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venerdì 13 marzo 2009

Dopo i post-berlingueriani niente

Aggiornato negli Oscar a un anno e mezzo dalla prima uscita, la storia del gruppo dirigente postcomunista ha già bisogno di un nuovo aggiornamento. Di Veltroni Romano dice, come degli altri postcomunisti, che è un millenarista, si sente un predestinato. Gli è mancato di vederli all’opera nel partito Democratico col rozzo centralismo sovietizzante (hanno pure commissariato le federazioni… ), oltre che con la consueta mancanza di un profilo politico e di un’idea delle cose da fare. Romano lo sapeva, che ne sottolinea nell’aggiornamento “il peculiare intreccio di familismo e tribalismo”. Ma la faziosità è diventata oltraggiosa, indirizzandosi sugli stessi alleati, i popolari, i prodiani, i laici, i residui socialisti, che si sono svenati per dare un futuro al postcomunismo.
È questa una storia certo non agiografica, come i compagni di scuola sono abituati a scrivere e a farsi scrivere: la parabola della famiglia berlingueriana, dice Romano in apertura, “si avvia a concludersi senza lasciare un’eredità politica vitale”. Ma nemmeno anodina: pur con taglio storico, attento a tutte le fonti, Romano delinea un percorso postcomunista all’insegna dell’opportunismo, con le note giravolte. Soprattutto di D’Alema e di Veltroni (l’accoppiata di riferimento Bob Kennedy-Berlinguer merita di restare negli annali, oltre a quella più nota del viaggio nei morti, le tombe di Rossetti e don Milani, le Fosse Ardeatine, Bobbio agli ultimi giorni, la Bolognina, tomba del Pci, e la Einaudi quando era passata a Berlusconi). Partendo dalla conclusione che la Fgci di Berlinguer, di questo si tratta, ha perpetuato in realtà il vetero comunismo: Occhetto, D’Alema, Veltroni, Fassino “tutti insieme hanno fatto in modo di essere percepiti ancora oggi come eredi del vecchio Pci, a quasi vent’anni dal suo scioglimento”.
Le pezze giustificative sono numerose, alcune anche esilaranti, a ogni passo. Da ultimo D’Alema che va nella City e scopre le virtù del capitalismo, poi se ne dimentica e torna al linguaggio cominformista. O, ricalcando Berlinguer, dice nel 2003 la sinistra nemica: “La sinistra è un male, solo l’esistenza della destra rende questo male sopportabile” - Berlinguer di cui si può aggiungere che resta nella storia per la faziosità estrema, nel demenziale sacrificio di ogni sinistra, compresa la sua, a non si sa bene che cosa. O la doppia verità: contro la Serbia è lecita e anzi opportuna la guerra attiva, con i bombardamenti, benché senza l’avallo dell’Onu, mentre in Iraq, mancando l’avallo dell’Onu, la semplice partecipazione alla ricostruzione è criminosa. O il buonista Veltroni, terzomondista e anti global, che giustifica e anzi esalta i black blok e l’inferno di Genova per il G8.
Questi postcomunisti sono tutto e il contrario di tutto, perché sono sempre berlingueriani, integralisti: “Il morto infine è riuscito ad afferrare il vivo”, nota curialmente Romano. Compreso il culto della personalità, si può aggiungere, che avvinse Berlinguer da vivo ben prima che da morto (gli editoriali sdolcinati di Scalfari, e quante iperboli). Che Veltroni sindaco ha rinverdito con i vecchi sistemi: ogni giorno ha avuto la sua mezza pagina nei grandi giornali romani - un giorno che non aveva argomenti “dotò” un’orfanella di periferia, che invece era una aspirante attrice. O il collateralismo con la Cgil, oltre che con la Lega delle cooperative. E la gestione di Unipol, con il Monte dei Paschi.
Romano salva la “coscienza repubblicana” di D’Alema - della cui Fondazione ItalianiEuropei è stato il direttore. Il solo in effetti che avesse un progetto, quello del ritorno alla politica, del paese normale, e ha tentato di realizzarlo. Ma, poi, dietro D’Alema, Veltroni, Fassino, è il deserto: se hanno evitato di restare seppelliti nelle macerie del Pci, non lasciano a loro volta che rovine. Specie la circonvenzione dell’opinione pubblica, messa in opera dai grandi imprenditori e banchieri proprietari dei giornali, cui si deve in realtà lo tsunami dell’antipolitica, dai postcomunisti cauzionata. I postcomunisti hanno avuto e hanno in gestione una trentina di giornali, almeno due televisioni più il Tg 1, una diecina di radio, e una rigorosa organizzazione delle campagne di stampa (dossier, riprese, rilanci), un centralismo democratico molto attivo e quasi da spionaggio. Che, peraltro, è la loro parte migliore: non si può fare a meno di notare la brillantezza degli interventi di D’Alema (discorsi, libri, interviste) quando glieli scrivevano Rondolino e Velardi – gli altri semplicemente disprezzano l’opinione. Anche su questo D’Alema aveva visto bene. Romano rileva che già nel 1993 affermava: “Un grande partito ha il dovere di dirsi, di comunicare se stesso, di non farsi comunicare dagli altri”. Ma poi anche lui ha creduto di poter gestire i media, mentre ne è stato gestito, osannato nelle cose sbagliate, dannato in quelle buone (“dalemone”). Quanto a Veltroni, ha perso tutte le elezioni che ha gestito come capo partito: le europee del 1999, le regionali del 2000, le politiche del 2001, quando il suo partito scese al minimo storico, le politiche del 2008, le regionali e amministrative in Sardegna e altrove.
Il giudizio di Romano tuttavia non è scontato. La storia di questo gruppo potrebbe anche essere quella di un successo: avendo essi trasformato una bancarotta storica e politica, fino al dimezzamento del voto elettorale, in una vittoria, a loro si potrebbe anche ascrivere speciale sagacia, se non genialità politica. È un fatto: nel 1979 il Pci perde le elezioni, dopo avere avviato l’Italia al declino con cinque anni di compromesso storico, con i governicchi Moro e Andreotti. Nel 1989 scompare il sovietismo, e quindi anche il Pci. Nel 1999 D’Alema a palazzo Chigi chiude il Lungo Golpe di Scalfaro e Borrelli: non è il primo uomo di sinistra a capo del governo, ma è pur sempre il primo postcomunista. Questa è la storia. Nel 2009 l’ex Pci si è trasformato in Pd, annettendosi i democristiani di sinistra, mentre Napolitano è presidente della Repubblica - Napolitano che gli stessi dioscuri di oggi, Veltroni e D’Alema, estromisero dalla successione a Berlinguer, e da un possibile cambiamento del Pci che avrebbe risparmiato tanti lutti all’Italia e alla sinistra. Non sarà l’eredità integrale di Berlinguer, ma è una capacità manovriera superiore.
E d’altra parte non si può fare colpa a loro, benché corresponsabili, di Berlinguer, della sua faziosità eretta a politica. Il cui Pci vive e combatte insieme a noi, ancora dopo vent’anni. Al centro della sua storia-requisitoria, Romano nota che, quando D’Alema va a palazzo Chigi, a ottobre del 1998, sa già che potrà governare il paese ma non il suo partito. Ancora nel 1990 il Pci era filosovietico, ancora nel 1991, fino al golpe di agosto di Gorbaciov con la dissoluzione dell’Urss. Ancora oggi l’Italia è per molti aspetti postsovietica, per l’antiamericanismo, il burocratismo irriformabile, l’inefficienza sindacalizzata negli ospedali, la scuola, i comuni (trasporti, spazzatura, decentramento), anche se i suoi santi non sono solo postcomunisti.
C’è anche da dire che i berlingueriani vengono da lontano, la tradizione giacobina è sempre stata forte nel Pci – la tradizione del mozzare le teste solo perché invise al partito. A partire dal Gramsci leninista in morte di Lenin, che celebra come “il Capo”, nel presupposto che “ogni Stato è una dittatura”. Avendo a suo tempo su “Ordine nuovo” stabilito, dopo Livorno: “Il partito Comunista continua le tradizioni dei giacobini della Rivoluzione francese contro i girondini. I comunisti sono giacobini, ma per l’interesse del proletariato e delle masse rurali tradite dai socialisti”. Ma questa è storia che sarà difficile da scrivere.
Se è possibile una prova d’appello, si può notare che l’eredità immutata del vecchio Pci - di Togliatti oltre che di Berlinguer o della supponenza - viene bene nel regime elettorale plebiscitario che l’antipolitica ha via via costruito, ma l’applicazione è insufficiente o errata. Si può dire che il berlusconismo non ha altro fondamento che l’insufficienza di D’Alema, Veltroni, Fassino, i tre “compagni di scuola” Fgci? Sì, si deve: Berlusconi ha vinto le sue primarie nel 1994, e da allora, malgrado i fendenti ricevuti, dai giornalisti e i giudici compagni, è sempre al comando: ha domato Bossi e Fini, il razzismo e il fascismo, e batte i postcomunisti, largamente, a ogni elezione. L’avversario del postcomunismo in tutti questi anni è stato un imprenditore. Pieno di sé, ma pur sempre limitato nella visione e nel linguaggio. Che un uomo solo, Prodi, è riuscito a battere più volte. Veltroni si è detto trionfatore in primarie di poco conto (settantacinquemila attivisti si sono mobilitati, per trentacinquemila candidati: quattro milioni di votanti per centomila professionisti della politica non sono nemmeno i parenti - e non erano quattro milioni… ), nelle quali in realtà non ha vinto niente, e non si è legittimato dopo, a parte il culto della personalità – la sua galleria di foto su “Repubblica” è da regime sovietico puro.
Ma non c’è solo Berlusconi. I nipoti del Pci si distinguono, al meglio, come grilli parlanti. Che gestiscono in continua perdita l’enorme patrimonio del Partito. Incapaci cioè, non antipatici, forse nemmeno ipocriti. Ochetto era riuscito a salvare il Pci da Mani Pulite. Degli ex giovani, D’Alema si distingue per il tentativo di tesaurizzare il passato, invece di buttarlo, ma poi è quello che suscita le maggiori ripulse e secessioni. Protagonisti della politica rimangono, da quindici anni ormai, gli avanzi di Mani Pulite, Bossi, Fini, Berlusconi e Di Pietro, i meno che mediocri eroi della “rivoluzione italiana”, o milanese. I postcomunisti hanno seccato l’albero della sinistra, che non cresce più e anzi marcisce. Si vede ora che si discute del dopo: non c’è nessuno. Questi postcomunisti sono, come Berlusconi, giganti nella tebaide. Nel deserto che il Lungo Golpe dell’antipolitica ha lasciato in Italia.
Andrea Romano, Compagni di strada, Oscar Mondadori, pp. 181, € 9

La verità di Pasolini nelle lettere

Pasolini è in queste lettere, per accenni, dietro le lunghe argomentazioni, tutto quello che critica: amante del lusso e dei consumi, dei premi e degli onori, del sesso facile. È d’altro canto sempre fedele al Pci, che in ogni occasione della sua vita e della sua attività gli è stato contro, anche con violenza, sempre sgradevolmente – l’amabile Calvino lo dice “comunista dolciastro” – anche se se n’è appropriato dopo morto. E questo non è opportunismo, o forse sì. Nell’introduzione Naldini, a proposito di Pasolini che nel buen retiro di Versuta nell’anno fatale 1943 si occupa della tesi di laurea, nota, a proposito del tema scelto, pascoliano: “Un mondo magico, altamente artificiale, falsamente ingenuo, molto vicino al suo gusto”. Il vero Pasolini sarà un commediante? In maschera è felice.
Mancano alcune cose dalla vita di Pasolini, che la corrispondenza mette in rilievo: la guerra, i tedeschi, la durezza del Pci, il padre, cui pure deve molto. Il 12 febbraio 1945 il fratello Guido, partigiano, viene ucciso a tradimento, con accanimento, da altri partigiani. Il 18 Pasolini fonda l’Academiuta de Lenga Furlana, la passione letteraria e la creazione di sé fanno aggio su ogni altro sentimento, di dolore, d’indignazione.
Molte cose in questa scelta di lettere sono peraltro ancora novità, nella persistente agiografia. L’amore del lusso. La creazione del personaggio: di ogni lettera spedita Pasolini teneva la copia carbone, sulla quale apportava a penna le correzioni ortografiche o dell’ultimo minuto dell’originale. Il sentimento religioso: “L’usignuolo della chiesa cattolica” era originariamente “un libretto di meditazioni religiose”. L’incredibile corrispondenza con Calvino sul “sapore meridional-romanesco di tutto il movimento operaio italiano”. O: il cinema è oggettivo, la letteratura è soggettiva, borghese. O: “Ah, fosse il patrimonio semantico della nostra lingua almeno uguale a quello anglosassone e francese!” – e tedesco no? Ma l’italiano ha più sensi, se non ha più parole.
Naldini non è tenero con la figura pubblica del cugino e amico, e tuttavia non se ne stanca: tre o quattro scritti biografici si sono succeduti dopo la curatela delle lettere. Compreso il saggio sulle abitudini sessuali del poeta, brutali, rozze. Un primo moto di distacco Naldini l’aveva avuto col contributo a “Desiderio di Pasolini”, la collettanea pubblicata nel 1990 da Stefano Casi sull’omosessualità “non accettata” del poeta. Qui, a p. 209, i suoi amori devono essere sotto i venti anni, del popolo, casuali e solo occasionali.
Pier Paolo Pasolini, Vita attraverso le lettere

mercoledì 11 marzo 2009

Lo spirito protestante del capitalismo

Il crollo peggiore nella crisi per un lettore compulsivo è quello della stampa anglosassone. L’inaffidabilità e l’impudenza di “Economist”, “Financial Times” e “Wall Street Journal” levano il respiro. In seconda battuta viene il crollo ideologico, il secondo in meno di vent’anni dopo quello del socialismo: come si può essere governati dall’incrocio orrendo di banche, banche d’affari e agenzie di rating di cui i tre giornali, la “coscienza del mercato”, sono la vetrina? Prima, e anche ora nella crisi. Dov’è, qual è il potere di Goldman Sachs e Moody’s, che Tremonti dice i Templari del nuovo millennio? Quello dei soldi, certo, ma… Il terzo crollo è quello dello spirito protestante del capitalismo, inteso in Italia come dirittura morale e lealtà, ma questo si sapeva: non si ruba mai così tanto e impunemente, in buona coscienza, come in quello spirito.
Max Weber in parte non dice lo spirito del capitalismo superiore, non nei confronti delle altre religioni o sette, ma in parte sì: il suo capitalista è il santo della borghesia. Non ha torto la sua sociologia disincantata quando fa del possesso la via alla salvezza: la rivoluzione sociale, le rivoluzioni, si sono sempre anch’esse connotate per la presa di possesso. Ma alla fine è una sociologia patetica: il capitalismo, anche quello della Riforma, specie quello “liberato” della Riforma, non è razionale ma ideologico. E questo, per uno che conosce il mondo, seppure in forma religiosa, è limite molto europeo, anzi tedesco, e forse “ariano”, dell’epoca dei primati nazionali. Oggi saldamente in mano agli anglosassoni, agli Usa con l’appendice britannica, alle banche d’affari, alle agenzie di rating e ai loro santuari giornalistici.

La scienza politica indigente del Pd

Vale la pena rivedere a freddo le reazioni degli intellettuali che il Pd privilegia all’indomani della sconfitta in Sardegna. La sconfitta Sarkozy ha definito un capolavoro di Berlusconi. Ma l’isola era, ed è, saldamente di sinistra: vale la pena chiedersi cosa non ha funzionato.
Il giorno dopo Lucia Annunziata ha aperto “La Stampa” con un innocuo can per laia: “La sinistra ha molte responsabilità nella propria continua sconfitta di questi ultimi anni. Ma nessuna è forse così rilevante quanto la rimozione con cui continua a negarsi la verità su se stessa”, questa è la conclusione. Quale verità non è dato sapere.
Mauro è di malumore, si capisce cha abbia portato “Repubblica” a un vicolo cieco. “Il Partito democratico è senza un Capo, nel momento in cui Berlusconi si riconferma leader incontrastato della destra, anzi padrone del Paese, che tiene ormai in mano come una "cosa" di sua proprietà, tra gli applausi degli italiani. Il risultato della Sardegna era atteso come un test nazionale e ha funzionato proprio in questo senso, rivelando la presa sul Paese di questa destra, che vince anche mentre attacca il Capo dello Stato, rinnega la Costituzione, offre un patto al ribasso alla Chiesa e non riesce ad affrontare la crisi economica. L'Italia sta con Berlusconi”. Tutti coglioni, insomma. E, come conseguenza, il Pd va in frantumi: “Il problema vero è che non c'è stato un altro pensiero in campo oltre a quello della destra, un pensiero lungo, riformista, moderno, occidentale, di una sinistra risolta che con spirito nazionale e costituzionale sappia parlare all'intero Paese, cambiandolo”.
Il “Corriere della sera” approssima meglio la verità. Massimo Franco biasima il “primato velleitario” di Veltroni, il primato morale, o civile. E il 18 febbraio, dopo ancora un giorno, Panebianco, che non è veltroniano, vi si avvicina ancora di più: il progetto di Veltroni era “una salutare reazione all’eccesso di frammentazione”, e doveva “dar vita a un amalgama (relativamente) nuovo, fornendo alcune tradizioni politiche in precedenza importanti ma ormai consumate dalla storia”.
La sinistra ha bisogno di una iniziativa politica. E di un minimo comune denominatore organizzativo. Come partito e nella legge elettorale. Ma i suoi intellettuali non glielo consentono – ispiratori, portavoce, trombettieri, guitti. Nessuno che dica che il partito di Veltroni è nuovo e vecchio, molto vecchio. E che era ed è insoddisfacente. Per l’assetto politico nuovo che il paese dal 1991 si sta dando, con i referendum per la governabilità. Tanti scienziati politici attorno al Pd, e nessuno che sappia o dica la verità: che il regime elettorale è ormai plebiscitario, e vince o perde il partito di un capo.
Non è la sola mancanza. Nessuno che dica che la sinistra deve liberarsi dai postcomunisti. Solo lo storico Andrea Romano. Che è però sospettato di non essere buon democratico, forse nemmeno postcomunista. La sinistra deve liberarsi del linguaggio doppio. Deve liberararsi della finzione. Deve liberarsi da se stessa, dalla presunzione di essere migliore. Berlusconi si può battere, è elementare. Possibile che gli intellettuali e scienziati politici del Pd non lo sappiano? Cioè, perché non lo dicono? Sarà che sono amici del giaguaro.

Problemi di base - 11

spock

Sulle cause e gli effetti delle guerre

Perché l’Europa fa la guerra in Afghanistan?

Perché l’Europa tra il 1933 e il 1943 si è consegnata agli Stati Uniti? Senza che gli Stati uniti abbiamo mosso un dito, non in senso ostile. Reduci da una crisi profonda e perdurante-…
Fu Hitler un Superagente americano?

Perché l’Inghilterra e la Francia consegnarono il Mediterraneo e il Medio Oriente nel 1956 agli Stati Uniti?

Perché l’Italia ha occupato l’Africa desertica e l’ha chiamata impero?

Ci sarebbe stata la Soluzione Finale se gli Alleati a Casablanca nel 1942 non avessero deciso la resa incondizionata della Germania?

Ci sarebbero state senza Casablanca Yalta, la divisione dell’Europa e le persecuzioni-… sovietiche?

Perché Vittorio Emanuele III non ebbe la fidanzata inglese cui ambiva?
Che Hitler darebbe stato se non avesse avuto il sostegno della società civile, i borghesi, i tecnici Schacht e Speer, gli opinionisti, e dei grandi intellettuali, Schmitt, lo stesso Junger, Heidegger?

Ha fatto più martiri la fede in Cristo, o la Grande Germania, o il comunismo, o Napoleone?

E se la figlia del faraone non avesse tratto fuori dal Nilo la cesta col bambino Mosè, ci sarebbero stati il Decalogo e l’Occidente?

spock@antiit.eu

Secondi pensieri (23)

zeulig

Anarchico – È conservatore. Ama la tradizione come fondamento della libertà interiore, molto individualista ma un po’ gentleman, per una vita comoda e senza obblighi, piena di tempo, e buoni cibi, buoni vini, aria buona, nella natura se possibile non condivisa.

Antropologia – È forchettate di spaghetti che si arrotolano su se stessi, utile ma imbecille. Per l’imbecillità di pensare (costruire, strutturare, creare) il diverso, e sistematizzarlo con profusione di modelli e strutture, norme e regole che sono tutte eccezioni.
È imperialista ma anche liberatrice, afferma la differenza per il fatto di classificarla.

Cattolicesimo – È la religione più modernizzante, rispetto all’islam, al buddismo, al confucianesimo, alo shintoismo, all’ebraismo, è sempre stata al passo con i tempi. Ora si organizza aziendalmente: adatta liturgie e linguaggi a periodicità brevi, fa studi di marketing, pr e immagine, esibisce simboli à la page (paramenti, musiche, media. Il proprio della religione è ieratico, o deve essa, per universalizzare il messaggio, adattare il linguaggio?
Solo di Dio la chiesa parla come d’immutabile sostanza, con gli insondabili dogmi. Dall’esterno, cioè.

Classico - Ma è il culto dei morti.

Coscienza – Porta dipendenza, dal confessore, dal terapeuta, dalla chimica.

Dio – “Il potere della natura è il potere di Dio, che ha diritto di sovranità su tutte le cose” (Spinoza, “Trattato teo-politico”, cap. XVI). È così: prima della legge non c’è peccato (san Paolo), il discriminante dell’uomo. Ma “il diritto naturale dell’uomo è determinato non dalla ragione ma dal desiderio e dal potere” (Spinoza, ib.). Allora, è Dio duplice, quello della natura e quello della legge? In realtà la legge è umana. Via profeti o messia, ma è un’aspirazione umana, e si realizza come covenant. Dio è quello della natura.

Don Giovanni - È un san Sebastiano vestito. In solitudine è nudo e incerto. Non sarà affare di donne, se alla donne piace collezionare (se per le donne l’amore è curiosità)?

Donna – È stata, è, la malattia (ossessione) della civiltà della crisi, la Mitteleuropa ne era afflitta. Ha portato Freud alla continenza, mentre Otto Weininger, venticinque edizioni in breve tempo di “Sesso e carattere”, e Moebius le concedevano a stento l’umanità, e J.D.Unwin, “Sex and culture”, provava l’assunto di Weininger – lo sviluppo intellettuale legato all’astinenza sessuale in ben ottanta culture.

Eternità – Si chiude nell’arco della vita. Dopo, se c’è, non è più la stessa.

Evoluzione – Presuppone un passato e un futuro, un inizio e una fine.

Filologia – Alla fine, per quanto creativa, è un rifiuto del linguaggio. Come chi volesse riprodurre esattamente il ricamo della nonna e non ricamare. È subordinatrice al quadrato: è abdicazione al chi l’ha detto e al già detto. Ma non si può sapere mai bene che cosa sia stato detto, e quindi è scuola del sospetto – quella che produce insicurezza e non quella del giallo risolutore. Insicurezza cioè subordinazione: ai padroni dell’opinione, della disinformazione, delle trame occulte. Nel Novecento ha coperto l’ipocrisia, il linguaggio doppio che è stato il cancro di quel secolo. La scienza delle parole ha portato alla perdita di significato delle parole, e agli abissi catastrofici che al linguaggio doppio si legano.

Gergo – Si diffonde, come i dialetti, perché è un piccolo muro di cinta, segna l’esclusione: dei refoulés, gli snob, gli stupidi, gli insicuri.

Immortalità – Si rinnova e deperisce, talvolta muore, nella storia, la letteratura, la religione.

Lavoro - È la sopravvivenza. È una condanna per gli ebrei della Bibbia nomadi.

Mito - È una proiezione: all’origine vuole un io molto forte.

Moralismo - È una forma di misantropia, di narcisismo deviato: tutto è marcio non per un criterio di legge ma all’“infuori di me”.
È sempre stato la leva dell’assolutismo in politica, del giudice insindacabile dell’antipolitica. Emerge tra Cinque e Seicento con l’uso di Tacito (moralista si spera sincero e ineccepibile) contro Machiavelli, da parte di gesuiti e protestanti insieme, risolvendo la politica nel potere e stroncando per lungo tempo l’autonomia del politico (diritti di libertà, diritti di possesso, patti).

Morte - È un altro giorno, altrettanto incerto.
Aiuta a vivere.

Popolo - È il peggior nemico di se stesso. Come impiegato di sportello, sbirro, tranviere, ferroviere, portantino – l’inumanità della Usl, struttura democratica e popolare per eccellenza, soprattutto nelle cose che non costano: le lunghe file e le sale d’attesa, le informazioni, le scadenze.

Scienza - Ha dormito per duemila anni,da Euclide a Galileo. Non è esplosa dopo, semplicemente si è svegliata. E si è scoperta vuota: è passata dai postulati ai presupposti, concezioni debolissime della causalità e della verità delle cose.

Televisione - È nata piagnona perché guarda dentro le case.

zeulig@antiit.eu

Stato di natura felino

La favola modesta della natura, dello stato di natura. Che Scaraffia arricchisce di un brillante ritratto dell’autore, al suo modo, tra i Goncourt e Sainte-Beuve.
Hippolyte Taine, Vita e opinioni filosofiche di un gatto, Nottetempo, pp. 45 € 3

La cosa di Pasolini

Titolo marxiano per un racconto crepuscolare. Di eventi e persone minime, compreso il passaggio in Svizzera o Jugoslavia. Di cui Pasolini pretenderà che era un romanzo “contro De Gasperi”: “Io fui coi braccianti”, dice, “poi lessi Gramsci e Marx”. È possibile. Quali braccianti? “I braccianti friulani in lotta contro i latifondisti, subito dopo la guerra”. Ma non ci sono latinfodisti nel Friuli, e non ci furono lotte. “Il sogno di una cosa”, pubblicato nel 1962 ma scritto allora, si doveva intitolare “I giorni del lodo De Gasperi”, dice lo scrittore nel 1970 (“Al lettore nuovo”), come dire “i giorni dell’ira”. Ma De Gasperi non ne seppe nulla.
Pier Paolo Pasolini, Il sogno di una cosa

lunedì 9 marzo 2009

Pasolini vivo

Il Pasolini essenziale dei precedenti “Pasolini, una vita” e “Come non ci si difende dai ricordi”, di brevi aneddoti e vivi, che dicono tutto: le “vedove” che hanno affollato Casarsa e il cimitero, l’amore adolescenziale del poeta, l’unico della sua vita, il fratello Guido escluso e devoto, la madre innocente di sventura, il precoce ossessivo erotismo, Laura Betti, il complotto, Pelosi (qui curiosamente ascrivendo Sartre ai complottisti, mentre il filosofo per primo e molto persuasivamente il 14 marzo 1976 sul “Corriere della sera” fece dell’assassinio la lettura di Naldini, che Pelosi agì per “pura hybris di fuggire da se stesso”). Naldini non ama la figura pubblica di Pasolini, si sente, le sue furie posticce e contraddittorie, e tuttavia in questi tratteggi del cugino e amico ha maturato una feconda cifra narrativa.
Nico Naldini, Breve vita di Pasolini, Guanda, pp. 152, € 12

La verità della poesia popolare

Rassegna della poesia dialettale e popolare, che fu la passione di Pasolini giovane e ancora negli anni 1950 - assortita da recensioni numerose ai poeti. Una ricerca che da sola fa un autore e vale una vita, prima che il poeta si perdesse nel cominformismo, con la pretese dell’anticonformismo – si ritroverà nel cinema. L’esercizio della verità gli è più consono:
alle pp. 47-48 (anche se a margine, in nota - “per scrupolo”, dice): “Uno studio sul “Romanticismo nell’Italia Meridionale” è ancora da farsi e sarebbe assai interessante, se il Romanticismo rimane nel Meridione pura applicazione di formule sentimentali e morali di natura assolutamente contraria a quella indigena; nella cui fenomenologia psicologica mancano quei caratteri “cristiani” immanenti al Romanticismo e che sono tipicamente nordici. La “passione” meridionale non è un dato romantico: come nella “bontà” del meridionale non c’è pietismo. La scena popolaresca o il fato di sangue “romantici” hanno nel Meridione il sapore del mimo o della tragedia greca, anche quando restano involuti nell’equivoco culturale” (il riferimento è a Di Giacomo e altri “italianizzati”).
a p. 203: “La differenza psicologica tra borghese e popolano non è - evidentemente – una contrapposizione di complicazione e semplicità: sicché questo della semplicità sembrerebbe nel Croce un residuo proprio di quella teoria romantica che egli va confutando – e magari proprio nella sua fase rousseauiana –, quando è, semmai, la cultura, ossia la coscienza, a fornire di qualche base psicologica l’uomo, e non certo l’ignoranza (o la cultura primitiva): che lo abbandona, indifeso e violento, alle storture e alle oscurità dei “complessi…. Statisticamente l’enorme maggioranza dei delitti sessuali si dà nei «bassi strati»”. E quindi: “Non conoscendo l’ipocrisia borghese, ma non conoscendo nemmeno la capacità borghese di sincerità, di attitudine alla “confessione”, il cantante popolano si rifugia nella semplicità espansiva del canto… Sicché, a leggere… una scelta rigorosa, … verremmo appunto a configurarci un “canzoniere” quasi di tipo stilnovistico, addirittura aristocratico nella sua allegria di popolani parlanti di lingua”.
Pier Paolo Pasolini, Passione e ideologia

domenica 8 marzo 2009

Tutto il pil Usa nella crisi

Tra impegni annuali e pluriennali, da fine 2007 il governo Usa e la Federal riserve hanno impegnato contro la crisi dodici miliardi di dollari, quasi un pil annuale degli Usa. Per quattro quinti si tratta di erogazioni o impegni a favore del sistema finanziario, banche e assicurazioni. I fondi già erogati sono poco meno della metà degli stanziamenti, circa 5 mila miliardi, più del pil della Germania, il maggiore in Europa. Non è finita, e anzi prospettive peggiori si annunciano. Il calo del pil sarà nel tempo prevedibile non minore del 4 per cento. I nuovi disoccupati aumentano ogni mese in progressione geometrica, e sono ora a un milione al mese: a quelli dei servizi, che nell’ultima rilevazione hanno portato i posti perduti a quasi 700 mila, si aggiungono quelli dell’industria - meccanica, dei trasporti, dell’energia, e perfino dell’informatica. Citigroup e Bank of America, in aggiunta a General Motors, sono reputate insolventi dal mercato: in due anni la loro capitalizzazione si è ridotta rispettivamente a un ventesimo e a un decimo. La Federal Reserve, che ha mobilitato due terzi delle risorse anticrisi, potrebbe non farcela più. Anche perché, dice il ministro del Tesoro Geithner, ex Federal Reserve, “il sistema finanziario lavora contro la ripresa”, e contemporaneamente “la recessione impone nuove pesanti pressioni sulle banche”. Il piano del predecessore di Geithner, Paulson, quello dei 700 miliardi, è già fallito per quanto riguarda le banche: metà dello stanziamento, quello che è andato alla ricapitalizzazione delle banche, è scomparso senza effetto.
A rischio è ora la tenuta del dollaro, e del sistema globale di credito alla produzione – la globalizzazione. Le banche Usa, d’investimento e di affari, erano centrali nella globalizzazione, con loro è a rischio l’insieme dei rapporti economici internazionali.

Il filoislamismo americano

Dunque gli Stati Uniti aprono ai talebani. Non il governo afghano, ma la potenza militare occupante, seppure sotto bandiera Onu. È la conferma della politica filoislamica dell’America. E di un duplice errore. I talebani, che si trovano avallata da Hillary Clinton la loro tesi che il governo Karzai è un fantoccio, non vorranno solo sedersi al tavolo, vorranno tutto il potere. Magari con la promessa di non interferire con le politiche Usa nella regione - è lo schema originario khomeinista, quello che nel 1980 portò gli Usa ad abbandonare lo scià. Il secondo errore sta nel fatto che il governo Karzai è stato eletto, in un processo di modernizzazione della politica afgana, di liberazione dalla rete tribale – che, si condivida o meno, è l’unico contributo positivo che l’Occidente può esportare, positivo nel senso della democrazia.
Ma sono errori? Questo filoislamismo molto imperialista rientra nella politica democratica di disprezzo del mondo, di Wilson, F.D.Roosevelt, Truman, Kennedy, Lyndon Johnson, Carter, Clinton. E naturalmente nella tradizione filoaraba e filoislamica
di Washington. Che rimonta al patrocinio della famiglia Saud nella penisola arabica, e si è allargata a tutta le regione con la guerra di Suez. Sviluppata in entrambi i casi all’insegna dell’anticolonialismo, questa politica è stata poi rafforzata da Kissinger negli anni 1970 col sostegno al radicalismo islamico di Zia ul Haq in Pakistan, contro la penetrazione sovietica e il neutralismo del subcontinente indiano, ritenuto ancillare all’Urss. E poi in tutto il Medio Oriente, khomeinismo compreso, e nel Maghreb, spesso sotto la copertura saudita. Fino a farne, con successo, il fronte avanzato antisovietico con l’Urss in Afghanistan.
Obama e Hillary Clinton riprendono e rendono manifeste queste tradizioni, di aloofness democratica e di filoislamismo. Che gli Stati Uniti non hanno smesso di considerare un indirizzo principale di politica estera - per il petrolio, per la finanza e come area integrabile – anche quando è sfociato nel terrorismo, in Algeria, nel Sudan, in Africa, in Palestina.
Con l’11 settembre questo fronte ha abortito nel rifiuto degli stessi Usa e nel terrorismo. Se ne tenta ora il recupero facendo spazio al nuovo radicalismo, palestinese e talebano. Con prospettive che potrebbero essere buone, anche se l’islam si ritiene a tutti gli effetti non inferiore all’Occidente e all’America. E in realtà anzi superiore - inferiore\superiore è la categoria politica dominante, da sempre, dai tempi del Profeta. Non governabile cioè. Tanto più verso un’apertura come quella americana, che molto presume di sé, quasi padronale. L’apertura appare utilizzabile per un disimpegno dell’America dalle due guerre, ma non per la stabilizzazione dell’area: tra un anno Hillary Clinton avrà perduto lo smalto, la profezia è facile.
Restano comunque fuori l’Iran e il Pakistan, le due potenze nucleari, che ambiscono entrambe a un ruolo di potenza regionale. Gli ayatollah, com’è ormai loro consuetudine da trent’anni, si mostreranno concilianti, ma non sull’atomica. Faranno succedere ad Ahmadinejad una personalità democratica, possibilmente un ayatollah, una persona di grande standing culturale cioè. Ma non recederanno dall’atomica. Quanto al Pakistan, è dubbio se non ha la forza oppure la volontà di fare da santuario al terrorismo qaedista e salafita. Ma tutto lascia propendere per la seconda ipotesi. Nella scienza politica islamica nulla si dà per nulla. Come è di qualsiasi diplomazia, ma nell’islam nessun mezzo è escluso.

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (31)

Giuseppe Leuzzi

Hanno benevolmente salvato, senza spendere una lira, su invito perentorio della Banca d’Italia, la Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania, per prima, poi quella delle Puglie, quindi i banchi di Sicilia e di Napoli. Guadagnandoci, evidentemente, poiché non se ne sono lagnate, ma sempre col cipiglio del salvatore suo malgrado, per la solita malintesa solidarietà con il Sud. Di propria iniziativa invece le grandi banche di Milano hanno rilevato le banche dei paesi dell’Est, in Polonia, Ungheria, Bulgaria, Croazia, paesi baltici. Le hanno pagate, anche molto caro, e ora per esse temono il fallimento. Ma mai una critica.

Nella rubrica che apre un mensile pubblicitario del “Corriere della sera” Ernesto Galli della Loggia dice l’autostrada in Calabria infestata dalla ‘ndrangheta - “da casello a casello” dice il titolo, ma questo è un errore, non ci sono caselli. È così, spiega lo storico, perché Fanfani che ne varò i lavori, parlava da fascista. E perché “le oligarchie politiche calabresi” ne imposero un percorso interno invece che “la linea costiera”.
Galli della Loggia è forse il miglior storico contemporaneista dell’Italia, non pregiudicato, che ha elaborato su molti aspetti tracce importanti. Ma a Sud non ci vede bene. Nel 1992 voleva che si recintasse col filo spinato. Nel quadro di un suo indimenticabile decalogo contro la mafia, per il quale lo Stato doveva rendere impossibile la vita al Sud, tagliando acqua, elettricità, telefono e patente.
Sarà la passione – Galli della Loggia non è il solo. Ma lo storico non sa, per esempio, l’inattendibilità del pentito di mafia singolo, senza riscontri. Non sa la natura speciale del pentito di mafia calabrese. Non sa che l’autostrada fu costruita in pochi, pochissimi, anni – la metà di quelli che ci sono voluti per il passante di Mestre, 475 chilometri pieni di gallerie e viadotti, contro 32 piani. E così via. Né sa che l’autostrada, per fortuna, ha risparmiato “la linea costiera” calabrese, anche se non tutta.
Sembra non sapere dle resto nemmeno come si fanno gli appalti in Italia, e questo è grave. Si appella ai “cittadini della Calabria e di molte altre zone del Sud”, ai quali chiede, a “questi nostri connazionali”, di darsi una regolata. Altrimenti, dice, “prima o poi (e più prima che poi) il resto del Paese non ne potrà più dei loro problemi, li abbandonerà a loro stessi”, eccetera eccetera. Cioè, non si rende conto, lo storico, che sarebbe meglio prima che dopo, che il Sud si liberi finalmente del sistema italiano di fare gli appalti. Sa Galli della Loggia come si fanno gli appalti a Roma, dove vive, o a Milano, la capitale morale d’Italia?
Ma, poi, Galli della Loggia cita l’Antimafia, la commissione parlamentare. E uno non può dargli torto, è l’Antimafia che scrive, nella relazione 2008: “La ‘ndrangheta controlla metro per metro, casello per casello, grazie a una spartizione-accordo, i lavori perenni di ammodernamento e di ampliamento della struttura, sostenuti da finanziamenti pubblici nazionali ed europei interminabili, con continui incrementi di previsioni di spesa e relativi aggiornamenti di bandi di gara”. Siccome questo non è vero, si conferma che l’Antimafia è in realtà uno dei più grossi promotori della mafia – un onest’uomo legge le sue relazioni e dice: “Che ci sto a fare?”. Ben protetto, e anzi immunizzato (alcuni dei suoi presidenti e membri autorevoli sono stati e sono percettori dei voti mafiosi, non innocenti). Ma resta il dubbio: se è come dice l’Antimafia, tutte le imprese che hanno l’appalto dell’Anas per l’ammodernamento, le maggiori imprese nazionali, del Nord, sono allora della ‘ndrangheta.

Perché non si fa una storia dell’Antimafia?

Il Sud per i viaggiatori inglesi del secondo Settecento era il Sud della Francia, povero, sporco, in rovina. “Chambéry, la capitale della Savoia”, scrive il dottor Burney (“Viaggio musicale in Italia”), è una poverissima città, senza commercio, piena di fannulloni e mendicanti”. Nel “ricco vescovado” di Saint-Jean de Maurienne, ai piedi del Moncenisio, la cui ragguardevolissima rendita raggiunge le 22 mila sterline annue, “la gente vive allo stato quasi selvaggio: una sola camera basta a tutta la famiglia, compresi muli, asini, vacche e maiali” – oggi Saint-Jean de Maurienne è rinomata stazione di sci.
Anche in Italia, in tutto il Nord prealpino, il dottor Burney non trova che “polvere, sporcizia, ragnatele, pulci, cimici”. Tra Torino e Milano la campagna è infestata di “fuorilegge”, ladri assassini.

La Calabria è per Pasolini studioso della poesia dialettale (“Il Reame”, saggio del 1952 raccolto in “Passione e ideologia”), “isola anch’essa, come la Sardegna e la Corsica, tanto da avere con queste strette analogie geografiche e umane, e più isola della Sicilia”. Intuizione affascinante, che il poeta confina stranamente tra parentesi.
A conclusione delle cinque pagine che Pasolini dedica alla poesia dialettale in Calabria altre poche righe che valgono una storia della letteratura, e una storia civile e politica. Pasolini concorda con altri critici che la poesia dialettale calabrese è umanistica e borghese. “Ma”, spiega, “questa contaminazione col dialetto di tutta una cultura umanistica e borghese non è senza coerenza con tutta la Calabria: questa gentilezza, questa civiltà che lievitano ingenuamente i versi dei calabresi non sono essenzialmente diverse dalla gentilezza e dalla civiltà della più autentica poesia popolare; e forse bisognerà mettere tale fenomeno in relazione con l’italianizzazione recente della Calabria (in cui il greco dei Bizantini si era sovrapposto senza soluzione di continuità a quello antichissimo della Magna Grecia), per cui l’italiano importato in Calabria era già un italiano colto (e, inoltre, l’antico spirito “greco” sussisterebbe quale ideale struttura di questo dialetto recente): sì che non si danno nenie più vicine a quelle del Sannazzaro delle nenie cantate dalle madri calabresi”. Le nenie colte del latinista Sannazzaro.
Il resto delle cinque pagine è un’illustrazione del saggio di Corrado Alvaro, “L’anima del Calabrese”, che apriva il numero speciale del “Ponte”, la rivista fiorentina, sulla Calabria, settembre-ottobre 1950. Con una notazione anch’essa ancora vera, cioè nuova (naturalmente tra parentesi): l’anima del calabrese, dice Pasolini, “Alvaro delinea con eccezionale acume e umanità (meglio certo di quanto, in senso realistico, abbia fatto nel suo per altri versi importante Gente in Aspromonte)”. Sulla Calabria Pasolini ritorna, con altre cinque pagine, nel saggio sulla poesia popolare, dopo aver riscoperto, a Martano (Lecce) e Bova (Reggio Calabria) un canto grecanico quasi identico sul tema della bella e la pulce.
Sempre a margine, questa volta in nota, Pasolini osserva anche non c’è romanticismo nella passione meridionale, né pietismo nella bontà: “Uno studio sul “Romanticismo nell’Italia Meridionale” è ancora da farsi e sarebbe assai interessante, se il Romanticismo rimane nel Meridione pura applicazione di formule sentimentali e morali di natura assolutamente contraria a quella indigena; nella cui fenomenologia psicologica mancano quei caratteri “cristiani” immanenti al Romanticismo e che sono tipicamente nordici. La “passione” meridionale non è un dato romantico: come nella “bontà” del meridionale non c’è pietismo. La scena popolaresca o il fatto di sangue “romantici” hanno nel Meridione il sapore del mimo o della tragedia greca, anche quando restano involuti nell’equivoco culturale” (il riferimento è a Di Giacomo e altri romantici napoletani”.

Nello stesso libro, “Passione e ideologia”, Pasolini precisa in fine, recensendo nel 1957 Zanzotto: “Si sa che le aree marginali e le isole sono linguisticamente conservatrici”. E questa è la mancanza, che si sente così forte, della Calabria culta: non essere conservatrice come la sua lingua sarebbe. Non elaborare le radici, e quindi non vivere. Per legarsi invece saprofiticamente a Roma, a Milano, a ogni esperienza altra.

Suonatori dalla Calabria trova il dottor Burney nel 1770 a Napoli: “Poco prima del Natale suonatori girovaghi giungono a Napoli dalla Calabria: … cantano di solito accompagnati da una chitarra e da un violino, che non è appoggiato alla spalla ma tenuto in basso”.
Nessuno sa chi fossero, che fine abbiano fatto, che strumento fosse il violino tenuto basso, la storia (in Calabria) non esiste.
Tracce ampie lascia il dottor Burney: “Paisiello ha introdotto qualcuna di queste musiche nella sua opera comica che si sta ora rappresentando (“Le trame per amore”, n.d.r.). Piccinni mi promise di procurarmi alcune di queste appassionate melodie popolari”. Che quindi erano trascritte.