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sabato 11 febbraio 2017

Con Trump è la legge, e la costituzione

Il “New Yorker”, benché radicalmente anti-Trump, ha dubbi sul rigetto dell’ordinanza anti-immigrazione da parte del Ninth Circuit Court of Appeals.
La decisione si poteva prendere su azione, per “offesa di fatto”, di una vittima dell’ordinanza. Mentre la Corte si è pronunciata su ricorso di due Stati, Washington e Minnesota, che non vi hanno titolo e non hanno dato ragioni specifiche all’azione intentata.
L’ordinanza rientra in pieno nei poteri costituzionali del presidente: è il caso di “entrata di stranieri o di ogni classe di stranieri negli Stati Uniti (che) sarebbe dannosa agli interessi degli Stati Uniti”. La Corte d’Appello non ne dice niente.
La Corte non distingue tra possessori di visto d’ingresso, oggetto dell’ordinanza, e possessori di green card, o “residenti permanenti”.
La Corte ha trovato l’ordinanza incostituzionale “perché era intesa a sfavorire i mussulmani”. Mentre l’ordinanza si riferisce a sette Stati, e non alla religione. I sette Stati sono a maggioranza mussulmana, ma il divieto di entrata non distingue il fattore religioso. Che qualche Stato, si può aggiungere, per esempio l’Iran, si definisca mussulmano, questo va contro i principi costituzionali validi negli Usa.
Va aggiunto anche che la giurisprudenza è sempre stata a favore dell’esecutivo nelle quesioni territoriali e di protezione delle frontiere.

E ora, povero Is?

L’ordinanza anti-immigrazione di Trump sarà illegale, ma ha degli effetti non trascurabili nei paesi che ne sono oggetto, e dintorni.
Nella pur inaccettabile generalizzazione, crea un’opinione. Non sarà più possibile dire “noi non c’entriamo”, ci vorranno azioni positive (leggi, controlli) per allontanare e indebolire l’ondata islamista, dell’islam terrorista.
Il terrorismo è per la prima volta sfidato sul suo terreno, dell’iniziativa. E non ha risposte possibili. Se promuove azioni in Europa e negli Usa dà ragione a Trump. E favorisce le leggi eccezionali anti-terrorismo che finora sono mancate (un piccolo esempio è la legge Minniti sui rimpatri accelerati). L’Is, Al Qaeda, salafiti e quant’altri dovranno navigare sott’acqua, e anche in questo modo danno ragione a Trump.

Secondi pensieri - 295

zeulig

Amore - Nella lirica è una distinta, forte, ossessiva proiezione. Non un’apertura, piuttosto una chiusura. Un appello a un oggetto incognito.  Una fantasticheria. Un continuo rimuginio – una ruminazione. Nella lirica maschile. Sovrabbondante, sterminata, in lingua e ancora di più in dialetto – i dialetti sembra non concepiscano altra poesia che lirica, o satirica. Quella femminile è circostanziata. In Saffo come in Sylvia Plath – a fronte per esempio dalla aloofness del marito Ted Hughes,il distacco, l’indifferenza, per il quale pure si suicidò.

Arte – La vista anima l’inanimato. La pittura moltiplica la visione, come un globo stroboscopico le immagini che vi si proiettano. Anche la scultura. Meno se slegate dal corpo umano, da figure individuabili dall’occhio fisico, come è dell’arte astratta, povera, materica, multipla, analitica, Land Art, Body Art, che presto diventano forme inespressive, passato l’effetto sorpresa.

Copyright – È sempre plurale. Si argomenterebbe con R. Barthes, “Il brusio del linguaggio”, 75: “Il Testo è plurale. Ciò non vuol dire soltanto che ha parecchi sensi, ma che realizza il plurale stesso del senso: un plurale irriducibile, e non soltanto accettabile. Il testo non  è coesistenza di senso, ma passaggio, traversata: non può dunque dipendere da un’interpretazione, anche libera, ma da un’esplosione, da una disseminazione”.

Corpo - L’immortalità Quevedo, che pure è un antisensista, vuole nell’atto fisico. Alla tedesca, das Akt: l’atto generativo, o anche soltanto godurioso. Una kantiana cosa-in-sé che fosse la copula. Anticipando Schopenhauer: “La copula sta al mondo come la parola sta all’enigma”. Che è fatto per essere sciolto, tramite la parola, e dunque il mondo è fatto per l’atto. Sostenere l’immortalità attraverso la materia non è male.

Il corpo è lo spirito è Schopenhauer, “Parerga e paralipomena”. E anche Mach (“L’analisi delle sensazioni e il rapporto tra fisico e psichico”), che dice suo “principio guida” il “completo parallelismo tra ambito fisico e psichico”. E anzi lo trova comunque  valido: “Questo principio è quasi ovvio, ma può essere posto come principio euristico anche senza il sostegno di questa concezione di base”.

Dio Poe, “Marginalia”, CXLV, cita un altrimenti ignoto Bielfield: “Pour savoir ce qu’est Dieu, il fau être Dieu même”, bisogna essere dio per concepirlo.  
“Ragionare intorno alla ragione”, prosegue-commenta Poe, “è di tutte le cose la più irragionevole”.

Dionisiaco – È, all’origine, di genere – femminile. Bisognava pensarci, Nietzsche ha toppato. Avrà ben conosciuto Euripide e le “Baccanti”, poiché ne parla nella “Nascita della tragedia”, ma era ancora Ottocento, vecchio stile, che come Schopenhauer le donne trattava con la frusta, o come il suo Zarathustra (“Vai dalle donne? Non dimenticare la frusta!”) – donne nel suo caso per lo più figurate, immaginarie. Il dionisiaco è femmina.
Dioniso è del resto Dio, lo dice il nome stesso. Che  sempre più è femmina.

Giustizia – L’ingiustizia Schopenhauer assimila al cannibalismo – in un passo noto del “Mondo come volontà e rappresentazione” che però si trascura. “L’ingiustizia si esprime in concreto nel modo più compiuto, più caratteristico e più tangibile  nel cannibalismo: questo è il suo tipo più chiaro e più evidente, l’orrenda immagine del massimo contrasto della volontà con se medesima, nel grado supremo della sua oggettivazione, che è l’uomo”.

Ironia - L’ironia dissecca se è da falsari: se sa di artefatto. È allora la voce di naso, con la erre moscia.

Mito – Si rilancia (si studia) nei periodi di guerra, e la mitologia “è stata ed è un progetto tanto profondamente inciso da modalità di guerra o di lunghissimo episodio di una guerra, da presentare le caratteristiche peculiari di un’iniziazione”. È la peculiare conclusione con cui Furio Jesi apre la sua introduzione a Nietzsche, “La nascita della tragedia”, 1980. “Non è estetismo sottolineare questa metaforica bellica”, si difende Jesi. Che documenta così l’osservazione: “«La nascita della tragedia» è un libro composto durante la guerra franco-prussiana del 1870-71; le «Considerazioni di un impolitico» durante la prima guerra mondiale; il «Doctor Faustus» durante gli ultimi anni della seconda e nell’immediato dopoguerra. Anche le «Tesi di filosofia della storia» furono scritte in tempo di guerra, 1939-40, e bisognerebbe essere sordi per non cogliervi echi di guerra”.
Ma sono tutti casi e autori tedeschi, Thomas Mann e Benjamin in aggiunta a Nietzsche: il mito è tedesco? o il mito in tempi calamitosi?

Nietzsche – “Warum ich so weise bin” è il primo testo di “Ecce homo”, perché sono così saggio. Seguito da “Warum ich so klug bin”, che Calasso traduce “Perché sono così accorto”, ma è meglio astuto – l’americano smart.

Poeta – È per Kierkegaard, “Timore e tremore”, “il genio della memoria”. Non un esploratore, alla ricerca del nuovo, ma un custode, avvertito. “Egli non può fare nulla, solo ricordare, solo ammirare ciò che fu fatto”. Questo potrebbe spiegare la cattiva resa delle avanguardie, al di là delle poetiche, le dichiarazioni di principio.
Il poeta Kierkegaard vuole un compagno, non l’eroe: “Questa è la sua missione, un umile fedele servitore dell’eroe. E se rimane così fedele al suo amore, se lotta notte e giorno contro  l’astuto potere dell’oblio, che vuole rapirgli il suo eroe, allora egli ha compiuto la sua opera”. Ma non ancillare: “Il poeta è per così dire l’io migliore dell’eroe, certo privo di forza come lo è un ricordo, ma anche trasfigurato come un ricordo. Perciò nessuno che fu grande sarà dimenticato”.

Paradossale – È l’espressione, la riflessione? R. Barthes, “Il brusio del linguaggio”, 74: “Il Testo tenta di porsi molto esattamente dietro il limite della doxa (l’opinione corrente…. ); prendendo la parola alla lettera si potrebbe dire che il Testo è sempre paradossale”. Così la filosofia, la riflessione del mondo – dell’esistenza, dell’essere.

Politeismo – Non è mutato col Dio Unico? Le astrazioni del Dio unico riflettono la confusione e le perplessità che i tanti dei impersonava nel politeismo. Mosè del resto, l’inventore e condottiero del  monoteismo, era pure lui confuso. Almeno a giudizio di Poe, che sapeva di ebraico (“Marginalia”, § CXXVIII): “Nel breve racconto della creazione, Mosè impiega le parole Bara Elohim (gli Dei creava)  non meno di trenta volte usando il sostantivo al plurale e il verbo al singolare” Nel Deuteronomio, invece, il sostantivo è usato al singolare, Eloah.

Romanzo – “Platone ha dato alla posterità il modello di una nuova forma artistica, il modello del romanzo”, è una delle divagazioni di Nietzsche (la prima opera vuole dire tutto) all’interno della “Nascita della tragedia”, § 14: “Una favola esopica infinitamente sviluppata”.

zeulig@antiit.eu

Omero vien dal Baltico

L’ingegner Vinci, dalle centrali nucleari catapultato nella filologia, benché ponderosa, è alla sesta o settima edizione. La tesi è nota: i poemi omerici sono roba del Nord Europa. Sembrava da ridere, una divagazione, un modo come un altro per rileggersi Omero. Forse un hobby dell’ingegnere dopo il referendum che ha cassato le centrai nucleari. E invece è un libro di settecento pagine. Con una presentazione dotta, quasi, di Rosa Calzecchi Onesti, la traduttrice di Omero che ancora si legge nelle edizioni Einaudi. Con successo enorme. A suo dire anche scientifico.
Vinci vanta ormai una carriera universitaria di prestigio, negli studi classici. Non ha ancora la laurea honoris causa, ma, dice.”sono di casa” in tutte le università, a Padova e a Pavia, a Riga, Vancouver, Saransk, San Pietroburgo, naturalmente in Germania, dove il libro è stato anche tradotto, e ha l’apprezzamento di un Theo Vennemann, linguista, e di un Wilhelm Kaltenstadler, storico, nonché in Svezia e Estonia, altri paesi dove il volume è stato tradotto.  È tradotto pure negli Usa, “The Baltic Origins of Homer’s Epic Tales”, adottato nel Bard College dello stato di New York, come libro di testo per gli studenti nell’ambito di un corso di alti studi su Omero, e come itinerario, dieci anni fa, di una viaggio a vela del professor William Mullen, titolare di Filologia Classica, sui luoghi dell’Omero del Baltico - con il finanziamento di Sea, “un prestigioso Istituto oceanografico americano”.
Theo Vennemann è l’inventore del “vasconico”, la protolingua europea – anch’essa nordica, affine al basco. Bill Mullen è studioso di comete, catastrofi celesti e dell’olocene, le più vicine a noi, nonché dei geroglifici originati nello spazio. Kaltenstadler è storico di molte e svariate esperienze, nonché della storia e delle arti bavaresi. Ma non solo al Nord, l’ingegnere è stato invitato anche alla Sapienza della Sapienza a Roma, dove l’ingegnere ha tenuto seminari sotto la guida del professor Cerreti, ordinario di Geografia – e si capisce che la disciplina sia in bassa fortuna.
La tesi è nota: situare i poemi omerici nel Mediterraneo pone problemi, se ne pongono di meno se i due poemi sono situati nel mar Baltico. I sette volumoni della storia greca appena rifatta da Settis per Einaudi sono già da rifare.
Felice Vinci, Omero nel Baltico, Palombi, pp. 702, ill. € 25

venerdì 10 febbraio 2017

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (316)

Giuseppe Leuzzi

“456” è un dramma di Mattia Torre, che dopo un primo debutto nel 2011 viene riproposto a Roma dallo stesso Torre all’Ambra Jovinelli. “Un ritratto domestico in un Sud immaginario”, così il “geniale autore romano” lo sintetizza a Rodolfo Di Giammarco, il critico di “la Repubblica”, Che a sua volta così sintetizza il dramma: una microsocietà che incarna “i valori più deteriori incoraggiando cinismo e astio”, genitori e figlio “sono ignoranti, nevrosi, si lanciano accuse, si odiano”, etc. Quanto odio in effetti, solo a escogitare la trama, e addossarla al Sud.
Ci rubano anche la famiglia. Di cui per decenni ci hanno fatto una colpa.  

Muore a Milano di meningite una professoressa di Scienze. È l’ennesimo caso di meningite fulminante  Milano, oltre ai tanti non mortali. La morta è biologa. Si professa dell’Opus Dei. È blogger. È “Pokankuni” per gli allievi, che in indi significherebbe “imparare dagli altri”. I motivi di interesse, volendoci fare colore, sono tanti. Ma per la Rai è solo “originaria della Sicilia”.

La donna del Sud è certamente vittima degli uomini, di un certo tipo: gli intellettuali. Quelli del Sud sono perduti dietro le mitologie. Quelli del Nord sognano nel Sud una donna aggiogata, e stupida.
Quelli sulla donna del Sud sono stereotipi più assurdi dell’omertà.

“Quando arrivai a Parigi nel 1799”, ricorda Stendhal in un dei tanti testamenti, “scoprii che esisteva una pronuncia diversa da quella del Delfinato”. Prese lezioni di dizione, “per cancellare l’accento strascicato del mio paese”, ma con scarso effetto: “Mi è rimasto il tono deciso e appassionato del Mezzogiorno, che rivela la forza del sentimento, l’impeto con il quale si ama e si odia”. Sempre conscio che “è un accento considerato curioso e un po’ ridicolo a Parigi”.

Sciascia alla rincorsa del Nord
Come sarebbe stato Sciascia vivendo nel leghismo? Non è argomento stupido, si applica a Sciascia come ai coetanei, e anche ai figli, che gli sono sopravvissuti, che sapevano tutto di Milano che idolatravano, e ne sono stati respinti - i quisling compresi: giudici, giornalisti, prefetti, gente d’affari.  
Sciascia è manzoniano, e quindi antimeridionale: è narratore raziocinante, costruito. Come Manzoni, è il problema del potere che lo agita, non la violenza, o la bellezza, l’amore, i sentimenti, la natura.
Sciascia non aveva la grazia. Ma neppure Manzoni, se lo si guarda dentro – dentro i propositi e i terrori – ce l’ha. Manzoni in più aveva una buona dose di humour. E grande cultura storica.

Sciascia era ben siciliano, però. In politica, come editore, come intellettuale. Nel 1975 De Chirico fu a Palermo, per una sua mostra. Sciascia provò a intervistarlo, proponendogli domande scritte, a cui il pittore rispose, sempre per iscritto. Domande lunghissime, risposte brevissime. Domanda: “Che cosa pensa del «Trionfo della Morte» che è alla Galleria Nazionale di Palazzo Abatellis? C’è, come lei sa, una grossa questione aperta: se è stato dipinto da un catalano, da un borgognone, da un italiano….”, e giù per tredici righe, fino al “cavallo che ne è al centro… adottato da Picasso per la famosa Guernica?” Risposta: “Non è molto allegro. Non credo che Picasso sia stato influenzato”.
Non è solo mancanza di tatto – Picasso, Guernica, a De Chirico?  De Chirico si voleva greco. Come reagirebbero i Greci d’un tempo alla Sicilia verbosa di oggi?
Però, Sciascia ebbe ben presente il ridicolo della cosa, e non pubblicò l’intervista. Se ne avvalse successivamente, una diecina d’anni dopo, a corredo di una cartella delle edizioni “Arte al Borgo”,  che omaggiavano De Chirico in morte, con quattro disegni e un’acquaforte di Bruno Caruso. Introducendo un De Chirico inebetito più che spiritoso.  

Il Sud di Malaparte
C’era un Sud già definito al tempo di Malaparte, dei “Battibecchi”, la rubrica che tenne sul “Tempo” settimanale tra il 1953 e il 1956. Non quello onirico espressionistico della “Pelle”, ma uno argomentato, con la cronaca.
I gesuiti chiamavano la Calabria e il Sud “las Indias de por acà”, la terra di missione in casa. Ma anche Gobineau dichiarava la Germania “les Indes de l’Europe”.
Di D’Annunzio, che è mandato a intervistare al Vittoriale nel 1928, mai incontrato prima, ricorda la tristezza, per le invidie e le cattiverie di cui si sentiva vittima. “Mi parlò della Duse. «Certi ricchi liberali borghesoni del Nord», mi disse, «non mi hanno mai perdonato di aver compromesso la Duse. Finché la comprometteva Boito, tutto andava bene. E si capisce. Boito era uno dei loro, era un borghese, un falso poeta, un falso musicista, ed io ero un terrone, venuto dal nulla….». Mi accorsi che aveva le lacrime agli occhi”.
L’Italia è l’unione dei tre Stati più retrogradi d’Europa, quello borbonico, quello pontificio, e quello sabaudo. “Che non era, si badi, in fatto di libertà e di giustizia, superiore al regno delle Due Sicilie: per Cesare Cantù, anzi, lo Stato piemontese era più retrogrado di quello borbonico”. Perché? “Perché era un compromesso fra lo spirito militare di casta e lo spirito gesuitico”. E “perché, fino la vigilia del 1848, vi sussistevano ancora quei tribunali ecclesiastici, che in tutti gli altri Stati italiani, fuorché naturalmente in quello pontificio, erano stati da tempo aboliti”.
Un’assemblea, “sessant’anni orsono”, Malaparte scriveva agli inizi del 1955, “di grandi feudatari, di residui borbonici, di antichi e nuovi forcaioli, si riuniva in una pubblica sala di Palermo per invocare dal governo la chiusura delle scuole elementari della Sicilia”. La scuola turbava la mente dei contadini.
Le “dolorose parole”, che “non perciò vanno taciute”, sul “Sud senza giustizia”. Sul banditismo frutto di un mancato o arretrato uso della giustizia.  
Perché le gente protesta, perché il Sud protesta – protestava? Una parte della classe dirigente difende i suoi interessi, nella politica e nell’economia, con la convinzione “che il popolo italiano è stupido, che non capisce…, che non vede e non ode, e che non parla perché non ha nulla da dire”. Un’illusione: “Il popolo italiano, specie quello del Mezzogiorno, è tutt’altro che stupido. L’Italia meridionale non ha scuole, ospedali, case, strade,  acquedotti, non ha industrie, è governata con sistemi feudali da camarille locali, spesso con la tacita connivenza, non sempre disinteressata, delle autorità”. Ma “sa benissimo per qual ragione non ha scuole né ospedali, né strade, né acquedotti”, etc. etc. “E credere che il popolo non parla perché non ha nulla da dire, o perché non vede, non ode, e non capisce, o perché è rassegnato o contento, è cosa altrettanto stupida quanto pericolosa”.

Napoli
Carlo Carlei, regista hollywoodiano di Nicastro, ha fatto una Napoli di lusso per “I bastardi di Pizzofalcone”, la serie tv. Colorata e festiva, o altrimenti vuota, e sempre silenziosa. Si direbbe inanimata, non fosse che pulsa di strana energia. Come sarebbe Napoli senza i napoletani che la calpestano – i diavoli del paradiso di Croce?

Il presidente della Regione Campania De Luca ha fatto mille nomine (994 per l’esattezza) in cinquecento giorni di presidenza. Due al giorno: amministratori della sanità, amministratori di aziende e istituti regionali, consulenti. Efficienza? Si sa che Napoli è rapidissima: efficientissima , produttivissima. Per lo più, chissà perché, nel senso sbagliato.

De Luca sa di che si tratta. E per il sì al referendum prometteva e faceva promettere fritturine e altre golosità Invece si è sbagliato, i napoletani compatti hanno detto no, tre su quattro: vuoi mettere la fritturina con un santo al Parlamento?
Che si può anche dire così: De Luca non si sbagliava, ha solo sbagliato il piatto – la fritturina è oggi il pesce dei poveri, cibo di strada.

Esce Saviano con una “Paranza dei bambini” e subito le cronache sono piena di bambini sparati – dovrebbero sparare, ma per ora sono sparati, vittime più o meno casuali, nel far West urbano. Per pochi giorni, il tempo del lancio del libro, poi scompaiono: non ci sono più bambini a Napoli che vanno in giro col mitra?

Una dozzina d’imputati di camorra a Napoli negli ultimi due anni, passibili di ergastolo, ha adottato un pentimento “su misura”, come il vestito – o q.b., come da ricetta medica. Quanto basta per non finire gli anni in carcere, non al 41 bis. E magari godersi in vecchiaia una parte del bottino. Una mezza dozzina ha già ottenuto il non-ergastolo, e il non 41 bis. Una tattica avvocatesca, che non poteva non prodursi a Napoli, capitale della sartoria e della giurisperizia – anche il linguaggio è forbito, dei pentiti di “un solo” omicidio.

Non era napoletano ma, chissà, della città avrà mediato la saggezza, il primo ministro del secondo Settecento Bernardo Tanucci, che all’amico priore Luigi Viviani della Robbia, rimasto in Toscana, scriveva: “Non è felice né giusta la nazione nella quale si ascoltano dei delatori”. E quelle che si governano coi delatori?

L’arresto dell’ingegner Di Leva e consorte a San Giorgio a Cremano viene accompagnato da una manifestazione spontanea in loro favore. Di Leva può essere o no colpevole di traffico d’armi per le forze oscure mussulmane. Ma i concittadini, che non ne sanno nulla, non possono saperne, perché si scomodano in massa a suo favore? C’è un germe, un istinto, dl male?

Ha dimenticato del tutto, cancellato, i suoi brillanti giuristi ed economisti  del Settecento, Vico, Filangieri, Galiani, Genovesi. Pieno di buonsenso, quest’ultimo, oltre che di scienza. Che diceva: “Per avere l’ordine bisogna punire i magistrati”, poterli punire. O “la buona legge di Sisto V”: niente matrimonio senza un attestato di capacità di nutrire e educare i fili. E anche: L’amministrazione sempre produce un effetto: o arreca l’abbondanza o comporta l’indigenza”.

Napoli è la prima per il no al referendum, il 75 per cento. Seconda in tutta Italia a Paternò, ma la prima città. Tre su quattro: il sottogoverno è irrinunciabile, che ha schiavizzato Napoli.

leuzzi@antiit.eu 

L’anima dell’arte è il corpo

“L’impressione che nutre la poesia è sempre mutevole, nel disegno invece è una, e in sé più effimera”. “Solo dalla libera resa dei corpi si sviluppa un autentico senso dell’arte… I più importanti maestri, soprattutto nell’antichità, … erano sommi interpreti di corpi vestiti in quanto esperti del nudo”.
Una silloge di “Pensieri sull’arte” divagatori e pratici insieme. Il disegno di Raffaello è “preparatorio”. Quello di Dürer è già “un’espressione artistica”: non vuole “altro mezzo figurativo dal chiaroscuro”, “evocherà i colori, ma senza tradurli” – con un’ambizione perfino superiore: “Sa che il colore della realtà distruggerebbe proprio quel mondo spirituale che fra tutte le arti il disegno soltanto condivide con la poesia”.
Di suo, Klinger è legato ala forma espressiva semplice dell’incisione – e più a quella erotica, a scuola di Félicien Rops. Scelse la via più facile, ma rifletteva molto sul disegno, i colori, la pittura. Poco più che trentenne collazionò una sorta di trattato, “Pittura e disegno”, 1891. Un saggio breve, una sessantina di pagine, redatto in forma di frammenti (un buon terzo sono qui presentati in una nuova traduzione, della stessa curatrice), che ebbe varie ristampe e lettori illustri, Kandinsky tra gli altri. “Primo esploratore di una soglia onirica”, lo ricorda Claudia Ciardi, che ne promuove il ripescaggio. In una nota che ne colloca l’opera e la riflessione al centro del rinnovamento artistico di fine Ottocento-primo Novecento. Con molti legami con la scena tedesca (Monaco di Baviera, Vienna, Berlino), e anche con l’Italia (Böcklin, De Chirico, Savinio – i due fratelli erano peraltro passati anche loro da Monaco).
Max Klinger, L’incanto della vita, Via del Vento, pp. 38, ill., € 4

giovedì 9 febbraio 2017

Problemi di base globali - 313

spock

Pensiero unico panza unica – Masterchef, Michelin?

Uber vale 60 miliardi, quattro volte Fca – 60 miliardi di cosa?

E Apple, che vale più dell’Italia?

Meno ricchi ma più ricchi, è questa la fine della storia?

E più poveri più poveri, anche tra gli ex ricchi?

Perché un moderato mercantilismo dovrebbe fare più male della globalizzazione sconsiderata?

Se la globalizzazione è il sistema della più colossale rapina del millennio, delle banche americane ai danni del mondo, un po’ di deglobalizzazione fa tanto male?

Facciamo l’Europa a più velocità, che vuol dire, che la Germania fa l’andatura, da autostart?

E se un concorrente dietro scarta e accelera che fa, è squalificato?

Perché l’Europa non chiama le cose col loro nome?

spock@antiit.eu

Il dio delle donne

“Le Baccanti” sono l’irruzione dell’irrazionale – altrettanto indigesta che l’allitterazione. E uso celebrare l’irrazionale, lo stesso regista lo fa nelle note di presentazione, come un allargamento a dismisura delle possibilità espressive. Nelle forme della possessione e della rivelazione, che sono il divino traslato nel mondo. Questa rappresentazione lo fa in vario modo, con le immagini scenografiche, i costumi e le evoluzioni del coro, una recitazione più spesso allusiva – di grande qualità – che non parlata. Ma le parole dette sono quelle di Euripide, che oggi suonano in tutt’altro verso, di un femminismo antifemminista. Anche per la regia – inavvertitamente?  
Sottile, non detta, o detta in forma vittimistica, delle donne vittime del dio, ma costante è la caratterizzazione delle menadi insensibili, orgiastiche, distruttive. Che sono nell’originale di Euripide, ma non come genere – sono le matrici che si ribellano al loro destino creatore. Salvo ne accentua la carica distruttiva prospettandole superficiali più che vittime, quasi spensierate e allegrone mangiatrici d’uomini, il dio, il re di Tebe Penteo, il nonno Cadmo, lo stesso Tiresia, per quanto protetto dalla divinazione e la cecità. Quello femminile si rappresenta come tutti i poteri: se al naturale, incontrollato, allora sfrenato.
Mito – religiosità? Ma, opera laica oppure religiosa, la sua storia è di un femminismo feroce. Ci sono tante letture di Euripide. Una è se non volesse riaffermare con “Le Baccanti” l’inevitabilità del sacro, o l’obbligo (“convenienza” la dice il saggio Cadmo) per gli umani di non misconoscere la divinità. L’altra, più consistente, è se non sia stato un laico precoce, che l’irruzione religiosa legge come distruttiva. Oggi, in questa chiave, non si può non leggerlo come antifemminista: le Baccanti del ventunesimo secolo, l’impellenza del sacro essendo cessata, sono donne tutte in un modo o nell’altro, amanti, sorelle, madri, comari, distruttrici e autodistruttrici. 
Nei propositi del regista le Baccanti agiscono in una condizione di automatismo. In una sorta di invasamento passivo, di occupazione permanente da parte del dio. Ma sono loro ad azionare morti e distruzione, all’orlo dell’antifemminismo. Il dio è costretto a spiegarsi all’inizio – in questa tragedia ha la funzione di Prologo - e a scusarsi alla fine.
La distinzione-collocazione del dionisiaco è sempre stata macchinosa. È un tentativo anche di ipostatizzare il male in qualcosa di diverso dal dio, cui invece lo steso nome di Dioniso riporta. E il mito non ha altra funzione che di esorcizzare, anch’esso – paure, minacce, disgrazie. Euripide ne fa una rappresentazione forse religiosa forse laica - è l’una e l’altra cosa – ma per uno spettatore odierno il male viene a incarnarsi nella femminilità. Al modo non maschilista ma tragico, di una distruzione irreparabile perché naturale.  
La rappresentazione è semplice e sontuosa insieme. Forse perché pensata per i teatri estivi all’aperto, a Taormina, a Siracusa, dove Salvo ha operato più volte. O è la lezione di Ronconi, di cui Salvo è stato allievo e a lungo aiuto-regista. La scena teatrale nuda si anima con video-immagini, suoni, coreografie coinvolgenti, di forte impatto sullo spettatore.
Daniele Salvo, Le Baccanti – Dionysos il dio nato due volte, Roma, Teatro Vascello

mercoledì 8 febbraio 2017

Ombre - 353

“Nessun elemento apprezzabile per sostenere un processo”. Due terzi degli incriminanti per Mafia Capitale ne escono puliti. Dopo due anni, quasi tre. Dopo essere stati in realtà condannati, dagli inquirenti con trombe.
L’incauta accusa una volte era un delitto, da punire. Ora è indispensabile alla carriera – “quante incaute accuse hai fatto?”

L’onorevole Di Maio, il pupillo delle tv e dei giornali, non passa giorno senza una sua estesa intervista, compila una lista dei giornalisti da proscrivere perché diffamano 5 Stelle. E per questo continua a essere lungamente intervistato – uno che non sa nulla ma ha molto da dire.

Celebra Milano a ripetizione Mani Pulite. Inutile dire che è il moralismo degli immoralisti: profittatori, trescatori. Ne celebra i venticinque anni in anticipo su tutti l’Associazione dei giovani avvocati. I quali si sono in pensiero: Mani Pulite fu l’eldorado dell’avvocatura, specie dei giovani avvocati, non soltanto di Lucibello, l’amico di Di Pietro, ora il piatto langue.

“Mani pulite, tasche piene”, diceva arguto all’epoca l’avvocato Flick, poi ministro dellla Giustizia. Per gli avvocati e non solo: furono una fortuna per i traffichini col palazzo di Giustizia, poi insediati nella cose pubblica.

Virginia Raggi muore dalla voglia di autorizzare lo stadio della Roma, che è una speculazione immobiliare, gigantesca, lo vedono tutti: un milione di mc., di cui solo 140 mila per stadio e servitù. Dopo aver privato la città dell’Olimpiade – “è una speculazione immobiliare” – che invece avrebbe portato a Roma gli investimenti, pubblici e privati, di cui ha bisogno: strade, nettezza urbana, cura del verde, promozione dei monumenti, accoglienza.

Oltre la metà dei giornalisti iscritti all’Ordine è sconosciuta all’Inpgi, alla previdenza di settore – non paga contributi (rapporto Lsdi, Libertà di Stampa Diritto all’Informazione). Cioè non lavora o lavora in nero. La morale? Di una professione che si fa guardiana della morale?

È reddito zero del resto per quattro giornalisti non contrattualizzati su dieci. Ed è lavoro autonomo, a partita Iva, per il 65 per cento degli iscritti al’ordine – tra essi anche molti contrattualizzati.

Risultano in sostanza iscritti all’Ordine dei giornalisti, per una modica cifra annua, i laureati di certe facoltà, in automatico. Le quali “si vendono” una professione che non esiste. Quella di giornalista è una qualifica, come usava tra i galantuomini meridionali, che faceva contenti, senza danno.

“Anello della Pace” a Toronto, di ebrei e cristiani, attorno a un centro culturale islamico, in solidarietà contro l’attacco il 29 gennaio al centro islamico del Quebec. C’è mai stato un anello della pace islamico a Parigi o a Berlino, dopo gli attentati?

Juventus-Inter big match preparato per una settimana con paginate, speciali tv, interviste e anticipazioni, viene liquidato dalla “Domenica Sportiva” con una storia di rigori, che c’erano naturalmente per la squadra che ha perso e l’arbitro non ha dato. I tifosi della squadra perdente dicono di no, in sovrimpressione, non gli interessa, la partita è un’altra cosa, ma Antinelli è inflessibile: non c’è altro.  Fa rivedere il rigore – di due poi sono diventati uno - una cinquantina di volte. Fa informazione? No. Fa spettacolo? Certo no. Cosa fa? L’hanno messo lì per perdere spettatori?

Scandalo all’università, 600 professori in allarme: “I ragazzi non sanno scrivere in italiano”. Quando da trent’anni almeno le facoltà di Lettere  e Lingue impongono un corso propedeutico di alfabetizzazione. Primaria, da terza elementare. Ma non possiamo farci l’esame di coscienza: chi ha smantellato la scuola?

Si manifesta in ogni piazza e in ogni pagina contro Trump che, in America, blocca per quattro mesi i visti degli iraniani. Non si protesta per il ricercatore iraniano in Italia che gli ayatollah hanno condannato a morte, durante un breve rimpatrio, senza processo. Sarà colpa di Trump? Tacendo che il regime d’illegalità, di condanne senza processo, dura in Iran da quasi cinquant’anni.

Non c’è dubbio che Virginia Raggi “sapeva”. Una politica di lungo corso, seppure oscuro. Ma è innocentata. Magia del nome?

Si può capire la Procura di Roma, con la singolare teoria che le assicurazioni reciproche, tra polizze vita e promozioni fulminee, non sono scambio, non sono reato. La Procura di Roma, che era renziana, ora è grillina, le fulminee carriere prospettandosi col governo Di Maio? Ma i giornali, sono sempre quelli del tanto peggio tanto meglio?

Si fa finta di non sapere che le polizze vita, finte, sono investimenti, per l’abbattimento fiscale alla stipula e al pagamento, e per il godimento, qualora si verificasse, esentasse, anche di beneficiari non consanguinei diretti. Non pignorabili. E una forma di pagamenti di prestazioni senza fattura, senza Iva e senza imposta sul reddito. Anche per importi elevati senza controlli possibili, quali invece si fanno per i contanti e i bonifici, anche per che migliaia di euro (lo “scandalo” era che Renzi ha elevato i controlli da mille a tremila euro). Polizze comunque riscattabili, se l’affare non andasse in porto. Romeo ha scommesso su Raggi sindaca e sulla sua propria promozione, tutto qua.

Indignati come dobbiamo essere contro Trump, gli diamo torto anche nella telefonata col premier australiano Malcolm Turnbull. Che gli immigrati africani e asiatici, lui, li tiene deportati in isole remote, Nauru e Manus.  E voleva approfittare della buona volontà di Obama per rifilarne un paio di migliaia agli Usa. Giustamente, in questo caso, Trump si attiene ai proverbi: “Chi ha la rogna….”.

«Lo sai a Luca quanto gli do? Cinquemila euro al mese... ogni mese... e io ne piglio quattromila». È a partire da questa intercettazione di Buzzi che è nato il processo allo stesso Buzzi. Poi trasformato in Mafia Capitale, facendo di Buzzi lo scagnozzo di Carminati, ex terrorista ero, invece che, come era, l’uomo di fiducia a Roma della Lega delle cooperative. Era Odevaine a pilotare gli appalti pubblici del sociale, Buzzi era sua vittima – stando alla telefonata – o suo compare. La mafia?

Che, poi, Odevaine non veniva da nulla. In Legambiente da ragazzo. Condannato a due anni per detenzione e spaccio di droga. Dopodiché si è cambiato il nome aggiungendo la e finale. Ed è  diventato vice capo di gabinetto di Veltroni sindaco, capo della Polizia provinciale con Luca Zingaretti, e poi, ministri Cancellieri e Alfano, all’Interno, al Coordinamento nazionale accoglienza richiedenti asilo, il business miliardario degli immigrati, in quota Pd.

Di Odevaine nelle cronache romane, dei giornali che seguono il processo Mafia Capitale, “la Repubblica”, “il Messaggero”, “Corriere della sera”, solo si dice nelle cronache che ha collaborato con Alemanno. Veltroni controlla ancora i giornalisti, come quando era alla Stampa del Pci, e teneva la cistka settimanale, che redigeva i dossier a carico dei giornalisti politici non allineati?

Alcune nomine del neo presidente americano hanno avuto l’ok di alcuni democratici al Senato, tra essi il segretario di Stato Tillerson. Atri democratici annunciano il loro ok al giudice conservatore (jeffersoniano) della Corte Suprema nominato da Trump, Gorsuch. Ma l’Italia non lo sa. Trump è controverso, ma non come la Rai-Sky, le nostre care tv a pagamento.

Le chiavi di Kafka

Walter Benjamin voleva che Kafka avesse rimuginato per tutta la vita sul suo aspetto, senza sospettare che esistono specchi. Una facezia, e forse una cattiveria. Ma parte proficuamente da qui Stimilli, dal tormento di Kafka attorno alla sua stessa persona, per delinearne una fisionomia di scrittore e intellettuale probabilmente più aderente a quella vera. Un’indagine svolta in maniera concettosa, per volere essere il più possibile documentata, e per questo forse non fortunata, ma che fa – farà - testo.
Kafka tutta la vita fu alla ricerca di sé. Forse perché, come scrive in una lettera, “dai figli si vede che si invecchia”, e lui non ne aveva, la salute pretestando inadeguata al matrimonio e alla paternità. Fu eterno fidanzato, come Kierkegaard. Sentendo della paternità la mancanza – Stimilli trova vari riferimenti nei diari: “La felicità infinita profonda calda redentrice  di sedere accanto alla culla del proprio bambino di fronte alla madre”, “Sisifo era uno scapolo”, “Un uomo infelice, che non deve avere figli, è terribilmente chiuso dentro la sua infelicità” (Kierkegaard: “Il figlio è per così dire uno specchio, in cui il padre vede se stesso”).
Il Sisifo Kafka era uno scapolo
I riferimenti sono molti. “Neppure fu concesso a Kafka”, conclude Stimilli, “di sopravvivere al proprio genitore, per giungere a una  riconciliazione postuma, a quella grande Giornata del Perdono, che anche la conclusione della «Lettera al padre» auspicherà”. Di conseguenza, “se gli specchi naturali dell’uomo” – padre-figlio – “erano entrambi preclusi a Kafka, ogni altra forma di rispecchiamento appariva ai suoi occhi inadeguata”: Anche di questo i riferimenti sono molti: o  l’imbruttiva, o l’abbelliva, contro ogni convenzione.
Un originalissimo approccio. Molto vicino al Kafka del lettore, che lo trova soprattutto scontento – non è stato tentato prima perché anche Kafka è vittima del kafkismo? Kafka si amava molto. O non si amava? Era, per la testimonianza affettuosa di Max Bord e per le sue stesse lettere, “un bambino di sei anni” allungato, che non vivrà “mai l’età adulta”, e poi all’improvviso sarà vecchio? Il dato biografico sicuramente incide, sofferto e costante, perfino ossessivo. Come di chi si ripiega su se stesso. Di uno che sin dal 1911, a 28 anni, aveva sentito prepotente il “desiderio di scrivere un’autobiografia”, e nel 1919 in parte lo fa, con la “Lettera al padre”.
Uno scavo – un inizio di scavo – vertiginoso nell’opera e la persona di Kafka. Come se, malgrado tutto (Canetti, Benjamin, Adorno, ora il suo cultore Reiner Stach, lo stesso Brod), fosse finora rimasto imbalsamato in una agiografia sommaria. Sarà difficile non rileggerlo con trepidazione, tante sono le velature che Stimilli solleva di Kafka, le necrosi che espone. Il “morsus conscientiae”, o l’ingiustizia di Schopenhauer come cannibalismo. La bestialità istintuale. La memoria come tribunale. Il “Castello” come castellum animae.
L’ingiustizia come cannibalismo
Stimilli ricompone il mondo di Kafka analizzando in dettaglio e quasi al microscopio “Il Castello”, soprattutto, e “Il Processo”. In riguardo alle fonti. Che non sono la Cabbala, ma gli studi che Kafka ha pur fatto, e le letture, di cui Stimilli trova tracce solide: riferimenti nei diari e le lettere, citazioni quasi integrali nelle due opere, ricostruzioni quasi al dettaglio di personaggi e attitudini. Ne ricompone anche la Praga tedesca dei suoi anni. Con Meyrink e il “mondo magico”. Bachofen e la “cultura mongolica” (nomade) come antidoto all’eterismo, alla sessualità compiaciuta. La fisiognomica aggiornata di Kassner e Weininger. Lo Schopenhauer dell’Umrecht, dell’ingiustizia come cannibalismo  che è il proprio dell’uomo. Kierkegaard. Molto Weininger – la fisiognomica dinamica e altre avventure. Molto Nietzsche. Comenius perfino, il “paradiso del cuore” e il “labirinto del mondo”. E via via coi saggi sulle fonti o le chiavi di Kafka, una spremuta interminabile anche, sempre densa, dei due romanzi, parola per parola, e dentro le parole.
Il tanto Nietzsche è più conflittuale che complice. Nietzsche elimina gli specchi, si vive senza. Kafka no, nei “Diari” è tassativo: “Inevitabile obbligo di osservare se stessi. Se sono osservato da altri devo naturalmente osservarmi anch’io”. E siamo al 7 novembre 1921, ai quasi quarant’anni, senza remissione: “Se invece nessuno mi osserva, devo osservare me stesso tanto più esattamente”.
Non è agevole trovare le chiavi di un autore. Non fosse altro perché sono ignote o confuse all’autore stesso, che più spesso depista, anche inavvertitamente. Peggio per Kafka, narratore introspettivo al limite dell’esoterico. Che la cabala, o l’ebraismo infuso (“Il Castello” rappresenta la Grazia, “Il Processo” la Giustizia divina), proposto e imposto da Max Brod, il sionista, tiene in cattività.
L’autocalunnia
Stimilli, germanista e ebraista, ci prova con più mezzi. Non fantasiosi né approssimati – che anzi la lettura vogliono faticosa. Partendo da Kafka stesso. Dalla sua incapacità di vedersi, per troppo “vedere” – leggere, recepire. Ne esce lo scrittore forse più letterato-letterario. “Fatto”, come di direbbe di un drogato, di Goethe “demonico”, Nietzsche, Kierkegaard, Schopenahuer. Per riferimenti precisi, dei diari, le lettere e i racconti - specie dei due romanzi che Stimilli microscopizza, “Il Castello” soprattutto, e “il Processo”. A specchio dei quali matura, invasivo, un sentimento che oggi si dice di inadeguatezza. Dai molteplici risvolti, ma tutti concorrenti.
La persistente impossibilità – inettitudine? – di adempiere a una qualche Aufgabe, a un compito, un destino. La debolezza della memoria (“Kaspar Hauser”, nella prima e nell’ultima redazione). L’incomprensione del mondo (Otto Weininger a profusione). Quella che in altro testo (la conferenza “Kafka’s Shorthand”, tenuta al Warburg Institute a Londra nel 2006) lo stesso studioso dirà autocalunnia. Dopo aver rilevato che K. sta per il latino Kalumniator, che “Il processo” è un processo per calunnia. Un delitto grave nel diritto romano – che Kafka aveva studiato – giacché in quel processo la pubblica accusa aveva un ruolo limitato, e quindi la calunnia si temeva, tanto da punire i falsi accusatori con la lettera K. marchiata sulla fronte. Ma allora, nell’economia del “Processo”, di cui Josef K. è il protagonista, vittima poco convincente, il processo è per autocalunnia: lo Jemand, il qualcuno, che ha dato origine al processo è lo steso Josef K.. Una conclusione dopo la quale in effetti la lettura scorre filata.
Davide Stimilli, Fisionomia di Kafka, Bollati Boringhieri, remainders, pp. 119 € 7,23

martedì 7 febbraio 2017

Se Trump non è abbastanza di destra

A Trump, che dopotutto è il presidente degli Stati Uniti, il giornalista della Fox di Murdoch, Bill O’Reilly, impone all’improvviso di dire che Putin è un killer. Trump se la cava con un’altra domanda: “Mah, lei crede che il nostro paese è così innocente?”.
Sembra un giornalismo provocatorio – così è stato recepito dai giornali italiani. Ma a che scopo? Quella di O’Reilly è una provocazione di destra. Come se Trump non fosse abbastanza di destra?
Diversa la reazione della stampa Usa: la provocazione dell’arcigno O’Reilly non è accolta bene. La Russia, per quanto non amabile, è potenza nucleare. E il retropensiero probabilmente è che “c’è qualche scomoda verità in questo”, nella risposta di Trump.
Il “New York Times”, curiosamente, ha svolto la salve quotidiana anti-Trump in chiave campagnoli alla Casa Bianca: il neo presidente e i suoi famigli non sanno come funzionano i telefoni e gli interruttori della luce, non trovano le pantofole e gli accappatoi… In un certo senso è l’America che copia l’Italia anche in questo, nella “linea dl Piave” antiberlusconiana dopo aver perso, ripetutamente, la battaglia del voto: i tacchi, i capelli tinti, il visagiste.

Biografia poetica di città

“Un uomo è in sé una città”, la vive, la vivifica. È in questa chiave, del poema di William Carlos Williams, che Jim Jarmusch ha costruito il film dal titolo omonimo - pur facendo vivere la sua “Paterson” coi versi di un altro poeta, un contemporaneo, il newyorchese Ron Padgett.
L’America è tema poetico, da Whitman a Williams e Allen Ginsberg, compreso lo stesso Pound, incriminato per attività antiamericane. Non in senso nazionalistico, come patria, ma come modo di essere. Non, dice Williams nella sintesi che Octavio Paz fa del suo “In the American 
Pgrain”, come “una realtà data una volta per tutte, bensì piuttosto qualcosa che tra di noi costruiamo quotidianamente  con le mani, gli occhi, la mente e la bocca”. Anche come patria – è indifferente agli espatriati, Henry James, T.S.Eliot. Ma allora come mondo, non come confine o difesa. Del resto Williams è, a suo modo, un immigrato, figlio di un inglese e una portoricana. Ma scelse di vivere in America, a differenza dei suoi coetanei tra le due guerre, che si trovarono più a loro agio in Europa, Hemingway, Pound. Oppure, negli Usa, vissero e poetarono da cosmopoliti, E.E. Cummings, Wallace Stevens. E in America scelse di vivere in provincia, a Rutherford, dove era nato.
Questa sua America è un idillio. In una poetica ambiziosa, la registrazione del linguaggio americano - cioè la creazione di un linguaggio: “lo sciaguattare, il vorticare\ il ritornello profano\ della parlata americana”, lo dirà Ferlinghetti in Americus”, canto III. È la vita di una città raccontata come la vita di un individuo, la storia di un essere umano. Che la vive tra sogno e voglia di essere, quello che si dice l’American Dream.
L’edizione italiana è impreziosita di un saggio di Octavio Paz, che ne fissa con acume le coordinate:  “realismo non imitativo”, “le parole sono cose ed esse sono senso”. In una tradizione ben americana: “«Paterson» appartiene a quel genere inventato dalla poesia nordamericana contemporanea che oscilla tra l’«Eneide» e il «Trattato di economia politica», la «Divina Commedia» e il giornalismo. Vaste collezioni di frammenti, delle quali l’esempio più impressionante sono i «Cantos» di Pound. Tutti questi componimenti, posseduti tanto dal desiderio di «parlare» la realtà americana quando di quello di crearla, sono l’eredita di Whitman”. La peculiarità di queste “collezioni” è che “esse non si presentano come tradizione, ma piuttosto nelle vesti di presente esploso in direzione del futuro”. E già si guardano indietro: “Pound, Williams e anche Crane  sono l’altra faccia di quella promessa”, continua il Nobel messicano: “Ciò che la loro poesia ci mostra sono le rovine di quel progetto”. Grandiose, come tutte le rovine, ma “rovine viventi del futuro”, terminali del “titanismo del futuro”.
Una risposta disuguale, quella di Williams. Minata dalla polemica implicita col suo amico di sempre e referente Pound, e indirettamente con Eliot, con la visione critica che i due avevano del mondo a loro contemporaneo. Reazionaria -  di un “precapitalismo feudale” dice Paz - fino al fascismo nel caso di Pound. Williams non la condivide, ma non ne propone una diversa, in questo poema come nelle altre composizioni. Si limita a celebrare la vita della gente comune, senza progetti o idealità speciali. Oggi discussa, essendo la città legata a Alexander Hamilton che la fondò, a poche miglia da Manhatan. Il padre della Costituzione americana ora diventato una sorta di Trump ante marcia, fautore del diritto dei ricchi ad arricchirsi, per il bene della nazione, di restrizioni all’immigrazione, e del pugno di ferro coi vicini latini. Ma questa è storia di oggi, Williams poteva considerare, come il resto allora dell’America, Hamilton un patriota, un padre della patria.
In una testimonianza dal vivo di Williams, che ha incontrato un paio di volte, Paz ne dà un ritratto ammirato, per la semplicità, l’approccio diretto. Di cui fa una sorta di divisa del poeta americano, a fronte del poeta “latino” (francese, italiano, spagnolo) che è invece oracolare – Paz dice “un prete: non poeta come parla, non parla come poeta. In quello che vuole essere un limite – Paz è pur sempre un latino, benché cosmopolita – ma è forse l’ennesimo complimento, il poeta messicano così conclude: “Williams non seppe vedere del suo paese il volto imperiale e demoniaco”. Si legge però, specie qui, per quello che è: il “miglior fabbro” anteguerra, con Wallace Stevens. Questa anomala “biografia di una città” cattura come un romanzo d’avventure, per la narrazione sapente e per le immagini vivide.
A cura di Alfredo Rizzardi, con originale. Che purtroppo è riprova del dualismo di Paz: la traduzione erge a linguaggio “poetico” – raro – la koiné dimessa, pianamente inventiva, che è la cifra del poema, e di Williams.
William Carlos Williams, Paterson, Oscar, pp. 454 € 14

lunedì 6 febbraio 2017

Letture - 291

letterautore

Bot – I bot sono all’origine del 52 per cento di tutto il traffico internet - i programmi automatici di ricerca. Le audience online potrebbero essere impersonali – di testi contattati e\o visionati per automatismi algebrici.

Brevità – Poe la trova controproducente in poesia (“Il principio poetico”). La brevità dice “mania epigrammatica: “Occorre la pressione prolungata del sigillo sulla cera”. E porta a esempio la “Serenade” di Shelley, “di brevità esagerata, che ha l’effetto di indebolire la poesia e di sottrarla alla pubblica attenzione”. Forse la più bella poesia d’amore.

Dizione – Capita di vedere due film di seguito in cui s’inscena teatro. Nelle scene teatrali la dizione – parliamo del doppiaggio - è perfetta: ogni sillaba è pronunciata, distinta, sonora, che gli attori siano di spalle, di fronte, di sghembo, sul proscenio o al fondo della scena. Subito prima e subito dopo è invece arruffata: confusa, inaudibile, specie le parti femminili. Si dice in omaggio alla realtà, al vero della conversazione. Residuo del film inteso come tranche de vie, seppure per madornale sproposito? O non perché gli attori non hanno “studiato - specie le donne, bisogna dire, che se giovani e belle pensano di aver già fatto tutto?

Einaudi – Giulio, l’editore, per “onirico” intendeva “erotico” – testimonianza affettuosa del suo ex redattore Ernesto Ferrero, “I migliori anni della nostra vita”.

Genere – L’etnologo tedesco Fritz Graebner, che Borges cita (L’idioma degli argentini”, 17), deduceva, a proposito del genere grammaticale: “Oggi prevale l’opinione che, fin dalle origini, i generi grammaticali rispecchino una scala di valori, e che il genere femminile rispecchi in molte lingue – quelle semitiche – un valore inferiore a quello maschile”. Oggi, fine Ottocento. Ma per le lingue semitiche ancora oggi, secondo Borges. Due delle quali, l’arabo e l’ebraico, sono anche lingue sacre, delle scritture sacre per le rispettive religioni, la mussulmana  e l’ebraica – le altre due lingue semitiche viventi sono etiopiche, l’amarico e il tigrino .
Leghismo – E la Puglia, dove la mettiamo in una geografia della letteratura? Il leghismo letterario avrebbe difficoltà – Dionisotti ne ha, anche se non lo dice. Walter Pedullà, che il leghismo rilancia “da sotto” (Il mondo visto da sotto”), lo riconosce in partenza. D’Annunzio lo mettiamo a Pescara o a Roma? O a Parigi?

Manzoni – È Milano. È anche altro: un illuminista riconvertito, un bisogno di fede, l’inquietudine annoiata. Ma si lega e viene legato a Milano. Come Dante a Firenze, ma in un orizzonte più limitato – particolaristico, campanilistico perfino: quello del nazionalismo.
È il tipo del poeta “legato a qualche luogo del mondo” di cui in Borges, “La fruizione letteraria”, in “L’idioma degli argentini”, p. 100come Borges lo è di Buenos Aires.

Multigender – Poe, “Marginalia”, § LXXV, lo trova già in Virgilio: “Servio cita da Virgilio una Venere con la barba”. C’era confusione tra gli dei, nomi, funzioni, eccetera, e riguardava anche il sesso. “In Macrobio pure”, prosegue Poe, “Calvo parla di lei come se fosse un uomo, mentre Valerio Sorano chiama Giove decisamente «la Madre degli Dei»”. Calvo è Gaio Licinio Calco, il poeta e oratore. Quinto Valerio Sorano è il grammatico e politico romano giustiziato da Pompeo, su richiesta del dittatore Silla, con l’accusa di aver rivelato il nome segreto di Roma.

Naso – Quello del dottor Fliess, l’amico del dottor Freud, un simbolo e anche un Ersatz del fallo, era ben stato anticipato da Francisco Quevedo in apposito sonetto, “A un naso”, peraltro tra i suoi più famosi. Di cui Elvira Marinelli, che lo include nella sua “Antologia illustrata della poesia”, trova insistenti questi caratteri: “Una delle più famose composizioni di poesia di Quevedo, che ha per oggetto il naso come simbolo fallico, secondo una tradizione risalente già ai poeti latini. Tutti gli oggetti nominati nel sonetto, dallo gnomone della meridiana all’alambicco, dallo sperone alla piramide e al’elefante alludono a un grande fallo, da ui il poeta sembra ossessionato”.

Novecento – Un secolo pieno di “inventori”, di “tecniche narrative”, lo vuole Walter Pedullà, “Il mondo visto da sotto”, “come Pirandello, Palazzeschi, S avinio, Gadda, Bomtempelli e Campanile”. Questo è vero. Zavattini si può aggiungere, e perché non Sciascia?

Numero Zero – Quello di Eco, il suo ultimo romanzo, è del giornalismo, più che della politica e dell’Italia. Una critica tanto più feroce in quanto di schermisce: “Un’opera da «uomo senza qualità», scusi la citazione”. Brillante, cattivo, Eco fa la satira del giornalismo, un mondo che conosce, per pratica e studi, di vizi e vezzi: la “notizia”, la smentita, il dossier, il famoso giornalismo anglossassone, quello che “i fatti vanno disgiunti dalle opinioni”, il direttore (“questa storia dei telefonini non può durare!”), le frasi fatte ((la rabbia dei pensionati, il papa buono, la stanza dei bottoni, la discesa in campo, nel mirino degli inquirenti, il giro di walzer, il tunnel, la capra e i cavoli, la frittata, ora anche chiedere scusa – “la questione è che i giornali sono fatti non per diffondere ma per coprire le notizie”. Tutta la storia è centrata peraltro sullo storione di Dongo, il giornalismo più vieto.  Di un giornale che si progetta e non si fa, si progetta per non farlo, il giornale ipotetico, per antonomasia. Il grado zero del giornalismo. Eco, che tra le tante cose è stato uno studioso dell’opinione, ne mete a nudo le magagne.

Plagio – Poe ne era ossessionato, ne trovava in una su due delle sue letture, si può dire, e leggeva moltissimo. Molte ne dununciava, anche se non lo riguardavano. E una volta fu accusato di avere plagiato se stesso.
Perfino di Eugène Sue sospettò che  lo avesse copiato nei “Misteri di Parigi”. Mentre veniva sospettato di essere stato l’lui il plagiario. Per l’episodio “Gingelet et Coupe en Deux”, raccontato da Pique-Vinaigre ai compagni in “La Force”. Dove è anche questione di una scimmia ammaestrata a uccidere. Il mio “Assassinii della rue Morgue” è uscito nel 1841, si difende Poe, cioè prima – i “Misteri” sono del 1842-43. Ed è stato tradotto qualche anno dopo dalla rivista “Paris Charivari”, con molte lodi, continua Poe. Che, civettuolo, ricorda pure l’obiezione della rivista, che a Parigi non c’è nessuna rue Morgue.

Poeta – Non sarebbe un prete? Specie quello laico, mangiapreti. È l’ipotesi di Octavio Paz, almeno nella sua tradizione, classica e latina. Il Nobel messicano la formula all’incontro con William Carlos Williams, “l’esatto opposto di un oracolo”. Il poeta americano è “posseduto dalla poesia, non dal ruolo di poeta”. Il che suggerisce a Paz questo paragone: “Senso dell’umorismo, disinibizione, il rifiuto di prendersi sul serio, così tristemente mancante in America Latina. In ogni autore francese, italiano, spagnolo e latinoamericano – specialmente se ateo e rivoluzionario – si nasconde un prete”. Negli sa, “un mondo relazionale pure così difficile”, è un’altra temperie: “Qualità democratiche come semplicità, comprensione e umanità – nel vero senso della parola «democratico» - infrangono ogni corazza professionale”.

Scrivere – Bacone lo faceva “per esercitare le dita”, secondo il critico della sua scienza, della scienza di Bacone, il beffardo reazionario Joseph de Maistre. Ora che la pratica è così diffusa spariranno le artriti?

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Il Sessantotto postmoderno in anticipo

È l’ultimo anno dei quattro di impero del quattordicenne imperatore. Il giovane avventurista romano, l’imperatore-compagno, s’immagina di smobilitare il Potere dell’interno. Ma non fa che una storiaccia, di breve durata. Tra Jarry e Artaud – e Elio Lampridio. In un week-end al mare con delitto. A Ostia – il viaggio a Ostia è nella “Messalina” di Jarry. Vittima di quattro mamme “anni Trenta”, dentro una famigliaccia piena di debiti.
L’imperatore diciottenne è ancora l’“anarchico incoronato” di Artaud. Con ampi estratti dalla “Vita di Eliogabalo” dell’umanista Elio Lampridio. Molti elenchi. Epitaffi in serie – la posterità. E “il magazzinaggio rivoluzionario”, insieme col “mansionario del pluralismo”: progetti, propositi, slogan, frasi famose e modi dire dell’anno fatidico. Un desiderio – dell’autore – di essere nel mezzo, e la riserva del reazionario costante – “come andrà a finire?”
Una “commediaccia pop” la vuole Arbasino. Composto – “composto”, non scritto – nel 1968 e pubblicato nel 1969, è anche il libro di note che l’autore allora vagheggiava, sulla traccia di Gadda (al quale però piaceva narrare). Una sorta di postmoderno prima dell’avvento del postmoderno. Con l’ironia di sempre - la cifra di Arbasino - e cioè con la critica del postmoderno stesso.
È una lettura che si riproporrà per le celebrazioni del Sessantotto, di cui la “commediaccia” si vuole epitome. Che la prima riedizione, dieci anni dopo il 1969, così compendia, in lingua arbasiniana – attribuendo, per un refuso?, l’invenzione del ’68 al terribile decennio seguente: “L’ironia, la creatività, la corporeità, il neo-dada, lo spontaneismo, il nonsense, il gioco, la trasgressione,  il terrorismo della disseminazione, la liberazione del desiderio, il situazionismo del Self, l’eruzione dei Bisogni, il rifiuto della Storia burocratica e delle Scienze dittatrici, la demistificazione del falso progresso industriale, i deliranti e gratificanti frullati Nietzsche-Adorno-Lacan-Totò”. Con canzonette, battute e dialoghi da nuvola dei fumetti.  
Non una celebrazione, in realtà, ma una satira. Non detta, mimata. Un po’ per ridere, ma anche, un pochino, sul serio. Arbasino, critico sociale attento e quindi reazionario per definizione, coglie i modi di essere, dire, fare, del suo Sessantottino, mettendolo sul ridere – ma un po’ no.
Alberto Arbasino, Super-Eliogabalo, Adelphi, pp. 406 € 25

domenica 5 febbraio 2017

Cosa si copre a Roma e perché

È pieno di incongruenze lo scandalo Marra-Romeo-Raggi Cioè di punti criminosi evidenti che non sono stati e non sono indagati.
La triade si avvale di un “innominato” per compilare i dossier contro i propri nemici, nel Pd e tra i 5 Stelle. È della Guardia di Finanza, corpo di cui Marra è stato ufficiale? È possibile. Ma, poiché non si indaga,  è più che possibile.
Spunta un dossier contro Romeo. A stretto giro di posta lo si copre con la voce che è opera di Lombardi, la deputata 5 Stelle concorrente di Raggi a Roma. Lombardi denunzia. Ma non importa: importa che il dossier Romeo non viene esaminato, ma coperto con la disinformazione, come è l’uso nelle indagini deviate.
Romeo ha acceso polizze vita che sanno di riciclaggio. Anche solo a fini fiscali, per benefici fiscali, ma sempre investimenti finti. Gli inquirenti dicono che non è reato. E invece lo è, sotto più aspetti. Il beneficiario delle polizze vita dev’essere reale e identificato – non una “figlia” inesistente, come pare sia il caso, o una ignara Virginia Raggi. Questo è tassativamente richiesto dalle norme antiriciclaggio. Di cui gli inquirenti non possono non sapere.
A proposito di questa formula, è solo in questo caso che la occhiuta giustizia italiana risparmia il politico, e anzi lo rende ignaro di tutto. Non c’è più nemmeno la responsabilità oggettiva. Chi e che cosa coprono gli inquirenti?

Pinocchio kidnapped

Un po’ Freud: essere-per-la-morte. Un po’ alternativo: il burattino è vivo e soffre in mezzo a tutti burattini bugiardi, compreso papà Geppetto, anche se col naso normale. Un po’generazionale, nerd: Pinocchio cerca il padre che non c’è, nel mentre che lamenta la dispersione digitale. Nel complesso, un palco pieno di solitudini, monologanti.
Latella, “non ho mai fatto le scuole”, s’inventa un suo Pinocchio. Anche linguisticamente, l’originale caricandolo di Dante , frasi fatte e riferimenti d’oggi. Ma è più visivo che non storico e letterario. Forse: la scena è una pioggerellina di trucioli di legno, Pinocchio è un povero Christian La Rocca con un busto di legno, anzi un tronco per busto.
Insomma, non è il “Pinocchio” noto, e non si sa cos’altro è. Una specie d’appropriazione indebita.
Antonio Latella, Pinocchio, Milano, Piccolo Teatro