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sabato 29 ottobre 2016

Letture - 278

letterautore

Dante – “Terrence Malick”, testimonia Benigni, “cattolico, religioso, conosce passi di Dante in italiano”. Dante è cattolico e religioso. L’Italia è cattolicità e religione.

Extracomunitari – Risalgono a Montesquieu, alle sue “Lettere persiane”. 1721: il genere antropologia allo specchio, o l’Europa vista da fuori. D’immediato successo, torrentizio. Allora non arrivavano stranieri “extracomunitari”, ma le loro (finte) vedute sull’Europa sì, con le “Lettere d’una peruviana” di Madame de Grafigny, 1747, etc., tutte di successo. Ogi nessuno più scrive delle stranezze dell’Europa – o l’Europa non se ne cura.

Italia – Dante è “tedesco” per molti, anche italiani, mentre da fuori si direbbe quintessenzialmente italiano – umorale, inaffidabile. Malaparte, “journal d’un étranger à Paris”, dice san Francesco, altro italiano eponimo, francese, per via della madre e del nome. E Boccaccio, per “l’humour, l’oggettività, la libertà”, le cose che dappertutto contrassegnano l’italiano. Piace all’italiano fare doni.

Si trova in Malaparte, nello stesso diario parigino, la battuta celebre, attribuita a Cocteau: “I Francesi sono degli Italiani di cattivo umore, gli Italiani dei Francesi di buon umore”.

Morte – “I morti parlano” è ritornello di uno dei racconti di Assia Djebar, “Donne d’Algeri”. Con l’eredità, le cose fatte, le memorie..

Nobel  - È come se il premio volesse salvare l’idea di letteratura – immaginativa, creativa, durevole: il massimo premio dev’essere contiguo all’immortalità. Cercando con rabdomanzia qua e là. Coi premi a Dylan dopo Fo, o Pinter,e privilegiando i poeti, Brodskij, Heaney, Szymborska, Tranströmer, anche Le Clézio e Kenzaburö Öe. Nell’assedio di tutti i romanzieri globali, miriadi, peraltro indistinti. Si barcamena per il resto salvando i campioni nazionali, G.Grass, e Herta Müller per la riunificazione, Pahmuk, Munro, Saramago, Xinjian (e Mo Yan). E le letteratura “minori”, minoritarie, emergenti, del Terzo mondo etc., come per risarcimento politico.

Ottimismo – “I fanciulli trovano il tutto anche nel niente, gli uomini il niente nel tutto”, Giacomo Leopardi. Il miglior ottimista è il pessimista?

Jean Paul – Lo scrittore atipico per eccellenza della Germania: narratore disinvolto e umorista al tempo plumbeo dei romantici, quando invadente divenne l’onda sotterranea della letteratura tedesca, col culto wertheriano della morte. Un unicum, e tuttavia ben tedesco – la censura peraltro essendo forse europea più che tedesca: “Che bene si può fare all’uomo che eguagli quello di procurargli gioia?”, si chiedeva Madame de Grafigny poco prima, nelle sue finte “Lettere di una peruviana”, 1747. Jean Paul ha provato a far conviver censura e gioia in una vasta produzione, anche drammatica, ma soprattutto satirica.
“Il vento teologico”, ammoniva nel suo “Elogio della stupidità”, “significa guerra e sangue, solleva polvere, e porta nuvole sinistre e terribili temporali”.
Anche il vento giuridico non è male, di cui l’Italia fa  protratta esperienza: “Quello giuridico, come un tornado, spazza via tutto al suo passaggio, scoperchia i tetti, strappa i vestiti dal corpo, e porta via tutti gli arredi, fino ai letti delle case distrutte”.

Pessoa – È uno dei grandi reazionari del Novecento, anche lui con Céline, Pound, Hamsun, Jünger, etc., anzi il primo della serie in ordine di tempo. E di radicalità. Di vedute molto chiare nello scritto marinettiano “Ultimatun”, che Tabucchi ha valorizzato, e nei successivi interventi, più spesso in forma di auto intervista in qualità di ingegner de Campos, attorno al 1920. Antidemocratico: “Tutto è oligarchico nella vita delle società. La democrazia è il più stupido di tutti i miti, perché  non ha neppure un carattere mitico”. L’elettore non sceglie, ovvero sceglie le pietanze che gli sono propinate. Anticapitalista: “Sono in guerra, nel mondo, due grandi forze – la plutocrazia industriale e la plutocrazia finanziaria. La plutocrazia industriale con il suo tipo di mentalità organizzatrice, la plutocrazia finanziaria con il suo tipo di mentalità speculatrice”. Nazionalista, la “mentalità speculatrice finanziaria” deprecando per “la sua indole più o meno internazionale che non ha radici, e non si connette pertanto se non con se stessa, o altrimenti solo con quella razza privilegiata che, attraverso la finanza internazionale, si può dire che oggi, senza avere patria, governa e dirige tutte le patrie”. Antisindacale: “Non esiste questione sociale, da nessuna parte… Non c’è nessun movimento di tipo radicale che non sia mosso, in ultima analisi, dal Frankfurter Bund o da qualche altro organismo dell’Internazionale Finanziaria, che è l’autentica Internazionale”. Antisemita, dal “Frankfurter Bund” alla “Internazionale Finanziaria”:  “Per salvarci? Aderire anticipatamente al futuro impero di Israele. I giudei hanno vinto la prima battaglia: l’hanno vinta a Mosca (con la rivoluzione d’Ottobre, n.d.r.), come laggiù l’ha persa Napoleone. A  tempo debito vinceranno anche la loro Waterloo”. Pessimista: “La civiltà europea attuale è moribonda. Non è il capitalismo, né la borghesia, né alcuna altra di queste formule vuote che stanno morendo; è la civiltà attuale, greco-romana e cristiana
L’“intervista” è una summa di marca reazionaria – peraltro molto ben scritta. Con una curiosa anticipazione della doppia ossessione di Heidegger, nel quadro generale della reazione anti-positivista: della tecnica disumanizzante, diseducativa, e di questa disincarnazione come propria dell’ebraismo. Già in “Ultimatum”, e poi nell’autointervista: “L’unico impero che può esserci è quello di Israele, e l’unica maniera di realizzare oggi un impero è di utilizzare la tecnica, che è il segno distintivo della nostra epoca”. Un’esagerazione, si chiede, “elucubrazione di fanatici”? “Lo è, in alcune delle sue manifestazioni. Ma nella sostanza non è nessuna elucubrazione” – un contemporaneo di Tiberio o Nerone non avrebbe sbagliato a presentirsi “assorbito, conquistato, da un’oscura setta giudaica chiamata cristianesimo…”.

Prospettive – La rivista di Malaparte ha una nutrita serie di numeri d’eccezione, malgrado le censure fasciste. Un numero ha consacrato all’esistenzialismo, con contributi di Moravia, Abbagnano, Della Volpe, e Heidegger. Camuffato, dirà Malaparte, sotto il titolo “Le ultime anime belle”, ma ben visibile. E fu una pubblicazione da tutto esaurito. Un altro numero aveva dedicato al surrealismo, “Il surrealismo e l’Italia”, movimento proibito, a gennaio del 1940, n.1 della seconda serie – la prima serie era stata molto fascista. Un fascicolo consacrato alla pittura contemporanea, e in specie a Picasso – non gradito dopo Guernica, e anzi scomunicato. Un numero alla classe operaia, sotto il titolo”Sangue operaio”, doppio, nn. 28-29, aprile-maggio 1942.

Sherlock Holmes – È l’“eroe” positivista, pratico: uno scienziato del fiuto, o dell’intuito.

Velo – Un linguaggio lo dice Assia Djebar, la scrittrice franco-algerina che fu accademica di Francia, quello del silenzio delle donne. Perciò difficile da mutare: “Un linguaggio che ha da molto tempo preso il velo”. Circospetto e coperto.
La scrittrice ne fa la riprova coi suoi “personaggi”, che normalmente sono donne, quando devono parlare arabo: “La costrizione del velo calato sui corpi e sui rumori rende rarefatto perfino l’ossigeno dei personaggi fittizi”. Una introiezione tale che perfino parlarne sembra un sacrilegio. “Da decenni almeno”, dice a un certo punto della sua vita, nel 1979, dopo che la “rivoluzione” algerina ha imbroccato la strada del’islamizzazione, ma con senso di colpa per essere per scelta francofona, “sicuramente in ragione del mio stesso intermittente silenzio di donna araba, avverto come parlare su questo terreno divenga (esclusi portavoce o «specialisti») in un modo o nell’altro una trasgressione”.

letterautore@antiit.eu

Quanto entusiasmo per il fanatismo

La lettera di Shaftesbury è sull’estremismo, in realtà, più che sul fanatismo religioso - “entusiasmo”. I Camisard che la provocarono erano modesti ugonotti – i calvinisti francesi - delle Cévennes, indotti nel 1702 a una guerra di guerriglia dopo che Luigi XIV aveva revocato con l’Editto di Fontainebleau ciò che restava di libertà di culto. Bollati come “fanatici” da cattolici e dagli altri protestanti.
Nel merito, del fanatismo religioso, Shaftesbury è poca cosa. È giusto citato da Ronald A. Fox, il cappellano cattolico di Oxford che fu lo studioso del fenomeno nella disamina “Enthusiasm”. E in senso diminutivo: per “il suo lezioso, inconcludente «Saggio sull’entusiasmo», argomentato e forse inteso a sminuire il credito della religione rivelata in generale”.
Questo non sembra. Shaftesbury si spinge a testimoniare: “L’ispirazione è il sentimento reale della presenza Divina, l’entusiasmo una falsa”.  Ma non è cosi semplice. La “lettera” si ripubblica evidentemente per fare la tara del fondamentalismo islamico, e anzi del terrorismo. Ma, al di fuori della contingenza, del terrorismo religioso, la fenomenologia del santo non è facile da mandare in giudicato, sia nel rapporto con gli altri, fedeli o critici, sia per se stesso, per fare la tara della sua verità.
Shaftesbury d’altra parte si vuole leggero: “Le opinioni più ridicole, le mode più assurde possono essere dissipate soltanto con la dote dell’irriverenza e da un pensiero meno serio e più lieve”, pretende . È autore anche di una “Lettera sul disegno”, concepita e scritta al tepore di Napoli, in cui sancisce uno stretto legame tra libertà politica e capacità artistica, nonché tra l’arte e la promozione del popolo, se non della democrazia. E lamenta - anche per questo è un po’ contemporaneo – la scarsità degli investimenti nella formazione artistica in Inghilterra. La stessa ironia Shaftesbury propone contro l’ “entusiasmo”, contro il fanatismo religioso e politico cioè, dopo la stagione hobbesiana della guerra civile, di tutti contro tutti .
Fanatismo o entusiasmo lo spiega Bidussa nell’introduzione all’edizione Feltrinelli: “Nel Settecento per dire «fanatismo» si diceva «entusiasmo»” – fanatismo religioso. Un raddoppio che Voltaire e Hume apprezzarono. Voltaire lo ascrive alla “religiosità male intesa”, il laico Hume agli intrighi del clero.
David Bidussa però, che presenta l’edizione Chiarelettere, ci trova dei connotati positivi – Shafesbury no: l’entusiasmo “non nasce né è la conseguenza di un pensiero religioso, ma è dato dalla rivolta contro un sistema che si ritiene «falso», che promette un «bene falso» e contro il quale non può esserci né tregua né pietà”. È una rivolta nel nome di Dio, “ma è anche una rivolta di coloro che scoprono la verità della parola di Dio come arma contro la corruzione, come via per la salvezza. Un modello di comportamento fondato sulla rinuncia e che legge la rinuncia come virtù”. E fa il caso dell’Afghanistan (i Talebani?) e dell’Iraq (l’Is? Al Qaeda?). E di san Francesco…
Lord Shaftesbury, Lettera sul fanatismo, Chiarelettere, pp. XXIX-56, € 8
Lettera sull’entusiasmo, Ets, pp. 105 € 10
Lettera sull’entusiasmo, Utet, pp. 88 € 5 

venerdì 28 ottobre 2016

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (305)

Giuseppe Leuzzi

“Angelo era un galantomo, ma come tutti i galantomini siciliani si scantava a morte dei carrabineri”. – Andrea Camilleri, “La cappella di famiglia”, 287. Vero è, anche ora.

L’etica del Nord
“Come sa ogni fabbricante, la deficiente «coscienziosità» dei lavoratori di tal paesi, per esempio dell’Italia in contrapposto alla Germania, è stato, ed in una certa misura è tuttora, uno dei principali ostacoli al loro sviluppo capitalistico”: l’altrove anticonformista Max Weber fa sue in questo passo  de “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” le notazioni di Sombart, “L’economia tedesca nel diciannovesimo secolo”. Di cui condivide le “precise osservazioni”, eleggendolo anzi a maestro – anche di “chi si senta spinto a contraddirne sempre più recisamente le opinioni, e ne rifiuti energicamente alcune tesi”.
Di suo peraltro lo stesso Weber aveva appena distinto l’avidità settentrionale da quella meridionale: “La «auri sacra fames» del cocchiere o del barcaiolo napoletano o dell’asiatico esercente analoghi mestieri, come anche dell’artigiano di paesi sudeuropei o asiatici, si manifesta, come ciascuno può sperimentare, straordinariamente più penetrante , e in particolare più esente da scrupoli, di un inglese nello stesso caso”. Un viaggiatore che avesse “sperimentato” Londra, o lo stesso Dickens qualche anno prima, non l’avrebbe detto. Ma il sociologo della modernità ne è convinto – lui effettivamente andava a Napoli di preferenza che a Londra.

Il ripudio degli “amici degli amici”
In contraddizione con lo spirito tedesco delle origini, che aveva a cuore gli “amici degli amici”, nella stessa opera Max Weber spiega il successo negli affari con il rifiuto dell’amicizia.
La “grazia” – la ricchezza – si manifesta “in fenomeni elementari della condotta e della concezione della vita”, e uno di questi è “la diffida, che con sorpresa si vede ricorrere così spesso soprattutto nella letteratura puritana inglese, ad aver fiducia nell’animo e nell’amicizia degli uomini”. La stessa confessione “sparì silenziosamente, nelle regioni dove il calvinismo si sviluppò”. Con effetti disastrosi per l’ambiente umano (“fu così tolto alla coscienza un mezzo per liberarsi periodicamente del senso di colpa”), ma non importa.
Gli “amici degli amici” non sono nati in Sicilia, ma in Germania. Sono della monaca Rosvita, la teatrante, decimo secolo: “Dilecti socius et ipse sit dilectus”. Saranno stati introdotti in Sicilia dagli svevi?

Pentimento sartoriale
Si pentono con misura, per evitare l’ergastolo con le attenuanti generiche, e uscire anche presto con la buona condotta, esemplare, prima dei trent’ani che di solito vengono loro inflitti per l’omicidio che hanno confessato – ne confessano uno solo. È una tattica che di colpo ha fatto macchia d’olio.
All’ultimo dei tanti processi in corso a Napoli per delitti di camorra, l’omicidio Montanino-Salierno, in un agguato, dodici anni fa, la pm Stefania Castaldi, pur avendo utilizzato per la sua inchiesta le dichiarazioni di alcuni degli accusati, ha denunciato il fenomeno: per quell’agguato ci sono quindici pentiti, ma di tutti – meno uno, l’armiere – la pm ha chiesto l’ergastolo. Non c’è collaborazione con la giustizia, ha spiegato, ma solo una tattica processuale.
Un dozzina d’imputati a Napoli negli ultimi due anni hanno adottato la stessa tattica. Per non finire gli anni in carcere, non al 41 bis. E magari godersi in vecchiaia una parte del bottino. Una mezza dozzina ha già ottenuto il non-ergastolo, e il non 41 bis. Una tattica avvocatesca, che non poteva non prodursi a Napoli, capitale della sartoria e della giurisperizia – anche il linguaggio è forbito, dei pentiti di un solo omicidio.
Il fenomeno era però evidente in troppi processi in Calabria e in Sicilia – probabilmente anche a Napoli. Le Procure non lo hanno rilevato perché il pentito è sempre utile? A fini di carriera? A fini politici?

Milano
Roma ha – ha avuto nel 2015 - 14 milioni di visitatori, Milano 7. Contando anche le scolaresche lombarde comandate a visitare l’Expo. Ma Milano supera Roma secondo il “Corriere della sera” di martedì 11 ottobre, e il sindaco Sala: “Da tre anni battiamo  Roma”. È una bugia, anche stupida, ma la pubblicità non è l’anima del commercio?

Milano è sanguisuga: non si sa celebrare che a spese di qualcun altro. Perfino a volte - nel “Corriere della sera” e per la sua forma più prestigiosa, Gian Antonio Stella – della Calabria, che è pure lontana, oltre che povera.

“Lo dico senza arroganza”, dice il sindaco Sala un altro giorno, “ma Milano non vuole competere con altre città italiane, quanto piuttosto con le grandi città europee”. Milano come Parigi, o come Londra. Che non hanno il mare, neanche loro, questo è vero.
Sala c’è mai stato?

Sala vuole Milano prima anche per turismo: ci sono più turisti che a Roma, afferma intrepido. Forse non è andato nemmeno a Roma.

Si fatica a non ridere di Milano. Che però è potente, ed effettivamente fa e disfa l’Italia.

Sala non ha fatto in tempo a passare da destra a sinistra, e da manager pubblico (dei partiti) a sindaco eletto che proclama la superiorità di Milano. Sarà stato eletto per questo?

Un festival della castroneria D’Orrico è riuscito a montare sul milanese “Sette” a proposito dell’insalata che l’invitata a una cena aveva trovato a mollo nel bidè degli ospiti. Era un bidè milanese? Non è detto. L’aneddoto risale a Donna Letizia, che dispensava grazie su “Grazia”, e la nobildonna, moglie di Montanelli, abitava a Roma (e quante lettere non sono inventate dai curatori di rubriche?). Ma una corrispondente individuata scrive a D’Orrico che suo marito, “uscito dalla toiletta di un bar del centro di Milano trovò nel lavandino l’insalata” per i panini del lunch.

Non è bastata l’intronizzazione, al vertice dell’arte italiana di tutti i tempi, del milanese Caravaggio, si scoprono ora ben 69 dipinti e disegni. Anonimi ma non fa nulla.
Si scoprono in chiave leghista: devono coprire, scrive Francesca Pini, “i circa otto anni della formazione del giovanissimo Caravaggio tra la Lombardia e il Veneto”.
A quando la cancellazione del Caravaggio di Napoli e la Sicilia - anche di Malta?

A lungo non furono ammessi alla comunione. “I «Lombardi», cioè banchieri, furono spesso, per tale loro qualità, esclusi dal banchetto eucaristico” (Max Weber, “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”), fino a tutto il Cinquecento. Nell’ambito della lotta alla “usuraria pravitas”.

La Legalità
Avviene d’estate girando per l’Aspromonte d’imbattersi qua e là nella giornata della Legalità. Sedie sparse in una radura nei boschi, un coro di voci bianche, una scuola di fiati e percussioni, una pedana di legno, dove si al pomeriggio si svolgerà il dibattito. Tra un giudice, il prefetto, o il suo vice, e qualcuno dell’ordine militare.
Ci sono fondi del ministero per questo. Non grandi spese, alcune migliaia di euro, giusto per la refezione – è pur sempre una festa: tutto semplice. Gli ospiti vengono con vetture di servizio.
Le giornate della Legalità servono, si dice, al controllo del territorio. L’ultima giornata della Legalità seguita fino al dibattito, vide un esponente dell’ordine forense accusare il vescovo di Locri Brengatini di “intrallazzi”. Di avere società, conti in banca, traffici vari, con le cooperative di giovani altrimenti senza lavoro da lui promosse. Sembrava uno sfogo da circolo dei galantuomini, da sempre mangiapreti. Ma il vescovo è stato rimosso. Dunque, non è vero che sono giornate inutili.
Fuori dalla radura giacevano i resti di una Casa del Parco. Un’architettura funzionale e leggera, con molta luce, tutta di elementi lignei. Ignifugati ma non abbastanza. Costata a due riprese un milione e mai attivata.
Il Parco l’ha donata al Comune, perché la mettesse in esercizio, come centro di accoglienza e informazione per gli escursionisti e i visitatori del Parco. Scolaresche, soprattutto, il Parco vuole avere una funzione didattica – come le giornate della Legalità. E nella buona stagione trekker, famiglie e curiosi.
Dopo una dozzina d’anni di abbandono, inaugurata ma mai aperta, la struttura è stata restaurata. E dotate delle nuove strumentazioni elettroniche, interattive. Il Comune ne ha disposto l’apertura e ha avviato la gara per la gestione. Ma solo un gruppo si è candidato. Cui i Carabinieri hanno negato il nullaosta antimafia. E la Casa una notte è bruciata. Solo la Casa, nemmeno un ramo circostante, di pini ignivori. Un lavoro pulito.
Si sa anche chi è stato. Gente che da sempre esclude dal perimetro ogni attività che non sia la sua, di rinfresco, refezione, svago. Scoraggiando e minacciando chiunque vi si attenti, e bruciando l’esercizio se necessario – dopo un primo atto intimidatorio, che metta in allarme le assicurazioni. Ma nessuno è mai stato perseguito.  

leuzzi@antiit.eu

Tom Sawyer e Huck Finn uniti nel mistero

Tom e Huck ancora insieme. Per un esercizio dei più incredibili delle capacità logiche del genietto Tom Sawyer registrato dall’ “analfabetico” suo compare Huckleberry Finn. Dieci anni dopo il fulmineo successo di Sherlock Holmes col dr. Watson.
È il terzo volet della piccola saga – un quarto, “Tom Sawyer’s Mistery”,  fu abbandonato da Twain, che non trovava la “quadra”. Il più lodevolmente breve, anche. Il decalogo del giallo del rev. Knox sancirà al decimo comandamento il divieto del gemello: troppo facile. Ma Twain se la cava.
Mark Twain, Tom Sawyer detective, Mattioli 885, pp. 125 € 9,90

giovedì 27 ottobre 2016

Ombre - 340

Confrontata a un concorrente mediocre, Hillary Clinton non cessa di mettere in mostra qualità mediocri. Pur avvantaggiata dal fatto di essere donna, la prima donna che concorre alla presidenza, e la moglie del presidente Clinton, quello che fece credere agli americani che la ricchezza è infinita, liberando gli affari. Non una sola idea politica, non una proposta caratterizzante. La storia degli imperi è fatta di molte pause.

Due pagine d’intervista “seduta” del direttore Calabresi alla sindaca Raggi sulla cronaca nazionale, mentre su quella romana la stessa sindaca promette une teleferica per smaltire il traffico. A quale delle due “Repubblica” credere?

Fra le tante melensaggini che Calabresi si è fatte raccontare a illustrazione della sindaca, Raggi dice anche delle scemenze. I frigoriferi e i materassi buttati per strada sono parte di un complotto contro di lei, dice: prima non li vedeva. Era miope?o. 

Raggi non sa che la raccolta dei rifiuti ingombranti l’ha disposta lei, o chi per lei, a giugno? È possibile. Si dice inadeguatezza dei 5 Stelle, ma è inconsistenza. Più perfino dell’arroganza.

Poi però Raggi ci ripensa, due giorni dopo, va alla commissione parlamentare Antimafia e denuncia la mafia: è la mafia che non raccoglie i rifiuti ingombranti.
Ora manca Putin – o Grillo è putiniano?

“Papa Francesco”, racconta Benigni al festival del Cinema, “mi ha telefonato a casa alle 8 del mattino e gli hanno risposto che dormivo, se poteva chiamare il giorno dopo”. È tutto cinema, anche il papa.

Tor Bella Monaca, una delle migliori periferie a Roma, s’immortala alla tv giapponese come la città dei topi e del’abbandono. È l’etica di queste periferie che hanno conquistato il Campidoglio e dominano Roma: lamentarsi.
Tor Bella Monaca è il fortino di Grillo.

“Mi fa uscire pazzo che una donna più giovane di me come Raggi sia contro l’Olimpiade”, lamenta Paolo Sorrentino: “Come fa, a trent’anni, a non guardare al futuro?”. Errore: la sindaca viene da un altro secolo – avrà trecento anni?

La sindaca Raggi si fa un dovere a Roma di arrivare in ritardo. Sempre. A ogni funzione. Sempre accolta con compiacimento. Interpreta così la sua femminilità – il suo ruolo di genere per dirla politicamente corretto? .

Dice D’Alema che voteranno “sì” al referendum gli anziani, in quanto “non abbastanza lucidi”. Lui, poco meno di settant’anni,  è lucido?
Non gli bastava la manifestazione con Fini, Pomicino e gli altri scarti: Dio lo vuole proprio perdere.

E Bersani, ospite fisso di tutti i talk-show agitatori? Uno che è riuscito a “non vincere” elezioni già vinte, a farsi ridicolizzare da Paola Lombardi (??) nella trattativa successiva per il governo, per poi dimettersi avendo incasinato il suo partito Democratico. Le vie del male sono infinite.

Le donne dell'islam prigioniere di se stesse

Il titolo è del quadro famoso di Delacroix. Che dopo un mese in Marocco, paese di sovrabbondanti colori, passa a Algeri solo tre giorni, in transito. Ma a Algeri ha l’opportunità di entrare in un harem, il mondo segreto delle donne, e anzi di conversare. Ne trae l’abbondanza di sensazioni e segni che, con un lavoro intenso durato due anni, trasporrà nel quadro celebre “Donne di Algeri nei loro appartamenti”.
Delacroix era conservatore, per i gusti di Djebar. Le donne nell’harem gli piacevano perché lo riportavano a Omero: “le donne sole, a crescere i figli e a filare”. Ma il suo quadro Djebar legge come “un sguardo rubato”. Sul proibito, sul cancellato. “Rubato” anche perché è lo stesso sguardo dell’uomo algerino, padre, marito, figlio, fratello, cui va il diritto di guardare le donne .
Queste storie sono di “donne d’Algeri”, dicee l’autrice presentandole. E “capisaldi di un percorso dedicato all’ascolto”, dopo il 1958, in ragione del suo steso “intermittente silenzio di donna araba”, da scrittrice algerina francese a Parigi (Fatima-Zohra Imalayen, “Assia Djebar”, la scrittrice morta l’anno scorso, bellissima esordiente a Parigi a 23 anni, 1959, su “La nouvelle Critique”, era dal 2005 membro dell’Accademia di Francia) “risvegliata” dalla rivoluzione nazionale. In realtà storie di donne di Cherchell, in antico Cesarea, la sua città di origine – Algeri è un altro mondo. Ma acute, quasi profetiche – i racconti sono degli anni 1970, pubblicati nel 1980. Di esistenze scandite dalle pie pratiche, e dal linguaggio stesso, la seconda pelle, la vera: formule augurali e di scongiuro, matrimonio forzato, ripudio, la nudità curata, riservata all’uomo,  e una  rivoluzione che ha finito per imporre il ritorno alla sottomissione. Comprese le memorie (presumibilmente) familiari, della vecchia nonna, di una dignità perduta nella democrazia – esemplata sul(la?) nipote .
L’Algeria dopo la rivoluzione è un paese dove le “donne libere” sono in città quelle delle pulizie,  che possono uscire da sole “su bianche fila prima dell’alba”. Le altre sono “in clausura, magari neppure in un cortile, ma solo in una cucina dove stanno sedute per terra schiantate dall’isolamento”. La condizione normale: “Molte donne non possono uscire se non per andare ai bagni”. E in casa stanno in attesa dell’uomo. Senza solidarietà femminile, come vorrebbe l’ortodossia, solo energia. Per lo più distruttiva. In un paese condannato non solo dalla condizione femminile, di metà più qualcosa della popolazione, le nutrici dei figli, delle generazioni future, ma, di più, da uno stato di soggettiva – tradizionale, arcaica - soggezione. Che condannava al fallimento la rivoluzione, in una sorta di circolo vizioso: “Non è solo il colonialismo l’origine dei nostri problemi psicologici; c’è anche il ventre delle nostre donne frustrate!”
Assia Djebar, Donne d’Algeri nei loro appartamenti, Giunti, pp. 185 € 5,90

mercoledì 26 ottobre 2016

La percentuale sugli immigrati naufraghi

La Procura di Roma che indaga sulla Marina, su fatti del 2013, sull’assistenza ai barconi in emergenza, un’indagine ridicola e tragica insieme, non saprebbe essere denunciata con abbastanza forza. L’oggetto dell’inchiesta è il ritardato intervento della nave militare “Libra”, la più vicina a un  barcone in difficoltà, l’11 ottobre 2013. L’Sos era stato lanciato alla Marina italiana, ma il barcone si trovava in acque maltesi, e all’epoca le operazioni si svolgevano sotto comando unificato europeo. L’Sos fu girato dalla Marina italiana a quella maltese, che prese in carico il salvataggio, in un paio di minuti. La “Libra” fu richiesta d’intervenire dalle autorità maltesi dopo cinque ore. Si salvarono 212 persone, ne morirono “almeno 268”.
Dov’è l’omesso soccorso oggetto dell’inchiesta della Procura di Roma? Dov’è lo scandalo? Nel fatto che non c’è nulla da indagare. Ma ben due Procuratori della Repubblica se ne occupano, Santina Lionetti e Francesco Scavo, che evidentemente non hanno altro da fare. E la Guardia di Finanza di Fiumicino, scalo come si sa di tutto riposo, dove non transitano droga né immigrati, e quindi bisogna trovarsi di che giustificare lo stipendio. Insieme per dare lustro a una leva di avvocati a percentuale, che propongono denunce all’immigrato innominato, cui carpiscono una firma in conto ripartizione dei futuri risarcimenti dello Stato. E perché quel salvataggio e non un altro – i salvataggi sono giornalieri, con morti purtroppo anch’essi giornalieri? Perché la “Libra” era comandata da Catia Pellegrino, la prima donna comandante, di cui la Marina si faceva bandiera.
Un plot televisivo, da mugwump santoriano. Ma perché farlo pagare a noi? Perché nel nome della giustizia piuttosto che dei processi al talk-show? Perché distogliere l’apparato repressivo dai fatti criminali?
L’immigrato clandestino che ricatta lo Stato italiano è tema da farsa. Una percentuale agli avvocati sui morti in mare, anche. Ma gli avvocati a percentuale agiscono col comparaggio evidente della Procura di Roma, che non ne cestina gli esposti.

Le sporche guerre di Obama sono di Hillary

Propone una no-fly zone su Aleppo e la Siria nord-occidentale. Cioè un confronto ravvicinato con la Russia, che lei sa avere postazioni anti-aeree avanzate. È l’ultimo di una serie di atti bellicosi di Hillary Clinton, da segretario di Stato di Obama, e poi da referente delle monarchie arabe del Golfo, grandi finanziatrici della Fondazione Clinton. Atti tanto decisi, da sopravanzare i dubbi del presidente debole, quanto inconcludenti - per gli Usa – e dannosi – per l’Europa.
Ha cominciato con la Libia: “We came, we saw, he died” è la sua famosa battuta cesariana quando “liberò” la Libia e Gheddafi fu assassinato. Mentre Al Qaeda diventava padrona di Bengasi e mezzo petrolio libico. Una sua personale responsabilità si vuole circoscrivere all’assassinio dell’ambasciatore americano a Bengasi, ma è una posizione eufemistica, per non scoprire questo enorme errore della strategia americana. Venne poi la “rivoluzione” ucraina, con la dissoluzione della stessa Ucraina, e le inutili sanzioni alla Russia. E la tragedia siriana, voluta dall’Arabia Saudita e dal Qatar. Nella quale, come si vede, pur da fuori, non cessa di soffiare sul fuoco.
È nel suo entourage che maturò e fu proposto il bombardamento dell’Iran. Mentre ora si pensa alla Corea del Nord. 

Washington succursale del Golfo

C’è un complesso militare-arabo dietro il nuovo bellicismo Usa, con la debole presidenza Obama. Cinque anni fa è circolato un dettagliato documento, ispirato dal dipartimento di Stato, che diceva la politica estera Usa dominata da intellettuali e funzionari ebrei, e quindi di fatto pro-Israele. Ora un’ inchiesta di “The Nation” mette le potenze arabe del Golfo e l’industria bellica in posizione preminente.
La rivista spiega i meccanismi d’influenza attraverso i finanziamenti, analizzando i conti dei centri di opinione pubblica più bellicisti. Il Cap, Center for American Progress, che si definisce liberal ed è democratico, è finanziato da Lockheed Martin e Boeing. Il Brookings Institute è finanziato dal Qatar. Il Middle East Institute dall’Arabia Saudita.
Le due istituzioni, Brookings e Middle East Institute, hanno chiesto domenica, con un intervento congiunto sul “Washington Post”, un “attacco coordinato” in Siria.  

La guerra è colpa dei padri

“Tu sei un uomo, Figlio mio” è “If”, Se, la poesia più famosa di Kipling. È anche la più amata, secondo la Bbc, in tutta la Gran Bretagna. Ma il piccolo corpus è delle lettere che Kipling scambiò nel 1914-15 col figlio John, da lui arruolato per patriottismo con artifici, benché diciassettenne, allo scoppio della guerra, che sarà dato per “disperso”  a fine settembre 1915, due giorni dopo la sua ultima lettera, sul fronte belga – ci sarà per lui una tomba, ma senza il corpo.
Uno dei “documenti di guerra” più dolorosi, leggendolo a ritroso, del chiacchiericcio e la brillantezza superficiali sullo sfondo della fine del figlio diciottenne. Non ci sono rivelazioni, né effetti speciali. Una vicenda triste dal punto di vista umano. E uno degli spetti della Grande Guerra che si sottacevano dietro i patriottismi.
Le lettere son state pubblicate solo trent’anni dopo la morte di Kipling a gennaio del 1936, per la ferma opposizione della vedova, Caroline Balestier, e della figlia Elsie.  Come tuta la sua corrispondenza del resto. Le lettere non nascondevano alcun segreto di famiglia, tantomeno pruriginoso o scandaloso. Ma un’esigenza di riserbo era subentrata, dopo l’impegno iperpubblico dello scrittore, apostolo incongruente di tutte le guerre.
Incongruente col suo senso storico e politico, vivissimo. E con la sua propria psicologia, di uomo sensibile, troppo. Dopo la morte della primogenita Josephine, nel 1899, a cinque anni, di polmonite mentre era in visita alla famiglia materna negli Stai Uniti, ne aveva improvvisamente spento il brio e l’arguzia, a memoria dei familiari memorialisti. La morte di John lo spense, si può dire , fisicamente: Kipling continuerà a fare la sua guerra, propagandista, incitatorio, sul fronte francese e su quello italiano, e di fronte ai cimiteri di guerra, ma avvia con la morte del figlio una serie di malesseri dolorosi che non lo lasceranno più, fino alla morte vent’anni dopo.
Si farà nominare commissario alle sepolture di guerra, e a questo titolo poté visitare, a mo’ di compensazione, i grandi cimiteri militari, nelle Fiandre, a Gallipoli, in Palestina, in Mesopotamia – il futuro Iraq. Malgrado la corazza di orgoglio, e il pudore britannico, non eviterà di dire il suo sconforto. Nella poesia “Mio figlio Jack” (“Avete visto mi figlio Jack…”). E negli “Epitaffi di guerra”, dove così conclude il componimento “La preghiera comune”: “Se vogliono sapere perché siamo morti\ dite loro: è perché i nostri padri hanno mentito”.
Rudyard Kipling, Tu seras un homme, mon fils. Lettres à son fils, Mille-et-une-nuit, pp. 94 € 3

martedì 25 ottobre 2016

Secondi pensieri - 282

zeulig

Cartesio – Il surrogato della Riforma in Francia, lo vuole Malaparte nel diario parigino dopo la guerra, “Journal d’un étranger à Paris”. Che ha lo stesso “profondamente trasformato il cattolicesimo francese”. In ogni caso, il cartesianesimo “ha eliminato ogni elemento magico nela vita francese”. Lo stesso si può dire di Pascal, da questo punto di vista, in campo avverso. Di una Riforma del genere calvinista, sradicante – mentre quella luterana è radicata, “tedesca”, tribale, della divinità radicate nel singolo tedescofono.
In un senso è sicuramente vero: finisce nel Seicento, stagione peraltro gloriosa, di sentimenti (Racine, Corneille) e di trasgressioni (Molière), una storia letteraria vivace oltre quanto nessun’altra. Dalla ricchissima matière de Bretagne, con le connesse chansons de geste, ai trovatori, i fabliaux, “Il romanzo della rosa”, Villon, Rabelais, Margherita di Navarra, Marot, Montaigne… Che poi si inaridisce nella “filosofia”, delle stesse pulsioni e gli appetiti originari - fame, lussuria, dominio, renitenza.

Entusiasmo – Ritorna la “Lettera sul’entusiasmo”, inteso come fanatismo religioso, di Shaftesbury, 1707 – tre edizioni in contemporanea, più due non remote, molto ben curate, una da Garin e una da Mario Luzi. Un testo che reagiva alla rivolta dei Camisard in Francia, a partire dal 1702, gli ugonotti delle Cévennes che protestavano contro l’editto di Fontainebleau, con cui Luigi XIV cancellava le ultime guarentigie dell’editto di Nantes. Ma non è tanto di religione quando di politica che nella “Lettera” si parla: il conte di Shaftesbury, Anthony Ashley-Cooper, contesta il fanatismo alla luce del principio della tolleranza del suo precettore Locke. Più a fondo, propone come arma l’ironia, contro il fanatismo religioso e politico della stagione hobbesiana della guerra civile, di tutti contro tutti. Contro l’impegno, cioè, o la coerenza, dietro il paravento della bonarietà: “Le opinioni più ridicole, le mode più assurde, possono essere dissipate soltanto con la dote dell’irriverenza e da un pensiero meno serio e più lieve”. Col sussidio di bon mots: “La gravità è fatta della stessa essenza dell’impostura”. “Salvare anime è diventata la passione eroica degli spiriti esaltati”, etc.
Ronald A. Knox, lo scrittore di gialli e cappellano cattolico di Oxford che è stato uno studioso dell’“entusiasmo” secentesco, dai giansenisti ai camisard, circoscrive l’analisi al solo fatto religioso. E così facendo trova confini non definiti con l’eresia – la scoperta o proclamazione dell’eresia. E con la santità – la professione di santità. Il francescanesimo, per esempio, che oggi si impone.
Nella stagione contemporanea, dell’impegno rovesciato, o dello scetticismo generale, l’ironia funziona così anch’essa al rovescio: dando sostanza ai “veri credenti”. Contro l’estremismo resta solo la legge.

Grazia (diritto di) – È stata rifiutata a Sofri perché non l’ha richiesta. Cioè non ha ammesso la colpa. Dopo essersi sottoposto a tutti i gradi di giudizio, pur potendo non farlo. Ed  è stato condannato in un processo per molti aspetti, se non tutti, ricusabili. 
Kant avrebbe obiettato, “Metafisica dei costumi” – “Dottrina del diritto”, intr. al § 50 e segg. Kant limita il diritto sovrano di grazia a delitti contro il sovrano, di lesa majestatis. Ma, pur definendolo il più delicato il più rischioso e il più equivoco dei diritti sovrani, lo riconosce diritto di maestà. E si rende conto che, senza, il diritto di grazia sarebbe un negozio impossibile tra il colpevole e la vittima, anche se questa non è morta.
Derrida va oltre, nella conferenza-saggio “Perdonare”, argomentando la prescrittibilità della cosiddetta colpa collettiva: “È possibile domandare o concedere il perdono a un altro che non sia l’altro singolare, per un torto o un crimine singolare”? chiede retoricamente. E conclude: il perdono è fatto per l’imperdonabile.
Derrida analizza il perdono, o grazia, in contrasto con Jankélévitch, che nel 1971, discutendosi in Francia l’imperscrittibilità dei crimini nazisti, si era dichiarato a favore, con note violentemente polemiche contro la Germania. Ma Jankélévitch stesso aveva appena, 1967, argomentato diffusamente il perdono come sfida alla logica penale. E anche suo compimento.
Più in particolare, a Jankélévitch 1971, che afferma non potersi concedere il perdono a chi non lo chiede, professandosi perciò colpevole, Derrida obietta: “Vi è nel perdono, nel senso stesso del perdono, una forza, un desiderio, uno slancio, un movimento, un appello (chiamatelo come volete) che esige che il perdono sia accordato, se può esserlo, perfino a qualcuno che non lo domanda, che non si pente né si confessa”. Il perdono proponendo, seppure come ipotesi, come “dono”, la grazia sovrana: “Noi ci domanderemo se paradossalmente la possibilità del perdono come tale, se ce n’è, non abbia origine. Noi ci domanderemo se il perdono non comincia laddove esso sembra finire, laddove esso sembra im-possibile”.

Heidegger – Il silenzio di Heidegger sulla guerra e lo sterminio degli ebrei era stato denunciato da Jankélévitch nel 1971 (nella raccolta “L’imprescriptible”, 1986, tradotta parzialmente, col titolo “Perdonare?”): “Heidegger è responsabile per tutto ciò che ha detto durante il nazismo, ma anche per ciò che non ha detto nel 1945”. Jankélévitch si cautela dietro Robert Minder, il germanista del Collège de France, allievo di Marc Bloch e Lucien Febvre (“Heidegger è responsabile, dice con forza Robert Minder….”), ma l’accusa è parte di un’invettiva generale contro il popolo tedesco a sostegno dell’imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità, il nuovo concetto emerso dal processo di Norimberga: “Il perdono! Ma essi ci hanno mai domandato perdono?” Colpa tanto più grave nell benessere materiale goduto e esibito: “Soltanto la disperazione e la solitudine del colpevole darebbero un senso e una ragion d’essere al perdono. Quando il colpevole è grasso, ben nutrito, prospero, arricchito dal «miracolo economico», il perdono è uno scherzo sinistro. No, il perdono non è fatto per i porci e per le loro scrofe. Il perdono è morto nei campi della morte”. Un ragionamento falsato dalla polemica. Ma il silenzio c’è stato e c’è, fragoroso.

Lo Heidegger “marxista” sarebbe controrivoluzionario? È ciò che sospetta Ernst Bloch, “Il principio speranza”, che l’angoscia, l’inquietudine (Sorge = souci), e la vita-per-la-morte riporta alla crisi della borghesia: “Corrisponde allo stato in cui vivono certi grandi borghesi, che, così come Heidegger definisce la condizione umana in generale, si trovano in una posizione precaria e pericolosa”. L’assurdo è “il malessere della borghesia eretta in assoluto metafisico”. Un’analisi più marxista che utopista. Ma è vero che la morte è controrivoluzionaria: “La controrivoluzione si serve dell’idea della morte mettendola avanti come unico «fine» da assegnare alla vita”. E insomma “l’uomo di Heidegger è rappresentativo della borghesia decadente, o ostinata a persistere nella sua  nullità accettata”.

Il “das Da” è di Kafka, “Il processo”, il “qui-presente”.

Immagine – Elevata a regina della comunicazione e dell’immaginazione, sostituto della parola, “specchio della cosa”, da Junger a Antonioni, si è presto svilita. Dove più sembra trionfare, nei social, sommersi dalle immagini che presto sono diventate “inutili” e insignificanti: false, truccate, montate, menzognere, anche quando sono belle – al meglio reggono, le “virali”, quando sono strane  o eccessive. Già questo è un limite, che l’immagine dev’essere peculiare. Ma, poi, anche questo è un limite: più strane sono più sono inappetenti, truccate. L’immagine è presa al suo laccio, di voler essere veritiera. Resiste, con limiti, quando è – si propone come – bizzarra.

Storia – Va per generazioni.

È l’eterno divenire – l’Essere che si rivela. Cioè il presente.

zeulig@antiit.eu

Non c’è storia senza perdono

“Il nostro risentimento, la nostra incapacità di liquidare il passato, non si chiama rancore, ma orrore”. “Fare dei paralumi con la pelle dei deportati, bisogna essere un vampiro metafisico per avere un’idea del genere: che dunque non ci meravigli se un crimine insondabile provoca una meditazione inesauribile”. “Non perdonare loro, perché sanno quello che fanno”. “Dal macchinista dei convogli fin al miserabile burocrate che teneva la lista delle vittime, ci sono ben pochi innocenti fra questi milioni di tedeschi muti e complici”. “Ci sarà rimproverato di paragonare questi malfattori ai cani? Lo ammettiamo, il paragone è ingiurioso per i cani”. “La buona coscienza dei tedeschi di oggi ha qualcosa di stupefacente: i tedeschi sono un popolo impentito”. “Il perdono! Ma ci hanno mai chiesto perdono?” E la prescrizione è impossibile, “è morta nei campi della morte”.
Vladimir Jankélévitch, che nel 1967 aveva analizzato e teorizzato “Il perdono”, quattro anni dopo, nella discussione in Francia sulla prescrizione dei crimini nazisti, prese violentemente posizione contro, con un “Perdonare?” di cui agli estratti. Un testo che verrà ripreso nel 1986, dopo la sua morte, con altri analoghi sotto il titolo “L’imprescriptible”. Di questa raccolta (tradotta subito ma parzialmente, col titolo “Perdonare?”) Derrida impiantò l’analisi in una serie di seminari all’università, il cui filo sintetizzò in una conferenza proposta in varie occasioni dieci anni dopo, in Polonia, Australia, Sud Africa e Israele, che qui è presentata, da Laura Odello. Sottotitolo in originale “L’impardonnable et l’imprescriptible”
La curatrice è perplessa: “Non sappiamo che cosa dica veramente Jacques Derrida quando ci dice perdono e grazia”. Invece Derrida è a favore, del perdono nel senso più ampio. Per filogermanesimo probabilmente, ma con la volontà di provarne il fondamento. Nel luogo più arduo, dell’etica, tra il diritto cioè e la religione, dove i contorni sono più precisi. Ma non – è vero – esplicitamente, non direttamente:  l’imprescrittibilità è recente, coniata a Norimberga, e non è certa la consistenza giuridica del nuovo concetto di delitto contro l’umanità. La questione è proposta all’incontrario: “È possibile domandare o concedere il perdono a un altro che non sia l’altro singolare, per un torto o un crimine singolare”, sottinteso: commesso dal singolo, specifico, individuo? Ma, al fondo, la riposta è semplice: il perdono è fatto per l’imperdonabile. Jankélévitch stesso non l’aveva argomentato diffusamente? Il perdono come sfida alla logica penale. Anche suo compimento.
Nell’una e nell’altra trattazione Jankélévitch non manca di argomenti. Uno in particolare è solido: il perdono entra in considerazione se domandato. Non si perdona qualcuno che non si confessa colpevole: “Ma essi”, aggiunge nella filippica del 1971, i tedeschi, “ci hanno mai domandato perdono? Soltanto la disperazione e la solitudine del colepevole darebbero un senso e una ragion d’essere al perdono”.  Derrida scantona, ecumenico-angelico: “Vi è nel perdono, nel senso stesso del perdono, una forza, un desiderio, uno slancio, un movimento, un appello (chiamatelo come volete) che esige che il perdono sia accordato, se può esserlo, perfino a qualcuno che non lo domanda, che non si pente né si confessa”. Il perdono proponendo, seppure come ipotesi, come “dono”: “Noi ci domanderemo se paradossalmente la possibilità del perdono come tale, se ce n’è, non abbia origine. Noi ci domanderemo se il perdono non comincia laddove esso sembra finire, laddove esso sembra im-possibile”. L’imprescrittibile è parte di una famiglia semantica (inappellabile, inespiabile, irrevocabile…) fondata su una negatività, “il «non» di un impossibile che significa alternativamente o contemporaneamente «impossibile perché non si può», «impossibile perché non si deve»”.
Ma poi, come nel diritto, la cosa matura con il tempo: “Il perdono, la perdonità, è il tempo”. Non c’è storia senza perdono: “È in questo orizzonte che dovremmo rileggere tutti i pensieri che, come quello di Hegel, o in altro modo di Lévinas (e in Lévinas in modo diverso in vari momenti del suo percorso), fanno dell’esperienza del perdono, dell’essere-perdonato, del personarsi-l’un-l’altro, del riconciliarsi, per così dire, una struttura esistenziale e ontologica (non soltanto etica o religiosa) della costituzione temporale, il movimento stesso del’esperienza soggettiva e intersoggettiva”. Di un fatto-misfatto evidentemente, non di un evento. Un terremoto che distrugge una comunità non c’è da perdonarlo.
Jacques Derrida, Perdonare, Raffaello Cortina pp. 106 € 8,80

lunedì 24 ottobre 2016

Il mondo com'è (280)

astolfo

Antifascismo – Malaparte, “Journal d’un étranger à Paris”, riesce ad argomentare l’antifascismo di Pirandello, che pure era fascista iscritto al partito e ammiratore di Mussolini, soprattutto da italiano che viveva molto e operava all’estero. Per l’autonomia assoluta che pretese nel suo lavoro, intransigente. È vero che non ebbe funerali pomposi in morte, o non li volle. E che Mussolini proibì la pubblicazione e l’esecuzione del suo testamento. È anche vero che le sue ultime opere non piacquero a Roma, a un pubblico indottrinato dal partito mussoliniano, mentre eccellevano a Parigi e in Germania, prima di Hitler.
La categoria in effetti è generica

Francesco – Il papa argentino, che ha sdoganato divorziati e omosessuali, scatena opposti estremismi. Zygmunt Baumann  e Michel Maffesoli riscoprono con lui la religione. Augé e Robert Harris immaginano grazie a lui un mondo senza Dio – moto migliore, dicono.

Identità Quella nazionale tanto più è forte quanto più è dura – esclusiva. La Francia, paese di forte immigrazione per un secolo e mezzo, per ovviare al declino demografico, e di rapida integrazione per gli immigrati, culturale e politica se non sociale, applica senza concessione e anche con durezza le sue leggi. L’identificazione dei suoi tanti immigrati con questa Francia arcigna è totale.  
L’opposto avviene nella tollerante, …eente, Italia. Ci sono un milione e duecentomila rumeni in Italia. Dove guadagnano, poco o molto che sia. Ma spendono solo in Germania: auto, elettrodomestici, arredamento, materiale edilizio, etc. Una tassa sulla residenza non è possibile, ma darsi un carattere sarebbe anche necessario, prima che conveniente.

Prescrizione – Non si dà solo in caso di colpa collettiva, ossia di crimine contro l’umanità. Che è un concetto recente, del processo di Norimberga, e non solidamente fondato in diritto – è un crimine in fase di elaborazione dottrinale. Si è provato ad applicare l’imprescrittibilità solo alla Germania nazista, i cui ultimi esponenti sono ora centenari o prossimi. E solo in Francia l’imprescrittibilità è stata discussa e votata, nel 1971, sempre in riferimento alla Germania nazista.
Nel dibattito in Francia sull’imprescrittibilità di distinse per violenza Jankélévitch, che solo quattro anni prima, nel 1967, aveva filosofato il perdono, “Perdonare”. In una serie di interventi, ripresi postumi nel 1986 sotto il titolo “L’imprescriptibilité” (tradotto parzialmente, col titolo “Perdonare?”, desunto da uno dei saggi), nel dibattito del 1971 argomentò che il perdono non è applicabile ai crimini nazisti. Anzi, con eccesso polemico, disse non applicabile alla Germania: “Il perdono è morto nei campi della morte”.
L’imprescrittibilità insomma, è stata ridotta, anche nel caso della Germania, al risentimento. Nella tradizione, sullo sfondo, del “tedesco lurco”. Crudele ora per innatismo, per istinto e pratica incisi nel dna. Ora per cultura politica. Ora per eredità religiosa, del luterano “Io e il mio Dio”. Con annesse insensibilità, pignoleria, mancanza di misura. Una doxa molto comune. Ma il delitto contro l’umanità fu per la prima volta argomentato in Germania, in una col processo di Norimberga, dal filosofo Jaspers.
Il dibattito in Francia fu provocato dalla discussione che si era fatta in Germania sulla opportunità di allungare i termini della prescrizione per i delitti di guerra. Che si concluse con la riapertura dei termini ancora per un decennio, fino al 1979. Seguendo il magistero del dottor Kiesinger, buon nazista e buon democristiano, secondo il quale c’è un crimine maggiore e uno minore, un milite SS non è Himmler. Fatto salvo il diritto di ognuno a proteggersi in tribunale – le condanne si contano.
Il concetto di colpa collettiva, d’altra parte, finisce per essere assolutorio: è una “colpa di sistema”, di ordinamento, come i criminali di guerra dicevano all’epoca e hanno continuato a dire.  Diverso il concetto di “colpa metafisica” elaborato da Jaspers, in aggiunta alla colpa giuridica, a quella politica e a quella morale. Senza punizione possibile però, se non in autocoscienza: “Che noi siamo ancora vivi, questa è la nostra colpa”.  .

Resistenza – Ha una filosofia, o psicologia, triste, secondo Malaparte (“Journal d’un étranger à Paris”, il diario degli anni 1947-1948), che l’ha osservata a distanza, dallo Stato maggiore alleato presso il quale era ufficiale di collegamento dopo l’8 settembre. In “singolare contrasto” con la “psicologia ottimista dei collaborazionisti”, benché sconfitti e dichiarati colpevoli: “Bisogna rifletterci seriamente”.
Il Resistente tende a lamentarsi, a dire che le cose non sono come avrebbero dovuto essere. Malgrado la retorica, “la grande speculazione europea in fatto di resistenza” – e ciò che la mina - è “una speculazione della stessa malafede di quella della collaborazione, della viltà, del tradimento”: “Solo quelli che speculano sulla resistenza hanno, in Francia, il sentimento d’inferiorità, il complesso d’inferiorità della sconfitta. Si sentono vinti, cercano una giustificazione”. Mentre il collaborazionista voleva “sentirsi vincitore coi Tedeschi”.
Malaparte comunque mette in chiaro un fatto normalmente poi sottaciuto nelle tante storie della Resistenza: “La resistenza è un fatto europeo, che offre due aspetti principali: l’aspetto di una rivolta spontanea contro l’oppressore tedesco (Polonia, Norvegia) e l’aspetto di una rivolta organizzata dall’estero, con capi venuti dall’estero, con armi, viveri, uniformi, denaro dell’estero”. Questo secondo aspetto è della resistenza italiana, francese, olandese, danese, belga, jugoslava, e di altri paesi.
Lo scrittore denuncia lo squilibrio umorale tra resistenti e collabò alla fine del suo lungo diario, stanco di sentirsi sospettato di collaborazionismo per il solo fatto di essere italiano, da parte di francesi che avevano ceduto facilmente il terreno alla Germania ma si supponevano tutti resistenti. . Ma il fatto c’è, i due fatti.
Malaparte aggiunge anche, più problematica, la considerazione che “basarsi sullo «spirito della resistenza» sarebbe ridicolo, sarebbe fatale”. Un equivoco, si può dire senza polemica, prodromo di una politica bloccata – astiosa e incapace. “Questo spirito della resistenza”, Malaparte concludeva, “oggi, in Europa, è comunista, è elaborato, pagato, armato,organizzato dall’estero”.

Romania –  È il Paese europeo con la minore immigrazione e la più larga emigrazione, circa quattro milioni su una popolazione di venti milioni, che hanno preso la residenza in altri paesi europei. Lavoratori e calciatori prendono soprattutto la via dell’Italia, 1,2 milioni. Scrittori e artisti passano in gran numero alla nazionalità e alla lingua,, con risultati anche ottimi: Anna de Noailles, Marthe Bibesco, Tristan Tzara, Celan, Ionesco, Cioran, Eliade, Iorga, Paul Goma, Panait Istrati.

Velo – S’incontravano per strada a Tunisi e Algeri negli anni 1960, e anche nelle campagne, donne col viso scoperto e buone mussulmane. In Turchia ancora al volgere del millennio, prima di Erdogan e del suo uomo di paglia alla presidenza della Repubblica, Gül. I quali, entrambi, hanno obbligato le rispettive mogli, che non l’avevano mai portate, a munirsi di ridicole velette in testa – non sapevano come e dove metterle, è stato e tuttora è il lato esilarante degli altrimenti tristi ricevimenti ufficiali. A Istanbul, anche nei quartieri popolari, e lungo la costa mediterranea, s’incontrava rarissimamente una donna velata, accompagnata necessariamente dall’uomo. Ora in Turchia si contesta alle atlete professionali, già ricoperte da pesanti turbanti, la nudità delle estremità. C’entra questo con la religione? No. Col progetto di Erdogan sì. Questo sarà a danno della religione, e domani dell’economia. Ma per intanto le donne turche devono scomparire.

Negli anni post-indipendenza, il velo era praticato in Nord Africa e Medio Oriente, penisola arabica esclusa, solo dalle donne maroccchine. Del paese cioè abominato dal nazionalismo arabo-mussulmano. È però vero che era usato come scelta di moda, oltre che di vita: non penitenziale, non punitiva. Un “velo” aggraziato: atteggiato, colorato. Un modo di essere più che una pia pratica,  certamente non un obbligo imposto dall’uomo.

astolfo@antiit.eu 

Stupidario economico

“I fondi pensione battono il Tfr”. Non è vero, ma è ritornello costante: i fondi sono la magiatoia di banche e assicurazioni. E il refrain non è nemmeno pagato, è solo incuria.

Il grande economista Tito Boeri, che faceva le pulci a tutti quanti, s’infeuda l’Inps e semina panico, invece di cercare soluzioni. Non è nemmeno grillino, è nominato dal governo. Lavora per i fondi pensione, anche lui? Anche il governo?

Non si può fare una dote a un figlio in Italia per la sua maggiore età. I soldi accantonati spariscono: nella totalità dei casi saranno una miseria alla scadenza..

Si tassa il risparmio in tutti i modi. Dopo aver imposto il conto in banca anche ai percettori di pensioni sociali. Con bolli, tasse, cedolari, anche sull’inutilizzazione. Da ultimo con l’obbligo di tenerlo comunque in banca, improduttivo, pena l’evasione fiscale. Poi dice che non c’è la ripesa, non si consuma e non si investe.

Hanno poetato il Monte dei Paschi dai 2 euro e 80 dell’aumento di capitale, non più di un paio d‘anni fa, a 18 centesimi. Poi dice che i pescicani internazionali vi si sono avventati sopra: si specula liberamente e facilmente, al ribasso e al rialzo.

“Grandi affari: luce, treni, metrò, al via la campagna di Grecia. Partono gli investimenti sule infrastrutture. Il rischio Paese? Minimo”. 

Il nuovo novelliere siciliano

Favolelli a contropelo, di storia patria e moralità pubblica, di letto per lo più e d’interessi, di logiche di paese contagiose (il cadavere rifiutato, l’epidemia di duelli, che nessuno sa come si tengono), e le fortune\sfortune innate: il “palato assoluto”, in grado di snidare ogni impurità nel cibo (una condanna), il rabdomante dell’oro. Un’aneddotica irresistibile, sui toni pettegoli e svagati da circolo dei galantuomini – che Camilleri per ragione anagrafiche e ideologiche non ha conosciuto: l’arte ha mediato dall’amatissimo padre?
La raccolta conferma che ci sono due Camilleri: uno di Montalbano, e uno novelliere siciliano. Che rinverdisce la tradizione locale, Verga, De Roberto, Pirandello, Brancati, Sciascia, sui toni lievi della novellistica toscana e padana. Tre, col romanziere storico.
Andrea Camilleri, La cappella di famiglia e altre storie di Vigàta, Sellerio, pp. 321 € 14

domenica 23 ottobre 2016

Una panna geniale

Appassionante è la disputa intorno a “Elena Ferrante”. Specie per chi si è fermato a “L’amore molesto”, senza nemmeno vedere il film – Martone, il regista del film, è uno geniale. Un caso che farà storia nel marketing: “Elena Ferrante” è in cima alle vendite in Germania oltre che in Italia, e lo è stata a lungo in Francia e negli Stati Uniti, dove però resta ai primi posti.
Una strategia di successo opera di un’azienda piccola e anzi piccolissima. Forse addirittura familiare. In un settore, quello editoriale, avaro di glamour. Col coinvolgimento emotivo e di curiosità, in più delle  vendite, di un folto pubblico: vedi le inchieste, le perizie, le testimonianze, le ricostruzioni, umori di vario segno, dei maggiori giornali, “Corriere della sera”. “la Repubblica”, “New York Review of Books”, “Guardian”, “La lettura” oggi, “Il  Sole 24 Ore” più volte. Una festa, la panna non cessa di montare: tutto nella vicenda è geniale.
La ciliegina sulla torta sono le due ultime, voluminose, documentate, inchieste. Una patrimoniale e una filologica, con strumenti raffinatissimi di ricerca. A opera di due autori, Claudio Gatti e Simone Gatto, che evocano un che di felino: un balzo in avanti, geniale anch’esso?

Stupidario calcistico

Martedì l’arbitro Rizzoli assolutamente vuole un rigore dubbio contro la Juventus a Lione (che Buffon poi para), e sabato arbitra di nuovo contro la Juventus a Milano. È in attesa di conferma? A che gara partecipa?

A Lione arbitra contro la Juventus il polacco-ucraino Marciniak. “Allenato” da Collina, l’ex arbitro nemico dichiarato della Juventus, che è l’allenatore-designatore degli arbitri ucraini.

Rizzoli dopo questi exploits arbitrerà più o meno match internazionali, grazie a Collina, il  designatore degli arbitri nei tornei Uefa??

Collina è tifoso della Lazio e famiglio di Galliani, ma conviene al calcio italiano dargli anche il potere di decidere gli arbitraggi nei tornei internazionali? Galliani e Lotito, e il loro manichino Tavecchio, vogliono la Juventus, la migliore su piazza, fuori dai giochi per diminuire le entrate tv?

La Juventus, il club di calcio, ha 785 dipendenti. Spende per il personale il 65 per cento dei ricavi.

Per il trasferimento del calciatore Pogba al Manchester United, la Juventus ha pagato 24 milioni al procuratore-mediatore Mino Raiola, un residente di Montecarlo.

Il neorealismo degli antipatizzanti Vittorini e Lucentini

Una fiaba neorealista, tra “Umberto D.” e “Miracolo a Milano”. Ma di programma anti-neorealista, in questo senso recepita e valorizzata da Vittorini, che ne fece nel 1951 il primo numero di una collana di esordienti che poi resterà famosa, “I gettoni”. Uno smilzo racconto, ricco più che altro di un felicissimo mistilinguismo, tedesco, russo, ceco, polacco – Lucentini sarà traduttore professionale poliglotta, dal russo, il tedesco, il francese, l’inglese, lo spagnolo, l’ungherese, il cinese. “Franco”, il protagonista si chiama come Lucentini, e ha la stessa età di Lucentini, vaga a Vienna,  vivendo di espedienti, e pensa anche di buttarsi al fiume. Non ce la fa, e anzi incontra un’umanità slava e austriaca accogliente. Non c’è plot, giusto la perizia linguistica, ritmata, che aveva stregato Vittorini
Il racconto si ripubblica e si rilegge, come tutto di Lucentini, a ritroso, partendo dal suicidio – anche se il suicidio non era “scritto”: Lucentini morì a 82 anni, dopo una notte insonne, da tempo minato dal tumore irreversibile ai polmoni. A cura di Domenico Scarpa, “lucentiniano” emerito, che lo locupleta di un’introduzione, un’ampia notizia sul testo e le edizioni, una nota filologica e una bibliografia della critica.
Ripubblicato dallo stesso Lucentini nel 1964, da Feltrinelli, in una raccolta dal titolo ”Notizie dagli scavi”, fu letto ancora come racconto in controtendenza, anti-neorealistico. Walter Pedullà evocò Beckett: “Lucentini staffetta italiana di Beckett. Colpo basso contro il neorealismo”. Ma il segnalibro della raccolta rifiutava segnatamente questo accostament: “Seguendo un percorso esattamente opposto a quello delle monologanti larve di Beckett, i sottouomini di Lucentini vanno da una condizione di pura angoscia, di negatività totale, verso un umile ricupero di oggetti, di gesti, di parol, perfino di sentimenti; e da questo paziente lavoro di naufraghi…” Gli ingredienti della ricetta neorealistica, solo reinventati: “una tragedia senza catastrofe” (Pampaloni). Il segnalibro Feltrinelli non mentiva: “Una sorta di via italiana alla naturalezza narrativa”.
Franco Lucentini, I compagni sconosciuti, Einaudi, pp. XII-107 € 8,50