Cerca nel blog

sabato 17 aprile 2021

Problemi di base cinesi - 632

spock

S’intendono Merkel e Macron con Xi senza Draghi: il nome fa paura?
 
Ma Draghi fa paura o piace in Cina, paese tutto draghi?
 
L’Unione Sovietica aveva i supermissili, la Cina ha il lavoro a gratis, fa differenza?
 
La Cina non è l’Unione Sovietica, solo il Comitato Centrale è lo stesso?
 
E se si chiamasse operaio, o nazionale, o democratico invece che Centrale?
 
Dice che la Cina ha sorpassato gli Stati Uniti: dove, nel lavoro semiservile?
 
Ma che gli fanno i cinesi a Milano, che tutti si vogliono vendere, è solo una questione di soldi?

spock@antiit.eu

Cronache dell’altro mondo - bellicose (107)

La guerra in Afghanistan sarà stata la più lunga mai combattuta dagli Stati Uniti, venti anni. Il doppio della guerra di Troia. Senza gloria e senza un progetto: non imperialista, non contro il terrorismo, non per costruire una nazione, pacifica, democratica, “avamposto dell’Occidente”. Una guerra anche questa perduta.
Non c’è mai stata requie per gli Stati Uniti dacché sono entrati in guerra l’11 dicembre 1941. Tre anni di guerra di trincea in Corea, lo sbarco in Libano, dieci di guerra a tutto campo in Vietnam, guerra del Golfo, Serbia, Afghanistan, Iraq.
Solo negli anni 1980, con i repubblicani di Reagan, gli Stati Uniti non hano fatto guerre – giusto una per ridere a Granada.

Il primo amore di Calvino

“Conobbi Calvino nel ’55. Un anno che fu poi fatale per me”, è la dichiarazione d’avvio. E a seguire: “Cominciava, e forse il mio libro ne era una delle prime espressioni, il malessere di una generazione che aveva creduto ingenuamente che bastasse debellare il fascismo ufficiale per ricostruire una società moralmente vivibile”.
Il “libro” è un romanzo, “I coetanei”,  che si presentava con una prefazione ammirata di Gaetano Salvemini, ancora inedito. L’anno sarà “fatale” anche per altri eventi (la sparizione del marito, Alessandro “Sandrino” Contini Bonacossi), ma anzitutto per questo: nel numero speciale del “Ponte” per il decennale della Resistenza, Calamandrei, Tumiati e Enriques Agnoletti avevano incluso un capitolo dei “Coetanei”, col titolo “Un partigiano torna a Firenze” che ne riassumeva lo spirito, trasfigurando il ruolo di Sandrino. “Il pezzo piacque a Vittorini, il quale venne a Firenze” per opzionare il romanzo per i suoi “Gettoni”. Poi ci ripenserà – Elsa era della società bene fiorentina, e lo passerà a Calvino per le edizioni Einaudi. Da qui l’incontro.
Nello stesso anno, il 31 luglio, scompare Sandrino, il marito di cui lei fa grande caso in tutto il libro per la cultura, lo humour e l’uso di mondo. Scompare nel senso che si dilegua, dove non si sa, né il motivo: riapparirà un anno più tardi, chiederà la separazione, non concessa dalla moglie, e avvierà complesse procedure ereditarie essendo morto a ottobre, tre mesi dopo la sua sparizione, lo zio-padre Alessandro, nella cui casa era stato allevato, essendo i genitori morti pochi giorni dopo la sua nascita. Lo zio-padre, e soprattutto sua moglie, Vittoria Feroldi, cacciatrice “naturale” di opere e artisti, avevano creato la più grande e più qualificata collezione d’arte privata al mondo. Che Alessandro, nominato per questo senatore da Mussolini, aveva promesso allo Stato. Ma tra i suoi due figli e il figlio acquisito Sandrino, coerede con pari diritti, l’eredità sarà una storia lunga alcuni decenni – Sandrino morirà suicida, a New York, nel 1975.   
Calvino stesso è uno dei “coetanei”, dei delusi:  “Ripensando a quel Calvino incontrato nel 1955, ci si rituffa nell’inquieto fervore di sentimenti che già presentivano la dispersione delle speranze”. E subito dopo, lamentando l’inconsistenza dell’apparato critico su Calvino in morte e dopo, solo in Citati trova una meditata verità, “l’aspetto esistenziale, rinunciatario della realtà, che (ne) aveva connotato gli ultimi anni”. Lei lo testimonia alla fine della narrazione: “Ho storicamente testimoniato del distacco definitivo di Calvino dal comunismo. Fu a un suo incontro casuale con  Alicata alle Acque Albule a Tivoli”. Con Alicata, depositario nel Pci dell’ortodossia, Calvino discute a tu per tu “per oltre mezz’ora, in piedi sotto il sole”, mentre con Elsa stava per uscire dallo stabilimento. Alicata gli contesta “La bonaccia delle Antille”, “lo splendido racconto apparso su ‘Città Aperta’ che aveva deliziato mezza Italia. Calvino “è teso, quasi aggressivo”. E un a volta in macchina “ebbe un commento sprezzante”. 
Ma il disagio lo ha rilevato in precedenza, a margine della vicenda editoriale dei “Coetanei”: “È l’acme di una crisi profonda quella che nel ’59-60 spinse Calvino fuori dall’Italia”. Dapprima in America, poi a Parigi.
A questo punto lei tronca la relazione. Calvino le scrive, come sempre, lunghe argomentate lettere, lei non risponde, lui continua a scriverle, e niente: “A me era accaduto un fatto provvidenziale: quel nuovo Calvino anche confidente, ma guardingo, prudente, sospettoso, avaro soprattutto di se stesso, non interessava più. Era diventato un estraneo e non ero più portata a condividerne emozioni e  idee”. I biografi diranno se la relazione è finita come qui si narra: “Decisi un distacco assoluto e severo durato fino alla sua morte”. Ma è vero il seguito: “Calvino era già in fuga da se stesso, da Einaudi, dall’Italia, da quanto l’aveva determinato fino allora”.
Dalla biografia, si sa che con “I coetanei” lei vincerà il premio Viareggio opera prima, sempre nel 1955. E che dopo la rottura con Calvino sarà a Roma critico teatrale per “Pensiero Nazionale”, quindicinale dei fascisti di sinistra, e per “Il Lavoro”, il quotidiano socialisti di Genova, nonché per “Opera Aperta”, trimestrale del Pci. Amica di Cecchi, Bontempelli, Guttuso, Savinio, Trilussa. Ma soprattutto di Carlo Levi. Nonché di Luchino Visconti, che con lei ricorda il sempre amato fratello morto, uno dei flirt dell’attrice giovane, e qualche volta ride – “veder ridere Visconti era raro”. E di più di Pasolini, che la menziona in versi allegri, distesi, la considerava una familiare, in confidenza con la madre Susanna, di sostegno nelle burrascose trasferte al festival del cinema di Venezia, e in ritrovamento privatissimo a Casarsa, con la madre e le zie, le sorelle della madre, e i cugini Graziella e Nico, e la vorrà anche negli ultimi film “Salò-Sade” e in “Rogopag”, nell’episodi “La ricotta”. Molte memorie lei confiderà a Elio Pecora, suo assiduo per trent’anni.
“La Repubblica” e Edith Singer, “Chichita”, Calvino, la vedova, tenteranno di mettere in ridere la sua storia. Lei non ne adonta, si difende con Moravia: “Le lettere d’amore si difendono da sé”. Limitandosi a riflettere. “Ridere di un amore,  deridere chi potendo testimoniarlo lo fa, è sintomo nel nostro paese della più sinistra imbecillità”. Di fatto è stata destinataria di centinaia di lettere di Calvino appassionate – “il più bel carteggio d’amore del Novecento” a detta di Maria Corti, nel cui fondo manoscritti a Pavia sono confluite. Un caso eccezionale nel Novecento – l’altro epistolario celebre, di Celan con Ingeborg Bachmann, non è così appassionato a giudicare da quel poco che delle lettere di Calvino si sa.
Un libro onesto. Pensato e scritto, dopo un “riserbo assoluto per venticinque anni, in seguito a un articolo di Citati, neofita di “Repubblica”, che il 17 luglio 1990 tagliava Calvino in due, e ne annientava “la prima fase”, dei racconti e le favole, addebitandola a “False Contesse” che lo avrebbero circuito con l’opulenza. Ma senza eccessi in senso contrario, nemmeno contro Citati. Il racconto dell’amore è dimesso, e molto contestualizzato. Nel disincanto, nella ricerca di sé, di entrambi.  Si incontrano per mesi negli interstizi, con sotterfugi, con lunghi viaggi in treno, per poche ore o pochi minuti. Per un periodo, dopo la sparizione del marito, quasi convivono, lui le sta “molto vicino”. La storia s’avvita sullo sfondo del dramma Contini Bonacossi, per l’eredità e la destinazione della grande collezione d’arte: “Ero tormentata dalla pietà cui il pensiero di Sandrino mi condannava, quello della solitudine in cui si murava, certo per non coinvolgermi”. Per questo, “per oltre un anno non frequentai nessuno per paura di nuocere a mio marito”. Non frequentò nessuno da socialite. Frequentò invece Calvino, quasi ogni giorno.
Convivranno nei week-end in una “villetta” che lei affitta a Caponero (Ospedaletti, Sanremo), per stare lontano da Firenze e da Roma. Un alloggio che lui ha individuato per lei – il primo “segno pratico” di Calvino, altrimenti confuso nella relazione, adolescente attardato. Lui viaggia da Torino nei week-end, mentre lei frequenta casa Calvino, la madre. Frequentati da Citati, Carlo Bo, Betocchi, che vano a trovarli, con le mogli – tutti ricordati con affetto. Con molte nuotate. E molte lettere, due al giorno – perché a Ospedaletti non c’era il telefono. E con  la scoperta improvvisa: “Cara, tu sei il mio primo amore”. Lei s’indentifica nella Viola-Paloma del “Barone rampante”, 1957 – di cui la scrittura fu alacre sulla spiaggia di una caletta a Praia a Mare, l’estate precedente: “La prima copia di stampa del Barone rampante Calvino me la portò di persona a Milano dove, al piccolo teatro con Strehler, recitavo Madame Roland nei Giacobini. In stampa il libro era dedicato «A Viola» e a mano «A Paloma, il barone»” - la prima copia “ci rese molto felici”.
Con molti lampi sul teatro. Sulla “teatralità filologica” di Gadda. Sul corpo recitante dell’attore, compresi i silenzi e le pause, i gesti minimi, di Eduardo, di Renzo Ricci. Che Renato Simoni avrebbe portato dalla Russia nel 1920, da Stanislavsky, ma che de’ Giorgi convincente trova in Eleonora Duse – che insegnò le pause a D’Aannunzio, il non detto, glielo impose (è il D’Annunzio che si salva). “Metodo” passato dalle sorelle Gramatica, sue allieve, di Duse, ai mattatori degli ani 1930-1940. Già autrice, prima dei “Coetanei”, di uno “Shakespeare e l’attore”, saggio ammirato e sostenuto da Giacomo Debenedetti, Gerardo Guerrieri e fino a Oreste Del Buono.
Con una coscienza acuta dei tempi. Di Calvino comunista incerto e non solo. Degli anni 1950 del disincanto, dopo le aspettative della Resistenza – nella quale il marito Sandrino aveva avuto una parte molto attiva, a fianco di Ferruccio Parri, e ancora con la presidenza Parri. Le tre pagine finali sull’opinione pubblica di fatto smarrita all’epoca del (finto) comunismo di facciata, nelle lettere e le arti, restano chiare e semplici. Personalmente salva il giovane Giorgio Parisi, il fisico teorico che si adopera a regolare il caos, e Benigni, col tardigrado Fellini: i tipi dell’onestà, o della realtà-verità, anche in scena, a fronte del tradimento degli intellettuali. Ma un tradimento, così vasto e radicato, che è un modo di essere più che un opportunismo. Un’incapacità, un’impossibilità – la “testimonianza”, che sempre è coraggiosa, è vivida e chiara.   
Con più di una verità ancora incognita su Calvino. Minime. “Calvino usava il perbacco”. Non “capiva” Pasolini, “che gli scriveva lettere incantevoli”. “Scriveva a mano, e finché è durato il nostro amore non ha mai guidato la macchina”. E non: “Mancava a Calvino il senso della colpa e del tragico”. Sulla vita, la vita materiale, pratica: a trent’anni,
Con più di una verità ancora incognita su Calvino. Minime. “Calvino usava il perbacco”. Non “capiva” Pasolini, “che gli scriveva lettere incantevoli”. “Scriveva a mano, e finché è durato il nostro amore non ha mai guidato la macchina”. E non: “Mancava a Calvino il senso della colpa e del tragico”. Sulla vita, la vita materiale, pratica: a trent’anni,  già scrittore riconosciuto, vive in una stanza da affittacamere, con poco o nulla riscaldamento, il bagno in comune, il telefono nel corridoio. Sui traumi sotto la riservatezza: poca attenzione, e impazienza, balbuzie, scarsa affettività. Alla Meridiana, la villa di famiglia a Sanremo, si sente, le scrive, “chiuso come un riccio”: “Ci aveva vissuto più di vent’anni, tutta l’infanzia e l’adolescenza, ma non riusciva a sentirla sua – uomo di città, in confidenza con le capitali d’Europa, a casa sua in tutte, ma non nella sua”.
Analizza Calvino a più riprese, frammentaria per non appesantire la narrazione, ma sempre al punto, non con superficialità, né con acredine. L’“aquilotto” della madre”, lo “scoiattolo” di Pavese, tanti gli vogliono bene, aveva 33 anni all’inizio della relazione, e nessuna fidanzata, lei 41, sposata, una ventina di film da protagonista, e dieci di teatro nelle compagnie più importanti, Ricci-Pagnani, Ricci-Magni, con Renato Simoni, e al Piccolo con Stehler, nonché in un suo Teatro delle due città, uno stabile Firenze-Bologna. Al primo incontro, una cena in casa dominata dalla conversazione arcibrillante di Sandrino, ne avverte il “mistero”: “Più tardi seppi la forte tensione a capirsi che c’era in Calvino. Sospettava di sé. Spiava negli altri le ragioni delle loro sicurezze e se ne stupiva. Non sempre si stimava ma sempre si proteggeva. C’era molta infanzia in tutto questo, un’adolescenza inconsumata”. Poche righe prima, ascoltando la conferenza che Calvino aveva tenuto, intitolata “Il midollo del leone”, ha annotato: “Un senso del «gioco», nel significato francese del verbo «recitare» che non poteva sfuggire al mio gusto del teatro; fu questo a rendermi curiosamente familiare Calvino”. Anche se sa, o avverte subito da quel primo contatto, che “Calvino non amava le donne che scrivevano”.
Una galleria di personaggi fa memorabili in breve ma a tutto tondo, per aspetti a volte sorprendenti dei più noti. Bernard Berenson. Paola Olivetti, prima moglie di Adriano, sorella di Natalia Ginzburg, molto amica di Carlo Levi, che era andata a trovare pure a Eboli. Carlo Levi. Anna Magnani, amica e confidente, un ritratto d’antologia. Palazzeschi – Montale e Palazzeschi, un cameo noto e tutavia interessante. Ornella Vanoni. Renzo Ricci. Ruggero Ruggeri. Memo Benassi, che a tutti sbatteva in faccia la sua omosessualità, ma era solo. Savinio. De Chirico. Savinio e De Chirico dietro la loro imponente madre a Parigi. Eva Mameli Calvino, la madre, tanto più sorprendente in quanto solo qui rappresentata, benché personaggio notevolissimo. Il suo giardino delle meraviglie, che mai Italo e il fratello Floriano considereranno casa propria. Pasolini. Susanna Pasolini, la madre, la vera Susanna.  Elsa Morante - con i rassegnati Moravia e Pasolini che distribuiscono le fettuccine ai “regazzini”, a Trastevere e fuoriporta.   
Una brutta foto in copertina, di due bocche incattivite (era rispondente invece la copertina della prima edizione, Leonardo, dove campeggiava lei sola, elegante, quale era di fatto), come in battibecco, per un libro sorprendente - un minimo di cura editoriale non sarebbe stata male, per la ortografia e soprattutto per i nomi, per es. il Giorgio Parise di p. 282, per Parisi, il giovanissimo, allora, fisico matematico, che fa esemplare, con Benigni, della generazione fattiva, successiva al disincanto. Un libro di curiosità e anche di acume, filologico e critico. Elsa de’ Giorgi era ben dedicataria delle “Fiabe italiane”, l’opus magnum di Calvino prima delle favole,  sotto l’anagramma “a Raggio di Sole”. “La sua presenza è palese”, scrive Roberto Deidier nella presentazione, “in diversi luoghi dei racconti, e qualcosa dei suoi tratti è rimasto anche nella Viola del Barone rampante”. Ma molti echi della relazione Deidier rintraccia anche nei racconti “L’avventura di un viaggiatore”, “Nuvola di smog”, “Avventura di un poeta”
Con una dedica “ancora a Carlo levi”, l’amico di sempre, già tra le due guerre. Con quale condivide tutto, la fiducia nella Liberazione e il disincanto. E soprattutto “l’ambiguo rigore del vero”, sottotitolo della sua precedente scrittura, “L’eredità Contini Bonacossi”: della scrittura che si vuole vera, cioè duratura e non fuffa. Dopo “I coetanei” e “L’eredità”, questo “Ho visto partire il tuo treno”, conclude una trilogia di memorie storicizzate, non arbitrarie (“poetiche”) o personali ma legate ai fatti, e al contesto, storico e culturale.
Un libro sorprendente, ma non del tutto, considerando la censura che ancora imperversava nel 1990. Nato, è utile ripetere, in risposta a un Citati nuovo entrante a “la Repubblica”, la corazzata del politicamente corretto, che per esaltare un suo privato Calvino tutto testa e niente cuore lamentava: “Spesso si innamorava… Si trattava di False Contesse che lo istruivano, gli insegnavano le buone maniere… lo obbligavano a frequentare ristoranti costosissimi o a bere Veuve Cliquot” – un articolo non è più reperibile, se non evidentemente nell’archivio cartaceo di “Repubblica” in biblioteca: non viene fuori nell’archivio digitale, non si legge nelle raccolte saggistiche di Citati. De’ Giorgi reagì su “Epoca”, mostrando a Pasquale Chessa la raccolta di lettere che Calvino le aveva scritto (“esattamente 407, divise per argomenti in 11 cartelline azzurrine”, testimonia Chessa), disponendo la pubblicazione di alcuni estratti di esse, e difendendosi con finezza in dialogo col giornalista: “Il personaggio Calvino descritto nell’articolo di Citati è catastrofico”, sul piano comportamentale e su quello letterario, se scriveva scemenze. E perché le sue lettere non “s’hanno” da pubblicare? “Certo, Citati non si rassegna che sia considerato tra i maggiori quel Calvino che, proprio lui, aveva così ben situato ne limbo fluido dei minori. O dei «falliti maggiori»?” A  Citati, che ricorda al suo desco a San Leonardo a Firenze giovane insegnante di liceo, dedica in fine alla sua memoria righe tutto sommato di apprezzamento, dopo averlo citato come critico eminente - i Giorgi Alberti, si uò aggiungere, nome d’origine dell’abbreviato de’Giorgi, nobili di Bevagna e Camerino, patrizi di Spoleto, erano comunque “più nobili” dei Citati nobili siciliani, e comunque Elsa era contessa non falsa, sposa di un conte vero, anche di spirito.
Sulla querelle specifica, dopo quella dell’eredità Contini Bonacossi, non le si può dare torto: l’eredità di Calvino è scandalosa. Non solo per le intemperanze critiche di Citati, che per impossessarsene lo ha ridotto a poca cosa (un epigono, pogo geniale, dei dell’Oulipo, loro sì geniali, Perec e Queneau). Ma, tra l’altro, per la censura sull’epistolario custodito da de’ Giorgi, confidato al fondo manoscritti creato da Maria Corti a Pavia , in attesa della pubblicazione 25 anni dopo la morte dello scrittore – ne sono passati 35 e la cosa è sempre impossibile. Un insulto allo stesso scrittore, prima che a de’ Giorgi.
Elsa de’ Giorgi, Ho visto partire il tuo treno, Feltrinelli, pp. 295 € 9,50

venerdì 16 aprile 2021

Ombre - 558

“In Italia avete un ottimo sistema universitario, ma i migliori se ne vanno”, spiega a Platero su “la Repubblica” Larry Fink, creatore e gestore di Blackrock, il gestore di risparmio più grande del mondo. Semplice. E allora come si risolve la questione? Ma mandando in malora le università - così nessuno se ne andrà.
 
La Procura di Civitavecchia, competente per territorio, documenta una serie di assunzioni illegali nell’Alto Lazio, ad Allumiere, portando alle dimissioni del presidente Pd del Consiglio Regionale. La Procura della Repubblica di Roma allora affida ai Carabinieri la ricerca di assunzioni illegittime da parte della Destra. Non su notizie specifiche di reato, così a largo raggio, pescando tra i social. Che la giustizi in Italia sia politica, cioè la negazione della giustizia, non è una novità. Che lo sia sfacciatamente sì.
 
La giustizia politica sembrerebbe un armamentario da destra,  antidemocratico oltre che illegale. Ma in Italia è di sinistra, e con orgoglio.
 
“Ristori inferiori al reddito di cittadinanza!”. Beh, è un fatto. La nuova politica privilegia chi non  lavora. Un sogno.
È un fatto, infatti, che i percettori del reddito di cittadinanza si fanno un dovere di non lavorare, per quante occasioni si presentino. Non barano.   
 
Formidabile vocabolario delle sigle burocratiche in continuo cambiamento senza alcuna ragione, redatto da Milena Gabanelli e Rita Quercé sul “Corriere della sera” lunedì. I “ristori”, termine già esoterico, sono d’improvviso diventati “sostegni”. La Dad , didattica a distanza, Did, didattica integrata a distanza. Quattordici sigle diverse sono in uso nelle varie Regioni per dire le Asl. Dodici per dire il Prg, piano regolatore (qui si capisce, bisogna imbrogliare le carte). La tassa sui rifiuti, oggi Tari, forse perché si vergogna è cambiata di nome quattro volte in quindici anni.
 
“Dall’inizio dell’emergenza la percentuale maggiore di occupazione dei posti letto si è avuta negli ultimi sei mesi”: il calcolo è semplice, della direttrice dell’Istituto Clinico Casalpalocco a Roma, da quattordici mesi Covid Hospital per conto della Regione Lazio. Si paga caro la spensieratezza estiva.
 
E non è tutto, spiega ancora la direttrice, Valeria Giannotta: “Nel 202 la maggior parte dei ricoverati aveva 70/80 anni, ora l’età è scesa di almeno dieci anni. Molti anche i giovani”. La spensieratezza, appunto.
 
Molinari offre al giudice Gratteri la possibilità di sdoganarsi dal libro di Bacco e Giorgianni sul “complotto Covid”. Peppe Smorto e la corrispondente calabrese di “la Repubblica” svolgono il loro compito contestando al giudice il contestabile. Gratteri si difende dicendo che ha letto del libro un estratto. Ma di un libro che di 350 pagine, che parla della pandemia, e si intitola “Strage di Stato”? Certo, la superficialità esiste.
 
“Che senso ha infangarmi perché ho lavorato per gli oligarchi (ex sovietici, n.d.r.)? Credete ci sia differenza con i miliardari americani o cinesi?”. Si difende con Paolo Brera sul “Venerdì di Repubblica” l’architetto bresciano Lanfranco Cirillo, che gli oligarchi, e le loro mogli, hanno arricchito. In effetti non c’è differenza. Eccetto che se si deve obbedire alle “direttive” cinesi, oppure americane. Che senso ha la stampa?                                  

Beati gli oziosi

L’elogio sarebbe degli “oziosi”, dei fannulloni ma fantasiosi. Dei pigri, degli oziosi che però si guardano attorno. A partire dalla scuola, e poi nel “lavorerio” - l’applicazione toglie molto più di quanto dà.
Sulla linea del paradosso, ma con applicazione, Stevenson nel 1877, a 27 anni, argomenta con cipiglio a favore del guardarsi attorno piuttosto che faticare. Con serietà - il saggio ricomprese poi, nel 1881, nella accolta “Virginibus Puerisque, and Other Essays”.
Un’argomentazione d’epoca, col flâneur di Baudelaire, e col Buonannulla tedesco, di Hebel, e poi di Eichendorff e di Hamsun.
Roba d’abbondanza, insomma, nelle attese, in prospettiva, in clima Excelsior. Una letturina corroborante, felicemente in controtendenza con questa epoca, ricca come non mai, con una ricchezza diffusa come non mai, nelle classi e nel globo, e triste, tetra - effetto del mercato, i padroni sotterranei ci vogliono morti, moribondi, cupi, terrorizzati?
Curato da Franco Venturi, una delle sue ultime cose. Con testo originale.
Robert Louis Stevenson, Elogio dell’ozio, La Vita Felice, p. 58 € 6,50

giovedì 15 aprile 2021

Il mondo com'è (426)

astolfo

Aborto di genere – L’esposizione, quando non la soppressione, delle figlie femmine in India e in Cina, a lungo parte dell’eugenetica tradizionale nella famiglia patriarcale, è diventata aborto selettivo. In India non si sa – si sa che si pratica, ma non se ne hanno le cifre. In Cina la pratica è confermata dalle statistiche demografiche. Nei quaranta anni dacché è stata introdotta la legge del figli unico (1979), per limitare la crescita demografica, il numero delle donne è risulta vieppiù ampiamente inferiore alla parte della popolazione di sesso maschile. In contrasto col dato quasi biologico, certificato dalla demografia ovunque altrove, che dà ovunque una preminenza della popolazione femminile su quella maschile, attorno al 52-54 per cento. In Cina la proporzione si è presto rovesciata: per ogni 100 donne 106 uomini. Una discrepanza che, nei numeri della Cina, significa quaranta milioni di donne in meno. .
Lo squilibrio è ancora più accentuato fra le generazioni più giovani: si contano 115 uomini ogni 10 donne fra i i 15 e i 24 anni, e 117 a 100, fino ai 14 anni.
 
Cassa del Mezzogiorno
– Un istituto speciale che presiedette per  trentacinque anni, dal 1950 a tutto il 1985 (fu abolita a marzo del 1986) allo sviluppo del Sud dell’Italia. Modellata sulla Tennessee Valley Authority creata dal presidente americano F.D. Roosevelt nel 1933, nel quadro delle misura anti-crac de 1929, per lo sviluppo della regione depressa del Sud. Con un obiettivo analogo, di riequilibrio territoriale e sociale. Dismessa con l’insorgere del leghismo in Italia, con ignominia ma senza colpa.
Una storia resta ancora da fare - a trent’anni da quando lo storico pavese Carlo M. Cipolla ne lamentava la mancanza (“Storia facile dell’economia italiana dal Medioevo a oggi”. Ma, si sa, con qualche merito. “È troppo facile liquidare la Cassa per il Mezzogiorno come inefficiente carrozzone clientelare”, lamentava allora Cipolla a conclusione della sua “Storia facile”, “sulla base degli esiti recenti della presenza pubblica nel Sud”. E intendeva: al riscontro degli “esiti recenti” di una politica che ha fatto a meno della Cassa. “In realtà”, continuava Cipolla, “uno studio serio sul suo impatto politico-sociale oltre che economico deve ancora essere effettuato e non potrà ignorare il fatto che, per la prima volta dall’unificazione, il Mezzogiorno d’Italia uscì dal suo profondo isolamento e sperimentò una crescita del reddito uguale alla media nazionale”.
 
Gournay
– Scuola di Gournay è la “scuola” di economia del primo Settecento in Francia che si rivaluta da qualche tempo come iniziatrice - comunque teorica - del libero scambio. Prima ancora della scuola scozzese, di Hutcheson e Adam Smith. Prende il nome da un commerciante di export-import, poi anche Intendente di commercio, (Jacques-Claude-Marie-)Vincent de Gournay, che nella breve vita (1712-1759) elaborò il fondamento dell’economia attuale, basata sullo scambio – sul libero commercio e il consumo: della globalizzazione. Autore supposto del celebre motto “laissez-faire” – in origine “laissez faire, laissez passer”. Degli scambi cioè senza restrizioni, né di tariffe (dazi) né di contingenti, come è al fondamento della globalizzazione.
Gournay è coautore certo del Tableau Économique del Quesnay, che si pone a fondamento della scienza economica. E quindi suppostamente vicino ai fisiocrati, i teorici che la ricchezza ponevano nella natura, cioè nell’agricoltura. Da cui però si distingue in modo netto, teorico al contrario della “scienza del commercio”. Il “Quadro” di Quesnay, delle interrelazioni che presiedono all’accumulo, alla crescita della ricchezza, si ispirava alla teoria dei cicli che François Véron Duverger de Forbonnais veniva di abbozzare. Ma si costruiva sullo “Zig-zag”, una raffigurazione sinusoidale dell’accumulazione elaborata da Gournay con Richard Cantillon. In anticipo su Adam Smith, i francesi Quesnay, fisiocrati e Gournay si occuparono delle fonti e dei meccanismi di creazione della ricchezza.
Dai 17 ai 31 anni a Cadice, al fondaco di famiglia, membro influente dei circoli finanziari della città andalusa, Gournay aveva frequentato la corte di Spagna, allora fulcro del mercantilismo, e su questo background aveva cominciato ad elaborare l’idea opposta, del libero scambio. Rientrato in Francia, aveva convinto il notabilato mercantile di Cadice a rimpatriare gli attivi sudamericani per investirli più convenientemente in Francia: 200 milioni di sterline furono investiti in Francia. Alla guida degli affari di famiglia, studiò poi molto, specie gli economisti del Seicento, l’inglese Josiah Child e l’olandese Johann de Witt, e viaggiò, per rendersi conto delle novità economiche, in Austria, Olanda e Inghilterra, dove fu in relazione con Robert Walpole, il whig primo premier, e per ben venti anni, con due re,  e il diplomatico e intellettuale Lord Chesterfield.

Gournay, un nome si direbbe innovatore. Gournay è un nome evocatore anzitutto di Montaigne. Marie de Gournay, prozia dell’economista (entrambi traggono il nome da Gournay-sur-Aronde, il feudo di cui l’economista era marchese), era stata un secolo prima la “figlioccia”(fille d’alliance) di Montaigne. Ed è nella storia come la prima femminista, autrice di un manifesto “Dell’uguaglianza degli uomini e delle donne” e di una “Lagnanza delle donne”. Una ragazza non bella e presto in fama di “preziosa”, che giovanissima aveva scritto a Montaigne per elogiarne la prima edizione dei “Saggi, ne aveva suscitato la curiosità e quindi l’amicizia e una copiosa corrispondenza. Fino a diventare la curatrice della sua opera - nel 1592, alla morte, la moglie e la figlia ne affidarono a lei le carte, compresa l’opera sempre in progress dei “Saggi”.
Montaigne conobbe Marie de Gournay dopo la seconda edizione dei “Saggi”, 1582, i primi due libri della raccolta. La diciottenne Marie de Gournay gliene scrisse entusiasta, i due s’incontrarono più volte e Montaigne fu, oltre che lusingato, sinceramente interessato dalle doti di carattere e d’intelligenza della giovane. La dichiarò sua figlia spirituale e ne introdusse un elogio al cap. XVII del libro secondo dei “Saggi”, che intitolava “Della presunzione”: “Mi sono compiaciuto di dichiarare in molte occasioni le speranze che ripongo in Marie de Gournay Le Jars, mia figlia spirituale: e certo da me amata molto più che d’affetto paterno e inclusa nel mio ritiro e nella mia solitudine come una delle parti migliori del mio stesso essere. Non considero più che lei al mondo. Se dall’adolescenza si può trarre presagio, quest’anima sarà un giorno capace delle cose più belle e tra le altre della perfezione di quella santissima amicizia alla quale non abbiamo notizie che il suo sesso abbia potuto finora innalzarsi. La schiettezza e l’integrità dei suoi costumi vi sono già di per sé sufficienti, il suo affetto per me più che sovrabbondante, e tale insomma che non c’è nulla da desiderare, se non che il timore che essa ha della mia fine, poiché mi ha incontrato quando avevo cinquantacinque anni, la tormenti meno crudelmente”. Più ancora è lusinghiero nel seguito: “Il giudizio che essa dette dei miei primi Saggi, da donna, in questo secolo, e così giovane, e sola nel suo paese, e lo straordinario ardore con cui mi amò e mi desiderò a lungo per la sola stima che aveva di me, prima di avermi visto, è un fatto di degnissima considerazione”. Questa professione di amitié amoureuse ricorre nell’edizione 1595 dei “Saggi”, postuma, curata dalla stessa Marie, allora trentenne.
Marie de Gournay vivrà fino a ottant’anni, età per i tempi prodigiosa, e a sessanta, in difesa del “sesso malmenato”, avanzerà per le donne il diritto all’istruzione, il diritto a governare, e il diritto al sacerdozio – anticipando il detto che sarà attribuito a Voltaire: “Dio non è né maschio né femmina”.
 
Licantropia – Una patologia di cui si sono perdute le tracce, che pure tanta letteratura, anche scientifica, ha prodotto. Genericamente inteso come una forma di delirio, un “delirio di trasformazione somatica”, che induce a credersi trasformati in animali – non necessariamente in lupi, come la denominazione clinica sottende. A lungo ritenuta una forma di magia, viene classificata tra le malattie mentali dal 1615, data di pubblicazione del trattato “De la lycantropie,  transformation et extase des sorciers” cioè dei maghi, del medico francese Jean de Nynauld. Che così la descriveva: la licantropia è una malattia chiamata o malinconia, o follia lupesca, oppure licaonia, o cinantropia. I licantropi escono da casa di notte e seguono i lupi come i cinantropi i cani; sono pallidi e hanno gli occhi infossati; non vedono che oscuramente come se fossero attorniati da tenebre; hanno la lingua molto secca; hanno sete; non hanno alcuna saliva in bocca.

Paramnesia - È la penosa e brusca impressione di avere già vissuto il tempo presente. Scientificamente repertoriata come “disturbo della memoria”, e divisa in allomnesia, ricordi incompleti, o allocati erroneamente nel tempo o nello spazio, e pseudomnesia, ricordi di fantasia (affabulazioni, dejá vu, ricordi sbagliati, ricostruzioni arbitrarie. Di fatto è alla base delle dottrine della trasmigrazione delle anime, e del tempo circolare.
 
SS donne – Se ne registrano almeno tre in Italia nel racconto storico “Partigia” di Sergio Luzzatto. La “fantomatica” (p. 231) baronessa von Hodenberg, “direttrice della Gestapo” a Torino e in Piemonte, secondo i collaborazionisti. Una Annabella, reclutatrice di spie per conto dei tedeschi a Savona. E la sua “corrispondente” a Pistoia, Albertina Porciani, maestra di scuola, che negli interrogatori alleati è detta” stupid impressionable youg woman”. 

astolfo@antiit.eu

Restituire Montalbano a Sironi e Degli Esposti

So chi è l’assassino, ma il film è tutto nuovo per me”, Camilleri spiega nella consueta garbata presentazione - questa volta a Mollica, che gli chiede se vede i film di Montalbano e con che spirito. Riproposto dalla Rai per l’uscita in dvd, l’ultimo episodio dei “Montalbano” diretti da Alberto Sironi si fa precedere da questa curiosa spiegazione di Camilleri. Curiosa non perché i film di Montalbano, come tutti i film tratti da racconti, sono diversi dai racconti. Ma perché Camilleri lascia il merito dei film a Francesco Bruni, lo sceneggiatore. Cioè a un altro scrittore. Senza menzionare né il regista né il produttore. Che erano fino a qualche tempo fa e probabilmente sono ancora, anche di diritto oltre che di fatto, gli “autori” di un film, i padroni del copyright.
Il “Montalbano” del perdurante successo, quello dei film (anche ieri sera, alla terza replica, pur dimezzando gli ascolti, a 4,5 milioni, ha coperto il 20 per cento della audience), è senz’altro di Sironi, il regista, e del produttore Degli Esposti. È la sigla rapinosa, “creatrice” di un mondo, di squarci, vedute aeree, angoli, luci, colori, nuotate. Gli interni, mai anonimi, tutti caratterizzati, e parlanti. Come gli esterni, non casuali. E i caratteristi, scelti con un sapiente dosaggio di linguaggio corporeo prima che vocale: personaggi che parlano prima ancora di aprire bocca. Rapinosi sono questi Montalbano, pure di maniera, per la Sicilia che mostrano: non quella dei luoghi comuni, il mafioso e il turistico-macchiettistico, ma un mondo, peraltro più veritiero, di teatranti (il Siciliano era una maschera, in antico), in scenari molto caratterizzati, ricchi e poveri, dai linguaggi multipli, o meglio di spessore. Il dialetto latineggiante esprime forme mentali e idiomatiche levantine (fenicie?) e maghrebine - il dialetto siciliano era lingua franca nelle attuali Tunisia e Algeria prima del colonialismo francese. Mancato Sironi, già il titolo è fuorviante.
Alberto Sironi-Luca Zingaretti, Salvo amato, Livia mia, Rai 1, dvd

mercoledì 14 aprile 2021

Troppo pochi cinesi in Cina

 La Cina dei ricchi, il grande mercato mondiale della ricchezza, è minacciato dalla povertà. La Cina come l’Italia - anche se in scala di venti a uno: per il declino demografico, meno nascite, più anziani.
È un problema che le diverse dimensioni – la Cina ha una popolazione di 1,3 miliardi di persone - rendono più arduo e insostenibile. Ma già in atto. La decrescita demografica, iniziata in Italia nel 2020, emergerà in Cina nel 2027: il tasso di fertilità (figlio per donna fertile, tra i 15 e i 49 anni) è stimato il più basso del mondo, 1,18 – quasi la metà del “tasso di sostituzione”, 2,1 figli per donna in età fertile, la riproduzione necessaria per mantenere l’equilibrio demografico inalterato.
Il declino demografico, in atto ormai da tre generazioni con la legge del figlio unico, renderà insostenibile in una prospettiva ora ravvicinata, 10-15 anni, il mantenimento di una massa crescente di anziani con una massa in declino di classi di età produttive. Per effetto di dati noti. Una aspettativa di vita raddoppiata rispetto al 1970, nei pochi decenni del boom – ora è a 78 anni. E una massa di anziani non attivi calcolata in crescita di 150 milioni. Mentre il segmento attivo della popolazione si restringerà di 100 milioni di soggetti. Portando il numero degli ultrasessantacinquenni al 25-30 per cento della popolazione.
C’è già un “tasso elevato di dipendenza strutturale”, il 42 per cento – il rapporto tra classi di età produttive e classi di età non attive. Anche per effetto di età di pensionamento non aggiornate all’allungamento dell’aspettativa di vita: 60 anni per gli uomini, 55 per le donne, 50 per le donne operaie.
La forbice attivi\non attivi si allarga in Cina con redditi ancora bassi per le classi di età produttive, redditi medi e da lavoro. E ancora più bassi per i pensionati e i prossimi pensionandi, che hanno lavorato quando i salari, e quindi i contributi,  erano bassi e bassissimi. Senza più il “reddito familiare”, la rete di salvataggio della famiglia grande, e dell’economia di sussistenza: per la legge del figli unico, solo da poco temperata, e per lo spopolamento delle campagne - il boom industriale cinese di quarant’anni le ha spopolate.
E un gap demografico e contributivo non colmabile con l’immigrazione – impossibile ipotizzarla alle dimensioni del continente Cina. Che è peraltro sovrappopolata: il deficit demografico si coniuga con la sovrappopolazione.
Il deficit demografico è già un problema per la finanza pubblica. Il governo finanzia il sistema pensionistico, dei lavoratori dipendenti e degli autonomi (artigiani, agricoltori) col 3 per cento della spesa pubblica. Ma già sa che l’esborso crescerà rapidamente - fino a un insostenibile 20 per cento della spesa all’orizzonte 2050.
L’aumento dell’età pensionabile e la ricollocazione della Cina in attività più qualificate e meglio retribuite ridurrà il gravame, ma a lungo termine. E non in modo risolutivo.

La “Commedia” dalla A alla L

In due volumi (questo primo va d alla A alla L), tutto il vocabolario della “Divina Commedia”. Non proprio tutto: i nomi di persona, propri, storici, mitologici, letterari, di fantasia, toponimi, pseudonimi,  termini scientifici, filosofici, astrali, concetti etici o religiosi. Di cui si tenta di fissare, se occorre, per i diversi riferimenti eventuali variazioni di senso. Con rinvio per ogni voce al-ai luogo-ghi di riferimento.
Un repertorio, da compulsare al bisogno, ma anche un diversivo gradevole, allo sfoglio.
Enrico Malato (a cura di), Dizionario della Divina Commedia, Corriere della sera, pp. 339 € 7,90

martedì 13 aprile 2021

Problemi di base euroturchi - 631

spock

L’Europa non fa più figli, da ora?

L’Europa è morta, da ora?

O sarà un’Europa senza: senza più figli, lavoro, futuro?

O si muore lentamente, Roma nel 476, Costantinopoli nel 1453?

E Erdogan che fa, ricomincia dal 1453?

L’Europa finanzia questo Erdogan, un falso credente, sei miliardi in quattro anni, quindici in quindici anni (poco meno di un miliardo pagato dall’Italia): ne ha tanta  paura?

spock@antiit.eu

5 Stelle e Pd uniti nella lotta – per la corruzione

“Nel processo per la presunta corruzione sul via libera allo stadio della Roma, l’ex assessore all’urbanistica Paolo Berdini racconta: «Quando era sindaco Ignazio Marino venni contattato da Raggi e Frongia. Mi chiesero di fare l’assessore con la mission di bloccare il progetto. Ma a febbraio 2017 Francesco Totti invitò in un tweet a fare lo stadio. L’ex vice sindaco Luca Bergamo mi disse allora che la mia posizione contraria non era più sostenibile da un punto di vista politico e che Alfonso Bonafede (l’ex ministro alla Giustizia grillino, ndr) non avrebbe dato l’assenso alla revoca. Arrivò Luca Lanzalone (il presidente Acea arrestato per le presunte tangenti avute dal costruttore Luca Parnasi, ndr) che mi sostituì nella gestione senza incarichi formali e tutto cambiò»”. Nella “gestione” dell’affaire – la carica di presidente dell’Acea, la più grande azienda romana, era una copertura, Lanzalone era chiamato, ed era, “il sindaco ombra”.
Cronaca ridotta al minimo nei giornali romani per uno scandalo di corruttela da tempo più che accertato. Queste poche righe sono di Fulvio Fiano, che ostinato li firma, in un angolo invisibile sul “Corriere della sera-Roma”. Ma non c’è di più di più su “la Repubblica” e “il Messaggero”. C’era, nel 2017, nel 2018, ancora nel 2019, poi non più. Anche la Procura di Roma si è raffreddata, dopo i primi furori. E il processo va lento. I fatti son gravi. La corruzione in se stessa, per somme non da poco. Di cui ancora sono ignoti i beneficiari – Lanzalone è un “collector”, mandato da Grillo. O il Bonafede al centro della corruzione, che è un giudice, ed è stato perfino ministro della Giustizia. I 5 Stelle essendo cugini ora dei Pd, dopo averli per un decennio spernacchiati e strabattuti, vanno trattati con riguardo?
Aprendosi il processo destinato a sicura condanna, Grillo ha trovato conveniente mettersi con il Pd. E ci ha visto giusto: la cosa non procede - giusto il minimo. Senza peraltro che se ne sappia.

 

Sorrisi Hollywood sul Tevere

Un matrimonio di ventenni, drogati a Las Vegas, e sconosciuti tra loro, da sciogliere dopo dieci o vent’anni per poter convolare a giuste nozze. Anni nei quali molto è avvenuto che rende il divorzio tanto facile nel deserto del Nevada molto complicato. Fino a che, naturalmente, Las Vegas non riunisce i cuori – li divide così facilmente come li unisce.
Come c’è il western spaghetti, c’è una commedia Hollywood sul Tevere – anche se negli ambienti ovattati del futuribile Enel X, l’Energia del Futuro. Una commediola teenager, benché qui tra adolescenti attempati, che anch’essa costa sempre meno di una commedia vera, cioè all’italiana – girare in America dimezza i costi di produzione.
Brillante grazie alle grazie di Andrea Delogu. Con un Morelli troppo adagiato su se stesso, mentre Ricky Memphis si supera.
Non si ride, ma ci si diverte.
Umberto Carteni, Divorzio a Las Vegas, Sky Cinema

lunedì 12 aprile 2021

Ecobusiness

Aumenta la Tari, la tassa sui rifiuti, mentre diminuiscono i rifiuti per il lockdown delle attività produttive.
E mentre il servizio peggiora in una città grande come Roma, per la disorganizzazione ma anche per minori investimenti.
Roma non riesce a trattare i suo rifiuti. In aggiunta alle ecoballe che manda – a caro prezzo – in Germania, ora chiede a Napoli di farsi carico di 100 tonnellate al giorno di indifferenziata – a Napoli…
Enel prepara le colonnine per la ricarica delle auto elettriche a Roma, l’Acea, l’azienda comunale che a Roma gestisce la rete elettrica, non le mette in rete: questione di concorrenza.
Ma, poi, il ciclo elettrico riproduce il circolo vizioso dell’energia nucleare: l’energia pulita si produce con energia sporca, e produce rifiuti che non si sa come trattare, in quella le scorie, nel ciclo elettrico le batterie esauste.

Napoli linda, con humour

Morelli, una serie sterminata di ruoli al cinema, in teatro e in  tv, si rifà interprete e regista per il ritorno a Napoli, la sua città. Per un racconto romantico sulla vena napoletana giusta, di comicità lieve. È anche l’anno fortunato della coprotagonista Serena Rossi - altra napoletana, una che, dice, “cantava ai matrimoni”, come in una delle scene comiche di questo “7 minuti” - con la serie fortunata di De Giovanni in tv, “Mina Settembre”, e programmi impegnativi d’intrattenimento su Rai 1, sulle orme di Raffaella Carrà. Morelli è un innamorato tradito e abbandonato, Rossi maestra d’innamoramento, in una sua scuola che diventa una palestra di comicità napoletana.
Più fortunata e felice di tutti è Napoli, che riprende il discorso interrotto vent’anni fa, della città normale, moderna, e anzi bella, quella degli entusiasmi del “Rinascimento Bassoliniano”, poi sommersa dalle “Gomorra”, giornalistiche, giudiziarie e (dis)amministrative. Riproposta da Ozpetek con “Napoli velata” (2017), i Manetti Bros, “Ammore e malavita” (2018), Pappi Corsicato “Vivi e lascia vivere” (2019) con successo di pubblico, si rappresenta in serie tv ormai numerose, che Morelli  ricalca, molto colorata, assennata, con piazze pulite, mare limpido, spiagge bianche, squarci lindi colorati, e molto humour.
Giampaolo Morelli, 7 minuti per innamorarti, Sky Cinema, Netflix

domenica 11 aprile 2021

Problemi di base ragionevoli - 631

spock


Ragioniamo, che vorrà dire?
 
Non c’è ragione?
 
Non c’è ragione, uno può sempre darsela?
 
Il diritto e il torto sono effetti di legge, e la ragione?
 
Quanto è ragionevole la natura, sia pure darwiniana?
 
Nella natura si crea e si distrugge?
 
Bisogna ripensare Lavoisier – e Darwin?


spock@antiit.eu

Il genio prospera nella Bassa reggiana

Le ossessioni di Ligabue il bolognese Diritti, un “cultore della materia”, biografo del pittore-scultore, soggettista e sceneggiatore del suo film, trasforma in un quadro amabile della bassa reggiana, tra Brescello (don Camillo-Peppone) e Guastalla. Di Gualtieri precisamente, che ospitò paziente e anzi benevolo l’artista pazzo, espulso dalla Svizzera come indesiderabile. Tanto più al confronto con questa Svizzera, tanto ben regolata e animata da buone intenzioni quanto fredda – Ligabue viene dichiarato indesiderabile dopo le aggressioni alla madre adottiva, pure affettuosa, e il ricovero in manicomio, da cui era uscito bollato come incurabile.
Le bizzarrie del pittore-scultore, un esercizio di bravura per il suo interprete, Elio Germano, vengono rappresentate senza censure, nemmeno di buoni sentimenti. Un genio che si vorrà sempre isolato, bisbetico, anche se morirà col tormento d’amore, di non poter essere riamato. Ma in un quadro affettuoso – sono le campagne di Olmi, di Avati, di cui Diritti è stato aiuto. Il pazzo, il Tudesc, passerà dalle suppliche al sindaco per una sistemazione da indigente alla morte nel 1965 tra le visite dei compaesani affettuosi, con una bella casa, tre automobili, e dodici motociclette. 
Poteva essere – si temeva – un racconto di demenza. Tanto più per essere parlato in svizzero-tedesco e in reggiano. È invece uno di serenità, malgrado tutto: un omaggio all’umanità. Nostalgico? 
Giorgio Diritti, Volevo nascondermi, Sky Cinema