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sabato 10 agosto 2013

La politica in mano ai giudici

Dare la caccia ai mafiosi oppure ai politici? Le modiche alla norma sul voto di scambio, di cui non c’era bisogno, hanno senz’altro il secondo obiettivo: completare la subordinazione della politica ai giudici. Non per nulla grande patrocinatore ne è Agostino Cordova, il giudice istruttore di Reggio, poi Procuratore Capo a Palmi e a Napoli, che non risulta aver messo dentro molti mafiosi, ma centinaia di politici sì – salvo non condannarne nessuno.
La mafia è scoperta nelle sue azioni, non si nasconde. Non lo diventa per avere in casa santini elettorali. E ancora: per averli dei candidati che il Procuratore dice, se li ha di altri non interessa. Quando non se li procura per farli trovare ai Carabinieri alla visita annunciata – nelle inchieste di Cordova è successo anche questo.
Già licenziata alla Camera, passerà al Senato alla ripresa la modica dell’art. 416 ter del codice penale, di cui si dice che introduce una modifica inutile – due in realtà: mentre riduce la pena, “bilaterale”, da 7-12 a 4-10 anni, allarga lo scambio, dalla elargizione di denaro (il voto comprato) alle “altre  utilità” (favori, assunzioni, licenze, appalti....). Ma ciò fa in riferimento al terzo comma dell’art. 416 bis, che è quello dell’“associazione mafiosa”. Un reato oggi accettato acriticamente (al momento della sua definizione suscitò trent’anni fa molte perplessità) solo in Italia. I reati associativi sono una prerogativa della “costituzione materiale” italiana, per poter condannare chi si vuole, ad arbitrio. Può essere associazione mafiosa tutto: è attività
Non c’è da scandalizzarsi, se i parlamentari sono pronti per essere definiti associazione mafiosa. Ma non c’è da illudersi: ci hanno tolto la politica. Dopo la caccia ai mafiosi – se ne arresta qualcuno in Calabria, gli scarti, mentre da anni non se ne trovano più in Sicilia e a Napoli. Per il 416 bis è associazione mafiosa, nella sintesi di Cordova, “quella volta ad acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti e servizi pubblici, o di procurare voti a sé o ad altri in occasione delle consultazioni elettorale”. Mai confidarsi con gli amici…
Tenere i politici per le palle
Qui si apre un fronte sconfinato alla corruzione. Sotto le pretese di lotta alla corruzione. Altra sarebbe una lotta vera alla corruzione – per voto di scambio s’intende la corruzione elettorale (s’intendeva prima dell’imbastardimento mafioso: tutto è mafia…). Bobbio parte dal presupposto che ce ne sarà sempre in democrazia, dove cioè si sceglie col voto. Il grande scettico, studioso di Hobbes, non lo dice apertamente ma in più di uno scritto assimila la democrazia a “un grande e libero mercato in cui la merce principale è il voto”. In questa forma lo ribadì presentando nel 1983 la riedizione degli scritti di Gaetano Mosca, al punto in cui lo studioso delle élites critica il malcostume del voto di scambio, della compravendita del voto. Ma non c’è esempio di democrazia esente dalla corruzione. Cesare, spiega Luciano Canfora nella sua biografia, s’indebitò tanto, per farsi eleggere, che in caso di sconfitta sarebbe andato in bancarotta - Brecht ci ha scritto sopra un romanzo storico, “Gli affari del signor Giulio Cesare”. Ma senza scandalo, era la prassi a Roma già al tempo d’oro della repubblica. Sallustio, Tito Livio, Plutarco non si ricordano quando il voto di scambio è cominciato.

Quali i rimedi? Vari accorgimenti nei sistemi elettorali. E varie leggi che formalizzano il “voto di scambio”, la compravendita del voto, per perimetrarne l’estensione e comunque renderla nota. Negli Usa il finanziamento delle campagne elettorali è detraibile dalle tasse. È quindi doppiamente pubblico. È una forma d’investimento in lobbying, col crisma della legalità. Solo in Italia si pensa ai giudici: tengono i politici per le palle, per dirla alla Cordova?

Geniali, litigiosi, Weil

“Oh, che sciagura d’essere senza coglioni!” Così, con l’italiano della Vecchia Donna di Voltaire al cap. 11 del “Candido”, il relitto André commisera la figlia Sylvie, senza il cui sostegno non può fare un passo. Ma non diverte molto questa “famiglia Weil”: André e Simone sì, sembra che si divertissero, per molti indizi e qualche foto, Sylvie no. Il suo André è un egotista, sfrenato. Simone una fredda antisemita. Forse contro la volontà di Sylvie, figlia di André e nipote di Simone, ma questo è quello che si legge: il ritratto familiare (in traduzione presso Lantana) è desolante. Fino alle liti, con processi in tribunale, tra André e i genitori sull’edizione postuma di Simone. Notizia che Sylvie contiene in un paio di pagine, ma non può tacere di dire che dopo la morte di Simone André ne contestò l’eredità letteraria ai genitori, anche in tribunale, impedendo loro di vedere la “loro” nipote-sosia Sylvie – una vicenda che porterà presto alla morte “Biri”, il padre, l’amato nonno.
Due rognosi?
Il ritratto familiare è desolante soprattutto di Simone. Imbranata, forse ebete, perfino opportunista, un po’ folle. Viziata dai genitori, che coprivano ogni suo capriccio. Come ospitare in casa un ladro, che poi li deruberà. Una che voleva il fucile in Spagna senza avere mai sparato. E voleva farsi  paracadutare in Francia in guerra, così per gioco, come andare sulle giostre. Senza nemmeno sapere che fare poi in Francia, ammesso che non si fosse spezzate le gambe. Al meglio fuori dalla realtà: “Simone non pensava alle persone quali erano”. Non ebbe mai un pensiero per gli ebrei perseguitati – questo non è vero. Se fa qualcosa di buono, è per una mentalità ereditata. Simone Weil vista dispettosamente come (non) ebrea, è un’idea. Ma senza convincere.
Se e come salvare Simone dall’apostasia è, in positivo, alla fine, lo scopo di Sylvie, che sta imparando  l’ebraico e fa studi di ebraismo. Il padre le confida, prima di morire: “Fai quello che mia sorella avrebbe finito per fare, perché era onesta, nell’insieme”. Nell’insieme è stata dunque disonesta, essendo morta prima del tempo?
La reliquia della santa
Qualche motivo di dispetto Sylvie lo ha. Essendo cresciuta, a ogni istante della sua vita, in famiglia, a scuola, in società, negli amori, all’ombra della zia, cui pure somiglia. Si può dire anzi che sia nata in sostituzione. L’ultima lettera di Simone ai genitori lo diceva, come si conviene a una santa: “Avrete ora un’altra fonte di riconforto”, riferendosi alla nipotina di pochi mesi, e alla sua prossima morte, alla sua voglia di morire. Non è stato semplice: si può essere eredi di una dinastia di attori, musicisti, pittori, dentisti, avvocati, mobilieri, ma di una santa? La reliquia di una santa, si dice mesta Sylvie. Ne ha fatto una storia anche commovente in qualche punto, nella generale aridità: i tanti in cui le tocca essere la nipote sosia di una santa filosofa. Nonché figlia di un genio, matematico e quindi astratto, che non saprà mai in cinquant’anni dov’è la zuccheriera, nemmeno l’acetoliera.
Padre e zia Sylvie evoca come due fantasmi potentissimi a ogni piega della sua propria vita, ingombranti. A partire dai suoceri e i cognati, che non la vogliono assolutamente imparentata con Simone Weil, rinnegata, battezzata, antisemita e quant’altro. O dai suoi vent’anni anni a Parigi, quando scriveva il greco “come Demostene”, a giudizio degli ellenisti della Sorbona, ma la sua propria ambizione di ellenista fu troncata dal professore molto bene intenzionato che per proporre una tesi le chiese: “Allora, sarà Platone come sua zia, o Diofante come papà?” Così, con piglio narrativo – Sylvie è di suo letterata e narratrice.
Dov’è la zuccheriera?
Simone stessa fu costantemente preoccupata, seppure per un periodo breve, pochi mesi, del futuro destino della nipote, al fratello e ai genitori raccomandandone il battesimo, per allargare le chance di un buon matrimonio – i filosofi sono così nella vita pratica, sull’esempio di Platone? Dalla numerosa corrispondenza in materia Sylvie arguisce che la zia era infine a favore del battesimo cattolico, che non sarebbe stato considerato d’impedimento a un innamorato protestante.
Sotto il titolo “apprendistato” si pubblicano i ricordi, in realtà, di vita e passione scientifica di un matematico innovativo e insigne, non ultimo per essere stato il fratello maggiore di Simone Weil, nonché specialista di latino, greco e sanscrito. Da lui riordinati in tarda età, nel 1991, facendo largo spazio agli anni avventurosi, quelli della guerra. Che lo vide in Finlandia accusato di essere un spia di Mosca al momento della tentata invasione sovietica, nel 1939. Obiettore alla leva in Francia nel settembre 1939, fu arrestato a Helsinki come spia russa e condannato alla fucilazione. Poi trasferito, sempre in prigione, in Svezia, Danimarca, Inghilterra, e in Francia a Le Havre, fine gennaio 1940. Processato e condannato per renitenza a giugno, evitò la condanna portandosi volontario per il fronte. Smobilitato dopo poche settimane alla disfatta, finirà in un campo di transito in Gran Bretagna, in attesa di emigrare negli Usa. Indesiderato in Francia anche dopo la guerra, in quanto obiettore-renitente, lavorò un paio di anni in Brasile, e poi negli Usa, a Princeton. Ma i “Ricordi” si chiudono con la Bomba di Hiroshima, 1945, la sconfitta della scienza.
Di prima della guerra André ricorda il Gruppo Bourbaki, “pseudonimo collettivo”, annota  Sylvie in “Chez les Weil”, e nome del matematico immaginario Nicolas Bourbaki, gran professore in Poldavia, paese anch’esso  immaginario”, per innovare linguaggio e temi della ricerca,da lui fondato a trent’anni con altri matematici. Un uomo mai deludente: “Negli ultimi decenni della sua vita, aveva deciso che invece di deprimersi, come alcuni suoi vecchi colleghi, tentando di fare matematica con un cervello meno agile, si sarebbe riciclato – si esprimeva così”. E si rivoltò storico della matematica.
Due vite, tre, nella disgrazia esemplari per forza e capacità. Weil sono i Levi d’Alsazia anagrammati al tempo di Napoleone, dell’abolizione delle interdizioni israelitiche come invito all’assimilazione. In un ambito culturale, conviene ricordare anche per inquadrare le due figure di André e Simone, non conflittuale. Al Gran Sinedrio che Napoleone volle a Parigi nel 1807, nella chiesa sconsacrata di san Giovanni, il primo dopo la caduta di Gerusalemme nel 70, i convenuti, 71 rabbini e intellettuali ebrei, votarono il primo giorno un ringraziamento alla chiesa di Roma per avere sempre protetto le comunità nei luoghi da essa amministrati, in Francia in Avignone e nel Contado Venassino.
André Weil, Ricordi di apprendistato, Castelvecchi, p. 223 €
Sylvie Weil, Chez les Weil, André et Simone, Libretto, pp. 210 € 9

venerdì 9 agosto 2013

Il mondo com'è (144)

astolfo

Destra-Sinistra - Pasolini aveva la categoria dei “fascisti rossi”. La coniò, ingeneroso e anche sbagliato, per il movimento del Sessantotto. Ne fece architrave della sua antropologia: che l’Italia repubblicana si era mutata in peggio. Che il fascismo non aveva inciso nella natura del popolo, soprattutto nelle campagne – checché questa natura volesse dire, e anche il popolo. Ma la modernità sì. E l’ha fatto da vero fascismo, totalitario, imponendo modelli non contestabili. Così Pasolini stesso sintetizzava questa sua antropologia in un’intervista alla Rai:
“Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitata a ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione Ai modelli imposti dal centro è in condizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura  è compiuta”. Fascista dunque la modernità, un sinistra-destra totale.

Habermas parlò di “fascismo di sinistra” come di una categoria politica, Pasolini di “fascisti rossi” come di persone confuse e vittime della loro modernità. Tuttavia, nei gruppuscoli c’era molto di nazi-maoismo. Anche se in connubi diversificati: tra evoliani, superomisti, socialisti di Salò (A.Pennacchi) da una parte, e albanesi, castristi, stalinisti dall’altra. Si fecero convegni, qualche manifestazione anche, soprattutto agli inizi, alla Sapienza di Roma (prima che Almirante non entrasse all’università con gli squadristi per far venire allo scoperto i suoi, allora mescolati con i marxisti-leninisti, per non farsi sopravanzare dalle nuove avanguardie), e reciproche delazioni. Di queste sono intessuti, non provate e forse immaginarie, molti dei processi inconcludenti sul terrorismo “oscuro”, da piazza Fontana alla stazione di Bologna.

Internet – È come la finanza, crea e distrugge, senza limiti, senza censori, né guardi, né giudici. Pieno com’è di bucanieri, che si offrono suadenti (gratis) per poterti invadere. Dopodiché ti rendono la vita impossibile – impossibile scacciarli. È la piattaforma e l’emblema di questa epoca di mercati liberi cioè coercitivi.

Islam - Lo schema Noi e Loro non funziona. Il Loro è composito - il Noi pure, e anche molto. Le tesi di un best-seller alla Fallaci possono fare la verità, in un’epoca frastornata dalla “comunicazione di massa in massa”, dall’immediatezza, ma non sono la verità. Per la quale bisogna stare a pensare per un momento. 

“La crisi dell’islam” di Bernard Lewis è stata pubblicata ne 2003, nel dopo 11 Settembre, ma viene da lontano, dall’avvento di Khomeini, e resta incontestata. Sentirsi minacciati dall’islam è segno al più della pusillanimità dell’Europa, che avendo goduto di un periodo di pace senza precedenti ha dimenticato i veri conflitti. Il terrorismo è gangsterismo, nell’islam attuale, anche se beneficia, ha beneficiato fino a ieri, del sostegno di alcuni governi.

Ha una storia sempre intrecciata con l’Europa, nel Mediterraneo, nei Balcani e in Austria-Ungheria, fino a Vienna e a Poitiers: l’Europa dovrebbe rifare la sua storia, come sta rifacendo quella greca, riportandola all’Egeo e al Medio Oriente. Va rifatta per il Medio Evo, specie quella delle Crociate, per l’umanesimo, e per i secoli successivi. Una storia, quella euro-araba, antagonista per molti secoli, legata ultimamente, fino agli anni 1960, da una sorta di identificazione. Né va taciuto che Israele ha rappresentato la prima rottura in questo quadro, dopo la guerra lampo del 1967 e l’occupazione della Cisgiordania.
Il terrorismo è stato formato, e in alcuni casi armato, dagli Usa e dall’Occidente in funzione anticomunista, antisovietica e anticinese..

Negli snodi che la violenza che si appella all’islam ha coltivato c’è un ripensamento, per un raggiunto senso del limite nei rapporti internazionali, e perché il terrorismo inevitabilmente si rivolta contro i controllori (apprendisti stregoni). C’è una pausa, se non un ripensamento. Siria, Iran e Pakistan, che con diverse motivazioni e modalità hanno fornito mezzi, coperture e rifugio al terrorismo islamico in Libano, Israele, Palestina, Usa, Europa, e un po’ ovunque nel mondo islamico, riconsiderano in vario modo l’opzione.

Sassone – L’unità sassone è tendenza costante in Inghilterra. Non solo dinastica, della dinastia inglese proveniente dalla Bassa Sassonia – i Sassonia-Coburgo che nella prima guerra mondale si ribattezzarono Windsor. Se ne pregiarono molto i letterati del primo Ottocento, da De Quincey a Carlyle. L’unità di ceppo si vuole linguistica, e quindi incontestabile. Ma, più spesso che non, si applica anche a fatti politici. I due paesi furono in guerra nel 1914 con grande meraviglia del kaiser. Era stato inglese il teorico di maggior successo in Germania dell’“arianesimo”, Houston Stewart Chamberlain, che i germani avvinse al primato, e ne ebbe in sposa Eva Wagner quarantenne, non potendo per la faccia del mondo impalmare Cosima, la madre settantenne sua emula in “arianesimo”, Cosima Francesca Gaetana di Bellagio, dov’era nata a Natale, vedova del Genio.  

La “coesistenza concertata” tra l’Inghilterra vittoriana imperiale e la Germania di Bismarck, spiega Kissinger nel suo ultimo libro, “Cina”, fu alla base dell’equilibrio europeo nel mezzo secolo Excelsior e della pace perpetua, tra la guerra franco-tedesca provocata da bismarck col falso telegramma di Ems nel 1870 e il 1914. Ad agosto del 1914, ricorda l’ex segretario di Stato, i due paesi erano in guerra, a luglio ancora  negoziavano un prestito inglese alla Deutsche Bank per finanziare la ferrovia Berlino-Baghdad, progettata per cortocircuitare il dominio britannico del mare, almeno in Medio Oriente.

Si può aggiungere che nel 1939, ancora qualche giorno prima della dichiarazione di guerra, la Bank of Egland favoriva la Bundesbank di Hitler nel collocamento delle riserve di oro sottratte alla banca centrale della Cecoslovacchia invasa. Almeno quattro vendite favorite dalla mediazione britannica sono state censite.

astolfo@antiit.eu 

La Germania in cerca di romanzo, e di teatro

Il romanzo in Germania gemma nella seconda metà del Settecento, in ambito pietista. Di un luteranesimo cioè vicino al quietismo cattolico di Jeanne Guyon – come poi sarà dello”spirito del capitalismo” di Max Weber. Nasce di proposito, per mettere la Germania al passo con le altre letterature. In una col tentativo di creare anche un teatro tedesco, fin’allora inesistente. Autore Wieland, il primo traduttore tedesco di Shakespeare, con la “Storia di Agatone”, 1766-7, che Lessing dichiarò “il primo e solo romanzo per una testa pensante di gusto classico”. La duplice funzione fu assunta poi da Goethe, che suppliva al pietismo con la formazione classica e il gusto umanistico, insieme col sodale Schiller. Ne farà materia del suo secondo romanzo, dopo il “Werther”, anzi di un ciclo di romanzi.
Goethe avvia il ciclo seguendo la formazione di un giovane spirito appassionato di teatro, Wilhelm Meister. Seguendone cioè gli anni di formazione, l’adolescenza e la prima giovinezza. Non ancora il romanzo di grande respiro, che è sempre quello di una vita, di più vite, ma già caratterizzato. Il che in ambiente luterano e calvinista – il cattolicesimo conta poco nella letteratura tedesca – era pur sempre un’innovazione: l’introduzione del destino individuale nel destino. Il primo libro del ciclo era anche la perorazione di un “teatro nazionale”: Goethe lo intitolò “La vocazione teatrale di Wilhelm Meister” per analogia col titolo di una poesia, “La vocazione teatrale di Hans Sachs”, che aveva consacrato nel 1776 al grande poeta popolare tedesco del Cinquecento. Un “romanzo comico” nel senso di Scarron, un romanzo sul teatro.
Si spiega: coetaneo del romanzo è in Germania il teatro. Goethe, prima che poeta è stato e si voleva commediografo e drammaturgo – il “Werther”, benché subito famoso, era stato un caso. Il romanzo del teatro non è lettura esilarante, e anzi piuttosto noiosa, che solo l’identificazione con l’autore salva: Wilhelm è, in piccolo, un alter ego di Goethe, l’accompagna per tutta la vita attiva. Dapprima con la “Vocazione teatrale”, negli anni 1770-1780, che sono anche quelli degli appelli per un Teatro nazionale tedesco, dopo la scoperta di Shakespeare. Quindi, dopo un ventennio, con questo “Apprendistato”, 1795-1796, a seguito del viaggio di Goethe in Italia, della Rivoluzione francese, e del rapporto con Schiller, che gli cambiò molte delle  carte. Wilhelm è giovane, ama il teatro, e vuole fare l’attore e il regista. La famiglia l’accontenta, Wilhelm può disporre di un teatro di burattini, e con esso si addentra nella “via della perfezione”, direbbe un buddista, sposando la verità e la finzione. Nel terzo volume, siamo già agli anni 1821-1829, gli “Anni di viaggio”, tradotto solitamente “Anni di pellegrinaggio”, Wilhelm è adulto, è medico, professione a mezzo della quale coniuga meglio realtà e finzione, ha un figlio, e lo porta a imparare il mondo nel paese di Mignon – “Conosci la terra dove il limone….”, la ballata di Mignon che impreziosisce la “Vocazione teatrale”. Questo terzo libro è una serie di considerazioni senza più nemmeno la cornice romanzesca, se non per lo svolgimento delle argomentazioni in Italia.
Un romanzo “storico” lungo, da 1.500 pagine. Ma nel senso della storia della letteratura. La “Vocazione teatrale” ne era imbevuta. “Gli anni di apprendistato”, dopo l’esperienza pratica - di vita, di sensi e di spirito - in Italia sono un po’ più scettici. Succede a molti, dirà lo stesso Goethe ultrasettantenne negli “Annali”, d’imbarcarsi in avventure a loro estranee, per le quali non sono dotati, e tanto più per questo – è l’incapacità che crea l’errore. Succede anche di persistere “in una stessa direzione” sbagliata. Ma può anche succedere come a Saul figlio di Qish della Bibbia (nel “Libro di Samuele”), Goethe fa dire all’ultima battuta da Frederick a Wilhelm, “che era partito per cercare le asine di suo padre e trovò un regno”.
Il Teatro Nazionale si afferma nel secondo Settecento. È l’idea di Lessing a Amburgo, il cui Senato di ricchi mercanti volentieri glielo pagò. Durò solo un anno, il 1767. Nel 1776 ne creò uno Giuseppe II a Vienna. L’idea prenderà realmente piede nel 1779 a Mannheim: il teatro a cui collaborerà Schiller. Berlino si doterà di un Teatro con grandi ambizioni nel 1786, che poi affiderà al prolifico drammaturgo Iffland, proveniente da Mannheim. Nel 1791 toccherà infine a Goethe, già drammaturgo affermato, che ne aveva da tempo l’ambizione, di crearne uno a Weimar, su richiesta del duca, stancandosene presto. 

Wolfgang Goethe, Gli anni d’apprendistato di Wilhelm Meister, Oscar, pp. XXXII-680 € 12

giovedì 8 agosto 2013

Non è la crisi, è la fine

Non è come vent’anni fa, quando Fazio, allora governatore della Banca d’Italia, contò 1,7 milioni di posti di lavoro tagliati in diciotto mesi tra il 1993 e il 1994. È molto peggio, anche se i posti tagliati sono forse meno. E forse proprio per questo: la recessione è forte e pericolosa, ben più che nel 1992-1993, ma la reazione non c’è.
Allora, e per un lungo periodo, nessuno mancò al lavoro. Oggi negli uffici non c’è nessuno: l’assenteismo è tornato al 40 per cento nella Pubblica Amministrazione, statale e locale. E quando c’è qualcuno non lavora e non sa, sta lì per rinviare a altro ufficio, procrastinare, scovare un nuovo comma, far scattare l’orario di chiusura. I mezzi pubblici a Roma non arrivano mai, la metà degli autisti ogni giorno è in malattia.
Allora, all’improvviso e per un lungo periodo, ognuno seppe quello che doveva fare. Oggi alle poste, in banca, nei ministeri e perfino nei negozi, di abbigliamento, di scarpe, di automobili, il più delle volte è come sbattere in un muro, tra incapacità e malavoglia. Comprare una macchina Fiat è praticamente impossibile: del modello offerto a sconto non c’è più disponibilità, del modello nuovo nessuno sa nulla, quando si trova qualcuno per rispondere, le condizioni di vendita sarebbero da mercato saturo - attese, pagamenti, sovrapprezzi (l’ultimo concessionario sentito pretendeva che il prezzo di listino non comprendesse la verniciatura…).

Manca la cognizione della durezza della crisi. Sui giornali delle banche, che ci assediano con le berlusconate, e le antiberlusconate. Mancano i giovani: vogliono un lavoro, alcuni, non tutti, ma non lo cercano né lo preparano, né si adattano. Ottocento euro, mille, per un mestiere che non si conosce? In Spagna, in Grecia, in Irlanda, in Portogallo, dove la crisi morde sull’osso, sarebbero un  terno, è come in Italia vent’anni fa, la volontà supplisce ogni certezza. In Italia no, l’affluenza ha indotto l’inerzia: il lavoro non c’è, c’è troppo sfruttamento, non conviene, si vive meglio senza, la playstation, il telefonino, la pizza e il motorino sono assicurati, con la benzina. 

Il poeta si riscatta con l’invettiva

 “L’ultimo cavaliere del cielo\ giudicato dalla magistratura italiana,\ dichiara di non avere illusioni”. Sarebbe stato Delfini berlusconiano? Non avrebbe potuto, fu candidato socialista nel 1953 contro la “legge truffa” nelle liste di Unità Popolare. E solo si commuove per i moti di Genova, e i morti di Reggio, nel 1960. E poi era del 1907, avrebbe avuto 106 anni. Ma era arrabbiato, sotto la bonomia che esibiva. “Un mucchio di sospiri\ senza firma\ una rete di gioie\ senza piaceri\ valanghe di malinconia” lo seppelliscono in una delle prime poesia recuperate, di quando aveva 24 anni, intitolata “Non c’è niente da fare”. Coi giudici era prevenuto per motivi suoi, anche nella maturità le invettive sono feroci: “È morto il Procuratore del Re”, o “Sei disgraziato, giudice Grattini”.
Si ripubblica raddoppiata, con le poesie di prima e quelle successive, la prima e ultima raccolta che Delfini aveva approntato  nel 1961 e gli varrà il premio Viareggio postumo nel 1963 - un premio, oltre che alla memoria, di sostituzione, non potendosi dare a Piovene, come la giuria voleva, perché il finanziatore Olivetti (Arrigo, non Adriano) disse di no: questa vicenda lo avrebbe fatto infine felice, il ritardo e la sotituzione. Le ultime sono di un’amarezza sconfinata, si direbbero poesie dell’invettiva e dell’odio. Tali da trasformare il dandy oblomoviano, dalla tante idee non scritte, in un epigono, a distanza, di Cecco Angiolieri, un filone senza fortuna nella poesia italiana. “Me ne frego” è terrificante, una delle prime composizioni, che Delfini propone a “ballatella”. Precetto ribadito subito dopo da “Pierino”. Da giovanotto senz’arte con l’alfaromeo - lui si voleva flâneur baudelairiano, ma Baudelaire lavorava moltissimo.
Marcello Fois, uno dei prefatori, ipotizza “un imprinting lunatico” padano, comune a Zavattini e Guareschi, “nonostante la placida, ostinata e porosa orizzontalità della pianura”. E evoca la “rapidità vertiginosa”, che Natalia Ginzburg, editrice del Delfini narratore, vi aveva riscontrato. Ma allora in una con l’accidia. L’indolenza, il rinvio – “sento che potrei tacere benissimo”. Lui è contro il padanismo, al Signore chiede: “Vorrei tu mi armassi la mano\ per incendiare il piano padano”.
Irene Babboni, che cura questa edizione, mette curiosamente in rilievo la mancanza nel “poeta” di una cifra stilistica, volta a volta “manierista, lirica, romantica, crepuscolare, sghemba, sgrammaticata, scombinata, bettoliera, offensiva, innamorata”. Il nonsense si può aggiungere, in un paio di componimenti: Delfini riusa tutto, ogni lettura quasi copia e incolla. Abile anche nel collage vero e proprio: figurativo, dei ritagli, e verbale, di titoli, slogan pubblicitari, versi rubati. Ma questa dell’ira è bene una cifra,  contrariamente alla favola del Delfini modenese spensierato e anzi frivolo. Specialista dell’autoedizione, fino alla tarda scoperta da parte di Bertolucci – un quasi compaesano – Parma-Modena - anche se poi eletto a nemico sulla novella questione della secchia rapita, la Certosa di Parma stendhaliana che Delfini voleva a Modena. L’unico suo sbocco per molti anni fu “Il Caffè”, la rivista di Giambatista Vicari, un altro quasi compaesano, oggi dimenticata, ma benemerita per chi amava leggere qualcosa di reale-irreale, e di non omologato, inventivo, che negli anni 1950-1960 latitava, sotto la cappa del neo realismo. A lui la primizia del “voto nel cesso”, che l’opportunista Montanelli trasformerà nell’apologia del voto alla Dc: “Votate, votate, votate\ votate nel vaso\ ma con la mano lo scudo crociato\ segnate per caso”. È sul “Caffè” che Bassani lo ha scovato poeta, divertito e divertente. Ma isolato. Benché di natura socievole, e sempre nel posto giusto, a Firenze prima della guerra, a Roma e Viareggio dopo. Non apprezzato.
Nelle “Poesie della fine del mondo” l’annientamento viene dal rifiuto. Di una donna, da parte di lei. Giorgio Bassani – che editor, dopo Bertolucci, dopo Ginzburg, che tempi! – vi premise un distico di Noventa, “Saver de no’ esser gnente\ Xè scominziar a amar”. Ma è sbagliato. La “fine del mondo” non è della storia, della Bomba allora incombente, della natura. Niente di esistenziale in Delfini, cioè di metafisico, solo una donna che l’abbandona. Le poesie della raccolta, scandisce nella premessa, “sono state scritte dopo il 15 febbraio 1959, giorno dell’agnizione, del rifiuto da parte della “cialtrona Luisa B.”. Alla quale sono “dedicati” anche molti componimento esclusi dalla raccolta di Bassani.
Potenza dell’amore? Delfini è di meno, e in certo senso di più, tanto è immotivatamente alieno, odiatore sotto la bonomia e lo scherzo. Maledice già prima della fine del mondo. I mirandolani (-esi), di cui poi si vorrà paladino, i radicali, i liberali, la donna in genere (o era già Luisa B. nel mirino?), i comunisti e i democristi, i social-democratici – “Monarchico anafilattico,\ allergico repubblicano,\ idiosincratico socialdemocratico.\ Rimasto son solo”. E i giudici.
Antonio Delfini, Poesie della fine del mondo, del prima e del dopo, Einaudi, pp. XXIX+227 € 15,50

mercoledì 7 agosto 2013

Problemi di base - 149

spock

Questo Calderoli non sarà poi uno zingaro? Dei calderari.

È la Lega austriacante? L’ultimo Lombardo-Veneto si voleva austriaco: lì sono tutti bianchi, pallidi.

È l’Austria che si è annessa l’Italia, via il Lombardo-Veneto che ci domina?

Ora, dice Napolitano, urge la riforma della giustizia. Ora dopo la condanna di Berlusconi, e prima no?

Dice Esposito: ho fatto l’intervista perché il giornalista ci teneva. E la sentenza?

E se il giudice Esposito non avesse detto quello che ha detto nemmeno nella sentenza contro Berlusconi?

Nell’ultimo Montalbano, il dottor Pasquano si fa portare a Ferragosto una guantiera di cannoli, e se li pappa dopo l’altro. Montalbano ne ha mai mangiato uno?

Dobbiamo proprio crederle tutte?

Pignatone alla Procura, Marino al Campidoglio, Alfano a Palazzo Chigi: è Roma o è la Sicilia?

È Crocetta la croce della Sicilia?

spock@antiit.eu

Il giallo è nella psicologia

Non un giallo: la fine è a sorpresa, ma non c’è da prevederla. È un esercizio da levare il respiro dell’intrigo psicologico di cui la scrittrice canadese è maestra. Tutto rapido, e quasi in presa diretta, nel dialogato costante che la caratterizza. Cominciando da una telefonata inattesa: “Ho una palla di cristallo. Ti vedo, limpido e chiaro”. È tutto reale, è tutto immaginato? Ma poi le cose avvengono.
Il titolo originario è “Beast in view”, Millar non nasconde niente. Anche lo sdoppiamento, non è un artificio, e non è una novità, ma funziona. Solo resta da sapere: lincidente sanguinoso di cui la protagonista è vittima (o la vittima protagonista) è avvenuto o da venire?
Margaret Millar, Quando chiama uno sconosciuto, Polillo, pp. 200 € 14,40

martedì 6 agosto 2013

La sentenza telefonata

Il giudice Esposito della Cassazione, che ha condannato Berlusconi, non si può dire che sia stato vittima di un’intervista rubata, avendo parlato col “suo” “Mattino” per due pagine, e cioè per almeno un’ora: ha detto ciò che ha voluto. Deve smentire per evidente impulso esterno di aver basato la condanna sul “non poteva non sapere”. Di qualcuno che lo ha rimproverato: “Che scemenza hai detto”?
C’è una Spectre in questa giustizia - militare, civile? Sì, c’è, si sapeva, Esposito è solo una piccola conferma. E non solo nella giustizia, dove comanda le sentenze, non c’è altra parola: contro alcuni sì, anche senza prove, contro altri no, anche con le prove. Il braccio specializzato è Milano. Ma tanto più influente è stata sulla sezione feriale della Cassazione, che in un ambiente di volponi è cinque giudici poveretti, cui tocca sorbettarsi le sentenze che agli altri non interessano, una diecina al giorno, nei due mesi che gli altri stanno beati in vacanza.
Ma di che natura la Spectre è, che obblighi comporta, a che livello si responsabilità fa capo, questo non è chiaro. L’intervento sul giudice Esposito dice che la Spectre è autorevole, e tassativa. Tanto più in quanto teorizza un ridicolo dovere di riservatezza sulle sentenze. Che invece devono essere pubbliche, e con linguaggio non pagliettistico ma comprensibile, spiegabili, spiegate. Tanto più, ancora, in quanto lo teorizza solo in questo caso, temendo un backfiring, mentre invece è maestra e padrona di indiscrezioni e colpi proibiti, per i buoni uffici dei famigerati cronisti giudiziari.
Il passo falso con la sentenza e l’intervista di Esposito è evidente per una “finezza”. Anzi due. Esposito non è, non è più, il tipo da esporsi in un’intervista: l’ha fatta non per illustrarsi ma per bilanciare in qualche modo l’offensiva propagandistica che Berlusconi ha montato sulla condanna. L’ha fatta su richiesta, cioè. La finezza è che il “non poteva non sapere” è architrave della giustizia a Milano. Ma è un mostro giuridico, e dopo tante condanne in suo nome si vuole ora soprassedere, almeno nella fattispecie, l’Europa potrebbe obiettare.
La finezza più importante è però la terza che non si può dire: l’avere assegnato alla sezione feriale il processo Berlusconi al posto del suo giudice naturale, la seconda o la terza sezione della Cassazione. Per un motivo che non si può dire ma si sa: che queste sezioni in altri procedimenti non avevano avallato il non può non sapere. Dirottare un procedimento su una sezione prestabilita è un fatto gravissimo. Ma non per i napolitani che ci governano. Putipù.

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (178)

Giuseppe Leuzzi

Sette volumi grandi, il rifacimento di tutta la storia greca, diecimila pagine, Salvatore Settis ha ordinato e coordinato dieci anni fa la ciclopica opera “I Greci” di Einaudi, senza la Magna Grecia. C’è la Siria, l’India, la Macedonia di Filippo, il Mar Nero, con gli Iberi, i Celti, gli Arabi e gli Sciiti, ma non c’è la Calabria, o Napoli, e nemmeno la Sicilia. Giusto due cartine, stinte, nell’“Atlante” di oltre mille pagine. Una dimenticanza non trascurabile, e un errore grossolano d’impostazione. Ma l’odio-di-sé smuove le montagne – è un terremoto, le cancella

Schiavo, Schiava, Schiavi, Schiavone, Lo Schiavo, siamo anche slavi.

In Germania il Sud sta a Nord. Saranno commissariate e forse chiuse, abolite, quattro o cinque regioni del Nord che non sanno contenere la spesa: Berlino, Amburgo, Brema, Nord Reno-Westfalia e Sarre.
Berlino ha anche il record dei disoccupati, il doppio che in Italia, il 20 per cento, una percentuale quasi spagnola.

L’autostrada della fine del mondo
Uno della Lega che si facesse la Salerno-Reggio Calabria arriverebbe col fiele agli occhi, senza più fegato. Una sessantina di km. a tre corsie larghe, da Salerno a Sicignano, più la corsia di emergenza. A due corsie (quasi tutte) larghe, con corsia di emergenza, il resto: 443 km. di autostrada gratis, con ottimo manto stradale. Nel potentino ci sono delle curve, me ne è piena anche la Milano-Serravalle, 135 km, una gimkana intasata del 1935, o la Firenze-Bologna, 114 km., da provare per sapere cos’è l’inferno, o la Firenze-Mare, che si pagano pure. Mentre le altre autostrade dell’Anas al Nord, anche se siglate pudicamente del tipo E invece che A, per esempio le trafficate Grosseto-Rosignano, da e per Roma e Genova, 112 km, e Terni-Ravenna, 250 km, da e per Roma con la Romagna e il Veneto, hanno il fondo stradale pieno di buche, da sempre.
La Sa-Rc è criticata come fonte di corruzione e mafia, e come opera tecnicamente (sociologicamente, strutturalmente, progettualmente) sbagliata e pericolosa. Questo secondo motivo essendosi rivelato boomerang, poiché è probabilmente la strada coi viadotti più alti di tutta Europa, tutti a tenuta, eccetto uno, questa seconda critica susside. Ma è seconda nell’abominio solo, o alla pari, col porto di Gioia Tauro. Con più continuità, dato che devono percorrerla i siciliani, che sono molti e sempre si lamentano.
A differenza del porto l’autostrada è però anche oggetto di studi sociologici, storici, e tesi di laurea dell’università della Calabria, che editori nazionali pubblicano. Un campo di esercitazione intellettuale, dunque. La cosa è curiosa perché, oltre che far imbufalire il leghista che vi si avventurasse per la comodità, gratuita, la Salerno-Reggio non si è mai segnalata per il malaffare, non più di altre opere pubbliche. Anzi molto meno della Grande Opera Inutile di Malpensa, del Mose a Venezia, della stessa Expo milanese. Né alla costruzione, negli anni 1960, su impulso di Fanfani e di Mancini, né nell’ammodernamento in corso dal 1999 – in questi 14 anni sono stati denuncati una quarantina di mafiosi, balordi compresi, niente. È odio-di-sé costante, inesausto? È sudditanza, ai modelli culturali del Nord (articoli di giornale)?

Volendo, si potrebbe portare la Salerno-Reggio Calabria a modello. Appaltata nel 1964, due anni dopo era realizzata fino a Lagonegro, 170 km. – distanze oggi da sogno, negli appalti post Tangentopoli. Ancora due anni ed era arrivata a Cosenza, con gran numero di viadotti altissimi e gallerie lunghe.
Un anno, e arrivava a Gioia Tauro: in sette anni, dal 1962 al 1969, erano stati costruiti 390 km. d’autostrada. I restanti 50 km presero tre anni, per due terzi su alti viadotti o in galleria.
La Variante di valico, tra Firenze e Bologna, una novantina di km., è in lavorazione da quindici anni, quasi venti. E nessuno ne sa nulla.

Prigionieri del santo
Rocco, il bagnino, è avventista. Poiché san Rocco è il patrono del luogo, il giorno della festa tutti gli fanno gli auguri – e sono molti, la festa cade il giorno dopo Ferragosto. Lui lascia cadere con una smorfia, o si limita a dire: “Non è il mio santo”. Ma si vede che soffre a essere prigioniero di una categoria. Che comunque gli va stretta, essere acattolico come essere cattolico.
Ci sono categorizzazioni larghe, lasche, generiche: etichette che non pesano e anzi aiutano. Semplificano la vita, la comunicazione. Esssere italiano, o europeo, essere giovane, o anziano. Non sono connotanti, o semmai debolmente. Altre invece imprigionano. Essere protestanti in terra cattolica. O cristiano in terra islamica. Esteriorizzano, confinano. Ora, nuovamente, essere ebreo si suppone, anche in Israele oltre che fuori, nell’ormai millenaria dispersione. Ciò avviene quando la connotazione si vuole radicale, totale, una bolla che isola, seppure in un empireo, per privilegiare. Figurarsi quando è peggiorativa o cattiva. Meridionale, per esempio, è un rifiuto, una condanna.
Farsene una corazza sarebbe un primo passo verso lo sviluppo.

Calabria
“L’orgoglioso Crati, gonfio della acque dei disciolti ghiacciai dello Stige” ha Anatole France, “La rivolta degli angeli”, 170. C’era da aspettarselo, che venivamo direttamente dall’inferno. O quello è il fiume Crati dell’Achea?Il nostro si è perduto a Sibari, con tutta la Sibari classica. 
Secondo Euripide, le sue acque fanno i capelli ramati, che oggi sarebbero un capitale. Secondo Plinio il Vecchio fa invece le pecore bianche. Anche questa è un a qualità da non disprezzare.

Si sentono citazioni di libri nelle conversazioni, anche modeste. La cosa è tanto più curiosa per essere la nostra la regione dove meno si comprano libri. Eccezioni? Si compra quel (poco) che si legge? O è la scuola, le (poche) trace che dà sono indelebili?

Il Comune ha rifatto due anni fa l’illuminazione del viale con fanali primi Novecento: fanno una luce più calda, che si ritiene possa aiutare l’umore n paese nei lunghissimi inverni, disabitati.. Ora tutti i fanali hanno i vetri rotti: i tre che danno sulla strada, resta intatto quello esterno, verso la scarpata. I sassi si possono vedere da un punto d’osservazione elevato dentro le lanterne.
Si rompevano i fanali nelle rivoluzioni. Già a Parigi nel 1789, e poi in tutta Europa a ogni rivoluzione.
Ora le famiglie ritengono giusto che il Comune sostituisca i vetri rotti, per il decoro.

L’Italia sa che il Museo archeologico di Reggio è in via di rifacimento da sei anni, con i Bronzi adagiati in una sala di Palazzo Campanella, sede della provincia, o della Regione, visibili per le piante dei piedi, che il rifacimento è in ritardo, per la solita questione italiana degli appalti, il cui costo si moltiplica in corso d’opera, e che la riapertura, prevista per il 2013, ritarderà di due anni. A Reggio invece si discute se ampliare il Museo, e come, e dove: ognuno ha la sua idea, e i lavori devono ancora cominciare.   

“Corriere della Calabria”, il settimanale lombardo-calabrese di Paolo Pollichieni, è cinquanta pagine di delitti, di oggi, di ieri, e di avant’ieri, locali. Ci si rilassa alla fine, con Nina Moric, vestita, che apprezza un sarto calabrese di Milano, e Carmen Russo.

Siamo figli di madri vedove. Nel 280 a.C. la guarnigione romana di Reggio, costituita da Mamertini, mercenari italici della Campania, pensò di rendersi la città, scontando l’indebolimento di Roma sconfitta quell’anno da Pirro alla battaglia di Eraclea. Uccisero perciò gli uomini, impossessandosi dei beni e delle donne. Gli era andata bene a Messina otto anni prima, quando avevano fatto la stessa manovra alla morte di Agatocle tiranno di Siracusa, per conto del quale presidiavano la città dello Stretto.
Con Roma gli andò male: sconfitto Pirro nel 275, la città pensò di riprendersi, con gli altri ribelli italiani, anche Reggio. Nel 270 il console Gneo Cornelio Blasione se ne impossessò dopo un breve assedio, e deportò gl uomini – quelli che erano sopravvissuti dei quattromila mamertini originari.

leuzzi@antiit.eu

Nacque a Capri il partito-chiesa - in salsa tedesca

Si fece scuola di rivoluzione a Capri un secolo fa, una Scuola della tecnica rivoluzionaria per la preparazione scientifica dei propagandisti del socialismo russo. Detta anche della “costruzione di Dio”, secondo una formula di Gor’kij. La fondò Gor’kij con altri futuri rivoluzionari, Bogdanov e Lunačharskij, cognati, e Vladimir Bazarov, figlio del medico di Tolstòj. Sul presupposto che la lotta di classe si poteva popolarizzare solo andando incontro ai sentimenti del popolo, meglio stratificati dalla religione. Nacque a Capri, può scrivere Sangiuliano, “quella tendenza che avrebbe fatto diventare il comunismo, soprattutto con Stalin e con l’italiano Togliatti, una sorta di religione, un’altra Chiesa”.
Gor’kij tentò di coinvolgervi Lenin. Il quale fu contento che altri vi si impegnassero, dei concorrenti in meno, ma se ne tenne lontano. A Capri pescò, remò, giocò a scacchi, fu intrattenuto da Scialiapin e altri cantanti meno famosi, intrattenne la bella amante Inessa, fu a teatro a Napoli e all’opera al San Carlo. E ci ritornò, tornò sull’isola. Anche dopo che la Scuola fu inaugurata, il 5 agosto 1909, per una trentina di operai e studenti, alloggiati confortevolmente, ed ebbe successo. Malgrado le lettere di protesta indirizzate a Gor’kij e agli studenti. Anche dopo che ebbe espulso Bogdanov. Vi trascorse sei mesi nel 1908, e ci ritornò per dodici giorni il 18 giugno 1910. Sconosciuto ai più, anche alla polizia che sorvegliava i fuoriusciti russi. Forse perché garantito da Gor’kij, che lo ospitò nella magnificente Villa Blaesus, la sua residenza. Gor’kij, malgrado le note simpatie rivoluzionarie, era stato ricevuto a Napoli e poi a Capri nel 1906 con grandi celebrazioni, dai socialisti e anche dalle autorità. ed era nell’isola ospite ricco e onorato. O forse, ipotizza Sangiuliano, per contatti coi tedeschi che “abitavano” l’isola letteralmente, i grandi industriali, i politici, i militari – il secondo soggiorno è in effetti troppo breve per le abitudini del tempo, sembra un viaggio d’affari.
Di Lenin a Capri si sa. Ne ha scritto Gor’kij in “Lenin”. Quarant’anni fa Bruno Caruso, “Lenin a Capri,. Intellettuali, marxismo, religione”. Vent’anni fa Vittorio Strada, “L’altra rivoluzione. Gor’kij, Lunačarskij, Bogdanov. La «Scuola di Capri» e la «Costruzione di Dio»”. Sangiuliano ne fa un racconto snello. Sottolineando il coté alto borghese, da ogni punto di vista, della colonia russa a Capri. E una serie di indizi che pongono a Capri la continuazione dei contatti di Lenin con lo Stato maggiore dell’esercito tedesco. Sponsorizzati da “Parvus”, Israel Lazarevic Helphand. Altro personaggio a suo modo straordinario - su questo sito è in sintesi a http://www.antiit.com/2012/03/il-mondo-come-87.html. Contatti che non sfuggivano ai servizi inglesi, a Capri e altrove in Europa, le cui note informative Sangiuliano riproduce, in esteso e in fotoriproduzione.
Nel secondo soggiorno a Capri Lenin aveva al seguito “Soso”, un taciturno georgiano che poi sarà Stalin. Che non apprezzò i russi del’isola, ancorché rivoluzionari. Se ne ricorderà nel 1936, quando decise le purghe su larga scala.
Gor’kij fu a Capri dal 1906 al 1913, scrittore pingue di diritti d’autore – benché Parvus, che doveva amministrarglieli in amicizia, se li fosse in parte intascati (o li avesse girati al Partito). Nel 1924 avrebbe voluto tornarci: sconsigliato dalla prefettura, si stabilì a Sorrento, dove restò fino al 1933. Il ritorno di Gor’kij in Russia, lasciata Sorrento nel 1933, per esservi celebrato da Stalin, e poi probabilmente assassinato, è un altro capitolo che merita di essere raccontato – su questo sito è qui
http://www.antiit.com/2012/04/il-mondo-come-89.html
e qui
http://www.antiit.com/2012/04/il-mondo-come-91.html
Gennaro Sangiuliano, Scacco allo zar. 1908-1910: Lenin a Capri, Mondadori, pp. 154 € 18,50

lunedì 5 agosto 2013

L'Imu cambia l'Italia

Addio seconde case, che per una buona metà sono le vecchie case di origine, di famiglia, di paese, addio vecchi paesi: l’Imu trasforma il paesaggio italiano. Mantenere la casa di famiglia, tenerla agibile, per aprirla una o due settimane l’anno, costa. Ora costa di più, e inutilmente. In molti Comuni il fenomeno è già avvertito, l’attesa è che si generalizzi: i tre italiani su quattro che sono emigrati, di prima o seconda generazione, abbandonano la casa paterna. Dispossessandosi il più delle volte, col rifiuto dell’eredità e in altre forme, poiché delle case vecchie nei paesi non c’è mercato: lasciando gli immobili al deperimento. Si perderà con la casa anche il senso delle origini? È inevitabile. Avverrebbe, potrebbe avvenire, lo stesso ugualmente, anche mantenendo la proprietà della casa dei nonni o dei bisnonni, di perdere il senso delle origini. Ma con l’urgenza di liberarsi della casa il processo si affretta, in un tempo non lungo. Sarà presto un’Italia sradicata, metropolitana o comunque senza radici. Che sono state finora la sua forza, anche nella modernità. Crescere in un luogo proprio, con la piazza e la fontana, magari con le najadi. Far valere la tradizione. Un’Italia finalmente sradicata, tutta casa e Imu: il pensiero dei tecnocrati è sempre corto, da apprendisti stregoni.

Se l'amore è un tormento, non banale

L’editore prosegue la pubblicazione dei racconti dell’autrice di “Suite francese”, per lo più inediti in Italia, con un programma che si annuncia esaustivo. Ma “Giorno d’estate”, il titolo della raccolta, è già uscito da poco in traduzione da Elliot, nella raccolta “Un amore in pericolo”. Ripropone il tema, nodale nella scrittrice, della figlia non amata dalla madre. Insieme con quello dello strano destino della coppia, che crea infelicità – o dell’amore, che pure non costerebbe nulla, solo un po’ meno capricci. La bambina apre il racconto felice, sicura che i genitori e la natura tutta siano solo occupati a festeggiare il suo compleanno. Mentre il padre pensa che “certe unioni sembrano risvegliare nell’anima un dolore sordo, come il basto ferisce il fianco delle bestie appaiate”. E discute sottovoce con la madre l’opportunità di lasciarsi, contrario a “questa specie di felicità calma e uggiosa che chiamano l’amore felice”. “Domenica” ripropone l’infelicità dell’amore nel giorno della festa. L’attesa gioiosa della figlia all’appuntamento mancato. Il ricordo delle attese felici della madre, che il marito lascia per correre dall’amante: una donna che “non ama l’amore”, non più.
Anche “Legami di sangue” è stato tradotto di recente, sempre da Elliot – è un racconto lungo che troverà un’architettura più solida nel romanzo “Il calore del sangue”, uno dei meglio riusciti. Ed è il terzo tema dominante della narrativa di Irène Némirosky, dei misfatti della consanguineità, dei legami familiari, anche se senza colpe specifiche.
Laure Adler dice Irène Némirovsky “la scrittrice della solitudine caparbia”. Una solitudine che oggi si potrebbe leggere come “un richiamo e un’elevazione di se stessa”. Ma si dovrebbe dire il contrario: non la solitudine, subita o esibita, ma l’insofferenza a essa, così “irragionevole” di fronte all’amore e all’amicizia. Anche nella coppia. Per un ricorso naturale agli altri, spontaneo, in lei caratteristico nel ritorno costante alla felicità dei vent’anni, in quanto schiudersi alla vita, pieni di umori e di energie. Che non è banale come sembra: è come uno scalatore che non trovasse appigli solidi sotto i piedi ma s’intestardisse nella scalata.
È questo il proprio di Irène Némirovsky, dell’opera come della vita: l’insofferenza al rifiuto dell’amore, al suo travisamento, alla dispersione. Il suo tema. Più discussa, a motivo dello scandalo, per i temi di contorno, il rifiuto reciproco con la madre e il rifiuto dell’ebraismo, ha il suo filo conduttore nelle pene dell’amore. Nei tanti modi in cui l’uomo si rifiuta a questo che è il più bello dei suoi doni esclusivi, più del pianto o del riso, e per nulla oneroso. Visto con l’occhio del bambino, che resta ingenuo anche nella contemporaneità sospettosa, e dell’adolescente in fiore.
Sul rapporto suo proprio con la madre, la scrittrice aveva ampia materia. Sull’ebraicità come condizione esistenziale non era sola, e forse non lo è neanche oggi, che l’argomento è più sensibile. Il rifiuto non è della cosa, ma dell’identificazione-costrizione. Di una condizione a cui si viene costretti, quasi come un’imputazione di colpa. Ci sono connotazioni che non costringono, larghe, lasche, che si possono apprezzare o rifiutare senza danno, e altre che invece – solitamente politiche, religiose o razziali – sono una specie di prigione, di per sé, anche senza cattive intenzioni, e tali si manifestano quando sono rifiutate.
Irène Némirovsky, Giorno d’estate, Passigli, pp. 154 € 14,50

domenica 4 agosto 2013

Il Lord Protettore

La Costituzione antifascista
Ci fascistizza, poveri cristi,
Dai soavi potenti schiavizzati
Costituzionalmente starnazzanti

Del Lungo Parlamento Rodotà
Autoeletto Protettore ci minaccia
Col fascismo riaprendo la caccia
Antifascista che Pasolini sdegnato
Denunciò il 16 luglio del 1974,

Cinquant’anni presto di terrore.

Ombre - 185

Napolitano s’impegna per la riforma della Costituzione, Rodotà definisce la riforma “una follia politica”, e anzi “un colpo di mano estivo”, bloccato “per merito di 5 Stelle e Sel”. Dunque, eravamo veramente alla guerra civile? Per mano del Quirinale poi.
Poi dice che Berlusconi vince le elezioni. Con questi oppositori non c’è che da mandarlo ar gabbio.

“Pronto a tutto” si dice il segretario del Pd Epifani, ex segretario della Cgil. “Anche a non accettare provocazioni”. È rimasto indietro?

L’agenzia di stampa dei vescovi, informa “Repubblica” sollecita, mobilita i credenti contro Berlusconi: bisogna “attrezzarsi a battere Berlusconi”. In questo caso non c’è ingerenza, “W il vescovo”. Sapore d’infanzia.

Dunque la colpa del fallimento del Monte dei Paschi è dei berlusconiani, Gianni Letta e Verdini, e degli ex comunisti del Pd, D’Alema e Veltroni. È la verità di Gabriello Mancini, di cui si tace che è il democristiano del Pd nella lottizzazione Mps. Ed è la verità della Procura senese.
Lo scandalo configurava – configura – la nuova politica, con i nuovi-vecchi Dc all’assalto. Si basa anche su un esposto anonimo, da manuale.

Berlusconi è una decisione presa prima. È evidente: urgenza, sezione feriale (solo i poveri cristi lavorano col caldo nei tribunali), giudici annoiati, per quattro arringhe di tre ore l’una, che nessuno ascolta, sentenza scritta dall’accusa, pronta e provata per l’ora del tg.
Facciamo finta di niente perché il condannato è Berlusconi. Ma la condanna è mirata a sciogliere il Parlamento, per evitare i referendum sulla giustizia.

C’erano una quindicina di persone lunedì – tredici per l’esattezza – davanti al palazzo della Cassazione a piazza Cavour, nessuna di loro con aria innocente, a inalberare cartelli per la condanna di Berlusconi. Per non molti minuti – faceva molto caldo. Il tempo della foto, giusto per consentire a “Repubblica” “Corriere della sera” e “Messaggero” di immortalarla. Sotto il titolo: “Il popolo viola”.
Una parola nobile, il popolo. Berlusconi la usa meglio – la propaganda bisogna saperla fare.

“Un’aura di leggenda con mille ospiti in abito da sera. Gruppi elettrogeni per illuminare i boschi e le colline. Fontane luminose danzanti secondo musiche di Haendel. Padiglioni e discoteche per anziani e per giovani. Cubiste rigonfie sotto bolle  giganti”. Una festa di Berlusconi? No, manca Zappadu. È una “cara memoria” di Arbasino, sul “Corriere della sera”, del debutto di una signorina che non nomina, in Maremma, a margine del festival di Spoleto, una cinquantina d’anni fa.

La Procura di Palermo smentita da Riina, un mafioso. Presa in castagna come imbrogliona – Riina che si confida con le guardie carcerarie…. Sullo Stato-mafia, in cui la Procura accusa lo Stato e non la mafia. Sembra di sognare.

L’avvocato Flick, un gentiluomo, smentisce Di Pietro che volteggia sul cadavere di Raul Gardini. L’avvocato, poi ministro della Giustizia con Prodi, non apprezzava i giudici di Mani Pulite, ci aveva fatto sopra il calembour: “Mani Pulite, tasche piene” – degli avvocati. Ma neanche lui, come Prodi e tutto il “Centro”, ha osato opporsi. Dire per esempio la verità.

Chi vuole male alla Germania?

Germanista di cuore oltre che di studi, Bolaffi si spende in difesa della Germania. E della “nuova Europa” che sarebbe nata dopo la caduta del Muro nel 1989. Non più quella “di sangue e di ferro”, dice alla tedesca, che sarebbe stata creata nella guerra fredda, con la Germania divisa. Anche se, bisogna aggiungere, col contributo decisivo della Germania, allora nella versione mite di Bonn, renana, del vino e non della birra.
Bolaffi non dice qual è la nuova Europa, ma ci arriva con un lungo excursus sulla storia della Germania che dovrebbe esserne il preludio. Comunque utile, anzi necessario, perché il germanista  ha ragione, della Germania soprattutto non sappiamo nulla.
Sarebbe proprio il caso di addentrarci sulla Germania qual è oggi, non al tempo di Goethe e dei limoni. O della Toskana Fraktion, succeduta a quella romagnola. Nemmeno quella di Arminio naturalmente, del ferro e fuoco. La Germania che vola sullo spread, accoppiata al deutscher Michel lagnoso, cui tutti mettono le mani in tasca. 
Angelo Bolaffi, Cuore tedesco. Il modello Germania, l’Italia e la crisi europea, Donzelli, pp.V-265 € 18