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venerdì 31 dicembre 2021

Problemi di base - 678

spock

Si vivono bei momenti se non ci si chiede perché?
 
Ognuno ha le sue ragioni, che spesso non conosce?
 
Nessuno è saggio sempre?
 
Non c’è nulla di cui aver paura se non la Paura?
 
Ma cos’è il passato – e il futuro – se non per noi, paura e immaginazione?
 
“Solo per chi non ha più speranza è stata data la speranza”, Walter Benjamin?
 
“Non c’è speranza senza paura, né paura senza speranza”, Spinoza?
 
spock@antiit.eu

Juventus penultima nel 2010

Non è il primo annus horribilis della Juventus, la squadra di calcio. Il 7 febbraio del 2010 si poteva constatare su questo sito quanto segue - da notare anche le alterne fortune di Atalanta, oggi ai vertici del calcio europeo, e Lazio: la palla è rotonda. Allenatore della Juventus era Ciro Ferrara – un primo esperimento alla Pirlo, di neo allenatore catapultato su un grande squadra - sostituito a fine gennaio da Zaccheroni. La formazione era di tutto rispetto: Buffon, Cáceres, Chiellini, Fabio Grosso, Cannavaro, Felipe Melo, Zebina, Camoranesi, Marchisio, Trezeguet, Ciro Immobile, Giovinco, Poulsen, Sissoko, Candreva, Iaquinta, Del Piero.
“La Juventus è penultima in campionato a partire dalla diciottesima giornata, quella che all’Epifania ha segnato la ripresa del gioco, il primo turno del 2010. A quella data risale anche la sua ultima vittoria, a Parma.
Cinque i punti raccolti dalla Juventus nelle sei partite di quest’anno, match col Parma compreso. Tanti quanti il Livorno. Ma meno delle squadre di fondo classifica, quelle che si battono per non retrocedere. Ha fatto peggio solo il Siena, che ha rimediato un unico punto. L’Atalanta ha fatto sei punti. Come la Lazio e l’Udinese. Il Bologna ha fatto otto punti, il Catania 11.
“Con questa media nelle prossime quindici partite, la Juventus arriverebbe a fine campionato poco sopra la quota retrocessione: con 12-13 punti si attesterebbe a 47-48 punti. Alla pari del Catania, che con la media delle ultime sei partire totalizzerebbe anch’esso 47-48 punti. Risultato cui può ambire anche il Bologna, che ha una partita da recuperare. Sotto i 43-44 punti, considerati quota retrocessione, rimangono secondo la tendenza di quest’anno cinque squadre: Lazio, Udinese, Livorno, Atalanta e Siena”.

Eduardo come Scarpetta

Una megaproduzione, piena di atmosfere d’epoca, in interni e in esterni, di costumi e scenografie accurate e sontuose. Nonché di tante forme di teatro che poi si sono perse – e di cinema: si davano i primi film sonori in originale… Una perfomance straordinaria di Giannini, nel ruolo di Eduardo Scarpetta. E una lettura, forse involontaria, di Eduardo prevaricatore come il padre, di cui portava il nome – il nome di battesimo non il cognome, come si sa. Per questo attraente.
Ma è una sorta di prolusione alla storia che il titolo promette. Senza Scarpetta, una storia trita da qualche tempo, non ultimo il film “Qui rido io” di Martone, prodotto dalla stessa Rai Cinema, sarebbe stato anche una novità. La storia dei tre fratelli, lunga oltre venti anni sulle scene, sarebbe stata di gran lunga più interessante quella delle due famiglie dell’eroicomico Scarpetta - come poi di De Sica e di tanti altri, anche non napoletani.
Sergio Rubini, I fratelli De Filippo, Rai 1

giovedì 30 dicembre 2021

Ombre - 594

Prima ha esautorato il Parlamento, poi ha svuotato le elezioni, ora chiude i giornali: in pochi mesi la Cina comunista è passata sopra a tutti gli accordi internazionali, e ai diritti politici elementari, e si è impadronita di Hong Kong. Senza proteste: l’Occidente è affogato negli affari – nella globalizzazione che esso stesso ha imposto, per impadronirsi del plusvalore made in China. Poi dice  che Marx è morto.

Novanta miliardi di fatturato e 41 di utili, non sono pochi per Pfizer. Moderna e Biontech. Dice: la ricerca è dispendiosa e va remunerata. Ma un limite non guasterebbe, nemmeno la ricerca.

Con una capitalizzazione in Borsa prossima ai 10 miliardi, Fineco Bank vale più delle cinque banche che si prospettano per il terzo grande polo bancario, dopo Intesa e Unicredit, tutte banche centenarie. “Il Sole 24 Ore” ne fa la scoperta, e ne sa anche il motivo: le banche centenarie sono oberate dai rischi di credito, e dalle vessazioni della Bce - da “dieci anni di iperregolamentazione”. Mercato sì, ma di che?

 

Fineco Bank è solo multicanale – ha uffici, ma solo di consulenti, per le gestioni patrimoniali. Era di Unicredit, che l’ha segata per fare cassa, è una public company, a proprietà cioè diffusa, tra fondi d’investimento, assicurazioni, fondi pensione. Due anni e mezzo fa Unicredit vantava di aver ceduto il 38 per cento di Fineco, in due operazioni successive, per un miliardo l’una. Glielo chiedeva la Bce, per rientrare nei parametri Cet 1 e Cet 2. Mantenendone il 18 per cento, ma deconsolidato, come semplice investimento finanziario. Ora Unicredit vale in Borsa solo tre volte l’ex ramo Fineco.  


La liberazione del ceceno, assassino comprovato del giovane Ciatti, da parte della Corte di Assise di Roma è una palese aberrazione. Perché era stato arrestato in modo illegittimo, è la motivazione. Più assurda del fatto. Ma nessuno lo dice: i giudici di Assise hanno voluto affermare la loro terzietà di fronte alla Pubblica Accusa (che avrebbe potuto sanare in un fiat la procedura, se veramente difettosa o illegittima), e questo è ridicolo, oltre che criminale. E poi chi crede ala terzietà dei giudici, se hanno carriere scambiabili con i Procuratori, occupano gli stessi uffici, si scambiano pareri e favori?   

“Più di un positivo su tre è in Lombardia”, che ha un sesto della popolazione italiana. Grazie ai no vax: “In Lombardia sono un dieci per cento della popolazione, uno su dieci, ma negli ospedali sono il 55 per cento, cinque-sei su dieci.

 

Dappertutto code per i tamponi, e i vaccini, in automobile oppure in piedi, quasi ovunque per giornate, al freddo - e fuori della Poste, anche di ore, in prevalenza di anziani. L’ambiente ideale per i contagi, tipicamente invernali. Alla quarta ondata la logistica anti-covid è ancora embrionale. 

 

Per buona metà la quarta ondata, che si poteva evitare, compresa la determinazione spesso suicidaria dei no vax, arriva per il cinismo dei media. Per la confusione montata con insistenza  sull’allarmismo, per tenere calda la questione – cui infettivologi, epidemiologi, virologi si prestano, benché forse medici, per esibizionismo. Fra i tanti decreti del governo, peraltro, non uno per dare unità di indirizzo alla comunicazione. Per svegliarla anche, dal soporifero inaffidabile professor Locatelli.

 

Non c’è candidato meno proponibile alla presidenza della Repubblica di Berlusconi, per una mezza dozzina di motivi. Ma non c’è candidato che più di lui ci creda. Se (poiché) assicura che i 150 voti che gli mancano li racimola sicuramente.

 

Fa ridere il ricorso presentato dal sindaco di Roma Gualtieri contro l’As Roma, la squadra di calcio, per la mancata costruzione dello stadio di proprietà. Ma si pagano così tanto i dipendenti del Campidoglio? Il buon sindaco infatti chiede il rimborso delle spese sostenute per i dipendenti – con valori differenti per ora lavoro tra dirigenti, funzionari e impiegati ex di concetto – per il numero di riunioni con relativo cachet, nonché per il danno d’immagine, e per le “quote emozionali” dei cittadini tifosi della Roma delusi. Guadagnano così tanto i dipendenti del Campidoglio? Ecco perché Roma Capitale sempre in profondo rosso, malgrado addizionali fiscali e tariffe sempre più elevate: giocano a fare lo stadio.

Le avventure della smemoratezza

Uscito a maggio e visto poco, il racconto pervasivo di alcune giornate di un vecchio padre afflitto da demenza, che affligge la figlia accudente. Il primo film di Zeller, adattato dalla sua pièce teatrale “Il padre”, premiato per questo con l’Oscar per la sceneggiatura non originale, e per l’interpretazione di Anthony Hopkins. Un film da camera, molto parlato, con poche immagini, e praticamente fisse, che però si fa seguire, avvolgente se non coinvolgente – i suoi strani svolgimenti si sa che sono effetto dell’alzheimer. Il tema musicale è di Ludovico Einaudi – con un paio di ritornanti romanze, “Casta Diva” (Calas?) e “Je crois entendre encore”, da Bizet, “I pescatori di perle”, quest’ultima da segnalare per il canto incredibilmente perfetto di Cyrille Dubois .  
Una curiosità è che il film ha incassato in Italia un milione. Poco o molto? Considerando le cautele imposte dal virus, si direbbe molto. Considerando che è stato in programmazione tre mesi, in estate, quando il virus non era pericoloso, e che è piaciuto a nove spettatori su dieci, sembra poco - come se gli Oscar e il passaparola non avessero funzionato. Pagato l’omaggio al mostro sacro Hopkins, resta forse che il tema è indigesto in Italia: parlare tanto o solo dell’infermità, la vecchiaia, la solitudine, la morte, non piace – se non per riderne. Si spiegherebbe il silenzio sulle leggi per la buona morte che si vengono imponendo: non è per scongiuro ma per un fatto culturale. Si preferisce non pensarci, non pensare alla morte inevitabile prossima ventura, alla disgrazia, alla menomazione, alla paralisi, alla follia.
Florian Zeller, The Father – Nulla è come sembra, Sky Cinema

mercoledì 29 dicembre 2021

Il mondo com'è (438)

astolfo

Novemberrevolution – A fine 1918, a guerra perduta, la Germania fu lì lì per ripetere la rivoluzione riuscita in Russia un anno prima. Il 28 ottobre 1918, a guerra perduta, la Marina tedesca decise di “salvare l’onore” con “una battaglia decisiva”. Ma i fuochisti spensero il fuoco nelle caldaie, e le navi dovettero rientrare nei porti. Gli ufficiali fecero allora arrestare seicento fuochisti e marinai. E la rivolta si propagò ovunque. Fu la Novemberrevolution. Che però a Natale era già finita, non durò due mesi. Solo restavano da eliminare i capi, Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg – già isolati all’interno del movimento rivoluzionario, contro gli Spartachisti e contro i progetti di costituzione di un partito Comunista (bolscevico).
 
Organizzazione Consul – Sta per esercito clandestino, informale, dei nazionalisti tedeschi dopo la sconfitta del 1918, e il conseguente divieto alla Germania di disporre di un esercito. “Organizzazione Consul” era il segretissimo gruppo armato tedesco contro l’occupazione francese della Ruhr e i collaboratori tedeschi, e contro la repubblica di Weimar, contro i “governi di adempimento” degli impegni sottoscritti negli accordi di pace. La forza di O.C. declinò con le morti e le condanne seguite all’assassinio di Rathenau, a fine giugno 1922, il movimento di resistenza essendosi trasformato in terrorismo.
Fu per tre anni un’organizzazione molto attiva e molto segreta, contro i francesi nella Ruhr, specie contro i servizi segreti francesi, e contro i polacchi nel Baltico e in Slesia. L’O.C. faceva capo al Capitano Ehrhardt, soprannominato Consul von Eschwege nella latitanza seguita al putsch fallito di Kapp, ed era un settore dell’Abwehr, termine oggi in uso per terzino nel calcio, all’epoca servizio d’informazioni del disciolto esercito, passato in carico alla marina dopo Versailles. L’O.C. ebbe una forza stimata di cinquemila uomini, divisi in cellule per territorio e attività. Si specializzò nell’eliminazione dei tedeschi traditori, che erano di due specie: cittadini e politici “separatisti”, filofrancesi, oppure “adempisti” del trattato di pace: “I traditori cadranno per mano della Vehme”, diceva l’art. 1 del suo statuto.
La Sacra Vehme è un tribunale, supposto del dodicesimo secolo, cantato da Goethe e Kleist, in cui un gruppo ristretto di Uomini Liberi, Frei Herren, liberi di portare le armi, segretamente condannavano ed eseguivano le condanne. I Frei Herren furono modello irresistibile per i Corpi franchi: i proscritti venivano dalle saghe islandesi, che inizialmente mettono fuori comunità i violenti, i quali però, essendo i più forti, ritornano signori della tribù.
“L’arma più temibile di O.C. era il fatto che O.C. non esisteva”, affermerà nei “Proscritti”, il romanzo che fa di quell’avventura un’epopea, il terrorista poi scrittore Ernst von Salomon. È quello che negli stessi anni diceva Nizan, il compagno di Sartre: “Il segreto della polizia è questo: la storia non esiste”. La rivelazione di von Salomon veniva da Kern, suo compagno d’arme e poi assassino di Rathenau, che così si regolava: “Quando trovo uno che mi dice di appartenere alla O.C., so che è un pazzo o un imbroglione o un funzionario di polizia”. Ma Kern, che von Salomon sospetta molto intelligente, ne sapeva di più: “L’incomprensibile diventa naturale se si riesce a classificarlo. Si prendano I Savi di Sion, il complotto internazionale del sionismo, della massoneria e dei gesuiti”. Come a dire: il segreto è creativo.
L’O.C. fu simbolo e mito del disciolto esercito tedesco nel Baltico e nella Ruhr occupata. Il suo armamento fu agevole: chiunque donava volentieri le armi detenute in casa. L’attività fu invece ingloriosa: il nucleo speciale di Heinz Oskar Hauenstein, che gestiva la rete degli informatori, con una ricca cassa, era esso stesso infiltrato: Hauenstein fu catturato dai polacchi, O.C. in Slesia riuscì solo a prenderle. Declinerà evolvendo a terrorismo interno, fino all’assassinio di Rathenau, a opera di Erwin Kern e Hermann Fischer, due ex ufficiali di Marina. Con Kern era cresciuto alla politica e alla lotta armata il futuro scrittore Ernst von Salomon.
Ernst von Salomon, cadetto nei Corpi franchi, i gruppi militari di O.C., a sedici anni, resterà molto legato a due dei suoi fratelli, il maggiore Bruno, operaio per scelta a Amburgo, agitatore politico con un giornalino per un movimento di solidarietà contadina, poi membro attivo della Kpd, il partito Comunista tedesco, e il minore Günther, precoce nazista. Erwin Kern era apparso a Ernst quale Dio giovane, possente, che da solo umiliava la Francia nella Ruhr occupata. Teneva sul comodino cento boccette d’acque odorose, scriveva versi ermetici, centrava con la pistola l’asso di cuori da cinquanta metri, ricavava esplosivi dai rifiuti, organizzava reti terroristiche separate, in contatto con l’O.C., e voleva il comunismo. Ernst e Kern si fecero membri di diciotto gruppi eversivi, di ogni orientamento. Iniziarono in modo convenzionale, abbattendo un ufficiale francese donnaiolo. Poi s’allargarono ai Sudeti e all’Alto Adige. E quando crearono il proprio gruppo lo divisero in due: cinquanta nazionalisti e cinquanta comunisti, con a capo “Edi”. Von Salomon resterà legato a Edi, alla sua memoria, anche dopo l’assassinio di Rathenau.
L’assassinio portò a una mobilitazione generale di piazza, e a un impegno particolare di polizia. Che fruì di molte segnalazioni, e riuscì presto a individuare i due assassini in fuga. Kern rimase ucciso in uno scontro a fuoco con la polizia. Fischer, prima di uccidersi, adagiò su un letto il camerata morto, interponendo “un foglio di carta da pacchi sotto i piedi, per evitare che gli stivali sporcassero le coperte” - così “I proscritti” celebrano l’episodio. O.C. era già finita, e a parte il racconto di von Salomon, poco se ne è scritto.
 
Rodocanachi, Lucia – Genovese di Trieste, nata Morpurgo, maestra di formazione, sposa in tarda età per l’epoca (29 anni) al pittore genovese Paolo Rodocanachi, che la isolò ad Arenzano, “a contatto con la natura”, lettrice furiosa fin dalla prima adolescenza, negli anni 1930 e subito dopo la guerra aiutò molti scrittori a tradurre dall’inglese. Tra i più noti Vittorini, Montale, Sbarbaro, forse anche Gadda, col quale ebbe intensa corrispondenza. E fu in contatto frequente con Bobi Bazlen, altro triestino, che figura il maggior talent-scout letterario del primo Novecento. Aiutava gli scrittori a tradurre al modo che Foscolo epigrammatico diceva di Vincenzo Monti: “Questi è Monti poeta e cavaliero, gran traduttor dei traduttor d’Omero”.
Gli scrittori in titolo si limitavano a rivedere, a volte, le traduzioni di Lucia Rodocanachi. Che pagavano poco e quando proprio non potevano farne a meno. Tradurre era in quegli anni – non era diffusa allora, non era richiesta, la collaborazione giornalistica – l’unico modo per gli scrittori di sopravvivere con qualche autonomia. Oltre che con le traduzioni, Licia Rodocanachi era anche sollecita con la convivialità, pronta a cucinare per chiunque fosse di passaggio a Arenzano. Un suo carnet degli ospiti ne elenca numerosi, ripetutamente, specie la domenica: Sbarbaro, Gadda, Montale, Bazlen, Mario Ziino, Mafai, Ferrata, Vittorini, Giovanni Ansaldo. 
Il lavoro di traduzione di Lucia restò sempre anonimo: il suo nome non venne mai citato nelle opere a cui aveva lavorato, a volte (Lawrence) da sola, per l’integralità dell’opera.

astolfo@antiit.eu

La Secessione s'illumina di Klimt

Una grande mostra, su tre temi. Klimt, presente con alcune pitture celebri, molti disegni, e alcune grafiche. La Secessione a Vienna. La Secessione a Roma. Con molta Italia: animatore e spirito guida della Secessione a Vienna a fine Ottocento, e poi, prima della Grande Guerra, a Roma, Klimt si legò molto, quando già era artista riconosciuto, all’Italia. A Venezia per lunghi periodi, protagonista anche di alcune Biennali di pittura, a Ravenna, che molto lo influenzò, e poi a Roma, dove molti furono da lui influenzati. 
Una mostra documentaria, molto bene presentata. Comprese le immagini in movimento, cinematografiche, delle due città, Vienna e Roma, negli anni delle rispettive Secessioni. Un movimento artistico poco felicemente produttivo. Se non per le geometrie, e le luminosità, di Klimt. Non in pittura – se non come movimento di rottura con l’oleografia ottocentesca. Di più nella grafica e le arti plastiche, scultura, vetro, architettura.
Klimt, la Secessione e l’Italia
, Musei di Roma a palazzo Braschi 

martedì 28 dicembre 2021

La coda del diavolo

Si moltiplicano d’inverno i contagi
Nelle file lunghe di ore in coda
All’addiaccio per sapere se?

Il partito degli affari

Al Pd manca una lettera, il Partito Degli Affari? Non ha fatto nulla la giunta Gualtieri in due mesi a Roma: spazzatura? trasporti? Ha però trovato il tempo subito di favorire gli affari: il grande commercio e il trasporto privato, dei trasportatori privati. Ha chiuso il Centro Storico al traffico per il mese delle spese e del turismo natalizi, con la scusa dell’ambientalismo, che tutti sanno coprire l’ecommerce e i centri comerciali. E ha decretato una serie di domeniche ecologiche, anche quelle con l’intento di favore l’ecommerce, che viaggia comodo su auto elettriche.
Non è da ora, è da sempre che il Pd favorisce gli affari, i grandi interessi. Sotto le bandiere della modernizzazione. Dalle lenzuolate di Bersani, ora arcigno comunista trinariciuto, che annientarono il negozio sotto casa, contrassegno della civiltà italiana, della vita a piedi, a vantaggio dei grandi centri commerciali. Che non offrono migliore qualità né prezzi calmierati, ma sono monumenti ai non-luoghi, dove recarsi in automobile, meglio se suv. Tutto il contrario dell’ambientalismo – la contraffazione della storia, che parallelamente l’altro compagno Berlinguer cancellava dagli studi.  Big business. Lo stesso ora, con l’elettrificazione forzata della circolazione. A spese dello Stato, cioè nostre L’inquinamento auto andava e va combattuto col trasporto pubblico, ma di questo solo annunci.
Le lenzuolate e le chiusure sono effetti di stoltezza o di corruzione? Di stoltezza no, ci sono teste pensanti dietro. E comunque la corruzione finisce che bisogna augurarsela, tanta stupidità sarebbe angosciante.

Le pene di Dante per l’Italia – per pochi

La ricostruzione del disegno politico e delle disillusioni di Dante – proscritto per un’accusa infamante, baratteria, il traffico della pubblica influenza, per la quale bastava una denuncia senza obbligo di prova: la giustizia moderna è nata così in Italia. Dello scontro tra i Guelfi Bianchi, il suo partito, e i Guelfi Neri di Corso Donati, avventuriero fino al tradimento. Del papa Bonifacio VIII che si rifiuta di riceverlo in missione di pace. Dell’umiliazione del papa (lo schiaffo di Anagni”) da parte dei francesi di Filippo il Bello da lui sempre favoriti. Della speranza e le delusioni dell’imperatore Enrico VII. Una ricostruzione possente, dai temi e toni ben tagliati, nonché filologicamente corretti.
La ricostruzione, sintetica ma precisa, e ben spiegata, è affidata a tre studiosi di storia del Medio Evo in università straniere, due dei quali giovani professori italiani all’estero - tra essi Elisa Brilli dell’università di Toronto. Per caso? Perché altrove si sa parlare giusto per dire le cose?
Il primo di una serie di tre docufilm, promettente. Una serie ideata da Ric Burns, specialista dei documentari storici, scritta con Riccardo Bruscagli (“Dante contemporaneo”), che ha già per Zanichelli scuola un “Commedia multimediale”. Ma visto da poche persone, pochissime – forse per una promozione inadeguata?  
Jesus Garcés Lambert,
Dante, il sogno di un’Italia libera, Rai 2

lunedì 27 dicembre 2021

Epidemia tv

Infettivologi, epidemiologi, virologi,
sono confusi per costituzione
o per televisione?

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (478)

Giuseppe Leuzzi

“I basilischi”, film d’esordio di Lina Wertmüller, dopo l’assistenza alla regia di Fellini per “La dolce vita” e per “81/2”, racconta di tre giovani della piccola borghesia di provincia tra Basilicata e öPuglia che non si adattano all’Italia del boom, del “lavorerio”, e alla vita in città. È un film del 1963, di “vitelloni” non per ridere ma già attardati, perché già i giovani del Sud erano tutti a Roma e nelle altre città, per lavoro o per studio – non si contano i professionisti di origine meridionale tra Milano e Roma.
 
Porci gli altri
Marie Grubbe”, il romanzo nazionale danese di Jens Peter Jacobsen, mette in scena agli inizi, ambientati in una delle guerre tra il regno di Danimarca-Norvegia e il regno di Svezia, l’odio contro gli svedesi. In questi termini: “Rubano e rapinano, sanno essere peggio dei corvi e dei furfanti; e poi sono assassini! Non per nulla si dice: lesto di coltello come uno svedese”, “E sono di facili costumi! Non c’è una volta che il boia caccia una donna a frustate dalla città e uno chiede di che si tratta e si sente rispondere che è una troia svedese”. “Tra i popoli lo svedese è come il cercopiteco tra le bestie senza ragione, ha una tale libidine che la naturale ragione, donata da Dio agli uomini, nulla può contro i suoi cattivi istinti e i suoi peccaminosi desideri”. “Lo svedese ha un odore così acre, come le capre o l’acqua di pesce.  È il puzzo dei suoi umori collerici e bestiali, è”. “Una notte di luna nuova un intero reggimento, mentre erano in marcia e si fece mezzanotte, si disperse correndo come lupi mannari e altre creature del diavolo, ululando per boschi e paludi, aggredendo persone e bestie”. “Sono stregati, sono, possono resistere alle palle di fucile, non li ferisce il piombo né la polvere, e la metà di loro porta il malocchio…”
La seconda parte del secondo Millennio conosce molti di questi odi, di cui si è nutrito il costituendo nazionalismo: tra francesi e inglesi dapprima, nel proemio, poi tra olandesi e portoghesi, tra inglesi e olandesi, tra Francia e Germania a lungo, tra Italia e Austria nel Risorgimento, con disprezzo reciproco. La tirata, che Jacobsen fa recitare a gente del popolo, è una di queste. Ma fa senso sentire degli ammiratissimi svedesi queste parole. È diverso, appena fatta l’unità e ancora oggi, tra Nord e Sud dell’Italia?
 
Un mondo di due metà
“Nord contro Sud” è un saggio che l’“Economist” di fine anno fa firmare eccezionalmente (il settimanale mantiene la formula tradizionale, ottocentesca, degli articoli non firmati) al “Columnist Chaguan”, il corrispondente da cinque anni dalla Cina, David Rennie. Su un tema che lo incuriosce, avendo trovato la divisione Nord-Sud ovunque abbia lavorato in venticinque anni di professione. Tra essi “Chaguan” mette l’Italia. C’è il Belgio per primo. Poi viene la Spagna. Poi c’è l’Italia. Con gli Stati Uniti naturalmente. E con la Cina – “Pechino e Dongxing” è il sottotitolo, la capitale al Nord e il villaggio turistico all’estremo Sud, al confine col Vietnam: “I cinesi amano gli stereotipi”. C’entra anche il Vietnam. E l’Australia, con l’asse invertito, il Sud vi figura posato e “superiore”.
Ovunque la divisione è tra Nord e Sud. Il Nord ovunque operoso, anche onesto, il Sud fanientista, e corrotto (evasione fiscale, abusi sulle provvidenze pubbliche e gli appalti, mafie). Un pregiudizio europeo agli inizi, esportato col colonialismo, specie nelle Americhe. Rafforzato a fine Ottocento con la teoria weberiana che il capitalismo (industriosità, attivismo, risparmio, accumulazione) fosse protestante - e, sottinteso, non cattolico. Una partizione che grosso modo in Europa corrisponde a Nord e Sud, e altrove come tale è stata riprodotta.
Una teoria, questa di Weber (ma Weber per la verità non lo dice, il capitalismo è ben cattolico, alle origini e per molto tempo), che, scrive Rennie, “con molti anni di esperienza di lavoro in America”, non ha fondamento. Ma, tutto sommato, “gli stereotipi Nord-Sud sono prevalentemente una peculiarità europea”.  Perfino negli Stati Uniti, un paese che per molti aspetti sembra ancora quello della guerra civile, il Sud si presenta molto vario, e anche composito come popolazione – etnicamente e socialmente.
A Dongxing un commerciante di legnami che lavora col Nord del Vietnam, col governo che gli consente di “passare sopra le leggi” sul taglio dei grandi alberi del tek, non fa che vantare il Sud del Vietnam, la cucina di Saigon, le donne eccetera. Da cinese dell’estremo Sud.    
 
È di Simenon, 1950, il modello mafia
Il fratello maggiore maggiorente in Florida: bella vita, bella moglie, belle figlie, rispettabile e rispettato, dai suoi danti causa, e anche dallo sceriffo, gestisce tutto il Golfo del Messico. Il fratello minore è un killer. Il fratello intermedio ha l’hobby delle automobili. La gestione è di supermercati, bar-caffetterie, ristoranti, posti dove i contanti circolano ampiamente.  Tutt’e tre i fratelli hanno casellario giudiziario immacolato, senza carichi pendenti, e senza impronte digitali. Da essi si pretende di tanto in tanto un servizio, oltre alla percentuale sugli incassi: un pedinamento, una spiata, un “avvertimento”, un assassinio. Non si chiama mafia. Né Cosa Nostra, trovandoci in America, il romanziere (si tratta di un romanzo) la denomina “organizzazione”. Sono gli anni 1950, ma già non si facevano nomi al telefono. E c’è anche il “pentito”, per amore – è il fratello killer, che ha molto da farsi perdonare dalla giustizia.  Con seguito di faide, familiari e non, che mafia altrimenti sarebbe. In un ambiente corrotto: il pizzo lo pretendono anche i politici, e gli sceriffi.
Tutto ciò si legge ne “I fratelli Rico”, storia “dura” del Simenon americano, quando passò qualche anno in America, dal 1945 al 1955 – il romanzo è del 1951. Al soggiorno obbligato in Provenza alla Liberazione, aprile 1945, imputato di collaborazionismo, per avere publicato i suoi romanzi in giornali filo-tedeschi e averne ceduto i diritti di trasposizione cinematografica alla società tedesca Continental, Simenon era riuscito ad ottenere da burocrati amici un visto d’espatrio in Canada per la promozione del libro e del cinema francesi, e a ottobre era passato con la moglie a New York. Dove era stato accolto da un professore di letteratura francese, Justin O’Brien, che era stato a Parigi responsabile dei servizi segreti americani – già sul finire della guerra il nemico era diventata l’Urss, e i simpatizzanti di destra venivano recuperati.
L’antipatizzante Simenon, irresistibilmente anti-yankee negli scritti di viaggio dieci ani prima, si fece così per dieci anni americano, e non si può dire che non si applicasse. Tutto il repertorio delle storie di mafia di vent’anni dopo è qui, di Puzo, Talese, Mailer, Coppola, Leone. Nonché dei tardi imitatori italiani. Con qualcosa anche di più: la madre, con la vecchia nonna - figure che la successiva mafiologia eroicizzante a torto trascura.
 
Escher e no
La Calabria è – con la Toscana – la regione che più ha ispirato Maurits Cornelis Escher, il maestro della Optical Art, l’incisore che ha creato nuovi modelli grafici - l’Einstein della grafica - che attraggono e ispirano fisici, matematici, logici, uno dei tre pilastri del monumentale “Gödel, Escher, Bach, un’eterna collana brillante” del fisico-matematico e logico Douglas Hofstädter. Ma non ne ha cura: né Morano né gli altri luoghi dove Escher soggiornò e lavorò, Pentedattilo, Scilla, Tropea, Rossano, la superba Rocca Imperiale, che pure ha un castello federiciano da valorizzare, se ne sono ricordati per i cinquant’anni della morte fra due mesi – se ne è ricordata solo Genova, dove Escher fu per caso, per poche ore, scendendo la prima volta dall’Olanda.
È vero che i calabresi sono poco cordiali – si dicono ospitali, ma non subito, sono diffidenti. Almeno a giudizio di Escher. Che in gita con tre amici nell’entroterra di Melito Porto Salvo, a piedi e affardellati, non disponendo di un mulo, “sudando maledettamente e molto affaticati, dopo una stancante escursione sotto il sole cocente”, trova alla locanda un’accoglienza ostile: “Conoscevamo da tanto tempo il modo di fare poco socievole dei calabresi, ma una reazione ostile come l’abbiamo conosciuta quel giorno non l’avevamo fino allora mai vissuta. Alle nostre domande amichevoli non ricevemmo altro che risposte scontrose e incomprensibili”, etc.
Il problema è che non è diverso pur non essendo Escher.

leuzzi@antiit.eu


Il capolavoro al cinema viene per caso

Il vecchio produttore che non ne ha mai imbroccata una, reduce dall’ultimo fiasco, che lo ha lasciato indebitato con le mafie finanziatrici, ma innamorato del cinema (a nessun prezzo cede un copione che giudica il più bello del mondo), scopre che può saldare i debiti, e anche arricchirsi, senza fare nulla: impiantare una produzione, assicurare il protagonista per un milione di dollari, e assicurarsi che muoia al primo ciak, così si risparmia pure. Le cose naturalmente non andranno così, ma il vecchio De Niro ne uscirà ugualmente gratificato: coincidenze e circostanze gli regaleranno infine il capolavoro, e molti soldi. A lui e ad altri gradevoli vecchietti, Morgan Freeman, il capomafia, e Tommy Lee Jones, il vecchio cowboy strappato alla roulette russa nella casa di riposo per artisti falliti.
A partire dal titolo, una gradevole presa in giro di molti cliché – anche audace: forse per un pubblico non americano? La buona morte impossibile. Il capomafia nero - ci vuole parità di trattamento. Il cowboy con sangue indiano. Il regista, come dev’essere, femmina e bella, anche se un po’ tonta o inesperta. Nonché del modo di fare cinema, dove l’esito è del tutto casuale.
Un remale del titolo omonimo (“The Comeback Trail” in originale) di quarant’anni fa, di Harry Hurwitz, con la ricetta del film di culto – farebbe ridere anche De Niro se parlasse meno.
George Gallo, C’era una truffa a Hollywood, Sky Cinema

domenica 26 dicembre 2021

Letture - 476

letterautore

Bella donna – È urbanità, segno di distinzione. L’inno omerico detto “A Gea”, ricorda che sulla Terra presto “i solchi della gleba che danno vita sono carichi di frutti, nei campi prospera il bestiame e la casa si riempie di ricchezze e essi (gli uomini, n.d.r.) governano con giuste leggi le città dalle belle donne”.
 
Biblioteche – “Consiglio un viaggio nelle biblioteche storiche d’Italia. Si può cominciare con quella Vaticana”, consiglia qualcuno ai lettori del “Robinson”. Un buontempone? Come se per l’acceso alle biblioteche, a qualsiasi biblioteca, non ci volesse una pratica notarile. Le biblioteche sono per (il riposo de)i bibliotecari.
 
Cannavaggia – Simenon a Panama incontra un Cannavaggio, corso, maitre-d’hôtel,  che ha prosperato in proprio ed è il riferimento dei viaggiatori e anche del Paese. A l femminile, il nome ricorre con Maria Cannavaggia, nata in Francia da padre corso, traduttrice dall’italiano e dall’inglese, “segretaria letteraria” di Céline per venticinque anni, dal 1936 al 1961, alla morte dello scrittore – poi estromessa dalle riedizioni e dalle opere postume da Lucette Almanzor, la vedova di Céline erede dei diritti, della quale Marie era stata a suo modo gelosa. Subentrata alla prima segretaria letteraria, Jeanne Carayon, che aveva curato il “Viaggio al termine della notte”: quattro anni più tardi, per Morte a credito”, Carayon era indisponibile, vivendo negli Stati Uniti, e aveva suggerito Marie Canavaggia, sua compagna di liceo.
Marie non leggeva i manoscritti, che venivano battuti a macchina da copisti professionali: lavorava sulle bozze, con interventi solitamente minimi, ma sempre rilevanti per Céline. Che usava correggere molto. La segnalazione di grafie o parole che Marie trovava non consone trascinava complesse corrispondenze. “Non ci sono piccoli dettagli che mi possano stancare”, le scriveva Céline, “Li voglio tutti! La minima virgola mi appassiona”. Ne assunse anche la difesa, e la rappresentanza presso gli editori, negli anni della disgrazia politica, dopo la guerra. Nel dopoguerra collaborerà anche con Jean Dubuffet, ammiratore di Céline.
L’epistolario con Céline (tradotto in italiano in edizione moto raccorciata, un quarto dell’edizione totale) dà la spiegazione forse migliore del modo di lavorare dello scrittore, della sua “musichetta”, del ritmo della frase. “Se decideva di cambiare una parola”, spiegherà Marie in sintesi, “non si accontentava di sostituirla con un’altra. . Ricomponeva interamente la sua frase, qualche volta anche le frasi circostanti, secondo le esigenze della sua «cadenza»”.
Come traduttrice dall’italiano esordì con Arturo Loria, narratore oggi dimenticato, col racconto breve “Il muratore stanco”. Più che traduttrice fu mediatrice culturale: sceglieva da sé le opere da tradurre e poi cercava l’editore interessato. Propose in Francia il migliore Hawthorne. Dall’italiano propose nel primo dopoguerra Giotto Dainelli, Soldati (“America primo amore”, “L’affare Motta”), Piovene (“La gazzetta nera”, e un racconto che intitolava “Histoire de Marcos”), Santucci e, nel 1962, Moravia (“Agostino”). In precedenza, dopo Loria, aveva proposto Gian Dàuli (“La rua”, “Cabala bianca”). E “Lo Stato corporativo” di Bruno Biagi, il successore di Dino Alfieri al segretariato delle Corporazioni.   
 

Dante – È anche inventore, del linguaggio. Si sapeva. Ma scorrendo il prontuario delle sue novità, che Gianfranco Lotti pubblica col titolo “Come insultava Dante”, si viene sorpresi d  alla quantità delle novità.
 
Febbre da cavallo – “Il più grande film della storia della cinematografia italiana”, lo dichiara Bonvissuto, tifoso della Roma calcio - uno, per intendersi, che l’ultima soddisfazione l’ha avuta dall’odiato Capello, un altro eocene. Il più grande, come si fa a dire? Però.

Gogol – Si può dire un no vax antemarcia: si lasciò morire a 43 anni, in ospedale a Mosca, rifiutando di farsi curare. Non per follia, ma per una forma di devozione radicale, una crisi religiosa che lo aveva portato a insistiti digiuni in conto di penitenza.  

Lubecca – La casa borghese della città nel tardo Seicento, mezzo secolo prima della fondazione della casa Buddenbrook, è così descritta da Jens Peter Jacobsen in “Marie Grubbe”, nella fase in cui la protagonista, ricca ereditiera, viaggia: Marie con la domestica Lucie “camminavano avanti e indietro nel grande ingresso che c’era in tutte le case di Lubecca, a un tempo corridoio e soggiorno, stanza da gioco per i bambini e teatro della maggior parte delle attività manuali, talvolta anche sala da pranzo e dispensa”. Un locale che dava sulla strada, come un grande ingresso: “Il locale in cui si trovavano era usato quasi esclusivamente nelle stagioni più temperate, perciò ora c’erano solo un lungo tavolo decapato, alcune pesanti sedie di legno e un vecchio armadio. In fondo erano state montate delle spaziose mensole di legno che ospitavano verdi file di cavolo cappuccio  su rossi mucchi di carote e irti mazzi di rafano.”
 
Petrolio – “Quel residuo fossile di milioni di esseri viventi vissuti in un remoto passato che chiamiamo petrolio”, Giorgio Agamben, “A che punto siamo?”, 98.
 
Poe – “Lo straordinario, in questo scrittore, è la sua sobrietà”, Ernst Jünger, “Trattato del ribelle”: “Malgrado la loro austerità matematica, le figure sono in lui figure del destino, ciò che le riveste di una magia sena pari” – o non per la loro austerità matematica?
 
Primati – In morte di Joan Didion Monda celebra su “la Repubblica” “quell’aristocrazia intellettuale americana di tradizione irlandese cattolica, che ha rappresentato il contraltare di quella ebraica, speso fondendosi ad essa per dar luogo a  quel magma entusiasmante che è stata la cultura americana del Novecento”. E il resto, nero, bianco wasp, del S ud, cattolico senza essere irlandese, non piccolo? Etnia e religione sono fattori importanti nella vita e l’opera degli scrittori, da considerare quindi negli apparati critici, ma non fattori divisivi, separati. Caratterizzanti, forse, alcuni o alcune opere, ma non qualificanti: si scrive la lingua, nelle sue diverse articolazioni.

Viaggiare - “Senza esagerare”, scrive Simenon, viaggiatore compulsivo, a conclusione di un lungo reportage  su Tahiti (“Al margine dei meridiani”), “forse potremmo dire che si viaggia per compilare l’elenco dei paesi in cui non si avrà più voglia di mettere piede”. Dopo aver scoperto che Gandhi aveva un negozio di souvenir per turisti. E che nell’igienizzata America delle sue letture l’immondizia fermentava nei cassonetti scoperti, e qualcuno vi faceva pipì sopra. “Senza esagerare”, continua, “forse potremmo dire che si viaggia per compilare l’elenco dei paesi in cui non si avrà più voglia di mettere piede”. Forse. Perché in America Simenon tornerà, dieci anni più tardi, per dieci anni.

letterautore@antiit.eu

Volemose bene in tangenziale

Milani il regista e Albanese il protagonista hanno difficoltà a presentare questo bis, al “Cinemaniaco” di Gianni Canova su Sky: il seguito è meno sorprendente, la sorpresa è stata lo sbarco di Roma Nord a Roma Nord-Ovest, non lontane ma molto divise. L’incontro fra due realtà così diverse, nella stessa città. È difficile, non c’è precedente, bissare un film di culto.
L’incontro fra il buon borghese Albanese e la borgatara Cortellessi ha già un binario fisso, di cui c’è solo da sgranare alcuni episodi, peraltro prevedibili – la strana coppia andrà o no a letto? Scontate anche le imprevedibili gemelle ladrone, che parlano all’unisono. La scena è rubata, nelle pause, dalle caratterizzazioni, di Sonia Bergamasco (l’ex moglie), Claudio Amendola (l’ex marito), Luca Argentero (il prete).
Inevitabilmente stinto l’uomo buono Albanese. Cortellessi rimedia col look plebeo, oltraggiosamente scomodo, e la parlata.  Si ride poco. Coccia di Morto, la spiaggia della vera Roma di borgata, non pasoliniana, ritorna scontata. È un gradevole film natalizio, di buoni sentimenti e lieti fini. Del dialogo possibile tra ceti diversi, come dice Milani a Canova. La pandemia vuole forse unanimismo. Molte parole sono a prestito da papa Francesco.
Pesa forse pure la cronaca. Le gemelle cleptomani sorprese a taccheggiare al centro commerciale.  O Coccia di Morto vittima di Legambiente. Nel 2016, l’anno prima del film di culto, ne faceva la spiaggetta più sporca d’Italia, sotto una quantità enorme di cotton fioc, l’83 per cento di quelli ritrovati nella penisola. Se non che la stessa Legambiente la celebra anche nella Riserva Naturale Litorale Romano, “grande oltre 16 mila ettari, la più grande area protetta affacciata sul Mediterraneo”.
Riccardo Milani, Come un gatto in tangenziale – Ritorno a Coccia di Morto, Sky Cinema

sabato 25 dicembre 2021

Secondi pensieri - 467

zeulig

Amore -Si moltiplicano, e non si spiegano, gli uxoricidi (ora femminicidi) per amore, nella forma della gelosia, del possesso, della vendetta. Non si spiegano perché s’intende amore quello delle corrispondenze private di scrittori e artisti, che lo prospettano come un eccitante, anche a rischio addiction. Di donne – questo non si dice, ma così è – e uomini senza differenza, gli artisti sono volubili, è nell’imprinting, è il loro cachet, non si può fargliene colpa, si prendono e si lasciano  senza traccia, se non di un verso o una pennellata, i partner, se non sono artisti anche loro, sono pazienti. Per il comune degli uomini - delle persone, come dice l’americano – l’amore va nel senso dell’impegno, se non dell’impulso, costante. Monogamo e non poligamo. Anche perché il più delle volte è l’avventura di una vita, con tutte le incertezze e gli impegni, i più gravosi. E rispettoso più che licenzioso, anche se l’opinione pretende il contrario.
Un sentimento pratico, più che teoretico. Sicuramente non da guerra di liberazione.
 
Complotto - Costruzione e decostruzione, struttura e sovrastruttura negano il reale e la storia - Deleuze e Derrida ci resteranno male quando scopriranno che non hanno decostruito nulla, solo scemenze. Mentre la proprietà pedagogica del meccano è nota, era nota a tutti i bambini, da tempo. La scienza non ha il senso del ridicolo, con tutte le sue scoperte, le profondità della psicologia, per esempio, o della biologia, così piatte. Potrebbe essere una buona tecnica, la scienza, e per tale va presa. Per esempio nella alchimia del potere, che si vuole arcano tanto è miserevole, si autodistrugge forse più di quanto distrugge. Rovesciare la realtà è prova d’ingegno, ma la prima diavoleria fu, nel paradiso terrestre, dire bene il male e male il bene. La logica, anche del giallo, è semplice. Sherlock Holmes sa la verità, non la deve dedurre, cioè dimostrare – se non per fare rigaggio. Non ci vuole molto per capire. Il complotto è la politica, organizzata nei dettagli, governata, con tiranti, redini, frusta, annunciata, spiegata perfino. Il totalitarismo è furbizia prima che forza, e disegno divino. La bugia è inafferrabile se il suo autore ne è pure regista: Epimenide cretese, Amleto - non nel caso del bugiardo semplice attore: Pinocchio. Per questo sono inestricabili gli intrighi degli sbirri. Però sono manifesti.
L’idea del complotto prospera quando non c’è vera paura. Quando negli Usa si scoprì che Oswald era stato a Mosca, ed era degli Amici di Cuba e in odore di mafia, il presidente Johnson ordinò a Earl Warren di smontare il complotto. La mafia avrebbe scardinato l’assetto politico. Mentre il complotto sovietico avrebbe reso la guerra necessaria, e al primo colpo mezza America sarebbe morta, Johnson si fece un rapido calcolo. Si dice complotto per dire.
Dei misteri non c’è un repertorio esaustivo, non può esserci. La scienza è alle elementari: dell’acqua solo sa che è idrogeno e ossigeno. O dell’amore che è una reazione chimica, direbbe Ninotchka. Si insiste a dire che il sole sorge e tramonta alcuni secoli dopo Copernico, il quale spiegò che a girare è la terra. L’uomo è inconciliabile con la realtà, la natura? In parte sì, per la percezione anteriore. Sarebbe diverso se potesse sapere tutto ciò che si dice a parte o si pensa, o vedere a 360 gradi, in orizzontale e verticale: sparirebbero forse allora alcuni tormenti non intelligibili, destra-sinistra, amico-nemico, elevato-basso. Non resta che Heidegger: “La curiosità per cui nulla è segreto, la chiacchiera per cui nulla è incompreso, danno a se stesse, cioè all’Esserci che le fa proprie, sicura malleveria d’una vita veramente «vissuta»”.
La Congiura ha radici nobili: prima di Guénon e l’avversa secolarizzazione c’è Héraut de Séchelles con le quattro innovazioni: la patria in pericolo, la legge dei sospetti, il piede nei due blocchi, l’ateismo religioso – centauro oggi socialfascista, fasciocomunista, cattocomunista, repubblicocomunista. Un secolo di filosofia contro la tecnica e la democrazia livellatrici, a scapito dell’individuo e la sapienza, manovrate dal Maligno. Non grande filosofia, inclusi i nichilissimi, Heidegger, Jünger, Nietzsche stesso, benché calligrafi – ma l’anarchia finisce in reazione? In alternativa al tomismo s’è trovato il niente, o l’ateismo di Sartre e Malraux, che solo si vogliono falsari e ladri, specialmente di fighe, quelle che aprono la bocca allo stupore. Questa in sintesi la Storia: il rifiuto della tecnica, cioè del mondo, cioè di sé e dell’essere. Meglio ridetto: il rifiuto di sé, che si camuffa da rifiuto del mondo, cioè dell’incolpevole tecnica, e s’adagia nel complotto. E la vita intristisce. Con l’intellettuale ridotto a mosca indiscreta che pensa d’avere in mano il fulmine e scaglia punture. Agevolando il progresso, se promuove l’Autan.

Secolo – Si entra nel secolo, nel millennio, con distacco, argomenta Annie Ernaux, “De l’autre coté du siècle”: come persone di “un altro secolo”. Contro ogni nozione del tempo, evidentemente, che non ha stacchi netti, ma per il concetto stesso di epoca, come facenti parte di un mondo, ancorché non nostro (rifiutato, contestato). Nel 1997, al limite cioè del nuovo secolo\millennio, la scrittrice de “Gli anni” si scopre incapsulata nel Novecento alla notizia della morte della donna più longeva del mondo, Jeanne Calment, ad agosto del 1997, di 122 anni: “Guerre mondiali, coloniali, ideologie, dovutamente repertoriate, da Proust a Nathalie Sarraute, da Gide a Modiano, ci hanno visto diventare, in qualche anno, storici, datati, dell’altro secolo”. Sensazione, aggiunge, che “la prossima sparizione dei franchi” accentua, il passaggio all’euro. Un po’ come l’Ottocento è stato distinto dal Novecento, nei libri di storia, nei manuali di letteratura (delle storie della letteratura). Come per l’Ottocento, “è successo, d’un colpo, ciò che l’Ottocento è nei libri di storia e nei manuali di letteratura, una durata compressa in cui il Secondo Impero sembra toccare il Primo, Chateaubriand essere il contemporaneo di Zola e Madame de Staël l’amica di George Sand”. D’improvviso, Ernaux si sente parte di un’epoca passata: “Tutti i nati prima del 1970 circa, insieme facciamo secolo” - “Ho sentito compiersi qualcosa che ci univa tutti, che fa di noi gente di questo secolo (la riflessione è pubblicata nella “Nouvelle Revue Française” del giugno 1999, n.d.r.) e non sarà trasmissibile al seguente, né con le parole né con le immagini”.
La cesura è evidente con i Millennial – un altro mondo.
 
Storia – “La storia, senza la quale il potere non è in ultima analisi pensabile, è strettamente solidale con la guerra, mentre la vita nella pace è per definizione senza storia”, G. Agamben, “A che punto siamo?”, 105-106). Per definizione, di che?
Il dominio si esercita con la convinzione. Quello americano per esempio, la parte più solida e duratura dell’imperialismo americano, senza vittime e senza costi, e anzi con guadagno di cassa -mentre è stato quasi ovunque fallimentare con i marines e le bombe. E col commercio, alla Constant - la parte più solida dell’imperialismo nascente cinese. La guerra fredda è stata vinta col commercio (“i consumi”) e con i principi - di libertà, e di voto se non di democrazia.
Il potere assoluto sarebbe senza storia. Fa storia, ne è materia, il potere contestato, o costituzionalizzato (restrained).

Stupidità - Non è tema di riflessione – se non di letterati. Di Pope in versi, di Jean Paul in prosa.  Flaubert ne era ossessionato, che tanto ne scrisse, Musil algido vivisettore. Jean Paul sotto la vena satirica, puntava alto: “Il vento teologico significa guerra e sangue, soleva polvere, e porta nuvole sinistre e terribili temporali. Quello giuridico, come un tornado, spazza via tutto al suo passaggio, scoperchia i tetti, strappa i vestiti dal corpo, e porta via tutti gli arredi, fino ai letti delle case distrutte”.

zeulig@antiit.eu

Gli adulti adolescenti di Woody Allen filosofo

Si celebra in morte una scrittrice che non aveva bisogno di fasciarsi di femminismo. Di capacità di analisi e chiarezza di esposizione talmente semplici e perspicaci da sembrare ovvie. Se ne ricordando anche l’ascendenza cattolica e irlandese, forse per essere presidente un cattolico irlandese, ma una cultura non è un’altra – non lo era in America finché non è precipitata nell’indistinto dei “diritti”, del rivendicazionismo, della guerra civile normale.
Fra i tanti contributi che la rivista rispolvera, questo su Woody Allen può essere esemplare. Didion analizza, all’uscita di “Manhattan”, la fase – l’avvio della fase – “self-absorption” del fin’allora comico riconosciuto dei tic di New York, la fase autocentrata, pensosa. “Manhattan” viene dopo “Interiors” e “Annie Hall”. Poteva essere diversamente? “La self-absorption è generale”, nota Didion in avvio”, “come il self-doubt. Questa estate nelle grandi città costiere degli Stati Uniti molte persone volevano vestirsi in «puro lino», tagliato da Calvin Klein per gualcirsi, che implica vera ricchezza”. E così via: “Nelle grandi città costiere degli Stati Uniti questa estate molte persone volevano essere servite la perfetta terrina vegetale…”. E molti hanno fatto la fila per vedere «Manhattan», “un film dove, verso la fine, il personaggio Woody Allen fa una lista dei motivi di vivere la vita. «Groucho Marx» è un motivo, e «Willie Mays» un altro”, e così via, Armstrong, il trombettista, Flaubert, Mozart – ma il Flaubert della “Educazione sentimentale”, non quello di “Madame Bovary”. È una stroncatura? È una messa in quadro, perspicace. “Quello che colpisce nei recenti film «seri» di Woody Allen, di Annie Hall e Interiors come di Manhattan, non è il modo in cui si svolgono come film ma come operano sugli spettatori”. È il fatto che gli spettatori non si distanziano ma si identificano.
Spettatori adulti, in carriera, consci dei loro titoli, ma di fatto adolescenti. “I personaggi di Manhattan e Annie Hall e Interios sono, con un’eccezione, presentati come adulti, come uomini e donne negli anni più produttivi delle loro vite, ma le loro azioni e conversazioni sono di ragazzi intelligenti”. E siamo solo all’inizio.
“L’eccezione è il personaggio Tracy, Mariel Hemingway, di Manhattan, un altro tipo di fantasia adolescente”. Ottima scuola, “pelle perfetta, perfetta saggezza, sesso perfetto, e niente famiglia visibile”, anche se danarosa. E “Tracy mi richiama un dirigente del cinema che una volta mi spiegò, a proposito dell’assenza di personaggi adulti nei film da spiaggia, che nessuno ha mai pagato 3 dollari per vedere un genitore”. Clever, il comico.
Joan Didion,
Letter from “Manhattan”, “The New York Review of Books”, 16 agosto 1979, free online

venerdì 24 dicembre 2021

L'Europa dei banchieri

Due banchieri assurti al vertice politico, Macron in Francia e Draghi in Italia, scrivono che “le regole del patto europeo di stabilità sono troppo opache ed eccessivamente complesse”. Queste regole “hanno limitato il campo d’azione dei governi durante le crisi e sovraccaricato di responsabilità la politica monetaria”. Della Banca centrale europea, presieduta in quegli anni da Draghi. Lo scrivono sul “Financial Times”, il giornale dei banchieri.
Sono accuse terrificanti. Tanto più perché arrivano in ritardo: si sapeva già nel 2009-2010 che non erano regole giuste. Ma nessuno lo ha detto. L’Europa è stata governata con queste regole, ed è stata fino al 2019, fino al pre-covid, l’unica delle tre grandi aree macroeconomiche mondiali a non essersi ancora ripresa dallo shock bancario del 2007-2008 – con l’eccezione della Germania, il paese europeo che aveva il sistema bancario più infetto, ma questo è un altro discorso. Dieci anni fa Bruxelles con il Patto di stabilità e la Bce con una lettera semisegreta, cofirmatario il presidente entrante Mario Draghi, imponevano all’Italia il rientro ogni anno in bilancio pubblico di 50 miliardi del debito in essere. Una cura del salasso, un po’ troglodita, ma da balanzoni avvertiti. Che ha scatenato la speculazione contro il debito italiano.
Un gioco facile che gonfiò le fortune dei banchieri in quel 2011. Lo spread, il differenziale tra il Btp e il Bund tedesco, arrivò a 574 punti. Un abisso. Una follia anche, ma pagata dall’Italia: il Btp si collocava al 7,4 per cento. Fino a che il governo eletto, Berlusconi, non lasciò il campo, il giorno dei 574 punti base, al banchiere Monti. Che raddoppiò le tasse alla piccola e media borghesia, tra i bolli, le bollette, e le seconde case, quelle dei tanti meridionali emigrati. Finché Draghi, dopo aver salvato le banche germanocentriche, dovette infine fare muro, quando la speculazione puntò contro l’euro, al coperto dell’offensiva con l’Italia e i latino-mediterranei, i Pigs, “porci”, Portogallo, Italia, Grecia e Spagna.
Ora, cioè dieci anni dopo, quelle “regole” si dicono infette. C’è da avere fiducia o da avere paura? L’Italia ha rischiato il fallimento, con la letterina di Trichet e Draghi, patrocinati dai Grandi Architetti Europei Sarkozy e Merkel. Verrebbe da dire che è meglio l’Europa che si preannuncia dei banchieri, dando per scontato che Draghi andrà al Quirinale e Macron sarà riconfermato presidente, migliore dell’Europa merkeliana, del troppo poco troppo tardi. È possibile, è probabile – peggio è impensabile, l’Europa si è già troppo ristretta. Ma bisogna sapere con chi abbiamo a che fare. I socialisti Sanchez e Scholz non hanno firmato.  

Quanto è tragico il comico

Un trattato sul comico. Non quello che manca alla “Poetica” di Aristotele, che si fermò alla tragedia e all’epica - o, se trattò la commedia, questa parte è andata persa. Non un trattato filosofico, ma le tante forme che il comico prende. E però una commedia-sul-comico ben più solida e vivace delle tante trattazioni che sul comico si sono susseguite tra Otto e Novecento, da Baudelaire a Bergson, Pirandello e tanti altri. Una commedia (molto) colta di Trevor Griffiths (molto scorretta per il canone oggi, radicalmente mutato, invertito, in pochi anni), che Salvatores ha portato in teatro e, per la seconda volta, prova al cinema – la prima fu, nel 1998, agli inizi del Salvatores regista di cinema, sotto il titolo “Kamikazen. Ultima notte a Milano”.
Non è un ascolto facile, né lieve. Si tratta il comico, con battute a raffica e situazioni paradossali, strambe, rovesciabili, clownesche, drammatiche, in una scuola serale per comici. Mentre si preparano all’esibizione-esame di fine corso, giudice il Grande Agente, un Christian De Sica insolitamente sobrio, che ha in mano la tv, agognata meta. Le gag e le battute si consumano a programma, nei tempi contati per ogni genere nell’ora di lezione, a raffica, quasi con rabbia, come a dire: che miseria! Un dessous del comico, più che uno spettacolo da ridere. Malinconico più che buffo, recitato da tutti con maestria – una galleria di comici patentati.   
Gabriele Salvatores,
Comedians, Sky Cinema

giovedì 23 dicembre 2021

Problemi di base orientali - 676

spock


Biden a Kiev come Krusciov a Cuba - con le bombe, a salve?

I russi sono tanto buoni che ce li mangiamo?
 
Conviene sfidare sempre i russi e i serbi?
 
Troppo ortodossi?
 
Gasarsi contro la Russia ci allevia la bolletta?


L’Ucraina come la Bosnia-Erzegovina ?
 
Con Putin invece dell’arciduca?
 
Morire per Putin?

spock@antiit.eu

Vita di donna avventurosa - o l'amore con lo stalliere

Il primo caso di nobildonna che si mette col guardacaccia - qui è stalliere. A una certa età, sopra i quaranta, ma poi per sempre, venticinque anni di felicità con un uomo abbrutito, ubriacone e manesco, dapprima da girovaghi, poi gestori della locanda e del traghetto per l’isola di Møn nel Sud-Est della Danimarca.
Una storia realista ma non un caso esemplare: un caso storico. Soggetto di molte scritture in Danimarca, prima (Andersen compreso) e dopo Jacobsen. Marie Grubbe è esistita, si chiamava così, e ha fatto tutto quello che viene raccontato, nel secondo Seicento-primo Settecento, in Danimarca, con lunghi soggiorni in Norvegia, col primo marito, e a Parigi e Norimberga col cognato amante. Vera la prima infatuazione da adolescente, per il principe Ulrik Christian, figlio bastardo e amato del re di Danimarca Cristiano IV. Vero il matrimonio con Ulrik Frederik, altro bastardo, favorito del re Federico III. Vero anche il cognato, uno dei due cognati, di una lunga relazione da divorziata. Vero il secondo matrimonio, nella residenza paterna, in campagna lontano dalla corte, con un borghese di piccola nobiltà del luogo. Vero anche il secondo divorzio, benché il marito non obiettasse, vicino ai cinquant’anni, per la vita insieme col giovane stalliere.
L’opera famosa di uno scrittore che si voleva poeta: “Se potessi trasportare nel mondo della poesia le leggi eterne, gli enigmi e i prodigi della natura, allora sento che la mia opera diventerebbe qualcosa di più del normale”. Jacobsen ha scritto poco in prosa. Un altro romanzo, “Niels Lyhne” (1880, quattro anni dopo “Marie Grubbe”), su un personaggio maschile non più dal vero ma inventato, un esteta che fantastica una vita che non vive – anticipatore del Des Esseintes di Huysmans e del Dorian Gray di Oscar Wilde. E alcuni racconti (“La peste a Bergamo” e altri). Ma senza entrare nel cerchio chiuso del decadentismo.
“Marie Grubbe” ha un andamento variato, prolisso e rapido, diffuso e tagliente, romantico e brutale. Il racconto, benché improbabile, o probabile solo nel Seicento, tempo barocco anche nella vita, in certi ambienti, è favolistico ma convincente. Marie non è pazza né stupida, vive l’amore in una sua visione, in tante sue visioni. Non convincente del tutto, ma poiché la storia è vera, il lettore ne trae il miglior partito. Di una cocciutaggine spinta all’autolesionismo. Imprevedibile, ma indipendente: Marie Grubbe è una donna indipendente nel Seicento, contro la corte, quando è necessario, contro i sovrani paterni, contro il genitore, contro il principe suo marito.
Essendo Jacobsen già noto come traduttore di Darwin, il romanzo fu classificato come verista. La morale della storia, tratteggia da Marie nelle sue ultime parole con un giovane dottorando rifugiato nella locanda per fuggire la peste, né è un piccolo manifesto: niente resurrezione (in quale veste?), niente giudizio-giustizia, siamo quello che siamo. Ma il racconto non ha nulla della ricetta verista: niente questione sociale, sfruttamento, miseria, eccetera, niente destino avverso, non c’è cattiveria (gli uomini si ubriacano e sono maneschi, ma non fanno scandalo), Marie è donna libera che vive da donna libera, imprevedibile cioè. Anche a costo di perdere ripetutamente il tanto che ha – in dote, o come appannaggio, e in eredità. Jacobsen influenzerà Strindberg, e sarà recepito con entusiasmo in Germania, dove si ebbe una Jacobsen Mode, tra i poeti, George, Gottfried Benn, Rilke, e tra i narratori, Zweig e lo stesso Thomas Mann – una delle residenze di Marie Grubbe è a Lubecca, e qui abbiamo la la casa “modello Lubecca”, una geometria semplice, che non c’è nei “Buddenbrook”. Di scrittura variabile, in più punti asintattica – almeno in quesdta traduzione - che oggi si direbbe cinematografica.
Un’edizione un po’ affrettata. Una nuova traduzione dello specialista Dario Berni, già traduttore di Andersen, ma senza le necessarie note di riferimento. Con le citazioni di testi tedeschi e francesi non tradotti – una è anche italiana, del Guarini.I
Jens Peter Jacobsen, Marie Grubbe, Carbonio, pp. 229 € 16

mercoledì 22 dicembre 2021

Ombre - 593

Le “classifiche del Pianeta”, il supplemento del “Corriere della sera”, danno la Svezia al terzo posto per furti d’auto. Prima la Grecia, 246 furti per 100 mila abitanti, poi l’Italia, 231, terza la Svezia, 217. Saranno gli immigrati? Che poi le vendono agli immigrati? O il mondo è diverso da come ce lo dicono.

La Asl di Salerno esime la Salernitana di calcio dalla disputa del match a Udine con l’Udinese. Lampi e tuoni della Federazione del Calcio, che sconfigge la Salernitana a tavolino 0-3. Tanto poi ci penserà la giustizia sportiva, di giurisperiti campani, a ridare l’onore e i punti alla Salernitana? Nel caso analogo di un anno fa, sempre di una squadra a strisce bianche e nere, la Juventus, con una squadra campana, dichiarata perdente a tavolino per il solito inghippo con la Asl, il giudice sportivo d’appello Sandulli sbagliò la motivazione della condanna per farsela bocciare dalla corte di Garanzia del Coni?

In fondo, il calcio è un divertimento, perché prenderlo sul serio?

Si fa un’intervista allo scrittore Murakami – in attesa del nuovo titolo? – di tre pagine sulle tee-shirt che non butta mai. Sì, il nuovo libro è sulle sudate magliette. “Quelle veramente lacere”, confida, “le uso quando devo lucidare la macchina”. Beh, lo scrittore non solo lava la macchina, la lucida anche.

Un’app contro il consumismo, buy nothing, è stata creata da due miliardarie americane, Rebecca Rockefeller e Liesl Clark. Non è di scambio o di beneficenza, è un mercatino online. “A New York c’è chi ha postato un’offerta di «acqua sporca dell’acquario», che è andata inaspettatamente a ruba perché utile come fertilizzante”. Poi dice che la Cina è vicina.

Poche righe dell’“Economist”, una dozzina, che salottiere tributano gli onori dell’anno all’Italia  - dopo Samoa, Moldova, Zambia e Lituania - sono erette dai media a monumento aere perennius. La Grande Italia è così provinciale?

Lo stesso settimanale, analizzando la campagna elettorale di Macron in Francia, centrata sui suoi successi in Europa, trova la cintura industriale di Parigi perplessa. Anche se Macron vi ha fatto installare molte attività, con i fondi europei, da ultimo la megafabbrica nippo-cinese di microchip: per i lavoratori della grande area l’’Europa è solo “un male necessario”.

In due mesi non ha fatto nulla di quanto promesso, le emergenze sono le stesse. Spazzatura, trasporto pubblico, scuolabus. Però ha aumentato gli stipendi ai dirigenti, ha bandito concorsi per assumerne un centinaio, paga un premio ai netturbini che non si danno malati…  È il professor Gualtieri, neo sindaco di Roma. Forse è per questo che le persone non vanno più a votare. Specialmente odiose le immondizie che si accumulano per strada: è come se i netturbini avessero anticipato a prima di Natale il riposo in conto malattia, dovendo dopo concorrere al premio.

La gestazione della giunta Gualtieri è stata laboriosa, perché il suo partito, il Pd romano, ha molte correnti, e molte donne da accontentare per la parità di genere. Le quali subito, appena nominate, si sono distinte per progettare o proporre aumenti, di tasse e tariffe. L’economia domestica è ora maschile?

Al rientro dalla Finlandia, una giovane coppia che vi era andata in viaggio di nozze, con Finn Air, ha pagato il tampone “99 euro a testa”, racconta la sposina, “di cui 79 per il test e 20 per la ricevuta”. Mentre una studentessa di Medicina in volo dalla Romania ha pagato 12 euro. Non per nulla la Finlandia si classifica Paese più felice al mondo. 

La Danimarca, il secondo Paese più felice al mondo (dopo la Finlandia…), non sa più cosa fare per bloccare gli immigrati. Ammazzarli non si può, ma per il resto è molto impegnata a “convincere” chi è riuscito a entrare ad andarsene. La felicità genera grattacapi.

“Repubblica” fa raccontare la vaccinazione dei bambini come una favola, a una bambina di dieci anni, Carlotta. Che scrive(rebbe): “Ho vinto la paura e come premio la visita ai nonni”. Una favola doppia.

Una casa troppo affollata - mal di regista

Tutto perfetto: autore di nome, titolo famoso, cast affollato, sigla di Jovanotti, molta cucina come si vuole ora in tv, e la famosa famiglia allargata a cui non riusciamo ad abituarci – ai rapporti non rapporti, specie con i figli, che di nulla hanno colpa. Ma un po’ troppo affollata nei primi due episodi della serie. Adesso qualcuno è morto, il padre, con colpo di scena che ribalta tutte le precedenze, e forse, precisandosi il plot, nelle prossime puntate la storia si farà seguire.
Succede con i registi di nome prestati alle serie tv? Con Muccino come già con Guadagnino sulla stessa Sky (“We are Who We are”), che l’ideatore-produttore-regista si perde, o non sa prendere il ritmo dell’“episodio”, 45 minuti sul pioccolo schermo? Di queste serie italiane solo Sorrentino, con i due “Pope”, si è salvato, e si capisce come, la chiave è chiara: giocando sui personaggi, tre-quattro per serie, le vicende contano poco, il tempo è ridotto e lo schermo comunque piccolo. come ora con Muccino.
Gabriele Muccino, A casa tutti bene, Sky Cinema

martedì 21 dicembre 2021

Il virus del debito

Con la crescita annunciata dei tassi d’interesse, come argine all’inflazione incombente, si pone nuovamente il problema dell’eccessivo indebitamento, pubblico e privato.
Il “debito globale”, pubblico e privato, in tutti i paesi del mondo, è arrivato a 226 trilioni di dollari – trilione da intendersi come in uso negli Usa, come mille miliardi. È il calco lo che il Fondo Monetario Internazionale pubblica, a firma Vitor Gaspar, Paulo Medas e Roberto Perrella. Il 2020 ha registrato il più grande aumento annuale del debito dalla fine della guerra. Con un balzo di 26 punti in rapporto al pil mondiale, al 256 per cento.
“Più della metà” dell’aumento è dovuto al debito pubblico. Che è ora al 99 per cento del pil mondiale. Di poco inferiore, il 98 per cento, è il debito privato societario. Quello familiare è il 58 per cento.
Più in particolare, l’aumento del debito pubblico è quasi tutto delle economie avanzate. Il rapporto del debito pubblico di queste economie (le economie Ocse) col pil è passato dal 70 per cento del 2007 al 124 per cento nel 2020. Quello privato invece è rimasto sostanzialmente stabile, passando nello stesso arco di tempo dal 164 al 178 per cento del pil.
Il debito pubblico ammonta ora a quasi il 40 per cento del debito globale totale.
La dinamica è profondamente diversa tra paesi ricchi e paesi “meno avanzati”. Le economie Ocse e la Cina contano per più del 90 per cento dell’aumento totale del debito nel 2020, 28 trilioni di dollari.
Nei paesi avanzati il debito pubblico è aumentato di 19 punti del pil nel 2002 – un aumento in linea con quello degli anni della crisi globale finanziaria, 2008-2009. Il debito privato, aumentato nel 2020 di 14 punti del pil, è invece il doppio di quello registrato nel 2008-2009.
Il debito pubblico americano è passato al 135 per cento del pil nel 2020 - era di 10 trilioni nel 2008, è salito a 28 trilioni nel 2020. Quello cinese al 70 per cento.

Ecobusiness

Le fonti di energia fossili rappresentano ancora l’85 per cento dei consumi mondiali, e la quasi totalità nei trasporti.
Solo l’Unione Europea è al di sotto di questa quota, grazie soprattutto al nucleare: utilizza i combustibili fossili per il 71 per cento dei suoi consumi totali – contro l’82 per cento degli Stati Uniti e l’87 per cento del Giappone (gli altri grandi paesi asiatici, Cina, India, Indonesia, Malesia etc., sono quasi completamente dipendenti dal carbone e dagli idrocarburi).
Per arrivare all’emissione zero di CO2 nel 2050, come sarebbe negli accordi internazionali, la Bank of America calcola che bisognerà investire 5 mila miliardi di dollari l’anno, in progressione crescente. Da qui al 2030, secondo l’“Economist”, serviranno 4 mila miliardi di investimenti ogni anno, il triplo degli investimenti attuali in fonti alternative.
Nell’ottica del passaggio alle fonti rinnovabili non si fanno più da anni investimenti nelle fonti di energia fossili, carbone e idrocarburi. L’effetto è già visibile nelle quotazioni iperboliche del petrolio e del gas. Con danno per i consumatori e per la produzione, in termini di costo e di difficoltà di approvvigionamento.

Come fare spettacolo col papa

Tre milioni di spettatori, con il 12,6 di share, per il Tg 5 che s’intrattiene per un’oretta col papa. Tra le nove e le dieci di sera, che è prime time  tutti gli effetti, anche se auditel non lo considera tale (l’evento è stato abbondantemente venduto). Non male, per un’oretta, malgrado tutto, edificante, senza sorprese: un successone.
Un’idea semplice e geniale, un’ora col papa – e sarebbe anche andata meglio con interlocutori meno modesti.
Clemente J. Mimun, Francesco e gli Invisibili: il Papa incontra gli Ultimi, Tg 5

lunedì 20 dicembre 2021

Problemi di base di fede - 675

spock

Si comincia a credere al paradiso perché c’è l’inferno?
 
Credere è paradiso, o inferno?
 
E non credere?
 
Perché si crede in qualcosa che non c’è, che verbo è?
 
Non sarà riflessivo, una forma dell’essere?
 
Chi non crede non è – non sa, non vuole?
 
Credere è allora appendersi a un gancio, al sé-del sé?

spock@antiit.eu

L’epidemia come strategia

Il tema è il sottotitolo: “L’epidemia come politica”. Già prima delle chiusure, e molto prima dei vaccini anti-covid. Il filosofo raccoglie qui le riflessioni che è venuto via via pubblicando sui giornali e sul sito dell’editrice Quodlibet. Il primo, sul “Manifesto” del 26 febbraio 2020, è intitolato “L’invenzione di un’epidemia”.  Il post “Chiarimenti”, venti giorni dopo, ne fa un punto di svolta: “Ci sono state in passato epidemie più gravi, ma nessuno aveva mai pensato a dichiarare per questo uno stato d’emergenza come quello attuale”. Peggio, avrebbe potuto aggiungere: e in passato non c’erano i vaccini. O forse no: non c’era nemmeno la prevenzione, l’idea di organizzare la società contro un evento.
È la prevenzione un’arma: la biopolitica? Se così è, però, non si tratta di un braccio di ferro coi poteri politici, della piazza contro il guicciardiniano Palazzo, da destra o da sinistra, si tratta d’individuare come si arriva a uno stato d’emergenza universale su una falsa notizia. E a questo Agamben, bizzarramente, non è interessato – al contrario di Foucault, che cita per la biopolitica, il quale molto lavorava su come l’opinione si costruisce. Su “Le Monde”, agli inizi della sua contestazione, è stato preciso, sulla “falsa logica” già imposta col terrorismo: “La falsa logica è sempre la stessa: come di fronte al terrorismo si affermava che bisogna sopprimere la libertà per difenderla, così ora si dice che bisogna sospendere la vita per proteggerla”.
Biopolitica
Foucault è riferimento necessario, che ha individuato negli apparati terapeutici forme di potere incontestabile, se non assoluto. La biopolitica di Foucault è una scoperta radicale. Che nell’analisi a lungo in corso nel Novecento sulla natura del potere introdusse, in chiave contestativa (poi “Sessantotto”), un approccio originale, da lui stesso in più campi approfondito, del “discorso” su e attorno al potere come suo atto fondativo e rigenerativo: il potenziale comunicativo – un approccio orwelliano più che hobbesiano (certamente non heideggeriano, come invece è di Agamben). Nell’epidemia di Aids di cui Foucault è rimasto vittima non ci sono state misure restrittive (chiusure, proibizioni, isolamento), non trattandosi di malattia infettiva e anzi da contatto intimo, per atto volontario e non subìto. Ma qualora ci fosse stato un vaccino anti-Aids, come per una qualsiasi pandemia, e uno Stato lo avesse adottato o in qualche misura imposto, è dubbio che Foucault non avrebbe accettato di avvantaggiarsene, anche soltanto per evitare di farsi veicolo di diffusione dell’infezione letale.
E perché difendersi sarebbe una colpa? Un soldato in guerra evita con cura di esporsi al fuoco nemico. È un suo diritto, e un dovere – verso la “patria”, verso il comando militare di cui è parte, verso i commilitoni. Agamben non nega il virus e il contagio – anche se ne avrebbe tutti i motivi: la sua riflessione parte da uno studio del Cnr che il virus dice di tipo influenzale, non più pericoloso di un’influenza, a fine febbraio del 2020 – povero Cnr, e povera Italia che finanzia il Cnr. Agamben critica la difesa. Come un immondo (immorale?) relegamento dell’umanità alla “nuda vita”, alla sopravvivenza – che, come si sa, è quella che fa l’hobbesiano “homo homini lupus” (allo stato animale, si sarebbe detto una volta, ma gli animali hanno istinti, abitudini, e sentimenti).
La cosa è contestabile. C’è più partecipazione, empatia come usa dire, sociale, familiare, personale, e perfino universale, quindi più vita di relazione sociopolitica, sia pure a distanza, in questi due anni di quanta ce ne fosse prima, tra un fine Duemila e un primo Millennio desertificanti. Ma perché l’attaccamento alla vita sarebbe una rinunzia, e una colpa – un’autocensura, una castrazione?
Poi Agamben è andato più in là. Ad agosto di quest’anno, presentando la raccolta, scrive: la “Grande Trasformazione” in atto ricalca “quanto avvenne in Germania nel 1933, quando il neo cancelliere Adolf Hitler, senza abolire formalmente la costituzione di Weimar, dichiarò uno stato d’eccezione che durò per dodici anni”. Allo stato d’eccezione, l’aristotelica “stasis”, Agamben dedica da tempo buona parte della sua riflessione. Da ultimo individuandolo nello scontro di tutti contro tutti che – all’apparenza – è la vita politica nelle democrazie, una sorta di guerra civile come unico paradigma politico. In due seminari di dieci anni fa, poi riuniti sotto il titolo “Stasis. La guerra civile come paradigma politico. Homo sacer, II, 2”, concludeva: “Non è un caso se il «terrore» ha coinciso col momento in cui la vita come tale – la nazione, cioè la nascita – diveniva il principio della sovranità”. Aggiungendo, con anticipazione quasi profetica: “La sola forma in cui la vita come tale può essere politicizzata è l’esposizione incondizionale alla morte, cioè la vita nuda”. Ma Hitler? Hitler è un’eccezione, non uno stato d’eccezione.
Polemista
Il lockdown è una novità, criticabile, fermare tutto: stare chiusi in casa, non lavorare, non camminare, non parlare con nessuno, se non al telefono, non andare al mercato, che peraltro è chiuso, né al supermercato, se  non con lunga e lunghissima fila, e nemmeno in chiesa, anche se non è chiusa, non vedere i familiari, se non conviventi, “vedere il medico” solo al telefono, non seguire i congiunti, anche strettissimi, in ospedale, se non da lontano, nemmeno se morti, e morire senza un funerale, una sepoltura.
Il filosofo tourné polemista scrive piano, chiaro, elegante. Di lettura agevole. Mai banale, certo. Il “capitalismo comunista” è per esempio una pagina pregna – mezza pagina basta. O la terra Ctonia e la terra Gaia . Ma apocalittico. Ci sono epoche nella storia, del mondo e dell’uomo.
L’idea dell’apocalissi è ben storica – più forse che biblica e religiosa. Anche nella forma guénoniana del complotto universale, la desacralizzazione della storia. La laicizzazione ci ha lasciati un po’ più nudi, la crisi continua o emergenza ci costringe alla “nuda vita”? Senza sentimenti, tradizioni, abitudini, politica, arti, pensiero?
Ma la “tecnologia digitale che, com’è ormai evidente, fa sistema con il «distanziamento sociale» che definisce la nuova struttura delle relazioni fra gli uomini” era in atto prima, e lo sarà purtroppo anche dopo, indipendentemente dal virus. È la comunicazione di massa, inevitabile, vecchio problema che deve ancora trovare un suo punto di equilibrio prospettivo – e deve trovarlo, pena la sua dissoluzione, ben prima dell’“effetto serra”. È anche una forma di dissoluzione di cui gli Stati, semmai, sono vittime, conglomerati ingovernabili (incontrollabili) nel mondo comunicante o globale – altro che svolta autoritaria, all’insegna della governabilità.   
L'eccezione 
La conclusione, nell’avvertenza premessa alla ripubblicazione degli interventi in volume ad agosto, fa sorridere: “Lo stato d’eccezione, che è stato prolungato fino al 31 dicembre 2021, sarà ricordato come la più lunga sospensione della legalità nella storia del Paese”. E: “Dopo l’esempio cinese”, del comunismo onnipotente, “proprio l’Italia è stata per l’Occidente il laboratorio in cui la nuova tecnica di governo è stata sperimentata nella sua forma più estrema”. Non è da tutti (“naturale”) fare il polemista: è un genere letterario, da Malaparte a Montanelli, e richiede mestiere.
Un sermone, purtroppo, da vecchio familiare. “Il progetto planetario che i governi cercano di imporre è, dunque, radicalmente impolitico. Esso si propone anzi di eliminare dall’esistenza umana ogni elemento genuinamente politico, per sostituirlo con una governamentalità fondata soltanto su un controllo algoritmico”: un progetto fantasmatico. Non sembra irragionevole, Agamben si difende, ma è una sciocchezza. Succede – Platone vecchio non andò a fare la repubblica con un tiranno?
C’è qualcosa di sbagliato nella reazione al virus cinese. Effetto della paura? Di disorganizzazione? Di un complotto politico? Questo sicuramente no, impossibile - Agamben si affretta a disimpegnarsi dalla teoria del complotto. È la politica della crisi, perpetua – ora dell’epidemia. È in effetti una forma di governo, di basso profilo, governare attraverso la crisi. “Andreottiana” si direbbe in Italia, ma diffusa. Attuale, nell’epoca in cui gli uomini never had it so good – come il premier MacMillan disse della Gran Bretagna irriconoscente, che lo castigò al voto.
Foucault si sarebbe disinteressato della comunicazione dell’evento? Sicuramente no. Ma essa non è tra gli interessi di Agamben. E questo purtroppo è un male. Non è nell’interesse di nessuno, l’opinione pubblica, la comunicazione. Come si formano – si impongono – le idee, e i loro succedanei, la paura inclusa. Il filosofo ne ha avuto l’opportunità in più occasioni - lui stesso stesso vi accenna nella considerazione centrale, della “Medicina come religione” - ma non l’afferra. “A che punto siamo?”, un testo del 20 marzo 2020, è stato richiesto e poi rifiutato dal “Corriere della sera”. Perché? Gli interventi più distesi Agamben può farli solo con i media stranieri: subito “Le Monde”, poi la radio pubblica svedese, la “Neue Zürcher Zeitung” un paio di volte, la rivista greca “Babylonia”. Ma, poi, è censurato dallo “Spiegel”, che lo aveva intervistato – si chiede un’intervista proprio per avere un altro parere. È il filo rosso di questa pandemia, la povertà dell’opinione pubblica.
Per irridere alla vaccinazione di massa, Agamben così conclude: “È perfettamente possibile - anche se non è in alcun modo certo - che fra qualche anno il comportamento degli uomini risulterà simile a quello dei lemmings”, i roditori della tundra che usano suicidarsi in massa a periodi buttandosi nel mare, “e che la specie umana si stia in questo modo avviando alla sua estinzione”. Con i vaccini – “il terrore sanitario”? O non finisce prima, con l’apocalisse della Commissione DuPre (Dubbio e Prevenzione), che già si conta come un partitino del 5 per cento, senza ridere. Nella stessa impolitica, o politica del Celoduro e del Vaffa, che attanaglia l’Italia da quarant’anni. A opera dei corrotti spazzacorruzione, da Bossi a Di Pietro. E dei comici, Moretti prima di Grillo con i “Girotondi” – anche lui con una triade, Occhetto-Di Pietro-Moretti.
Giorgio Agamben, A che punto siamo?, Quodlibet, 120 € 12

domenica 19 dicembre 2021

Cronache dell’altro mondo – antinatalizie (160)

L’“Economist” esce normalmente con una copertina doppia: una per Europa e Stati Uniti e una per l’Asia. Per il numero doppio di fine anno (come tutti i settimanali l’“Economist” esce in 51 numeri annuali) quest’anno fa tre copertine: una, “Christmas Double Issue”, per l’Europa, una con lo stesso titolo, “Christmas Double Issue”, per la distribuzione in Asia e una, “Holiday Double Issue”, per gli Stati Uniti. Che la direttrice Zanny Minton Beddoes così spiega: “In Europa abbiamo sempre pubblicato una “Christmas Issue”. Analogamente in Asia, “dove per molti Natale è ovviamente un’importazione, come il Black Friday, che è giusto un buon divertimento. Ma l’America”, continua Minton Beddoes, “purtroppo, è in guerra contro il Natale, e per la scorsa decade più o meno non abbiamo voluto prendere parte agli scontri. La nostra edizione là s’intitola «Holiday Double Issue». Continuare o cambiare? Continuiamo. Lo spiritello natalizio non richiede coerenza”.