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sabato 24 settembre 2016

Per la vecchiaia ancora uno sforzo

“La vecchiaia è come l’esotismo: gli altri visti da lontano con gli occhi dell’ignorante. La vecchiaia non esiste”. L’antropologo non si risparmia alla fine la bacchettata del maestro. Ma non è così semplice come – convinto? – mostra di credere. La sua fine del resto non è una consolazione: “Che ce ne si rallegri o che lo si deplori – questa constatazione ha un lato crudele – bisogna ben ammetterlo: tutti muoiono giovani”.
L’indagine sul campo di Augé comincia e finisce con le vite dei gatti, che l’antropologo ha avuto modo di asseverare da ragazzo, e poi ripetutamete. Delle gatte: “Ognuna di esse ricominciava ogni volta la stessa avventura: le birichinate dei primi mesi, i privilegi della maturità, lo stesso progressivo affievolirsi delle forze e, sempre, la stessa serenità”. Ma, lui per primo lo sa bene, a differenza dei gatti, “il problema degli esseri umani” è che “hanno bisogno degli altri per vivere appieno”. E allora invecchiare è anche questo: “sperimentare nuobvi rapporti umani”. Un privilegio? È dubbio.
L’età è anche l’epoca dei ripensamenti – dei riesami. Delle porte girevoli: se avessi fatto, se avessi detto, se fossi stato, se avessi potuto, se non avessi. Nel lavoro, negli umori, nelle passioni, gli alberi che abbiamo piantato, o non abbiamo, la casa che abbiamo costruito, e l’altalena incessante degli affetti. Tutto vero, ognuno lo vede nel quotidiano, ma l’inventore dei “non-luoghi” non sembra avere scoperto l’età, o sennò di malavoglia.
Il grosso della trattazione è ananke, modo di essere, più o meno soddisfacente – in mezzo alla rivisitazione dei classici in argomento, che Augé privilegia, da Cicerone a Rousseau e Leiris, passando per Baudelaire, Benjamin, Zweig, Mauriac e Beauvoir: le malattie o il salutismo, le forze declinanti o le nuove energie, il pensionamento, la solitudine, la famiglia. Una raccolta umorale, rapsodica, non di ricerca. Se non per il saggio iniziale, dell’età ora sottoposta a giudizio, inteso come condanna, da parte del giovanilismo. Che al meglio la confina nell’inutilità, coi fervidi “Nonnino! Nonnina”. Rovesciando il veccchio cliché.
È così. Ma questo per la verità non da ora: dal Sessantotto. I cui protagonisti – i rovesciatori - sono ora i “nonnini”. Anche se, è giusto notarlo, il declivo si è irrigidito per l’allungamento dell’aspettativa di vita, in mezzo secolo molto cresciuta: “L’età avanzata è divenuta banale e ha perso la sua caratteristica di eccezionalità”. Non c’è più virtù nella vecchiaia, l’allungamento della vita l’ha resa anzi un epso. L’ha relegata, nota Augé, in “una sorta di casa di riposo semantica” – più spesso, va aggiunto, a opera dei più benevolenti, familiari, autorità.
Col tempo ci giochiamo, con l’età no, così Augé entra in argomento: “Il tempo è una libertà, l’età un vincolo” – è “la spunta minuziosa dei gironi che passano”. Ma no, esiste la dépense anche in età, il mancato calcolo, l’avventura, l’inizio. E la giovinezza non è quella degli anni. Che sola si rimpiange, secondo prassi. È invece la voglia di vivere. Che è effetto dell’esperienza di libertà, e dell’immaginazione. Per i Greci un tempo fuori del tempo, il kàiros che tutto tiene sospeso e quindi psosibile. È il coraggio, e l’avventura, dello spirito, se non delle gambe o del corpo - è non adagiarsi.
Marc Augé, La vecchiaia non esiste, Raffaello Cortina, pp. 104 € 11

Il mondo com'è (277)

astolfo

Avvenenza – È l’unico requisito per fare politica e giornalismo, le professioni della visibilità. Femminile più che maschile – ma i sono codici e una cosmetica anche per i maschi. Ma soprattutto giovanile. Non c’è più il corrispondente o inviato in età, un caratterista spesso della politica, che diceva cose memorabili, solo figurini. La stessa Rai nasconde quelle – e quelli – che ha in organico non più scintillanti. Lo stesso Grilo, dacché da contestatore è sceso o salito in politica si fa ritrarre nuotatore, alla maniera di Mussolini e Mao, improbabile motociclista (dove la mette la scorta?), e in macchina solo con una Panda, prima serie, e improbabile passeggiatore in spiaggia di prima mattina. Per non dire del papa. Politica e informazione vanno assottigliate, cose se si praticassero per caso, per grazia innata: l’esame lo passa l’avvenenza..

Birtherism – Un neologismo, “nascitismo”, per una vecchia pratica, per lo meno in politica: la questione che ora Trump dichiara chiusa è un classico della politica. La questione è di Obama, se è nato negli Usa, e se non  nato mussulmano. La questione “di chi sei figlio”: dell’ascendenza, e dell’identità allargata, familiare e tribale (nazionale). Di tanti re si sono sempre messi in dubbio le ascendenze reali, in Russia, in Francia, a Roma, se la vestale Rea Silvia fu la madre di Rea Silvia, e il padre fu Marte oppure uno stupratore, e fino a Mosè. Il momento chiave della regalità è sempre stato l’accertamento della legittimità dei discendenti-pretendenti.

Capitalismo – La crisi del capitalismo infine è arrivata, da dieci anni ormai, una delle tante peraltro, ma ha colpito la sinistra politica e ha rilanciato la destra. In Europa, in America ora con Trump, e probabilmente anche in Cina.

Eurasia – La cosa più importante al vertice cinese dei gruppo dei 20 è stata l’adesione del premier canadese Trudeau all’Asia Infrastructure Investment Bank cinese, Aiib. Dove ha trovato una compagnia già considerevole di una sessantina di Stati, molti di potenze economiche medie occidentali, malgrado le resistenze e le pressioni contrarie degli Usa: tutta l’Europa, Italia compresa, in qualità di membri fondatori, la Corea del Sud, l’Australia. In appena due anni, e in sfida aperta al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale e all’Asian Development Bank creata dagli Stati Uniti nel 1966, la superbanca d’investimenti del governo cinese è divenuta la prima finanziatrice della “Via della Seta”, la nuove serie d’interconnessioni terrestri, tra l’Estremo Oriente e l’Europa, via Kazakistan e Russia.
Il presidente cinese Xi Jinpin lanciò l’Aiib nell’ottobre del 2014 dopo il rifiuto Usa di accrescere i diritti di voto della Cina nelle altre istituzioni finanziarie mondiali, Fmi, Banca Mondiale a Asian Development Bank – la Cina conta per il 4 per cento, gli Usa per il 18. E sulla base dei calcoli della stessa Asian Develpment Bank, che aveva calcolato nel 2010 in ottomila miliardi di dollari il fabbisogno asiatico per infrastrutture, circa 800 miliardi l’anno – di cui avrebbe finanziato l’1,5 per cento appena. Pechino ha dotato l’Aiib di un capitale iniziale di 100 miliardi di dollari, l’equivalente della Banca Mondiale, poco sotto quello dell’Asian Development Bank - tre volte il capitale del piano Marshall.
L’Aiib opera in tutta l’Asia, ma prevalentemente al rafforzamento degli assi viari, su strada e su rotaia, in direzione dell’Europa. Forte anche dell’accordo preventivo della Russia, che lavora a una Unione Doganale Eurasiatica.

Femminismo – Segna il passo da un secolo e mezzo, da quando si è “emancipato”. Diviso tra le suffragette, le pétroleuses, le “rosse” e il vecchio “femminino”, dell’eros – che Marientti voleva combattere: il genere dannunziano, della donna fatale. Gli argomenti sono gli stessi, le ambivalenze pure (essere più o meno donna), e l’insoddisfazione. Anche da quando, in Italia approssimativamente da mezzo secolo, le preclusioni sono cadute, nelle funzionalità, negli impieghi, nelle carriere, nella mentalità e nel diritto. È più un surplace che un marcia o un’invenzione. E anzi spesso marcia all’indietro. Per esempio tra le donne dell’islam, che l’orgoglio femminile e la pluralità no gender delle funzioni collocano meglio nella tradizione, cioè nella cancellazione pubblica di sé.  

Guerra lampo – Si accredita allo Stato maggiore tedesco, e ai generali Guderian, Rommel, etc. Ma la prima applicazione certificata è di Cesare,: la sua strategia era centrata sul movimento rapido delle legioni, a tappe forzate, s necessario senza sonno e senza cibo. Con questa tattica Cesare riuscì anche a performare – e vincere – guerre bifronti, che normalmente sono una cattiva strategia (vedi Hitler, con la guerra contemporaneamente alla Gran Bretagna, con gli Usa, e alla Russia): contro gli Elvezi, e poi indietro contro i Germani,che avevano approfittato della guerra agli Elvezi per sconfinare nuovamente nella Gallia .

Non-luogo – Il centro commerciale, le grandi stazioni e aerostazioni, le stazioni di servizio plurifunzionali, la categoria di Marc Augé è semanticamente l’utopia, il non-luogo (ou-topos). Un vuoto Ma ne ha anche il fascino, poiché l’utoia si può anche intendere un buon luogo (eu-topos).

Parricidio – “Odio l’Occidente e i gay”. Alla terza o quarta testimonianza di questo tipo dei motivi del terrorismo islamico negli Usa, da parte di chi si è sacrificato, nella sua vita o in quella dei genitori, per diventare americano e fortemente lo ha voluto, il terrorismo è una sorta di parricidio. L’immigrato nazionalizzato non è il soggetto passivo di una tratta ma quello attivo di un’immigrazione forzata, e l’assimilazione non è imposta, anzi viene concessa con difficoltà. Una rivolta non contro questo o quel genitore ma contro l’idea stessa del genitore, autoritario o permissivo che sia. Il cui sacrificio in vista dell’assimilazione viene assimilato al tradimento.
È l’anomali, e forse il cancro, di questa immigrazione: non c’è mai stato l’analogo nelle precedenti ondate migratorie. Tanto più per questo, che l’assimilazione ora è difficile e spesso non è concessa.

Proibizionismo – A Porquerolles non si può fumare all’aperto, solo in casa o al caffè. È per l’igiene o contro l’igiene?

Tribù – Roma non soltanto votava per tribù tutte le cariche, da edile in su, ma le leggi affidava al tribuno, loro espressione. Che legava al popolo, alle plebi.

astolfo@antiit.eu

venerdì 23 settembre 2016

Merkel saprofita

Non è teatrino politico, non del tutto, e non è sterile, la campagna di Renzi anti-Merkel sulle esportazioni tedesche. E non tanto perché infrangono uno dei soliti parametri di Maastricht. Ma per la ragione economica sottostante: la Germania beneficia delle politiche di sostegno alla domanda (politiche “keynesiane”) nelle economie fuori euro: Usa, Cina, Giappone, Gran Bretagna. Dove il debito è stato grandemente aumentato per questo.
Il fatto è assodato da tempo in Germania, da Peter Bofinger e altri economisti. La Germania segue una politica di rigore fiscale invece che anticrisi e anticongiunturale (keynesiana). E l’ha imposta attraverso Maastricht e il “fiscal compact” all’eurozona: niente sostegni alla domanda. Mentre con le “riforme di struttura” - cioè di desindacalizzazione - che essa ha effettuato dieci anni fa, ha molto migliorato la “produttività del lavoro”, diventando imbattibile sui prezzi all’export. È così la prima beneficiaria delle politiche della domanda, là dove essere sono state e sono praticate in funzione anticrisi dopo il 2007. Se tutti avessero fatto lo “zero spaccato” in bilancio di cui Berlino si gloria, avrebbe notato Keynes redivivo, a quest’ora saremmo tutti morti.
Si spiega così anche il paradosso che la Germania, che è la maggiore economia europea, e la terza  maggiore potenza economica del mondo, ha un peso delle esportazioni sul pil da piccola economia manifatturiera, o da paese del Terzo mondo esportatore di materie prime.
L’Italia invece, per la quale la Germania è la “grande economia”, come gli Usa e la Cina lo sono per la Germania, langue. Langue cioè doppiamente: per non poter praticare le politiche di sostegno della produzione, della domanda; e per non poter contare sulla domanda tedesca, o “grande tedesca”.
Anche questo Renzi mostra di aver capito, che si guarda attorno, agli Usa e dove capita. Ma non ci sono margini per la politica nel riassetto di un’economia – il Lombardo-Veneto è praticamente in simbiosi con la Baviera e la Svevia – o sono angusti, i tira-e-molla con Bruxelles sui vincoli di bilancio. Leconomia non va a bacchetta. Un’azione di riforma della Ue andrebbe invece avviata, non potendo essere dei paesi grandi come l’Italia delle piccole Germanie. E questo non si può fare con le polemiche: è la revisione dell’euro, o la sua disintegrazione.  

Secondi pensieri - 278

zeulig

Amore – È la felicità, qualche che ne sia la natura. È un transfert, sia pure su un fiore di campo , un oggetto – il collezionista – o un pet.

Anima   È sempre la psiché di Pindaro: “Non aspirare, anima cara, a una vita immortale, ma esaurisci il campo delle possibilità”.

“Platone ha chiamato anima del mondo ciò che Aristotele ha chiamato natura”, secondo l’Idiota del Cusano: “Suppongo che anima e natura siano Dio che compie tutto in tutto”. L’anima di Platone è quella “di un servo che conosce la mente del suo padrone ed esegue la sua volontà”, chiamandola scienza. “E quello che Platone ha chiamato scienza dell’anima del mondo, Aristotele ha voluto che fosse la sagacia della natura”.

Cicerone le riassume tutte nelle “Consolazioni”: “Che cos’è l’anima? Non è umida o ariosa o focosa o impastata di terra. Non c’è niente in questi elementi che spieghi il potere della memoria, mente o pensiero, che richiama il passato, prevede il futuro e capisce il presente. L’anima piuttosto deve essere ritenuta un quinto elemento – divino e quindi eterno”.

Dio - La sua morte, nel Settecento, porta con sé la rottura dell’intelleggibilità del reale. Più che con la miscredenza di due secoli prima, più radicalmente, più ordinaria cioè e senza residui – dubbi, crisi, colpe. Ma è una rottura dell’episteme, il consensus, benché si voglia il trionfo della ragione.
La quale vive allora del paradosso: un enunciato paradossale (ironia, estraniazione, critica) per un reale paradossale. Irragionevole in realtà: la logica del paradosso è fine a se stessa. Divertente, come farsi il solletico, e senza conseguenze, se non l’accatastamento.

La risposta se Dio esiste è nella domanda, argomenta Cusano: se ci si domanda se Dio è, si presuppone l’essere. È Heidegger scolastico – elementare, Watson!: Dio è la Presupposizione Assoluta, etc.
Ma, poi, Cusano pretendeva di pesare  il respiro.

Felicità –  “Nessun maggior dolore”, dice Dante, “che ricordarsi del tempo felice\ ne la miseria”. Non è il contrario? La miseria sarebbe totale senza nient’altro, almeno un ricordo.

Filosofia tedesca- Stendhal poteva essere ancora arguto, sulla “pseudo filosofia tedesca pazzesca fino al risibile”. Poi due secoli di pesanti mattoni, la filosofia per la filosofia..

Heidegger – L’università tedesca di Friburgo aveva una cattedra di Fenomenologia, intitolata cattedra Heidegger, “Heidegger Lehrstuhl”. Dopo la pubblicazione dei primi “Quaderni neri” e la conferma dell’antisemitismo di Heidegger, ha chiuso la posizione. Non l’ha intitolata a Husserl, che di Heidegger era stato il maestro e nell’insegnamento a Friburgo l’aveva preceduto, e si considera l’“inventore” della Fenomenologia. Husserl è ebreo.

“Così Lutero si travestì da apostolo Paolo”: Marx nel “Diciotto brumaio” lo dice delle rivoluzioni che si cercano nel passato, ma questo è Heidegger. Nel senso più nobile di Marx: “Il principiante che ha imparato una lingua nuova la ritraduce continuamente nella sua lingua materna, ma non riesce a possederne lo spirito e ad esprimersi liberamente se non quando in essa si muove senza reminiscenze, dimenticando in essa la lingua d’origine”. Il Filosofo Secondo, dopo Platone, è dunque marxista, magari incognito. Benché antibolscevico – Marx non lo sarebbe stato?.
Si vuole Marx economista e agitatore e non filosofo. E invece lo è, sotto forma di Heidegger, il “primo” marxista: i tedeschi della rivoluzione conservatrice, che Marx abominavano, se ne sono appropriati i criteri e gli obiettivi, anche se solo in funzione antiliberale - Marx fu economista fantasioso, essendo autodidatta, e politico mediocre, litigioso, invidioso. Il nodo è il corpo, la materia, il mondo, la “tecnica”. È l’estraneità dell’essere qual è, materiale, che nutre la borghesia, e la fa ipocrita, cioè stupida.
Già in questo senso il nazismo è marxista, per essere biologico. Per la percezione del corpo in quanto eredità, sangue, passato che non passa, con tutto quello che ciò implica di fatale, quindi obbligato: un Diamat ematologico. Chiunque enunci un affrancamento dalla fisicità senza coinvolgerla è il nemico, tradisce e abiura.
E Heidegger? Lo stesso antiumanesimo che Heidegger dichiara è il Diamat. Con il popolo, e il popolare. L’insistenza sul völkisch, volumi di völkisch, il principio v., l’essenza v., lo spirito v., la voce v., la scuola v., la gioventù v., durante e dopo Hitler, e prima. Una riscrittura di Marx. Mimetizzata ovviamente: il Filosofo Bino, o Trino, considerando il suo agostinianesimo, si immagina in tuta mimetica, mani e viso al nerofumo, anfibi, ninja del popolo, che nottetempo semina di mine il campo ostile. Il bolscevismo è “una possibilità europea”, dice chiaro, è Europa, “l’emergere delle masse, l’industria, la tecnica, l’estinzione del cristianesimo”. Ne sa pure la natura, poiché è ereditaria: “Se il dominio della ragione come eguaglianza non è che la conseguenza del cristianesimo, e questo è fondamentalmente d’origine ebraica, il bolscevismo è di fatto ebraico, e il cristianesimo è anche esso fondamentalmente bolscevico!”. Una genealogia, ebraismo, cristianesimo, bolscevismo, lusinghiera o ingiuriosa? E perché?
La sua idea di filosofo è il santone, uno che mai sbaglia. Proprio come Marx: qui e là la mobilitazione è totale, si aderisce alla storia con tutto l’essere – Marx, l’“ebreo tedesco” di Bakunin: la Prima Internazionale fu rissosa.

Marx - Pensa come Napoleone più che come Hegel: semplifica la storia perché vuole farsene una – è Napoloene,  seppure con la ghigliottina di Robespierre. Rilancia, sul supporto di Hegel e della storia rivelazione, l’unicità della Rivoluzione francese nel senso della compattezza, e anzi del monolitismo. Che è come la Rivoluzione si presentò nel mondo, ma questo a opera di Napoleone, della conquista napoleonica. La Rivoluzione fu episodica, si sa, e frammentata: mozioni confuse, assemblee vaganti, strane peripezie dei protagonisti, che sono tanti e nessuno, la violenza della plebe a Parigi, il silenzio del popolo in Francia, le restaurazioni. Ci furono semmai tante rivoluzioni, insieme e in successione. Napoleone ne fissò il nome, che non vuole dire nulla.
L’identificazione più sottile è quella individuata da Hannah Arendt: “Il pragmatismo, anche marxista e leninista, muove dal presupposto, comune a tutta la tradizione occidentale, che la realtà riveli all’uomo la verità, il totalitarismo presuppone solo la validità delle leggi del divenire”. Dell’esistere, senza leggi. Un’identificazione da intendersi, naturalmente, come sorpassamento. Le idealità e incertezze delle società fondate sulla volontà libera degli associati sono false e ostili. Ogni forma associativa, ogni appartenenza, che sia di tipo razionale e politico oppure consuetudinario e mistico, che non si fondi su una comunione fisica, d’interessi e di determinazioni materiali, è ostile. E tuttavia la mia verità è la verità – questo è vero di ogni filosofo, anche di quelli della non-verità, ma c’è modo. E deve fondare un mondo nuovo: la rivoluzione dei fatti discende dalla rivoluzione delle idee, a esse il mondo va conformato. La verità è conquistatrice. Gli uomini non sono inchiodati all’Ente nella soddisfazione dei bisogni vitali, non sono rassegnati.

Solitudine – La natura aborre la solitudine, si dice. E tuttavia la ricostituisce: il colloquio è anzitutto soliloquio – se è produttivo: se si capisce, si recepisce.

Viaggiare – Si fa in surplace, segnando il passo? Sì con l’Idiota del Cusano, con argomento non sofistico: “Il muovere è il passare da quiete in quiete, sicché non è altro che quiete ordinata, ossia quiete ordinate in serie”. Come il variare quotidiano, si può dire, del giorno e la notte, delle stazioni, della meteo, degli umori. “Il moto è l’esplicazione della quiete”, ancora l’Idiota, “perché nel moto non si trova altro che quiete”. Il moto interiore, non la traslazione fisica. 

zeulig@antiit.eu 

La liberazione femminista del desiderio

“Valentine de Saint-Point è una di quelle figure libere che fece agli inizi del Novecento l’emancipazione femminile e l’avanguardia artistica, ma di cui la storia cuturale non ha voluto riordare niente”, esordisce la presentazione. Non meritava? E invece sì. Nata nel 1875, pronipote di Lamartine, bella donna, viso modesto e fisico aggressivo, avida di esperienze, è la prima teorica e pratica dell’emancipazione femminile e dell’avanguardia artistica insieme, critica e concorrente del misogino Marinetti in fatto di futurismo. Tutto in lei è speciale: la “donna nuova” che Apollinaire delineava, l’epitome di può dire del primo Novecento, femminista, futurista.
La vita. È la “donna nuova” che chiedeva Apolinaire. Nata aristocratica, orfana di padre presto, si sposa a diciotto anni per uscire di casa, con un anziano professore che dopo quattro anni ha “la buona idea” di morire. Valentine allora, nata Anna Jeanne Valentine Marianne Desglans de Cessiat-Vercell (Vercell era il padre, i due “de” sono materni), prende il nome d’arte dal castello che il bisnonno Lamartine ha abitato, e dopo i canonici trecento giorni di vedovaggio sposa un collega del defunto, Charles Dumont. Che indirizza alla carriera politica – Dumont sarà presto deputato, più volte, e negli anni 1930 ministro sei volte. Mentre lei si dà all’arte: posa per Mucha e Rodin, di cui diventa quasi una manager, dipinge lei stessa, apprezzata da Apollinaire al Salon des Indépendants, scrive e pubblica poesie e romanzi di tono antibovarysta, per la liberazione del desiderio nella donna, pratica il teatro e la danza, che vuole rinnovare, e dopo altri quattro anni accetta il divorzio per colpa – non va nemmeno all’udienza. Tanto più che è già legata in “unione libera” con Ricciotto Canudo, già orientalista a Firenze e teosofo a Roma, a Parigi teorico del “cerebralismo”, e poi del cinema come “settima arte”, oltre che editore, poeta e romanziere - il tipo del “se Parigi c’avesse lu mèri, sarebbe una picola Bèri”. La storia finirà dopo la guerra, da cui Canudo tornerà ferito, come Apollinaire, e come lui dopo qualche anno ne morirà, nel 1923, non prima però di essersi legato a una professoressa di francese, con la quale ha fatto una figlia e ha “regolarizzato la posizione”. Ma Valentine ha già cambiato scena: il desiderio ha lasciato posto allo spiritualismo. Crocerossina in guerra ne esce sopraffatta, e in licenza in Marocco si converte all’islam. Dopo la morte della madre e di Canudo decide di cambiare un’altra volta vita, e s’installa al Cairo, dove passerà i trent’anni fino alla morte nel 1953. Dapprima agitatrice politica, del nazionalismo arabo anti-occidentale,  per questo proscritta dall’ambasciata francese in Egitto. Poi, dopo l’incontro con Guénon, altro convertito, immersa nell’esoterismo..
L’arte. Poesie e romanzi non hanno lasciato il segno, ma sì la loro “materia”: la de-bovaryzzazione della donna, la liberazione femminile e femminista attraverso la diversità, attraverso il desiderio. Poligraga prolifica (Giovanni Lista nella biobibliografia che le dedica, nei suoi vasti repertori del futurismo, elenca non meno di una cinquantina di opere a stampa - compresa una lezione universitaria, “La Femme dans la littérature italienne”), e attivista, sui giornali, con gli spettacoli, in giro per l’Europa e gli Usa, nelle università. Fu teorica e pratica della “metacoria”, il processo innovativo alla radice della danza moderna, con un rilievo non preponderante della musica – non più il balletto per musica. Coi veli e senza. In polemica con le star del momento, Loīe Fuller e Isadora Duncan al decino, Ida Rubinstein in ascesa, giunse fino al Metropolitan di New York – dove fu intervista da Djuna Barnes. Con l’obiettivo, anticipato nel “Teatro della donna”, una conferenza che tenne all’università popolare prigina “La Coopération des Idées” a fine 1912, di “elevare la danza al rango di arte moderna”. Un’arte che “non è soltanto il ritmo plastico sensualmente umano della musica, ma la danza creata, diretta cerebralmente, la danza che esprime un’idea, fissata nelle sue linee severe come la musica lo è nel numero del contrappunto” - ben nota per questo a Mario Verdone, “Drammaturgia e arte totale”. Se non ha fatto la storia del Novecento, ne è il paradigma.
“L’umanità è mediocre” è il suo “Manifesto della donna futurista”. Che in esergo si rifà a Marinetti: “Noi vogliamo glorificare la guerra, la sola igiene del mondo, il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore degli anarchici, le belle idee che uccidono e il disprezzo della donna”. Quindi in opposizione a Marinetti – in teoria - su questo punto: Valentine ha buon gioco a rifarsi su Marinetti.e non ha bisogno di molte pagine. La brochure si assortisce di due appelli alla lussuria, e dei progetti di Teatro della Donna e di Metacoria, dottrinali e pratici.
In realtà, il manifesto femminista è combinato con Marinetti, spiega Lista nel suo ultimo denso repertorio, “Qu’est-ce que le futurisme?”. È Marinetti che pubblica il “Manifesto”, in contemporanea a Parigi e a Milano, il 25 marzo 1912, così come poi, a gennaio del 1913, il “Manifesto futurista della lussuria”. Dopo aver presieduto qualche giorno prima, l’8 marzo 2012, al debuto di Valentine poeta futurista  alla Casa dello studente a Parigi, con la conferenza “La femme et les lettres”, “confidandole molto probabilmente il ruolo di portabandiera dell’ «azione femminle» del movimento futurista”. Il “Manifesto” di Valentine è pronto in piochi giorni: “Proseguendo la sua strategia di comunicazione, Marinetti dà al manifesto il sottotiolo «Risposta a F.T.Marinetti» e pone lui stesso in esergo la sua frase ormai celebre sul «disprezzo della donna»””. Un disprezzo che egli stesso ha già corretto con l’opuscolo “Contro l’amore e il parlamentarismo” e nella sua rivista “Poesia”, con un “D’Annunzio futurista e il «disprezzo della donna»”. Questo specificando mirato al sentimentalismo e l’idealismo in cui la letteratura avvolge la donna, e il leitmotiv tirannico dell’amore e dell’adulterio nelle lettere latine.
Valentine sta al gioco prendendo a partito Marinetti. Non vuole “spazi” né “diritti” ma libero sfogo alle energie. Sull’esempio di Caterina Sforza, le donne vuole “bestialmente amorose, che, dal Desiderio, consumano fino alla forza di rinnovarsi” – come nel romanzo di un paio d’anni prima che aveva titolato “Une femme e le désir”, una donna e il desiderio..
Jean-Paul Morel, che Valentine de Saint-Point ha esumato in questa brochure, la vuole “non futurista”, ma una che “si serve del metodo marinettiano per far passare le sue idee”. Quello che sarà il femminismo identitario: anche la differenza può dirsi femminista, l’orgoglio. Lista la mostra invece organica al movimento. Che però pone non nella lettera, ma nel rivolgimento del conformismo che si proponeva.
Valentine de Saint-Point, Manifeste de la femme futuriste, Mille-et-une-nuits, pp. 77 € 3

giovedì 22 settembre 2016

Letture - 274

letterautore

Gloria – “La gloria non dipende dallo sforzo, che è generalmente invisibile: dipende solo dalla messinscena”, Paul Valéry, “Ispirazioni mediterranee”. Necessita una messinscena, già a partire d Omero: il racconto eroico è in crescendo, costruito.

Io – È in effetti un mezzo comodo per narrare - e non perché lo vuole Stendhal. Anche se la terza persona, bisogna dire, protegge. Ma è pure vero che il punto di vista è la cosa di cui meno frega al lettore. E all’imputato, ma questo sbaglia.
Il grande egotista Stendhal era scultore, oltre che pittore e musicista, da dilettante. Mentre era cieco all’architettura: la geometria sta a sé, irriducibile al soggetto, all’affabulazione..

Liberazione sessuale – È la stessa da cento anni, omosessualità e multigender compresi. Dal futurismo, da “Lacerba”, da Italo Tavolato che su “Lacerba” pubblicava una “Glossa” al “Manifesto futurista della lussuria” e un “Elogio della prostituzione, e per le edizioni Lacerba il pamphlet “Contro la morale sessuale”. Tutto nel 1913. Per avocare la libertà sessuale e anche omosessuale: “La parte programmatica del manifesto”, scriveva nella “Glossa”, “si può riassumere in un’unica proposizione: Cessiamo di schernire il desiderio. La richiesta sembra umile. Ma non è così. Per tutti i suggestionati di morale cristiana il desiderio carnale è un peccato che si deve temere e odiare”, etc.. Mentre “il desiderio sessuale è di natura tanto molteplice e varia, che in pochi casi tende alla procreazione”. E ancora: “La macerazione della carne porta al sacrificio dell’intelletto, all’infiltrazione della libidine nello spirito, alla pansessualità” – “all’esasperazione erotica”. Fino a un conclusivo “Credo immoralista”: “Io credo…. Abbia l’uomo il diritto di amare chi vuole e come vuole; e credo, credo, credo che una sentina di vizi valga cento chiese e mille redazioni, credo che il coito sia azione intellettualmente e moralmente superiore alla creazione di una nuova etica…”.
Il futurismo peraltro, di cui Tavolato sarà tardo adepto, accettava l’omosessualità, in modo discreto con Palazzeschi e Guido Keller, polemico con Ernesto Michaelles “Thayat”, arista e gallerista (la “Casa Gialla” presso Firtenze, gestita col fratello Ruggero), il futurista degli oggetti d’arte e della moda.
Tavolato, che sarà personaggio ambiguo nel mondo letterario, sotto ricatto durante il fascismo e quindi spia di regime, per questo - e per il processo che gli fu intentato nel 1913 per gli articoli su “Lacerba” - soggetto del romanzo di Vassalli “L’alcova elettrica”, 1985, ventidue anni dopo la sua morte, era triestino di nascita e caprese di adozione, personaggio all’incrocio di più culture, e soprattutto di quella tedesca, con punti di contato con Wilhelm Reich.

Valentine de Saint-Point, che in opposizione - concordata - con Marinetti lanciava nel 1912 il “Manifesto della donna futurista” assortito da un “Manifesto della lussuria”, o del desiderio infine libero, tre rapporti matrimoniali all’attivo, incontrava nel 1917 a New York una simpatetica Djuna Barnes, che presiedeva all’omosessualità.

Plagio – Non se ne discute più, forse a ragione. È reato a difesa del diritto d’autore, ma il diritto d’autore è materia irta, e ambigua. È sempre stato un fatto. In musica più che in letteratura. Non si contano, diceva il regista Lucio Fulci, le scene di “Ossessione” che Visconti ha estratto dai film di Renoir, quasi un’esercitazione scolastica. O le scene della “Dolce Vita” tratte da “Vacanze romane”  che è un film d’evasione ma di William Wyler.

Roma – Recensendo “Dido & Aeneas” di Purcell all’Opera di Roma, Franco Cordelli se la prende con Enea, “ipocrita e detestabile” – in “Dido” più che nel libro IV dell’ “Eneide” di Virgilio: “Noi, cinici spettatori contemporanei, non gli crediamo”, spiega, noi piuttosto “crediamo che la civiltà sia fondata … sulla violenza”. La civiltà? No, Roma, l’impero romano: l’odio-di-sé è diffuso.

Sole – È molto trascurato come tema letterario. Come luce è di uso comune, specie nelal poesia, come illuminazione, ma non in  sé. “Il sole” che “introduce l’idea di onnipotenza eccelsa, l’idea d’ordine e d’unità generale della natura”, come lo vede Valéry – che però poco lui stesso ne poeta.

Stendhal - Parlava sempre di donne, e di molte scrisse. Ma nessuna memorabile, che gli annali celebrino, nessuna delle donne reali. E nessuna che lo ricordi, in memorie, lettere, pettegolezzi. Una volta confessò una passione per un uomo, un ufficiale russo, giovane, che ebbe vicino a teatro. Babilano del resto è impotente – l’aggettivo italiano, o quantomeno milanese, che spiega ai suoi amici francesi nelle lettere (“babilano” da san Babila, il luogo o il santo?). Tale era ritenuto Stendhal dagli amici parigini, tutti mediocri.
Se fosse un personaggio dei suoi romanzi sarebbe un gauche, maldestro e pure antipatico. Non amabile, nessuna storia lo vedrebbe attore, benché pieno di sé. “Nulla di più facile dello stile appassionato o di carattere”, diceva: “Nel primo devi fingere di desiderare, e nel secondo di credere certe cose”. Se ne intendeva, san Carlo Borromeo è il suo santo, che quando decise di santificarsi, era ancora ragazzo, si fece derivare da Buon Romeo e tale si firmava. Era insensibile alla pietra. I colori voleva soffici, le voci melodiose, le donne grandi. Non era curioso, si vede a Napoli – ammesso che ci sia stato: non si avvicinava, uno scrittore deve stare a distanza, è lo stratega.
Andava a teatro e rimaneva fino alla fine, opere insulse vedendo più volte, di cui trattava con gli amici e nel diario. Ma uscì al secondo atto di “Romeo e Giulietta”. E “Amleto” bollò “una sciocca commedia”: “Amleto è, scusate il termine, un coglione” – Stendhal scriveva il diario perché fosse letto. Poi dichiarerà sua Bibbia le pagine 23 e 26 di “Amleto”. Di quale edizione? Il carattere degli amati italiani trovava malinconico: “Le loro idee sulla felicità nascono in corpi biliosi, sovente con costipazione intestinale”. Nonché la lingua, che parlava e scrisse. “Una società molto nobile che non ha più passioni, eccetto la vanità, giunge a voler desiderare di non servirsi che di parole che non sono in uso ai bottegai e agli articoli in commercio. Purtroppo i bottegai, imitando il vaudeville e i giornali, arrivano ad avere un’idea di questo stile nobile, e lo copiano. La buona società s’affretta a cambiare le sue parole”, e così via, guasta è la radice dell’italiano: “Da qui, mi sembra, la decadenza della lingua, quando essa arriva non dalla conquista, ma dall’estrema civilizzazione”. Essa chi? Il console aveva le idee confuse. E sono i bottegai più stupidi dei nobili?  

Tipo donna – Valentine de Saint-Point lo vuole “materno”. L’autrice del “Manifesto della donna futurista”, 1912, e del “Manifesto della lussuria”, 1913, esamina in “Le Théâtre de la femme”, una conferenza natalizia per un’università popolare parigina, gli scrittoi più femministi, Maeterlinck, D’Annunzio, Ibsen a suo modo, che apprezza ma ritiene mancanti, e conclude: “Ma”, obietta, “la donna integrale, la donna complessa, tale e quale è veramente, tale e quale si complicherà ogni giorno di più: istintiva, intuitiva, insinuante, furba, volontaria – di una volontà femminile, più paziente che brutale -, sensibile – di una sensibilità  insieme più sveglia e più sana di quella dell’uomo -, coraggiosa – di un coraggio lento e durevole, è sopratutto, e al di là di tutto, materna”.

letterautore@antiit.eu

Il Sessantotto è nonno

“Appello alla corruzione dei giovani” è il sottotitolo: il filosofo della felicità qui e ora, “Libretto Rosso” di Mao nei suoi anni Sessanta, fa sua l’accusa che fu mossa a Socrate, alla scoperta della filosofia, che la filosofia corrompe i giovani. Ma adotta un passo sperimentale: parte dall’esperienza, le difficoltà dei suoi figli, impigliati nella caduta delle illusioni, e la ricettvità dei nipoti, che potrebbero essere pronti a una nuova conquista del cielo. Non una previsione, né un programma, giusto la constatazione che così non va. L’ennesima, ma incontestata: nessuno ne è contento, nemmeno chi sfrutta ilreale lo difende, il liberrismo avrà prodotto questa eccezionale unanimità. E quindi non c’è che da cambiare il mondo, oggi più che mai dopo la “caduta”, anche correndo dei rischi. I nipoti possono farlo, il mercato li ha liberati dai vincoli e le sudditanze.
Non un pamphlet, una riflessione. Ma una perorazione che è in realtà una rivendicazione. Gli anni 1960, della contestazione, ciò che è passato come Sessantotto, sono stati una rivoluzione bella e buona, piena di carica e di esiti innovativi, per le generazioni di quegli anni, di vitalità insorpassata, e  per l’esistente. Badiou non si fa colpa nemmeno di aver fatto dei figli che non hanno saputo o potuto essere all’altezza, con la stessa fame di vita, e si rivolge ai nipoti, sperando-proponendo di aizzarli. Al rifiuto: la voglia di fare comincia dal rifiuto dell’esistente. Se ci si adagia, anche se se ne contesta l’ideologia, è finita.
Badiou vede giusto. Oggi la contestazione sembra dilagante: Occupy Wall Street, Podemos, eccetera - contestano perfino gli squallidi twitterai di Grillo. Ma e una contestazione “nostalgica”, dice il filosofo, del welfare non più possibile. Non intransigente né innovativa. Sotto un giovanilismo che è una cappa, e anzi una prigione: un furbo surrogato. La “vera vita” è di Platone, nell’accezione che gli ha dato Rimbaud risuscitandola: il “poeta dell’adolescenza” già ne presentiva lo svuotamento – il giovanilismo è l’ideologia di un’adolescenza interminabile, di adulti mainichini passivi dello shopping: liberi di scegliere tra i consumi.
Alain Badiou,  La vera vita, Ponte alle Grazie, pp. 111 € 12

mercoledì 21 settembre 2016

Ombre - 334


“No all’Olimpiade, è da irresponsabili”. Annuncia il no Virginia Raggi, sindaca di Roma, dopo lunga attesa, come usavano una volta le donne, e sorride contenta di se stessa ai flash e alle telecamere. È contenta, si congratula, chi lo avrebbe detto, dire di no all’Olimpiade, non ne ingranava una e ora siede in Campidoglio.

Il consiglio comunale si convoca di martedì a Roma, per l’agio dei consiglieri, un po’ tardi. Ma stavolta ci sono tutti, si aspettano  nuovi assessori. Inno di Mameli. Un minuto di silenzio per un operaio morto sul lavoro. Un minuto per Ciampi. E la seduta si sospende: manca la sindaca Raggi, le cui comunicazioni sono all’ordine del giorno.

Quando la sindaca arriva il consiglio si riconvoca. Ma lei non dice nulla: “Stiamo cercando due assessori e li indicheremo nel più breve tempo possibile”. Non di più, e si immerge nell’iphone. Una consigliere d’opposizione la critica: “Non si governa via facebook”. Proprio mentre su facebook, nella sua bacheca, emerge un messaggio di Raggi.

Il consiglio comunale di Roma  discute delle dimissioni dell’assessore Minenna. E del suo successore De Dominicis dimissionato dalla sindaca Raggi tre giorni dopo averlo nominato. Lei non solleva la testa dall’iphone. Risponde per lei il presidente del consiglio De Vito.

Poteva mancare Palermo ai funerali di Ciampi? Subito i suoi giudici in prima fila fanno i titoli con un Ciampi convinto dello Stato-Mafia. Cioè, non propriamente: convinto che Riina tentasse un colpo di Stato, contro il suo governo. I giudici palermitani sono molto solerti, che (non) combattono la mafia grazie allo Stato-Mafia ormai da una ventina d’anni.

Riccado Iacona monta una meritoria “Presa diretta” sul miserevole stato della ricerca scientifica in Italia. Ma è solo un buttare le reti: il conduttore ha in mente solo un affondo contro Human Technopole,  il progetto del governo, che ne ha affidato il coordinamento all’Iit. A tutti consente di lamentare a profusione lo stato dell’arte. Ma alla fine, quando non può non far parare il direttore del’Iit, lo fa inquadrare imbruttito e lo interrompe.
È sempre Telekabul? Che non c’entra col comunismo, a questo punto, ma sì con la faziosità: il patrocinio mascherato di una posizione contro le altre. Perché mascherato, Zorro l’avrebbe fatto?

“Giovani occupati e più viaggi in metro, ecco come Milano supera Roma”: quasi commovete Sergio Rizzo sul “Corriere della sera” rimacina il peana a Milano, la vera capitale . Non solo, scopre addirittura che Milano è più ricca.
L’inconveniente è che Milano non ama i terroni, comunque  servizievoli, e solo si cura dei soldi, non delle capitali.

Buzzi? “Un dalemiano”. Finisce nello scurrile il processo di Pignatone per Mafia CapitaleL l’ex arcipotente dell’ex Pci Bettini non ha riguardi a dire la verità.
Certo, si potrebbe elevare a mafia il sottobosco politico. Ma allora anche le Procure.

Così per caso, commemorando Ciampi, Giuliano Amato dà un versione interamente diversa della fallimento della lira nel 1992, che ha avviato la crisi dell’Italia: la salutazione fu imposta dalla Bundesbank e non da Soros. In questi venticinque ani non ha avuto tempo per dirlo? E Ciampi?
Bisognerebbe imporre ai governanti di dire tutto subito, non possono mica fare come i pentiti, che parlano a babbo morto.

La Germania non solo ha sottoscritto il raddoppio del gasdotto con la Russia, ma ne ha avviato al costruzione, coinvolgendo per il passaggio della condotta la Finlandia, la Svezia e la Danimarca. Nel mentre che impegna la Ue alle sanzioni economiche contro la stessa Russia.

Le carceri libiche sono piene di africani emigranti clandestini verso l’Italia. In attesa di riscatto da parte dei familiari. Privati dei passaporti. Da parte di guardie che lavorano con gli scafisti. Se ne parla solo ora, solo su “Sette”. Solo grazie alle foto di Narciso Contreras, messicano, incaricato di documentare il business dalla fondazione Carmignac, che Édouard Carmignac, il titolare di Carmignac Gestion, ha creato nel 1989 a Porquerolles.
Tanti inviati per nulla? La Libia è così remota, che in Italia ne sappiamo così poco?

Valentino Talluto, trent’anni, sieropositivo, figlio di madre morta di Aids, ha avuto rapporti con centinaia di donne dal 2007, da quando l’ha saputo, infettandone “una trentina”, dice il giudice che lo vuole processare. Un centinaio nell’ultimo anno “di attività”, dice il giudice, “di venti e quarant’anni, studentesse e madri di famiglia”, non prostitute. È così facile? O bisogna essere malati?

Il giallo del successo

Il mistero è del successo travolgente. Di classifiche e di dotte pagelle, con stelle.
Certo, leggerlo è impegnativo, le pagine sono quasi 400, la sfida non è da poco.
Antonio Manzini, 7-7-2007, Sellerio, pp. 369 € 14

martedì 20 settembre 2016

Problemi di base infertili - 293

spock

Record negativo ogni anno delle nascite: meno bocche da sfamare?

E meno culle?

Nel tempo anche meno bare e meno loculi al cimitero?

Non sarà un record positivo per il multigender?

O gli italiani non lo fanno più – solo per postarlo su facebook (l’Italia è il paese che usa meno gli anticoncezionali)?

Si troverà finalmente parcheggio?

Non sarà questa una causa della crisi: meno reparti maternità, meno asili e meno scuole, e meno consumatori?

spock@antiit.eu

Un frammento di Trieste nella galassia Sicilia

“Quasi ho pudore a scrivere poesia\ come fosse un lusso proibito\ ormai, alla mia vita.\ Ma ancora in me\ un ragazzino canta\ seppure esperto di fatiche e lotte”. Danio Dolci, chi era costui? Un poeta che si era fatto filantropo e combattente, fuori posto nell’Italia piatta del Millennio, dei social e i talk-show. Un santo laico dimenticato nell’Italia dei santi. Un poeta: “Son sempre stato poeta”  - che Mario Luzi pregiava. Silvio Perrella lo recupera.
Architetto e agitatore politico, Dolci fu in Sicilia dal 1952 alla morte nel 1997, animatore sociale e pedagogo. Uno studioso e un filantropo dei piccoli e afflitti, poveri e non, relitti dei riti morti del sociale. Per l’occhio penetrante, inconciliabile, del poeta. La poesia in senso proprio continuando a esercitare come vizio privato. Sui temi dapprima temperamentali, della natura idilliaca: le stagioni, le notti e i giorni, la vita che muore, che rinasce, il mare sempre, la libertà degli uccelli, la giovinezza, correre sulla spiaggia, fantasticare, il limone lunare – “una pianta vera, chiamata così dai contadini perché a ogni luna infiora e infrutta”. Poi il quotidiano prende il sopravvento, l‘ananke politica, di violenza perlopiù e squallore: sbirri ovunque, anche nei sogni, raid delle Forze dell’Ordine, aule di giustizia sorde, dove per fortuna hano totlo il crocefisso e la scritta ironica “la giustizia è uguale per tutti”, mafiosi diventati politici. E il lavoro sul campo, di agitatore e educatore, semplice e arduo, contrastato da “tutti”, eccetto i poveri inermi. Rassegnato a volte – “L’alba diventa un’ora\ che stenti a riconoscere nel grigio\ di ogni altra ora”. Gnomico: “Sono eguali due rondini\ se non sei rondine:\ due occhi eguali non esistono.\ Due alberi eguali non esistono,\ fiori eguali, due petali\ - due canti eguali,\ due toni.\ Due albe eguali non esistono,\ tramonti eguali, due stelle,\ ore eguali,\ attimi”. Sorpreso. Ma sempre, al fondo, giovanile, entusiasta se non spensierato¨”Una riunione è buona se alla fine\ uno non è più lui\ ed è più lui di prima”..
Danilo Dolci non fu molto amato, specie in Sicilia, dove pure con la sua pedagogia della interpeneterazione si può dire rinato (sposato a una vedova con cinque figli, ne ha avuti altri cinque), e alla fine restò isolato. Ma i suoi temi cinquant’anni fa sono quelli di oggi. Scuole crepate, dove ci sono. L’agricoltura stordita – “SI COMPRA CARO, SI VENDE PER NIENTE”. I tradimenti, troppi. E sbirri ovunque, non per la buona causa – “Non so più contare le denunce\ e i processi ridicoli che  arrivano\ ma pericolosi come il veleno”..
Resistette. ”Nel mio bisogno di poesia, gli uomini,\ la terra, l’acqua, sono diventati\ le mie parole”. L’impegno per la pace, che condivise con Capitini, lo portò a Hiroshima – e alla moderna Auschwitz dei Gastarbeier  in Germania, dove il giaciglio nella baracca di legno veniva fatto pagare dall’impresa, orario di lavoro 5\18. Ma finì deluso, nei limiti di questa raccolta, incattivito, la sensazione soffrendo di scavare sabbia – altro non gli si chiede più che l’ennesimo digiuno di protesta, per la secna: “grumo\ vagante di galassia”, un grumo triestino, da mare di scoglio, immerso nella calida spugnosa Sicilia, sommerso.
Molte le cose viste e i personaggi frequentati. Gente umile del luogo per lo più, di distinta dignità. I  cooperanti volontari, giovani e meno giovani, specie dal mondo tedesco. Alcuni nomi di scorcio: Capitini, Tono (Zancanaro?), Ernesto (Treccani?), il presidente eletto Leone, “un furbesco patrono dei amfiosi”. E Sciascia probabilmente, non nominato, non simpatetico – muto all’incontro: “Poiché stigmatizzava sulla stampa\ il non prendere partito,\ sono andato a trovarlo nella sua\ città, per domandargli notizie\ su un mafioso locale divenuto\ politico potente:\ e pure se involpito nella storia  della sua terra,\ pure se aveva pubblicato lustri\ romanzi sulla mafia -\ un fatto, un solo dato, un accennare\ non gli è sortito dalla bocca triste”. La raccolta è nel complesso di poesia civile, o politica, sulla deriva di Pasolini, di prose infiammate – quattro dei cinque album che la compongono, “Voci di una galassia”, “Il limone lunare”, “Non sentite l’odore del fumo?”, “Sopra questo frammento di galassia” (il quinto è un ripescaggio di gioventù, “Ricercari”).
Nato nel retroterra giuliano da mare slovena e padre siciliano – allora si poteva, 1922 – Dolci è stato in Sicilia, dove poi ha sposato una vedova con cinque figli e ne ha avuti altri cinque, l’inventore del digiuno pubblico di massa, dello sciopero alla rovescia - farsi per esempio una strada necessaria - per il quale finì in carcere e all’esibizione in manette, e della prima radio privata nel 1971, Radio Partinico Libera. Molto attivo anche dopo il terremoto del Belice, 1968.
Negli ultimi tre decenni del Novecento fu soprattutto impegnato nella pedagogia della maieutica, l’approccio innovativo con cui si era presentato in Sicilia vent’anni prima: la trasmissione culturale come interrelazione, un dare e avere costante, con la cultura e le competenze locali, tradizionali, personali. Come mezzo migliore sia all’alfabetizzazione senza ritorno, sia alla “capacitazione” (empowerment) degli individui, specie degli “esclusi”. Ma fu più noto come autore di denunce famose – quella di Bernardo Mattarella gli valse una condanna (è il nome su cui l’innominato Sciascia rimase muto?). A cominciare dall’inchiesta su Palma di Montechiaro nel 1960, a trenta km. da Agrigento, scena del “Gattopardo” e feudo inerte di Tomasi di Lampedusa, l’autore del romanzo, dove la grande maggioranza dei 20 mila abitanti vivevano in casupole senza luce, accatastati, con gli animali doestici, il novanta per cento senza acqua corrente e l’86 per cento senza gabinetto. Era ieri.
Danilo Dolci, Poema umano, Mesogea, pp. 269 € 16

lunedì 19 settembre 2016

I mussulmani per Trump

 Il copione ripete la campagna elettorale del 1980, quando l’impresentabile Reagan sconfisse il presidente uscente Carter: oggi come allora l’islam fanatizzato lavorò per l’estrema destra. Il fatto fu rivendicato nelle piazze di Teheran dopo la vittoria di Reagan, allora l’estremismo islamico aveva sede a Teheran, anzi vi era stato inventato dall’ayatollah Khomeini, per lo “stardicamento dell’Occidente”, senza meno.
Non  lo è di proposito, ma sì di fatto: l’estremismo, o reazione, occidentale ha una sua constituency forte, se non determinante, nell’islam più fanatico. Non importa che Trump voglia buttare  i mussulmani d’America a mare. Anche nel 1980 Reagan prometteva guerra a oltranza contro l’Iran. Che non faceva terrorismo all’estero, come oggi l’Is, ma aveva fato di peggio, aveva assaltato l’amabsciata americana a Teheran, e teneva una cinquantina di persone, americani e iraniani, diplomatici e amministrativi, in ostaggio. Non per riscatto né per unop scambio politico, così come oggi il terrorismo diffuso dell’Is.
Solo il seguito di allora appare difficile che si ripeta, se l’Is riuscirà a far eleggere Trump. È difficile che Trump si accordi con l’Is, come Reagan fece con Khomeini contro Saddam, nell’operazione Iran-Contra.

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (301)

Giuseppe Leuzzi

“Ci sono i gangster e c’è l’amore”, dice un vecchio impresario a un giovane commediografo nel romanzo “La gang dei sogni” di Luca Di Fulvio, “l’America parlerà solo di noi”. Ed è vero, da Bernstein, “West Side Story”, a Sergio Leone, “C’era una volta l’America”, e molto Scorsese.Anche a Napoli ci sono i gangster e c’è l’amore, nelle canzoni e fuori, ma la cosa è senza prospettive. A Napoli non c’è altro, non c’è l’America – al più c’è ‘Italia.

“Io sono Nordest. La narrazione delle scrittrici” è il tema del dibattito con Annalisa Bruni, Irene Cao, Mary B. Tolusso a Pordenonelegge, il festival di letteratura cui “La Lettura” dedica una mezza dozzina di pagine, non a pagamento. Irene Cao promette bene, che scrive porno, benché algido.

“Vista dal ferry boat che attraversa lo Stretto dal continente, Messina appare una piccola città portuale ragionevolmente prospera, con alcuni grandi moderni palazzi di uffici, soprattutto banche, sul lungomare, e con ville graziose di media grandezza distribuite sulle colline dietro la città. L’impressione è falsa. Messina è di fatto una città morta”. È la silhouette che della città disegna Margaret Carlyle, “The Awakeming of Southern Italy”, 1962. Avendoci vissuto in quegli anni per fare le scuole, non si può che testimoniarlo: era città gradevole. Che fosse morta però non si vedeva. Sarà accertato qualche anno dopo, quando la città e la gloriosa università riusciranno anche a imbruttirsi, nello squallore. La storia come freccia può andare al rovescio. 

La creazione del Sud
“Mi sono svegliato con una testa di marmo tra le mani”, Seferis così compendiava il suo Mediterraneo. Nell’introduzione a “Ispirazioni mediterranee”, la conferenza che Valéry tenne nel 1933 all’università delle Annali, Maria Teresa Giaveri così sintetizza i tanti secoli di mito del Mediterraneo: “Tutto ciò che non è mai esistito ad Atene né a Roma, che mai è stato cantato da Omero né da Virgilio (tempi bianchi come lenzuola, uomini maestosi come statue), forma il senso figurale e letterario che, da qualche secolo, domina i Grand Tours e i diari di viaggio, le architetture e i poemi che si vogliono «classici»”. Dominava, da tempo non più. Ma è certo un falso mito.
Il falso mito nasce quando il Mediterrane non è più “la sede della legittimità politica”, né dei commerci e della ricchezza. Alimentato in successione dal culto nascente delle antichità che si andavano scavando e tesaurizzando – “come l’orientalismo e l’esotismo”: è il fascino delle rovine.  Poi dallo Sturm und Drang, con la “scoperta” dei mondi popolari, “meravigliosamente arcaici, in cui si vive secondo tradizioni apparentemente immutabili”.
È la “creazione” del Sud che lo ingessa, anche con le migliori buone intenzioni. Nella quale il Sud si ingessa.
Oggi del resto, direbbe Danilo Dolci, il Sud che Valéry voleva sole e mare ha qualche problema: “Il sole? Costa soldi,\ per l’ombra, soldi,\  soldi, guardare il mare\ soldi, trovare un minimo silenzio,\ sta diventando un prezioso lusso\ tuffarsi in acque non inquinate”.”.
   
Il risveglio del Sud
“The Awakening of Southern Italy” è un libro del 1962, di Margaret Carlyle, non tradotto in italiano, caso unico nella pubblicistica sull’Italia, il risveglio del Sud. Di una studiosa giovane ma storica internazionalista già affermata, della guerra fredda in Europa, il blocco di Berlino, l’“insicurezza” della Russia. Assistita e orientata in Italia da Umberto Zanotti Bianco, Manlio Rossi Doria, la Svimez, e il ministero degli Esteri. Per una ricerca laboriosa, a partire dal 1955, benché centrata soprattutto sulla riforma agraria, che la ricercatrice aveva voluto controllare sul posto, in giro per le regioni interessate, alle quali dedica distinti capitoli.
Carlyle elogia in partenza “il lavoro rivoluzionario avviato dal governo” – in omaggio probabilmente a Antonio Segni, che da ministro degli Esteri e presidente del consiglio ne aveva favorito la ricerca. Questo può aver determinato la mancata traduzione. Ma parte anche contrapponendo la recente storia repubblicana a quella dell’Italia unita: “Il consenso è generale tra i migliori scrittori sull’abbandono e le ingiustizie nell’Italia meridionale dopo il 1860”.
È un punto su cui ritorna più volte. La stessa alienazione della manomorta (i beni della chiesa) fu un doppio danno per il Sud, spiega: lo privò delle opere assistenziali della chiesa, e il ricavato della cessione lo investì al Nord.
Leggendo questo “Awakening” l’impressione emerge di un Sud sclerotizzato dall’unificazione, che per questo non riesce a liberarsi dall’oppressione dei primi ottant’anni di storia unitaria. Anche la “bellezza”, alla quale il Sud è stato confinato, in parallelo con la deprecazione, è un mito negativo, spiega Carlyle: “La Sicilia ha forse sofferto più di ogni altra regione d’Italia del mito del mito del Sud lussureggiante”.
Il reportage è naturalmente superato. Ha ancora le “terrazze di limoni” della costiera amalfitana, e un barlume delle terrazze di zibibbo della “costa viola”, da Bagnara a Scilla, già allora in via di abbandono – mentre fanno la ricchezza delle Cinque Terre in Liguria. Ma è curioso che i problemi siano oggi quelli di allora: il dissesto geologico, la questione demografica (allora troppe nascite, oggi troppo poche), la scarsezza dei capitali, la scarsa produttività dell’agricoltura. Con molto non detto. I professori dell’università di Messina, romani o di altrove, che preferiscono farsi due giorni di viaggio a settimana piuttosto che passarci qualche mese. La semplice rivoluzione del DDT, 1945-1948, che, velenoso e tutto, ma stroncò la malaria, in Sardegna diffusissima, in Sicilia e in Calabria. La classe media che non c’è, evapora: “Una delle debolezze della società meridionale è stata l’assenza di una attiva e responsabile classe media”. C’è pure il Pasolini di allora, rivoltato: “Ci sono ancora, purtroppo, persone in posti influenti nella chiesa e nello stato che affermano che “i veri valori nazionali” son da cercarsi tra i contadini; che l’Italia delle virtù esiste nella campagna”. E – curiosità – c’è pure l’immagine di Cutro paradigmatica, come per Pasolini, del Sud da aborrire.

Carlyle si giustifica da ultimo al livello minimo: “È il senso del movimento ovunque nel Sud che giustifica il tiolo di questo libro”. Rifacendosi al Rossi Doria del “tutto è in movimento”. Che però intendeva soprattutto dei lavoratori, dal Sud al Nord.

Aspromonte
Non se ne può parlare perché è la fama che gli si è cucita addosso è sinistra. Tra Corrado Alvaro, la sua “Gente in Aspromonte”, e i rapimenti di persona. Ma è montagna aperta, affacciata sul mare. Luminosa. Secca. Ventilata. Sonnacchiosa, come tutte le montagne, o riservata, ma sorridente e non arcigna. Ed era viaggiata, prima, senza mai problemi, benché a piedi o sul mulo, da persone miti e remote, Edward Lear, Norman Douglas, Henry Swinburne già nel Settecento, il delicato mammista de Custine.

La montagna è come von Haller l’ha poetata tre secoli fa in “Die Alpen”, 1729, una delle prime “scoperte” del massiccio, da svizzero montanaro di spirito, benché medico, scienziato, filosofo e poeta, quale Ladislao Mittner lo tratteggia. La natura non vi è “indipendente”, slegata dall’uomo, benché dominante: anche nei recessi e nella solitudine è precorritrice e guida della ragione morale, del modo d’essere, e ne è l’ancella – è come un’innamorata: se corrisposta corrisponde.

Col miele di castagno, “aspro e amaro, eppure dolce”, come lo ricordano i calabresi a New York di “La gang dei sogni”, il romanzone di Luca Di Fulvio. E “la pasta di mandorle”.
Ma, come spiegava Nino Scutellà, “ci sono diecine di tipi di mandorle”, e “centinaia di tipi di zucchero”.
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Corrado Alvaro è parte principale della demonizzazione della montagna. Contrariamente alle intenzioni, perché ne era appassionato – tramite il padre, la figura che non nomina, o raramente, ma è il suo alter ego tutta la vita, considerato e intraprendente, volitivo, mai apatico o rassegnato o indolente – e lo animava di miti e divinità. Autore non solo del celebrato “Gente in Aspromonte” ma anche del s oggetto di “Patto col diavolo”, il film di Luigi Chiarini che anticipò nel 1949 la nerezza di “Anime nere” di Criaco e Munzi. Ma nel film scoprì sorpreso che il suo aborrito San Luca era meglio di come lo viveva: “Il mio paese è cinema a sua stessa insaputa. Ora che li ho visti, i miei compaesani, davanti alla macchina da presa, mi sono accorto che sempre, quando si muovono, quando si fermano, quando si raccolgono in gruppi o dai gruppi si separano, fanno «inquadratura»', anche se non sanno cosa essa sia. Tutto questo non è artificio loro né visione artificiosa in me che lo noto, ma deriva dalla naturale armonia di movimento e di atteggiamento di questa gente che ha alle spalle i greci antichi e gli arabi, cioè dei popoli armoniosi e ben proporzionati in ogni esteriore manifestazione di vita secondo una consimile proporzione morale che li regge”.

Sotto le mini e maxi serie di mafia, e le interviste bestseller agli assassini seriali, dietro i palazzoni di miniappartamenti per le ferie di napoletani e romani a buon mercato sulle coste ieri vergini, sopra le borgate dei braccianti immigrati senza l’acqua, insensibile all’ “ignoranza”, direbbe “Ringhio” Gattuso che vuole distruggere col cemento armato, gli scheletri a quattro piani di case che non saranno mai completate, destinate peraltro a nessuna abitazione, che alla catena del debito hanno assoggettato con la banca a vita, si estende, screditata tanto quanto sconosciuta, la C alabria d montagna. Diverso da tutte le altre montagne, le Alpi, gli Appennini, l’Aspromonte è una scala terrazzata. Una serie di scale con pianori di affaccio disseminati a tutto tondo sui tre mari, a varie altezze, e coltivate, a patate, a ortaggi, a castagno. Sopra valli ampie, larghe, profonde, di ulivi mareggianti: elevati, frondosi, acchittati come alla prima comunione. Testimoni di un impegno costante di secoli e millenni, contro la natura che è sempre avara quan do non tradisce, tra malaria, siccità, malattie, di un popolo laborioso e tenace – e fino a ieri sordo all’“Italia”, al “tutto subito” della corruzione e i veleni.
Le valli risalgono e non scendono, la montagna ne è madre, vigile, protettiva. “Quandu u tempu è da muntagna,\ pigghia u zappuni e va’ a’ campagna.\ Quando u tempu è da marina\ lèvati tardu e va’ a’ cantina”, è previsione meteorologica sicura: quando il maltempo minaccia dalla montagna, vai tranquillo a lavorare. Era popolata, da capanni in pietra, monasteri, stalle e stazzi, e terra di transumanze, anche stabili – sono da noi, guardando il Tirreno, quartieri di paddechi e natiloti, gente del versante jonico. Teatro di scorribande e fughe non immaginarie, non solo, del Guerrin Meschino cavaliere errante, dai saraceni a caccia di schiavi. Forse non drammatiche come la libertà induce a pensare, c’è acquiescenza all’invasore, abbandono  al più potente, al potente di turno. E accettazione del diverso, il pagano di molti cognomi, l’arabo, lo zingaro, lo “sciavo”, l’ebreo.

L’autodistruzione sembra il segno, non c’è altra parola per dirne l’attualità. Dell’ambiente più che della montagna, indistruttibile, del carattere. in primo luogo. Ma questo non  un’eccezione in Calabria, dove l’abusivismo di necessità fa legge, è la corruzione di tutti. Anche se scheletri in cemento armato da quattro piano e mille metri cubi non sono una soluzione ma una condanna: a non poter mai finire il lavoro, peraltro inutile, la popolazione ogni anno decresce, e a faticare tutta la vita per la banca. Un po’ di dura pedagogia da parte dei sindaci, invece della demagogia, avrebbe reso un servizio veramente democratico. O allora è la riforestazione senza criterio. Né di luce – boschi si piantano bui, pianori s’inzeppano di piante, specie altissime si trapiantano a occludere la vista. Né di specie – le specie nordamericane e scandinave vanno a premio.

L’acqua è la divinità. Le sorgenti, di faggio, di castagno, di abete, di ghiaccio, resistono alle strade tagliaboschi antincendio, al cemento armato, e alla stessa riforestazione, come templi naturali minimi, anime dei boschi sussurranti, quando ninfe e najadi li popolavano. Ognuna nelle belle stagioni con le sue fila di fedeli, in riga per farne provvigione paziente per la casa.
L’acqua è “la semenza celeste”, Simone Weil, “Quaderno X” – qualcosa della filosofia è radicata: “La Linfa (Dioniso) è fatta di fuoco e di acqua – l’acqua, la semenza celeste.
“Ritorno all’acqua, ritorno allo stato primordiale, anteriore al peccato, lo stato di filiazione, lo stesso in cui l’anima non è altro che creazione divina.
“Ritorno alla passività – Obbedienza. «Acqua e Spirito». Che tutto ciò che nell’anima non è spirito sia acqua”.

leuzzi@antiit.eu 

L’umorista è un malinconico

Racconti da ridere in cui non si ride. Nemmeno si sorride, né si irride. Racconti malinonici, anzi: Il ragazzino cattivo”, “Il ragazzino buono”, il lunghissimo “Gita di piacere”. Il cattivo prospera, il buono non prospera, la vacanza – l’idea di vacanza - è noiosissima.
Mark Twain è famoso per le battute: nemmeno una qui. Sì, a Bermuda, dove un signore americano decide di prendersi infine una vacanza, ma si esaurisce nella cipolla: l’isola di “un milione di gatti” tutto esaurisce nella cipolla, a Bermuda la cipolla è tutto. E nei “discorsi da treno”, che si fanno anche sulle navi - ricordi della vita monotona da pilota di battello sul Mississippi che Mark Twain fece nella prima incarnazione. 
Si può sempre argomentare che l’umorismo resta insondabile. Ma la verità è che Twain non è Twain in questi primi racconti, da lui labellati umoristici. Lui è l’autore di solide malinconie, “Huckleberry Finn” e “Tom Sawyer”, le battute non contano. E che l“autore umoristico” per definizione non può far ridere: la risata non è un genere codificabile. 
Mark Twain, Tre racconti umoristici, Il sole 24 Ore, pp. 79 € 0,50

domenica 18 settembre 2016

Merkel è il problema, non la soluzione

Troppo poco troppo tardi<. la sua divisa, funzionale alla sua propria centralità in Gerrmania, Angea Merkel ha imposto da dieci anni all’Europa degli imbelli Sarkozy e Hollande, dei Napolitano-Monti. E continua a imporla. Con briglie strette ai corrispondenti e inviati italiani, francesi e spagnoli a Berlino, marcati a vista, mesmerizzati forse – Merkel è molto criticata in patria, mentre è unanime l’osanna fuori. L’esito è quello che questo sito, e ogni altra opinione appena appena non pregiudicata sullo stato delle cose, non poteva non rilevare sette anni fa, sei anni fa, cinque anni fa, quattro, tre, due: che il resto del mondo s’è ripreso dopo la crisi, e galoppa. E più gli Usa, che peggio l’hanno sofferta, e più o meno allo stesso modo dell’Europa. Mentre l’Europa annaspa.
Da Berlino vengono peraltro continuamente lezioni e non mea culpa. E quindi non è un errore questa conduzione dell’Europa, ma una strategia. Che minimizza e ridicolizza ogni lettura svincolata del fatto. Potendo contare su uno stato di soggezione in pratica unanime.
Il vertice di Bratislava, che doveva segnare il rilancio dell’Europa dopo il rifiuto britannico, è finito nel ridicolo, ognuno lo vede. Manfred Weber, il capo dei Popolari europei, “voce ufficiosa di Angela Merkel”, sostiene sul “Corriere della sera” che il vertice “ha compiuto passi importanti. Per esempio…. con aiuti e freschi finanziamenti alla Bulgaria”. Lo “spirito di Bratislava” di Angela Merkel come una goliardata, una presa per i fondelli?
Forse è che non sono cattivi. Ma nessuno dice che l’imperatore è nudo: il peggio dell’Europa, perfino di Manfred Weber, è l’opinione.

Ma l’Italia i compiti li ha fatti

È diffusa ultimamente da Berlino, subito recepita da corrispondenti e commentatori italiani, la nozione che la crescita è un problema italiano e non europeo. Che la Spagna, la Francia e la Germania si sono tirate furori egregiamente dalla crisi, solo l’Italia no. Che l’Italia deve “fare i compiti”. Il che è falso.
Il governo tedesco, o meglio “i tedeschi”, governo, giornali, economisti più o meno governativi, hanno rimesso l’Italia nel mirino da un paio di settimane: Con due argomenti, non nuovi ma insistititi: la crescita è un problema solo italiano, perché l’Italia ha “lacci e lacciuoli” agli investimenti e al lavoro, e perché l’Italia ha troppo debito. Mentre sono due false verità, anche evidenti.
Che la Spagna e la Francia facciamo meglio dell’Italia è vero sul quindicennio dopo il 2000, grazie alla crescita ante-crisi. Dopo, annaspano anche loro. Solo la Germania va meglio dopo la crisi, dopo essere andata male e malissimo prima. Grazie al crollo del costo del suo debito, che è maggiore di quello italiano. Per l’uso concorrenziale che ha fatto della crisi, o effetto spread – “sto meglio finché gli altri stanno peggio, sto molto meglio se l’Italia sta molto peggio” (nel 2003-2004 lo spread sul Bund tedesco era minimo, trenta-quaranta punti). Di cui le campagne di stampa contro l’Italia sono palese manifestazione, per il debito e per le banche.
L’Italia non andava male prima, ma non riesce a uscire dalla crisi. Il perché è anche semplice: non ci sono investimenti pubblici in Italia da dieci anni. E non ci possono essere perché l’Italia è sotto torchio.
I compiti l’Italia li ha fatti, da tempo, ma a vuoto. Ha bilanci in attivo primario (al netto degli interessi sul debito) da venticinque anni. E si è sottoposta a ogni sorta di vincolo di spesa e di bilancio che la Bundesbank e Berlino hanno imposto, prima col patto di stabilità di Theo Waigel, il ministro di Kohl, poi col Fiscal Compact firmato da Monti nel 2012. Ha il mercato del lavoro più flessibile in Europa, da almeno vent’anni, dai due milioni di licenziamenti del 1993-1995 e il dilagare dei co.co.co. Ha da cinque anni l’età di pensionamento più alta.
Il debito italiano resta troppo alto? Questo è vero, ma lo è in rapporto al pil, che decresce o non cresce. In rapporto al patrimonio è sostenibilissimo, com’è noto anche da studi tedeschi – più della stessa Germania. Ma l’economia è ferma. È un circolo vizioso? Può darsi. Ma il tallone tedesco impedisce una via d’uscita.