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sabato 13 dicembre 2008

L'ambiente riequilibra la globalizzazione

L’ambiente è dirimente come il salario. Nelle condizioni globali della produzione ambiente e salario sono i fattori di riequilibrio. Alla pari delle coppie salute e igiene da una parte, prezzi e consumi dall’altra. È con la gestione (salvaguardia) dell’ambiente, dell’igiene, di vita e di lavoro, e della salute che il mondo industrializzato può sperare di sopravvivere in un quadro di produzione globale. Nel quale la spinta verso il basso dei salari, dei prezzi e dei consumi sarebbe altrimenti imbattibile.
La globalizzazione è egualitaria. È l’egualitarismo in chiave internazionale. È qui la sua forza: la globalizzazione è cioè democratica, e quindi giusta, e per questo imbattibile. E fatalmente attirerebbe verso condizioni di salario e di reddito minime (“marginali”), che per il mondo industrializzato significherebbe un intollerabile impoverimento. Questa spinta si riequilibra con le condizioni di produzione, in termini di tutela della salute, della sicurezza nel lavoro, dell’ambiente, della qualità del prodotto. Coltivando, e proteggendo, ciò che fa la qualità della vita e dei consumi. Sul presupposto, anch’esso da far valere, che la globalizzazione regge se tutti i suoi pilastri si mantengono solidi – non c’è globalizzazione senza un’Europa ricca (l’ipotesi non è bizzarra).
È questo quadro che fa la forza e i limiti del protocollo di Kyoto. Come di ogni normativa minima in tema di diritti umani, contro il lavoro minorile, servile, cottimista, e a protezione della salute. Ma con particolari esigenze di flessibilità. L’Europa, che è l’unica area col Giappone ad avere adottato il protocollo, deve lavorare a “imporre” questa soluzione anche ai maggiori produttori mondiali, in America e in Asia. Applicarlo da sola non salva l’ambiente e condanna l’Europa. E la globalizzazione.

Tre partite di furbi sull'auto

È una strana partita dei furbi in Europa e negli Usa sulla crisi dell’auto. In Italia Fiat Auto chiude per un mese, e non nega più la realtà. Anzi salta dall’ottimismo al pessimismo: senza aiuti non si esce dalla crisi, e comunque non più di sei gruppi sopravviveranno, la Fiat non sarà più italiana. Marchionne e John Elkann giocano cioè la carta governativa del patriottismo, che tanto costa caro per l’Alitalia. Ma non cessano la campagna politica e di astio contro Berlusconi. Il governo risponde che un intervento a favore dell’auto non sarà mai preso se non in comune con l’Unione europea.
Con la stessa Europa cioè dove la Germania ha già deciso un mese fa per i fatti suoi, salvando a caro prezzo la Opel. Dopo avere impedito già due mesi il piano europeo anticrisi proposto dalla stessa Italia. La Opel che è la maggiore antagonista della Fiat nel Centro Europa, con gli stessi modelli negli stessi segmenti di mercato.
Negli Usa le fabbriche americane di Detroit sono sotto accusa per aver sperperato la capacità innovativa e di produttività che avevano accumulato. A vantaggio delle case giapponesi negli stessi Usa, e della concorrenza in Europa e in Sud America. Il risentimento è forte nell’opinione e al Congresso, dove la maggioranza democratica al Senato ha fatto mancare i voti al salvataggio che il presidente democratico eletto Obama aveva promosso. Questo ora si farà con i fondi già stanziati per la crisi delle banche, per insistenza della Casa Bianca del presidente repubblicano uscente. Ma si trascura di dire che i tre di Detroit sono in crisi per i salari e i contributi pensionistici ben più gravosi pagati rispetto ai concorrenti nipponici negli stessi Usa.
Bisogna ritenere che l’industria dell’auto, e con essa le economie industrializzate, non siano con l’acqua alla gola? Non ancora? O non è un caso di accecamento generalizzato, di Dio che perde chi si vuole perdere?

venerdì 12 dicembre 2008

Scioperare per Epifani

Cento persone a mezzogiorno occupano a piazza Venezia l’angolo cruciale con via IV Novembre, bloccando il traffico nelle quattro direzioni, tutto il centro di Roma. L’animatore dice: “Compagni, lo sciopero è un diritto. Siamo centinaia di migliaia in tutta Italia, diamo un segnale duro al governo”. Su fondo di musica di Jovanotti. Ma potrebbe essere un messaggio registrato, i cento non sono giovani, o forse sono demoralizzati, non tengono su nemmeno le bandiere rosse.
Tutt’attorno centinaia di mezzi della pubblica sicurezza, per garantire l’ordinato svolgimento dello sciopero, con alcune migliaia di poliziotti, e il controllo dal cielo con gli elicotteri. Aspettano il corteo che deve scendere per via Nazionale. A mezzogiorno e mezza i manifestanti non sono di più, e anzi di meno, quando decidono di marciare in corteo sul ministero della Gelmini a Trastevere. Occupano i binari del tram, ma sono meno dei dipendenti della Cgil centrale. Anche se a Roma, dichiarata in stato di calamità naturale, era possibile assentarsi dal lavoro senza perdere la retribuzione. I romani che appiedati vanno di fretta non mostrano alcun interesse. Non maggiore affluenza hanno registrato gli altri punti di raccolta, alla Sapienza e a San Giovanni.
La catena del dispiacete si allunga nel pomeriggio, attendendo l’esondazione del Tevere, oltralpe. La cifra di “centinaia di migliaia”, che l’Ansa ha servizievolmente riportato, circola infatti sui tg francese e spagnolo della piattaforma Sky. Non si finisce più di compatire, dopo la stessa Ansa, e i compagni spersi di piazza Venezia, la Cgil, il sindacato, la sinistra, l’Italia, il segretario Epifani che ha organizzato questo sciopero per non si sa che cosa. Cioè si sa: per aprirsi la carriera politica, ora che il suo ciclo alla Cgil è finito, sul modello Cofferati. Lo squallore è stato spesso, sotto il cielo fangoso, nell’acqua della pioggia sporca stagnante. Figurazione fisica di una politica decomposta, che tutto porta a marcire, anche il sindacato e il senso del ridicolo.

La viva compagnia dei morti

La feracità della scrittura. Sulla materia più inerte, Nuoro all'età dell'illuminazione elettrica, i quartieri scomparsi, le anime senza storia, immobile. Un’evocazione della morte, la dice nella chiusa il giurista tardo scrittore, postumo, ben vivificante - un giurisperito che era stato ferocemente anti Pinelli, benché non richiesto (i morti rivivono con una coscienza morta, incumbent, revenant?).
Salvatore Satta, Il giorno del giudizio, 1979

La tirannia del politicamente corretto

Strano romanzo “politicamente scorretto” di un futuro premio Nobel. Assalti e stupri, con sospetto di Aids, impuniti e indifferenti nel Sudafrica libero dal razzismo, nel pieno della “grande campagna di redistribuzione”. “Il Sudafrica non è in questo libro”, è la linea che lo caratterizza nei liberi commenti online (il romanzo, di dieci anni fa, tradotto da Einaudi nel 2003 in tempo per il Nobel, è finito ai Remainders). Mentre purtroppo è l’Africa, l’italianofilo Coetzee, con tutta la prudenza del nobelando, non si priva di niente. La dittatura dell'età dei diritti, che il ladro, drogato, stupratore, piscopatico innocentizza se nero e minore. La dittaura del politicamente corretto come estensione della antropologia del tutto è cultura (politica), senza più la natura (la realtà, la storia, la tradizione). Il titolo originale è Disgrace, che è anche la parola della perdita, della cacciata dal paradiso. Per il politicamente corretto l'eroina si sacrifica all'abiezione.
Un “a parte” gustoso, benché con l’amarezza del Sudafrica come avrebbe potuto essere, è un’opera da camera su Byron e Teresa Guiccioli a Ravenna. Lui minato dalla mezza età, e dalla scontentezza, lei sempre appassionata benché derisa. Oppure già morto, ma vivo presso Teresa in età avanzata, a fronte delle memorie ciniche degli amici inglesi. “Mio Byron”, intona Teresa in italiano nell’aria che non viene scritta, ma nell’originale inglese sembra di sentirla, “che vuole dir questa solitudine immensa? Ed io, che sono?”. Non sono due storie, sono due mondi diversi le poetiche del romanticismo e la terra sporca col sangue infetto.
J. M. Coetzee, Vergogna, 1999.

Che noia l'umorismo

L’esempio più umoristico è la corrispondenza tra Pirandello stesso e Bontempelli a marzo del 1908, nelle more della quale Pirandello decide di “mandare a stampa” un libro su “L’umorismo”. A maggio, precisa – prima quindi del futurismo su “Le Figaro”. Scrive Bontempelli, trentenne, da Ancona: “Non mi scriva, come fa, «prof. al Liceo etc.». Io sono professore (straordinario) al Ginnasio Inferiore. Lo sono da quasi sei anni, in seguito a regolare concorso, in cui scaricai tutto quello che potevasi di lauree e altri titoli ufficiali; e in sei anni non sono riuscito mai a fare un passo…” Risponde Pirandello da Roma: “Se Ella concorresse, si troverebbe di fronte a una commissione composta da 5 professori d’Università, professori di Storia della Letteratura Italiana, i quali, naturalmente, non sanno che cosa sia né che cosa si debba intendere per Stilistica. E chi lo sa? Io, per conto mio, la insegno da 11 anni. Insegno Stilistica? Insegno Estetica… E dopo 11 anni sono ancora straordinario”. Ma questo non c'è nel libro che verrà due mesi dopo.
Il libro è noioso, e inconcludente (citatissimo per non essere letto?): è solo lungo duecento pagine, di cui il quarantunenne Pirandello aveva bisogno per il concorso a cattedra.
Datato, molti altri hanno esplorato la comicità. Con più modernità nel Settecento, in una cultura che Pirandello pure conosceva bene, le innumerevoli lezioni di Jean Paul, sull’ironia, l’umorismo, l’arguzia, il ridicolo. O le tante lezioni successive. Di Foucault, per esempio, del suo incipit memorabile a "Le parole e le cose", 1966: "Questo libro nasce da un testo di Borges: dal riso che la sua lettura provoca, scombussolando tutte le familiarità del pensiero" (il testo è "L'idioma analitico di John Wilkins", in cui è questione di un capitale testo mandarino, "Emporio celeste di conoscimenti benevoli"). Per ultimo di Kundera, nel recente “Une rencontre”, con “la comica assenza di comicità” nell’ “Idiota” di Dostoevskij: ridere senza ragione è anch’esso un motivo comico. Myškin ride “angosciato”, Aglaja ride “indignata”. E c’è chi ride per conformismo. Maldoror, di cui Kundera è appassionato analista, scopre con sorpresa che la gente ride. Oggi, poi, si ride quasi sempre a sproposito. Sempre in tv, per esempio, anche di se stessi. Anche nella disgrazia, di se stessi e degli altri. Lo humare, sotterrare, che Vico accostava a humanitas, coinvolge evidentemente anche l’umore o humour. Ma, certo, non è facile in Italia, dove l’intelligenza si esprime a negare l’evidenza – Gramsci negherà la comicità, un critico teatrale…
Luigi Pirandello, L’umorismo

Volponi da urlo

Ben prima di Bossi e Grillo, un libro cattivissimo. Grottesco dalla prima pagina, col Professor Subissoni, anarchico di Spagna, Giocondo Giocondini, Dc in pectore, un Sempronio Semproni subito dimenticato, e un Oddo Oddi, sa esserlo per trecento pagine, exploit inconsueto nel genere. In un teatro urbinate di nebbia, neve e bicchierini, dopo le bombe di piazza Fontana. Con la misura della dismisura, con immagini feroci di Carlo Bo, Calvino, Natalia Ginzburg. Intimidatorio anche, al punto di prendersi il premio Viareggio, benché fosse l’anno del più corposo “Corporale”. Volponi gaddeggia, kafkeggia, insomma si diverte e, non prendendosi sul serio, diverte ancora.
Paolo Volponi, Il sipario ducale, 1975.

giovedì 11 dicembre 2008

Restivo e gli anarchici

Una testimonianza inedita su Piazza Fontana
(Il romanzo “La gioia del giorno”, firmato “Astolfo”, Lampi di Stampa editore, reca alle pp. 501-502 una testimonianza di prima mano sul Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico che si svolgeva al ministero dell’Interno il pomeriggio del 12 dicembre 1969).
Ho visto il golpe una seconda volta, dopo quello in caserma, testimone delle bombe il 12 dicembre. Non delle bombe, chi le ha messe, come, con che scopi. Ma della presentazione che ne è stata fatta, che è poi la vera bomba, quella il cui botto ha scosso la storia. Il pomeriggio era umido e grigio, e il salone buio ancora di giorno. Ma forse era buio anche fuori, era il giorno più breve dell’anno, che viene prima del solstizio d’inverno – per un numerologo del resto il 12 è il 21 rigirato. Il pomeriggio del vernissage al Babuino, con quadri di eccellenti pittori, a buonissimo prezzo, da cedere in favore di Lotta Continua.
È in un salone dell’Interno che in anteprima si è appreso della bomba. Anzi delle bombe: dapprima si è saputo della bomba a Roma, alla Banca Nazionale del Lavoro, con una ventina di feriti, e subito dopo, questione di uno-due minuti, della banca di Milano, con molti morti, forse di due banche, e di Roma all’Altare della Patria. O l’ordine è inverso. Ero presente a un Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico al ministero presso l’egregio Insalaco per caso, senza sapere di che si trattasse, per dovere di rappresentanza, Arcangelo, che ne fa parte di malanimo, avendo chiesto il favore di una supplenza. Queste presenze sono reputate inutili, in materia di nessun interesse, ma l’assenza è dannosa, i politici sono vendicativi. Si è concretata in un paio d’ore di chiacchiere, testimone muto, non introdotto, dei giurisperiti che nel Comitato rappresentano i partiti al potere col vanitoso segretario, nel dibattito di rito sugli arcani: i colonnelli greci espulsi dal Consiglio d’Europa, il Vietnam, la Cia, il Kgb, i gruppuscoli. A un certo punto il ministro è entrato a presiedere.
Un esperto americano, autore di un Manuale del colpo di Stato, espose in lucido italiano il Piano Caos, adottato negli Usa contro la sovversione. O altri lo espose per conto suo. L’interesse si ravvivò all’arrivo del ministro, che spostò l’agenda sugli organici delle forze dell’ordine, la prevenzione attraverso il riordino dei servizi segreti, la delega alle forze dell’ordine dei poteri d’arresto temporaneo, i nuovi mezzi antisommossa. Ma presto dal lungo tavolo rettangolare crebbe di nuovo un rumore di fondo, non sopito dal ministro, che sembrò assentarsi dopo aver parlato, seppure vigilando, lo sguardo mirato su suoi fili interiori, mentre il segretario faceva un’uscita da cavaliere della tavola rotonda su bisbiglio di un commesso. Poi Insalaco tornò sbrigativo e uscì col ministro.
Il clangore di lemmi e commi non per questo scemò. Le bombe non allarmarono quel pur specifico consesso, essendo esse ormai numero incalcolabile. Finché, dopo un quarto d’ora, il ministro rientrò e disse:
- Sono gli anarchici. – La data segna l’arrivo a Ginevra di Nečaev ventenne con l’esplosivo Catechismo rivoluzionario, è il centenario.
L’annuncio sarà variamente interpretato. Il 17 gennaio 1978, al processo per gli attentati del 12 dicembre 1969, il questore di Roma dell’epoca, Giuseppe Parlato, affermerà: “Escludo in modo categorico che il ministro dell’Interno avesse disposto di orientare le indagini verso gli anarchici”. Lo stesso giorno, al processo per il tentato golpe del principe Valerio Borghese il 7 dicembre 1970 con l’occupazione dell’Interno, l’ufficiale del controspionaggio Antonio Genovesi affermerà che il ministro gli disse di non parlarne con nessuno. Roma dunque non indagò. Ma il ministro non era la solita testa di legno che si pone a capo di un dicastero complesso e delicato, che va avanti per prassi inerziale burocratica. Franco Restivo, costituzionalista, siciliano, cattolico, ne fu titolare dal 24 giugno 1968 al 17 febbraio 1972. Dopodichè resse per quattro mesi la Difesa, fino alle elezioni vinte dalla destra, e al governo Andreotti.

Astolfo, Anamorfosi 1 - La gioia del giorno, romanzo, Lampi di Stampa, pp. 622, € 24,10