli – ce n’ha tanti, certo. Gli amici, ce n’ha tanti – è o non è mafioso? Le mogli. Le amanti no, pare che non ne abbia – le amanti segrete: quella è roba da Messina Denaro? Singolare giornalismo, che solo sa fare le morti.