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sabato 30 giugno 2012

L’Europa a sponda Usa

Il salvataggio delle banche – la ricapitalizzazione, il fondo di garanzia – era di interesse e iniziativa tedesche. Ogni altro aspetto no, è stato d’iniziativa italiana: lo scorporo degli investimenti pubblici dal conto del deficit, e lo scudo anti-spread, contro a divaricazione eccessiva dei tassi fra i titoli di un qualsiasi paese dell’euro e quelli tedeschi. Lo scudo è da perfezionare e si sa che la Germania lo boicotterà, ma la decisione è presa: una volta approvato lo scudo, la Bce potrà comprare liberamente titoli del debito in difficoltà.
Ma la vera novità sta fuori dal vertice. Alla Bce assicura il suo sostegno la Federal Reserve Usa, che non ha bisogno di autorizzazioni per intervenire sui mercati, e preme anch’essa per stabilizzare l’euro. Si ritorna, dopo, vent’anni di neglect, a una politica monetaria congiunta, neo atlantica. No. Ma non c’è più la “fortezza Europa”, l’ambizioso disegno franco-tedesco che gli Usa in tutti i modi contrastavano. Ora gli Usa vogliono l’euro, e lo vogliono stabile. Né sono senza significato i contatti costanti di Obama con Monti, pressanti. Nell’indifferenza, e anzi nell’ostilità, della Germania.
Per capire che partita si sta giocando è caratteristica la reazione della stampa tedesca, di destra e di sinistra, agli accordi di stabilizzazione monetaria. Per l’opinione tedesca quella in corso non è un partita unitaria, per un’Europa che funzioni meglio con beneficio di tutti, ma una gara che la Germania deve vincere, naturalmente in tutte le zone del campo. Perché la Germania è virtuosa e gli altri. Detto senza veli, non solo nelle cronache, anche nei commenti: si pesa cosa la Germania potrebbe averci rimesso e cosa ci guadagna.

Problemi di base - 106

spock

Se la storia è morta con Hegel, come mai c’è sempre una Germania?

Se la Germania è virtuosa, perché se la fa con i mercati?

Se la santità è orgoglio, l’orgoglio non è peccato? O la santità è peccaminosa?

L’intellettuale è collettivo, si è detto a lungo. Nel senso che colleziona?

Se dio è l’Unico, non sarà lui il vero rivoluzionario?

Oppure, essendo Dio individuale, e creatore instancabile, non sarà lui il vero motore del capitalismo?

O è il rivoluzionario il vero capitalista?

“Povero ma pulito” è l’etica positiva di don Bosco, o “poco ma buono”, ma il reciproco non è altrettanto positivo: l’etica è unidirezionale?

spock@antiit.eu

New Age, i cattivi sentimenti della critica

Questo “Uccello” si voleva un capolavoro, oltre che un best-seller. Ma di che, rileggendolo dopo vent’anni? Forse dell’epoca, New Age, delicata lacrimazione di buoni sentimenti, politicamente corretti, per un futuro immacolato e radioso, tutto il Male essendo crollato. Volendo essere partecipi, è una letteratura – lo stesso vale per Baricco, Houellebecq – derivata dal minimalismo di Salinger, “Il giovane Holden”, “Franny and Zooey”, con la verbosità di Pychon, riadattata dal minimalismo in senso proprio, di Auster e Carver, nell’epoca incontinente del New Age.
Murakami dice che riscrive cinque e sei volte. In un anno – ogni anno un best-seller. Seicento pagine fitte? Sarà per questo che queste seicento pagine sono sconclusionate, tirate via.
Non è detto che sia successo, ma è come se il libro fosse stato strappato di mano all’autore, per uscire subito, per sfruttare un precedente successo. È una spiegazione. Restano da spiegare le critiche entusiaste. È la critica il vero problema all’età dell’Acquario (e oggi, è diverso?): uno potrebbe altrimenti passarci accanto senza danni.
Haruki Murakami, L’uccello che girava le viti del mondo

Con tutti e contro, Noventa ossimoro del ‘900

Già il titolo è strano. Noventa fu un ossimoro vivente del Novecento, volendosi moderno in quanto tradizionale, libero in quanto cattolico, e costruttivo in quanto distruttivo: dell’idealismo (“Io e il mio Dio), del “trio” (Saba, Ungaretti, Montale), dell’ermetismo (oscurità lessicale), del simbolismo (mascheramento), della poesia pura (insignificanza), nonché della “scuola torinese” (Gobetti, Debenedetti), che peraltro lo accudiva e proteggeva. E innovativo in quanto dialettale, (“seguo l’esempio” - di “Dante, Petrarca e quel dai Diese Giorni”), in una lingua sua, “tra ‘l veneziano e l’italiano”. Fu per questo isolato nel dopoguerra - e per ragioni politiche, incontrollabile al dirigismo cominformista - benché abbia avuto a sodali e discepoli nomi illustri, Soldati, Debenedetti stesso, Fortini (Lattes), Pampaloni, Guttuso, Carlo Levi e molti altri.
Letterato quanti altri mai attivo per circa quarant’anni, fino alla morte nel 1960. Dapprima a Torino, all’università, con Soldati, Levi, Debenedetti. Poi in un lungo giro di formazione in Francia e Germania. Quindi per alcuni anni a Firenze, con Carocci e “Solaria”, la rivista di Carocci, e con “La riforma letteraria”, che entrambi editarono sulle ceneri di “Solaria”, di una letteratura creativa aperta alla critica e alla filosofia. Nel dopoguerra di nuovo a Torino, nel giornale socialista “Mondo Nuovo” dapprima e poi con Adriano Olivetti. In fine, dal 1955, a Milano, dove collaborò con Alberto Mondadori alle “Silerchie”, la collana del Saggiatore, e con Vittorio Sereni allo “Specchio”. Nobile veneziano ricco di famiglia, fu più volte fermato come sovversivo dalla polizia fascista, e attivo nel socialismo liberale nel dopoguerra, con Garosci e Soldati.
Bastian contrario per vocazione, non aveva però tutti i torti. E le poesie, le uniche cose circolanti della sua larga produzione letteraria e filosofica, lo dicono perfino un classico minore. Nell’elegia sui toni discorsivi dell’assenza, della fine, e della meraviglia. In versi cantanti, decasillabi, ottonari. Molti d’occasione, per gli amici, per i Mondadori, per gli Scheiwiller. Le idiosincrasie visse come fatto di ruolo, è uomo e poeta senza malanimo - versi affettuosi scrisse per “Giacomino” (Debenedetti), Saba, lo stesso Croce.
Giacomo Noventa, Versi e poesie

venerdì 29 giugno 2012

È la soluzione Soros

George Soros l’aveva detto e così è stato. Aveva detto il finanziere che affossò la lira nel 1992, imponendoci una cura peggiore di quella ultima di Monti, che la crisi dell’euro si poteva risolvere a tre condizioni: “Se un euro depositato in una banca greca andasse perduto per il depositante, un euro depositato in una banca italiana varrebbe meno di quello in una banca tedesca o olandese, e si creerebbe un movimento di panico”. I titoli di debito pubblico dei paesi a rischio dovrebbero essere “protetti” (isolati) dal contagio. Il sistema bancario europeo dovrebbe essere ricapitalizzato e posto sotto supervisione europea e non nazionale”. La soluzione sta nella Germania, argomentava ancora Soros. E la Germania non è orientata a gestirla. Non col Meccanismo di Stabilità Europeo e non con interventi sul mercato.
Gli interventi che ora l’Ue ha deciso – avrebbe deciso – erano prospettati da Soros già dieci mesi fa, in un articolo sulla “New York Review of Books”. Le banche e il debito tornano ai fondamentali, invece che ai no tedeschi – con un branco di appeaser: non solo i soliti lettoni, gli olandesi, i finlandesi, gli austriaci, anche Sarkozy. Non solo la Grecia, anche la Spagna e l’Italia subiranno una grave crisi, aveva anche detto Soros, e così purtroppo è.
L’unica cosa che Soros non prospettava era la strategia degli Orazi contro i Curiazi adottata dalla Germania. Perché non la sapeva o ce l’ha tenuta nascosta? Anche Angela Merkel, essendo vissuta in Sassonia, forse non sa la storia latina – o la sa?

La sinistra di De Benedetti è la Dc

È “la Repubblica” di Carlo De Benedetti, col supporto dell’ “Espresso” dello stesso editore, la colonna della candidatura di Matteo Renzi a segretario del partito Democratico. Il Mister X di un lontano editoriale del direttore Ezio Mauro era il sindaco di Firenze, la cui ascesa è stata poi preparata e coadiuvata dal gruppo editoriale di De Benedetti. Renzi è il candidato dell’alleanza elettorale con Casini e Fini. Ma senza escludere Di Pietro. Che è sempre stato, in subordine alla ex Dc, Prodi prima e ora Renzi, uno dei favoriti di De Benedetti. Già dai tempi di Mani Pulite, in cui subì il carcere e rischiò grosso, per l’affare Sme e altri, ma uscì pulito. Corrado Passera, che si professava sodale di Di Pietro all’epoca di Mani Pulite in un famosa telefonata, lavorava allora per De Benedetti (la “stessa causa” per la quale Passera si riteneva impegnato con l’allora giudice era l’annientamento dei socialisti, per ristabilire l’immarcescibile Centro - l’annientamento dell’autonomia della politica). De Benedetti, “prima tessera” del partito Democratico, lo è della parte Popolare, o ex Dc. Fiero antipatizzante degli ex Pci, da D’Alema a Bersani. Fin dai tempi dell’improbabile De Mita, che impose a Scalfari e ai lettori, un po’ esterrefatti, di “Repubblica”. Era infatti padrone già negli anni 1980 del giornale – De Benedetti, che De Lorenzis e Favale, “L’aspra stagione”, mettono tra i finanziatori a perdere di “Repubblica” all’uscita (tra i “garanti del giardinetto” in banca), in realtà intervenne tre anni dopo, fornendo a Scalfari e Caracciolo i tre miliardi di cui avevano bisogno per la ricapitalizzazione, su tre “note di pegno” che in pochi anni si sono gonfiate fino a farlo padrone del gruppo.

Ombre - 136

“Folklore locale” dice Marchionne sprezzante la giudice Baroncini che instaura l’obbligo delle assunzioni dei lavoratori pro quota tra i sindacati. Fa male, tutti i giudici lo azzanneranno, ma è invidiabile: poter fare a meno di questa Italia.

Si vara a colpi di fiducia una “riforma del lavoro”, che lo “liberalizza”, mentre si stabilisce che le assunzioni sono pro quota dei sindacati.

Non passa giorno che Fiorenza Sarzanini non attacchi il Vaticano e Bertone con le agende, vere o presunte, di Gotti Tedeschi. Solo Sarzanini, solo il “Corriere della sera”.
Non c’entra nulla naturalmente l’“industriale della sanità” Rotelli, il maggiore azionista del giornale, che da Gotti Tedeschi ha avuto il San Raffaele, una miniera, a prezzi d’affezione.

Chi avesse visto la sintesi di Rai 1 a mezzanotte di giovedì e non la partita Italia-Germania, avrebbe visto una Germania sempre nell’area di porta italiana, mentre l’Italia ha attaccato con più continuità e ha avuto più occasioni da gol. Hanno il complesso del vinto?

Due cronache locali in Toscana, non per ridere. Un tunisino è sotto processo a Monsummano Terme da un anno per essersi intascato al supermercato l’euro del carrello che era andato a riporre per conto di una gentildonna. Si procederà a un “confronto all’americana”.
Ad Arezzo un processo è in corso da cinque anni tra due pachistani, l’uno di quali accusa l’altro di essersi appropriato un oggetto dal suo banco, forse una visiera, forse un paio d’occhiali. Si sono tenute una dozzina di udienze, con gli interpreti.

Pagnoncelli dice che Montezemolo da solo “vale” il 20 per cento del voto. Con Passera e Cancellieri il 25. Con Casini e Fini il 30 e passa. Questo è possibile: Casini e Fini sono al 5 per cento. Ma l’altro 25 per cento?

“Non resisto alla possibilità di una rapina. Cerca su Google la rapina al Palatino, sono io”. Si è così arrivati alla scoperta dei rapinatori, che un anno fa qualche mese razziarono l’incasso del sito archeologico, 30 mila euro – e del loro basista, il lavoratore “socialmente utile” del sito stesso. Per la tentazione di internet. A volte le intercettazioni spiegano anche la verità.

“Così si eliminano gli sprechi”, annuncia Giarda dopo accurato screening dei “consigli di 135 mila cittadini”. Tagliare le auto blu, ridurre le telefonate (ma non si risparmia), controllare l’assenteismo dei concorrenti… Giarda ghigna sempre. con l’aria di prenderci per i fondelli.

Il governo Monti ha battuto con le e-mail le “telefonate al governo” di Rumor nel 1974, contro gli aumenti dei prezzi. Allora, malgrado le telefonate, l’inflazione salì al 25 per cento. Ora, quanto è costato lo screening di tutti quei 135 mila parolai?

Stefano Zamagni, teorico del “civile”, è furente contro il governo: questa “politica del privato” è molto pericolosa, dice al “Corriere della sera”, perché prepara la strada “alle invidie, alle gelosie, alle delazioni. In una parola, al populismo con tutto quel che comporta”. Non aggiunge che più spesso sono i mediocri e i vili che se ne avvalgono.
Il professore è teorico del Terzo settore:, dei “sette milioni di italiani iscritti a un’associazione: le Acli, L’Arci, Wvf, Legambiente, Avis…. le Onlus”. Ma non dice quanto ci costano le Onlus, per progetti socialmente disutili.

“Abbiamo pronti 12 miliardi per gli aeroporti”, annuncia Benetton. Ha subito imparato da Passera e Monti, 80 miliardi qua, 130 là. O è il nuovo galateo della stampa, bersi gli annunci? “Abbiamo 20 miliardi per Autostrade”, aggiunge Benetton. Ma questi li spende, insomma li mette in lista, solo se gli aumentano i pedaggi.

Il Quirinale sa che alcune Procure giostrano a fini inconfessabili sulla trattativa Stato-Mafia. Lo sa il presidente Napolitano, presidente del Csm, e lo sa il suo consigliere Dì’Ambrosio, delegato del presidente al Csm. Ma niente cambia.
La giustizia come ludibrio comincia nell’incapacità della politica: intercettazioni, confronti, verbalizzazioni mutile e, direbbe il Presidente della repubblica, “manipolate”.

Le giudici del processo milanese a Berlusconi prosseneta si fanno sfilare “attricette” in sollucchero per la tribuna, mai avrebbero immaginato tanta gratuita pubblicità, che fa bene al commercio. Che si sfrenano perciò nella fantasia, anche se sanno immaginare solo una cosa. Non le incriminano come dovrebbero, per falsa testimonianza. Le invidiano?

Può darsi che la giudice Baroncini difenda la libertà imponendo alla Fiat di assumere un centinaio di operai a Pomigliano. Ma perché l’8,75 per cento di tutti i lavoratori? E perché questo 8,75 per cento dev’essere Cgil?
Bisognerebbe imporre ai giudici un tirocinio in fabbrica. Anche in un ufficio, dove si lavori.

Susanna Camusso fa causa dappertutto alla Fiat, che pure non ha licenziato nessuno, mentre si accorda a Firenze per dimezzare gli effettivi del Maggio Musicale. Lei è del partito del giovane Renzi?

“Repubblica” stigmatizza su più pagine la follia di Berlusconi che ripropone la lira. Poi scova un non altrimenti noto professore svizzero per spiegare che, se salta l’euro, chi ci rimette è la Germania. Poi dice che Berlusconi vince le elezioni.

Il Procuratore lavora troppo, il Csm lo licenzia

È successo a Pistoia, non a Canicattì. Anzi, è successo a Roma: il Csm ha destituito il Procuratore capo di Pistoia perché lavora troppo. Ha smaltito tutti gli arretrati e non dà tregua ai sostituti. Uno di questi, Sottosanti, lo ha denunciato e tanto è bastato.
Il Csm, l’augusto consesso presieduto dal capo dello Stato che governa la magistratura ha deciso all’istante: Dell’Anno sospeso, torni a fare il sostituto come gli altri – Dell’Anno è, era, il Procuratore Capo. Dell’Anno ricorre al Tar, ma il Tar decide di non decidere: non c’è pietà per chi vuol far funzionare la giustizia.
Il denunciante è il giudice che Dell’Anno ha incaricato di seguire il processo per concussione e corruzione al Comune e alla Provincia, entrambi Pd ex Pci. E si è segnalato per non inquisire i politici, fra i 23 denunciati. Giusto l’ultimo dei socialisti, che peraltro è accertato non aver percepito alcuna graziosità. Si deve a Sottosanti una concussione senza concussori.
L’indagine della Digos, Dell’Anno ha dovuto faticare per convincere i sostituti a seguirla. Non solo i politici, peraltro, anche l’imprenditore più noto della città i sostituti hanno deciso di non indagare. L’imprenditore risultava avere invitato al telefono per un caffè in piazza il capo dell’ufficio tecnico del Comune, il quale era poi ritornato in ufficio con una busta, piena. Ma non è documentato che sia stato lui a passare la busta al dirigente.
Altri sostituti hanno, dopo Sottosanti,lamentato l’ingerenza di Dell’Anno. Uno che aveva fatto arrestare numerosi immigrati non in regola “per creare un precedente”. Uno che aveva fatto arrestare una famiglia per “importazione” di cuccioli dall’Ungheria – se li era portati dietro. E uno che aveva fatto arrestare un vigile che si vedeva con l’amante durante l’orario di lavoro, “per dare l’esempio, così finiscono sul giornale”. Il giudice Dell’Anno aveva deciso che gli arresti si fanno in base al codice.

giovedì 28 giugno 2012

Supermario è Balotelli

Il primo sconfitto di Italia-Germania è la Francia, superba al solito e inconcludente. Di Platini che voleva la Germania in finale, e del suo arbitro di fiducia che invece di una punizione contro la Germania le dà un rigore al novantunesimo. Il secondo è l’altro Mario, a cui l’immaturo Balotelli ha dato una lezione di strategia e tattica. Come si gioca una partita, e come si può vincerla contro tutti i presupposti. A lui che pure sa per esperienza come la Germania vuole e impone gli aiuti di Stato, alla sua epoca alla Volkswagen e altri “campioni nazionali”. E come si può sforare senza pregiudizio gli impegni d blancio, e non dello zero virgola, ma del due e del tre per cento, quando occorre.
Se l’Europa era a due marce, e ora è addirittura germanica una ragione ci sarà: Merkel non è Bismarck, e nemmeno Adenauer, anzi nemmeno Kohl, ma gli altri?
Una lezione dall'Africa: anche questa non è male, da approfondire.

La partita è tra Italia e Germania, è vero

Si parla molto di Italia-Germania ma non si dice l’essenziale. Si parla di Bismarck e Cavour. Di Arminio perfino, che sconfisse i romani, i romani antichi – un traditore. Di madri tedesche con figli italiani, o viceversa. Con appelli di classicisti alla sacra filologia germanica – sempre quella di un paio di secoli fa. E di economisti a farsi tedeschi: per tedeschi intendendosi risparmiosi, lavoratori,leali col fisco. Cosa che i tedeschi sono e non sono, come gli italiani – di proprio hanno una legge elettorale migliore.
L’essenziale è questo. L’argomento della Germania è un artificio politico. Uscire dalla crisi riducendo il debito è la ricetta, chi ne dubita?, ma occorreva prevenire un aggravamento del debito a causa della crisi e questo la Germania non consente. Lo stesso debito della Germania è cresciuto nella crisi – e secondo alcuni calcoli è al 100 per cento del pil e non all’80, quale si classifica ufficialmente. “La Germania ha massacrato i greci per dare una lezione”, afferma Giulio Sapelli alla “Nazione”. E gli italiani perché, per automutilarsi? No, la Germania ha beneficiato del perdurare della crisi del debito: negli ultimi due anni ha ridotto il costo del suo indebitamento, a spese degli altri partner europei e degli Usa.
C’è la corsa alla Germania, e non si può fare torto ai corridori: la Germania è più ricca. Ma ci vorrebbe giudizio. Gian Arturo Ferrari dice che i tedeschi amano l’Italia ma non sopportano gli italiani. Lo dice a lode della Germania? Ma è il nazismo. Quanto all’Italia-Germania propriamente detta, si glissa. Mentre l’Italia può pure perdere oggi, la squadra tedesca è molto migliore. Ma alla Germania gliele ha suonate con merito, con superiorità evidente, in tante occasioni, dal 2-0 con due pali del 2006 al mitico 4-3 del 1970. In politica è un'altra cosa, si pensa. Lo è, ma ha fatto male Monti a non seguire più le partite, si gioca allo stesso modo, di squadra, di forza, di astuzia, e di abilità, per vincere.

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (133)

Giuseppe Leuzzi

Nuccio Ordine presenta la Calabria alla Milanesiana dicendola “una società ingiusta dove chi non ha non è”. La Calabria? Forse all’università.

Un anno fa, tra un mese, moriva Isabella (Lilli) Chidichimo. Donna “calabrese” vera. Che sopravvisse alla fine precoce del figlio Carlo (Rivolta), gli fece funerali solenni, ne ricompose ogni minuto scritto, e ne tutelò la memoria con i giornalisti e gli editori. Mentre svolgeva il suo lavoro alla previdenza dei giornalisti. Alla terza età, negli ultimi venticinque anni, aveva costruito col fratello Rinaldo nell’ex latifondo di famiglia nell’Alto Jonio cosentino un’azienda agricola fiorente, e attorno alla Torre di Albidona un capolavoro di ecompatibilità: una struttura ricettiva (oggi agriturismo) in legno e pietra, annegata tra le piante e i fiori.

Isabella e Rinaldo Chidichimo se n’erano andati giovani a Roma per “sfruttare” la laurea. Lei all’Istituto di previdenza dei giornalisti, di cui era divenuta dirigente, lui in Confagricoltura, di cui fu direttore generale. Solo alla pensione, con la relativa tranquillità di reddito data dalla pensione, sono diventati imprenditori. Per un successo non facile, ma con grande abilità. Una parabola – un ritorno – più unico che raro: chi parte non torna, da qui il senso di perdita.

Sudismi\sadismi.Dopo un paio di settimane, fallito l’attacco a Napolitano, Giovanni Bianconi e il “Corriere della sera” trovano alcune righe martedì per ricordare che dall’atto d’accusa Stato-mafia si sono dissociati due giudici, Messineo (capo della Procura) e Paolo Guido. Due su cinque. Ma legando ai politici che nel 1992-93 tramarono per consegnare lo Stato alla mafia anche Dell’Utri. Una forma di prescienza? Certo, non si è siciliani per nulla: uno che paghi ci vuole, ed ecco allora Dell’Utri.

Se i ladini si vogliono tedeschi
Fanno simpatia – fanno per questo molta pubblicità - i due giovani gardenesi Caroline Kostner e Alex Schwazer. Perché sono giovani, belli e vincenti, e perché si trovano a loro agio nell’italianità. Sono in questo una novità, recente. La prima a ritrovare queste radici fu Isolde Kostner, la biscugina, che non sapeva essere che italiana, non molto tempo fa dunque. La Val Gardena, come tutte le Alpi ladine era prima italiana per convenienza, raccoglievano il turismo delle spendaccione famiglie romane e lombarde. Ma nell’animo tedesca. Dottori e ingegneri andavano a laurearsi a Vienna e Innsbruck. In Val Badia si tenevano in tedesco le celebrazioni. A Castelrotto un dottore miracoloso con le botte sugli sci al ginocchio, che usava il trilinguismo nella targa e gli avvisi, teneva in vista in sala d’attesa due riviste ladine di storia locale cui collaborava: erano scritte in tedesco, da autori quasi tutti teutonici.
Lo stesso i romanci svizzeri.
Si penserebbe il ladino più legato agli studi neo latini. È questione solo di forza e passione della filologia? Al tempo del fascismo era il fascismo a promuovere gli studi ladini. Le lingue (le culture, le “razze”) minori sono saprofite, della forza?

Il ritardo è intellettuale (e linguistico)
Fa paura l’odio di Angela Bubba (“MaliNati”) per tutto ciò che ha a che fare con la Calabra, di cui è originaria. Non è un’eccezione, l’odio suo è anzi comune, e soprattutto alle donne: il rifiuto totale, mascherato a volte da empatia (“ma non c’è nulla da fare”). Un rifiuto totale, perfino violento. In cui l’odio-di-sé si manifesta nella sua natura: il disadattamento.
L’emigrazione, più o meno forzata o volontaria che sia, produce inevitabile un risentimento. Ma nelle professioni intellettuali più che in quelle manuali – dove invece prevale o il distacco totale o l’orgoglio etnico. Fra i piccolo borghesi più che fra i lavoratori. Nella società civile più che nel popolo. Il tradimento è dei “chierici”, oggi diremmo degli intellettuali.
Il “tradimento” delle classi medie il nuovo meridionalismo tratteggia come la causa principale del ritardo, invece degli argomenti classici: i dualismi (città-campagna, industria-agricoltura, imprenditoria-feudalità), l’unificazione disuguale, l’intervento straordinario (le cattedrali nel deserto di infrastrutture), la corruzione, la criminalità. L’emigrazione in massa del suo ceto medio più produttivo, mancano intere generazioni al Sud, la debolezza fatale di chi resta.
Ma il ceto medio che manca è intellettuale. È perfino ovvio. Stretto fra il risentimento di chi ha scelto (pensa di avere scelto) un mondo migliore, e l’albagia di chi resta, che quasi sempre maschera incapacità (conformismo, ancillarità ai pregiudizi, e l’inerzia mascherata da indignazione) – l’esito è quello.

Si è diversi per marchio di fabbrica o d’origine, non per colpa, perché senza lingua. Nell’indifferenza del buon italiano. Anche se si è a proprio agio con Molière, che troppi purtroppo non apprezzano abbastanza, o con Steinbeck – non, purtroppo, con Shakespeare, non s’impara. Un sardo, per esempio, può essere suddito con dignità, senza essere un diverso: ha la sua lingua.
Si può essere condannati per non essere troppo diversi, non abbastanza. Per avere scelto, per mansuetudine, per convenienza, per logica, la lingua di tutti, latini o greci che fossero. Senza identità quindi, quando questi venga negata dall’incumbent di turno, piemontese o lombardo che sia.

Mafia
Un’indagine veridica sarebbe quella che la analizza come figura o estensione del reale. Nella sua “inafferrabilità”, che tale non può essere e non è. Nella fenomenologia interna invece che nella maniera insoddisfacente, e irrisolvente, dei fantasmi piccolo borghesi – quelli che il reale vogliono razionale nel senso dell’utilità. E ne fanno l’estensione del padrone, del politico, del vescovo, di tutto quanto ossessona la loro buona coscienza di cittadini civili. Che tale non può essere e non è. Guardarla e analizzarla negli adolescenti a scuola che passano il tempo a procurarsi un’arma. Dei ragazzi che uccidono per pochi soldi, o un capriccio. E si uccidono tra di loro. Anche senza la droga. Che “proteggono” la loro innamorata col furto, la droga, l’assassinio, la violenza costante, di giorno e di notte. Non all’insaputa della stessa. Di madri che proteggono i figli come lupe, salvo aizzarli a uccidere, e a farsi uccidere. Di un modo in cui non c’è vergogna (senso del limite, della legge) e non c’è progetto. Della distruzione-autodistruzione come una deriva incorreggibile. Come portata da un carsismo invincibile di ferinità “pura” – non causata, non legittimabile. Che solo lo scontro con la forza altrettanto scellerata dei carabinieri, della carcerazione a oltranza, del pentitismo, delimita se non doma. In cui non c’è mai piacere né accumulo, se non nelle forme dell’odio e della violenza – della stupidità
La mafia come una forma incontrollata delle bestialità è la migliore verità. O altrimenti è esercizio alla Borges, degli infiniti possibili.

leuzzi@antiit.eu

La “Pravda” a Firenze

Spopola Enrico Rossi, su “Repubblica”, sul “Corriere della sera”, facendo spostare 25 mila alberi, un bosco. Chi è Enrico Rossi? Il presidente della Toscana. E dove spopola? A Firenze, sulle cronache locali dei migliori giornali. Dopo avere licenziato l’assessore all’Ambiente, Annarita Bramerini, il pezzo migliore della sua giunta - che per antica disciplina di Partito tace. Ma coma fa a “spostare” un bosco? Forse a Firenze si dice spostare per tagliare: la “Pravda” non osava tanto ma nel post-sovietismo tutto è permesso. Rossi vuole tagliare il bosco per allargare il vecchio aeroporto di Peretola.
Attorno all’orrida conurbazione Firenze-Sesto San Giovanni, il cuore della speculazione “rossa” da tre decenni, coi tribunali e la già famosa università di Firenze affacciati sul traffico e la polvere, gli svincoli autostradali, la pista di Peretola, affollata quel tanto da puzzare, e un inceneritore appaltato, si è disegnato un Parco della Piana. Un Central Park fiorentino, lo chiama il sindaco Renzi, il rottamatore. Con riserve naturalistiche, stagni, ippovie, piste ciclabili, sentieri per il trekking, e il famoso bosco da spostare. Se ne parla, sempre nei migliori giornali, come se esistesse. Se potesse esistere.
Ora, Rossi non è Renzi, è anzi il suo nemico “interno”. Ma il business è lo stesso: vendere un’immagine falsa. Di una realtà talmente brutta, e probabilmente sporca, da soverchiare l’indignazione. Peretola è un aeroporto dentro la città. Dove un volo su due è dirottato, su Pisa o Bologna, al menomo alito di vento. Un’efficienza che non si dice. E ora si vuole raddoppiare.
Il lettore magari è andato a Firenze attratto dal gran parlare, sempre sui grandi giornali, del Maggio Musicale Fiorentino, che il maestro Zubin Mehta e il sindaco Renzi avrebbero ravvivato. Invece l’orchestra del Maggio è in sciopero, Renzi voleva dimezzarla col sostegno della Cgil, la Fondazione del maggio non ha un soldo, e lo stesso Renzi ha cancellato due concerti in piazza, qualora l’orchestra acconsentisse, per risparmiare.

Fisco, appalti, abusi - 5

A un anno e mezzo dalla liberalizzazione della luce e del gas, l’Autorità per l’energia apre un’indagine sul rincaro delle bollette nel mercato libero. Fino ad ora dormiva?

La liberalizzazione dell’energia si vantava a favore degli utenti, cioè in quest’ultima fase delle famiglie. Mentre il contrario è vero. Con la solita selva di tariffe indecifrabili, multiple o scaglionate, e sconti una tantum o a termine, l’esito, nel termine di pochi mesi, è sempre di rincaro. Con l’impossibilità, non giuridica ma a tutti gli effetti universale, di non poter rientrare nel servizio di maggior tutela, dove i prezzi sono fissati dall’Autorità.
La liberalizzazione è stata pensata per le aziende energetiche, per affrancarle dalle tariffe fissate dall’Autorità? È così nei fatti.

A una lamentela specifica su questo sito, il sevizio marketing di Sorgenia propone gentilmente la pronta rescissione del contratto giudicato oneroso. Ma non si può lasciare un operatore, bisogna che un altro subentri – non si fa a meno della luce o del gas. Operatore che è facile trovare per un’utenza a consumi elevati, meno per un’utenza a scarsi consumi. E qui subentra un secondo aspetto della falsa liberalizzazione: chi ha consumi elevati troverà (ipoteticamente) un contratto conveniente, per gli altri la liberalizzazione è solo un trucco per liberare il servizio di maggior tutela da forniture ritenute non vantaggiose: le seconde case, i singoli, i poveri.

La Corte dei Conti dice che a un’inchiesta un italiano su sei ha ricevuto richieste di mazzette. Tutti gli imprenditori?
Il 40 per cento del costo delle opere pubbliche è dovuto alle mazzette, dice ancora la Corte dei Conti. Solo il 40?

Perché dopo sette mesi di aspra lotta all’evasione fiscale le entrate diminuiscono – sono diminuite nel primo trimestre e sono annunciate in calo nel secondo? Perché c’è la recessione. Sì, ma perché la mobilitazione di Monti non ha attutito l’effetto recessivo sulle entrate? Perché l’evasione va con le leggi “intelligenti”, l’economia in nero (che si tollera dopo averla teorizzata: nel turismo e nell’edilizia è al 50 per cento, nell’agricoltura a poco meno), l’Iva troppo alta, e solo in minima parte con gli scontrini dei negozianti – l’1 per cento? diciamo il 5.

Si può dire questa l’estate in cui fummo sommersi dallo scontrino. Lo fanno pure gl ambulanti in spiaggia. Con beneficio per le cartiere e l’industria dell’immondizia, ma non per Befera, il suo teorico, e le Entrate.

mercoledì 27 giugno 2012

La Germania pone il veto

Il no a ogni altra soluzione che non sia quella tedesca, ribadito per tre giorni di seguito dalla cancelliera Merkel prima del vertice europeo di domani, è nella sostanza un veto. Non è mai successo nella storia dell’Europa. Un paese si era a volte isolato, la Gran Bretagna, ma nessuno era mai stato isolato, come ora la Grecia, spalle al muto. Soprattutto, nessuno si era mai arrogato il diritto di decidere per gli altri.
Negli ambienti comunitari si minimizza. La fiducia prevale che al vertice ci sarà un accordo. Una qualche forma d’intervento riequilibratore sui titoli di Stato sotto pressione, italiani e spagnoli. Il no di Angela Merkel, benché ribadito, e molto costoso per Italia e Spagna in tassi d’interesse, sarebbe a uso interno, per preparare l’opinione tedesca alle concessioni.
Ma non è questa l’opinione in Germania. E non è questo il modo di agire della cancelliera e dei suoi consiglieri. Mentre si sa che a Bruxelles si minimizza sempre, per spirito di corpo, e perché le burocrazie sono lente, e arrivano molto dopo i fatti.
L’unica concessione attesa dalla Merkel riguarda il fondo salva banche, o di garanzia (assicurazione). Proposto non a caso dal rappresentante tedesco nella giunta della Banca centrale europea. Il cui effetto sarà, in primo luogo, di riportare in sicurezza le Landesbanken tedesche, le banche statali – una serie di “cariplo”, grandi banche locali, del sottogoverno politico (la maggiore e la più esposta, quella bavarese, la seconda maggiore banca tedesca, è stata salvata da Unicredit cinque anni fa).
La tempistica degli interventi dissolutori di Angela Merkel sottolinea inoltre il carattere mercantilistico, cioè vetero-nazionalistico, delle politiche monetarie tedesche. All’indomani del voto europeista della Grecia e del mini-vertice di Roma, per annullare gli attesi effetti positivi di entrambi gli eventi. Non c’è un orizzonte di svilluppo comune europeo, lo stesso Monti l’avrebbe rilevato, sia pure scherzando: “Ormai riesco a parlare solo con Obama”.

Secondi pensieri - 105

zeulig

Duplicità – Franco Fortini resta famoso, contro i suoi meriti, per il finale di questo brano del 1962, poi raccolto nella “Verifica dei poteri: “Mi chiedo se non si debba cercare di preservare le residue capacità rivoluzionarie del linguaggio in una nuova estraniazione, diversa da quella brechtiana ma su quella orientata. Le poetiche dell' occulto e dell' ermetico potrebbero essere paradossalmente, e fra scoppi di risa, riabilitate. Farsi candidi come volpi e astuti come colombe. Confondere le piste, le identità. Avvelenare i pozzi”. Un’etica del nicodemismo, dunque. Ma la duplicità è fine a se stessa, se il coniglio si vuole leone, e il leone coniglio. La mimetica usa negli eserciti per la preparazione all’attacco.

Intellettuale – È l’Anticristo, per quanto modesto. L’Anticristo si presume ed è il benefattore dell’umanità, equanime, clemente, l’uomo della pace e della prosperità universali. Già san Paolo era infastidito dell’irenismo dei primi cristiani, e lanciò il famoso: “Siate fanciulli nel cuore, ma non nella mente”.
Ecumenico, come si presenta l’Anticristo. Che “abbraccia e mette d’accordo tutte le contraddizioni”, spiega Solov’ëv, “il nobile rispetto per le tradizioni e i simboli antichi con un vasto e audace radicalismo di esigenze e direttive sociali e politiche, una sconfinata libertà di pensiero con la più profonda comprensione di tutto ciò che è mistico, lo assoluto individualismo con un’ardente dedizione al bene comune, il più elevato idealismo in fatto di principi con la precisione e la vitalità delle decisioni pratiche”.

L’intellettuale, si sa, è dannato alla sterilità per l’ipocrisia che lo rode malgrado se stesso, anzi proprio per questo, per le sue buone intenzioni. Si crea mondi irreali per la voglia di filosofare, ma la buona disposizione è fatale che degradi a protervia. Il rovesciamento non è isolato, tutta la realtà partecipa dell’irrealtà. Quello dell’intellettuale è però voluto, nell’assurdo programma di conoscere tutto, sistematizzarlo, e perfino, con la forza del pensiero, cambiarlo.

Il gesuita è il prototipo dell’intellettuale, non solo in Thomas Mann (“La montagna magica”). Anche quando, più spesso, non pensa: la sua condizione la vive. A tu per tu col Cristo, di cui s’appropria per proteggerlo. Non si suda con loro.

Povertà – È “non mancare di nulla” secondo Heidegger, “Die Armut”. Che sembra bizzarro, e lo è. A meno di una concezione francescana del mondo, che l’Essere incontra (svela) nella Nudità o Povertà- in Heidegger è gioco di parole. La realizzazione di sé nella negazione o annientamento, la deiezione di sé. Non immorale: la ricchezza, anche distorta, sempre si conferma povera. Ma asociale e anzi antisociale.

Santità - È orgoglio. Anche nel santo povero, Francesco. Specialmente in lui. Dunque peccaminosa. Nel senso che vuole il noto midrash talmudico: “L’uomo è legato a Dio da un filo. Se per il suo peccato il filo si rompe, Eloïm prenderà allora i due pezzi che restano e li riattaccherà con un nodo. Il fio divenendo allora più corto, l’uomo si avvicinerà ancora di più a Eloïm”. Ma quale distanza è buona?

Saturno – Ancora in Platone, nelle “Leggi”, il mondo si muoveva alternativamente tra l’età dell’oro, la contemplazione che avvicina l’uomo agli dei, regno di Saturno, e l’età di Giove, di novità, idee, leggi, frutto di applicazione paziente e laboriosa. Il tempo contemporaneo è lavoro - l’Economica che Croce nobilita in Vitalità. Sta qui la stessa chiave laica di lettura della dissacrazione: chi non lavora è triste perché non pensa, non ha materia. Un tempo tutte le strade portavano a Dio, ora portano all’immagine di se stessi, e alla malinconia.

Scienza – “Occupatevi di quello che vedete, non avrete tempo per le cose segrete”, pare sia un motto di Dumas figlio. Ma non proprio superficiale. Si sapeva che la ricerca stessa è perturbante – muta lo stato dell’evento o della cosa. Della materia meno che delle scienze umane (l’autore è il suo critico, l’ermeneutica, eccetera). Ora uno studio della “Physical Review”, la rivista dell’American Physical Society, ripreso dal “New Scientist”, opera dei ricercatori italiani Viola Folli, Andrea Puglisi, Luca Leuzzi, Claudio Conti, mostra che questo può avvenire anche a caso: delle regolarità (nella fattispecie della luce, l’esperimento è di fotonica) si stabiliscono agitando a caso materiali diversi. Non è la soluzione del mistero dell’ordine figlio del caos, ma del fatto sì.

Stupidità – È la cattiveria, insondabile.
È come l’inefficienza, irrimediabile. Non slo imbattibile ma demolitrice.

Storia - Forse non c’è storia ma una serie di istanti eterni, come Yourcenar vuole. Anche se la storia non si cancella. Max Weber, Croce, Ortega y Gasset, Arendt, Camus, Sartre, Cioran, Trockij, Gramsci, Weil soffrono la separazione tra morale e storia, Marx e Popper no. Ma si può dire merda alla politica. Il sogno è questo, liberarsi dei padroni, per quanto affettuosi, e dei collari, benché pregiati.
Nell’antichità la morale privata era inseparabile dalla morale pubblica, da Omero a Marco Aurelio. L’etica era una, e si legava alla metafisica, ossia alla conoscenza e alla concezione del mondo. Cristo e la Chiesa hanno scisso le due esperienze. Si può avere voglia di tornare indietro e negare la storia, o la chiesa, erigere paletti, e altari alla dea ragione, dirsi società di uomini integri illuminati, ruminare il latinorum, rimpiangere il buon tempo antico quando gli uomini erano d’un pezzo. E può anche essere che storica sia pure la metafisica.

Ma la storia è un sapere e non una scienza, ha ragione l’insopportabile Schopenhauer, analizza e comprende solo il singolo, e mai conosce il singolo mediante il generale. Deve strisciare sul suolo dell’esperienza, mentre la scienza volteggia su di essa. La storia parla dell’individuo, e di ciò che è solo una volta, poi non più. Sa tutto quindi solo imperfettamente e a metà. Ecco in che consiste il vantato pragmatismo della storia: ci illude che in ogni momento avviene qualche cosa, direbbe Schopenhauer - lui sa cos’è illusione? Ma dice anche: “Noi conosciamo un’unica scienza, la scienza della storia. La storia può essere considerata da due lati, storia della natura e scienza degli uomini. Dovremo soffermarci sulla scienza degli uomini perché l’ideologia è o una concezione falsata di questa storia, oppure un’astrazione completa da essa!”.

zeulig@antiit.eu

martedì 26 giugno 2012

Letture - 100

letterautore

Complotto – Borges immagina (“Il romanzo giallo”) un lettore di gialli alle prese col “Don Chisciotte”: il tutto vi diventa enigmatico e insieme paradigmatico, nel senso della colpevolezza, ogni parola o situazione. A partire dal narratore che non vuole ricordarsi il nome di quel villaggio della Mancia: non sarà lui il colpevole? E più ancora, dice Borges, in ambiente ristretto, la stanza chiusa della “Rue Morgue”.
Il giallo del giallo è in questa chiave, dell’occhio “ingiallito”: per la decadenza, la debolezza.

Doppio - La letteratura esclude, dice Schlegel. Dalla realtà? Il doppio, c’è quello snob, alla Dorian Gray, alla Tonio Kröger, narcisi incipriati, o può essere pauroso alla Stevenson, o ragionativo, alla Jean Paul, o inquietante alla Borges, ma sempre è inefficace, un dottor Watson qualsiasi, la spalla di comodo al varietà.

Epigramma - L’epigrammista twitterizza
anagrammando all’impazzata:
quando il mezzo è il messaggio
mette la mente a disagio
sopraffatta dall’urgenza
e dall’ubiqua interferenza
dell’affollata utenza
che la piazza in rete affolla
di concorrenti in acutezza.

Intercettazioni - Fanno il modello e lo stile di scrittura della parte buona (informativa, di richiamo) del giornale: politica, cronaca, economia, sport. E, per chi ancora legge, di una parte cospicua della saggistica e della narrativa: la storia politica, la morale (la filosofia), la giustizia, il giallo (politico, economico, sociale, mafioso-noir, giudiziario-procedurale). Lo stile questurino.

Intellettuale – I letterati suoi simili, gli intellettuali dell’epoca, Chamfort diceva “simili agli asini che scalciano o s’azzuffano davanti a una mangiatoia vuota”. Nizan, il compagno di liceo di Sartre “Non ci sono che gli intellettuali per fare buoni poliziotti”.

L’egemonia di Gramsci è la Führerschaft di Max Weber. Brutto vezzo intellettuale, da cui Hitler derivò il Führerprinzip.

Il monaco di Gargantua era sempre indaffarato. Poi, nei collegi dei gesuiti, fucina dell’intellettuale, s’impiantò il disprezzo per artigiani, operai, contadini. Mentre Primo Levi assicura, avendo visto il peggio di tutto: “Amare il proprio lavoro costituisce la migliore approssimazione concreta della felicità sulla terra. La competenza è un’esperienza di libertà, la più accessibile e la più utile all’umanità”.

Se il letterato politico è il vero intellettuale, alla Zola, lo Zola di Heinrich Mann, allora letterato e intellettuale sono poca cosa, politicanti dilettanti. Di idee indigerite, per fini minuti che si magnificano ultimi, il posto, la recensione, il premio, l’egemonia di Platone. E serti d’ideali, rivoluzioni, resistenze, utopie, il mondo guardando dal baso – la politica è seria, la democrazia. Minutanti degli spacci della parola.
L’“impolitico” Thomas Mann che critica Heinrich e Zola ha ragione: l’intellettuale non sarà la “testa d’uovo” sterile del suo “fratello Hitler”, ma un politicante sì.

Anche quando fa parte di aristocrazie, anzi specie in questi casi, l’intellettuale finisce per rivangare luoghi comuni. Anche per “una certa mollezza di spirito e di cuore che egli contrae in mezzo al lungo e tranquillo uso di tanti beni”, dice Tocqueville confrontato dalla brusca democrazia Usa. Per cui “preferisce essere divertito piuttosto che scosso, vuol essere attratto ma non coinvolto”. Un groviglio, alla Epimenide cretese.
Thomas Mann è uno che quando ha ragione si arroga “un diritto d’infamia” intellettuale: “Odio la politica e la fede nella politica, perché essa fa l’uomo borioso, dottrinario, testardo, disumano”. Benché sappia che “la impoliticità è anch’essa politica”. È che “l’ironia come modestia, come scetticismo volto all’indietro, è una forma della morale, è etica personale, è «politica interna»”. L’intellettuale vi è senz’arte né parte, ohne Kunst ohne Gunst, potrebbe dire lo stesso Mann se parlasse maccheronico.

Hipster - C’è in Gregory Corso, figlio abbandonato alla nascita, dalla diciottenne madre beghina, che la strada fece inversa e se ne tornò in Italia, una definizione di hipster in rapporto a beat, il beato di Kerouac: hipster è terrestre, se non umano: “È amore e distacco, non voler essere ingannato, non ingannare”.

Kerouac – Derivava beat da beato, e lo voleva non bop, vecchio, agitato, ma cool, Lennie Tristano. Già visto. È stato il Jacques Querouaques della Vita agra, l’amabile I che ha cercato di maledirsi, e un altro Boris Vian, appassionato invece che ironico, e senza un Sartre che fa l’esistenza, col jazz notturno, le bevute, i me-lo-dico, gli anacoluti, i piccoli truffatori, le filosofie torrentizie dei poeti senza ispirazione, in Budda trasponendo Gesù, che i sodali ebrei non sopportano, ma sempre in croce, la frase frantumata adottando di Dostoevskij e i suoi cattivi che sono buoni, lo specchio scuro, del soggetto che si vede narrare, complice lo straniamento delle droghe, se da storditi si riesce a raccontarla, e le figure di Shakespeare – l’hobo autostoppista è un Amleto mistico e povero, che vaga tra sound e puttane.

È la forza dell’America. Che oblitera Pound. Eliot esilia a Londra. Joyce respinge alla dogana. Dopo aver sempre respinto caparbia Dante: nel 1860, quando fu infine tradotto, Harvard ne boicottò la pubblicazione, per essere il poeta indecoroso, medievale, scolastico, cattolico, e l’opera sconciamente una commedia. Ma i suoi autori, ladri, pugili, lavapiatti, sono iperletterati. Anche quando scrivono d’occasione, per il mercato, malinconici, quelli che ci hanno provato, Jack London, Hemingway, Melville, Plath, Sexton, e quelli che si negano nella droga, la misoginia, la misantropia, l’alcol, Poe, Dickinson, Henry James, Ginsberg, Kerouac. Sulla strada è ipercostruito, per riscritture evidenti, anche redazionali, forse per progetto: il mito della prosa spontanea si nutre con applicazione.

Traduzione – Il “Magazine Littéraire” di giugno, dedicato a Borges, vuole che lo scrittore argentino sbricioli “lo zoccolo su cui riposa la cultura occidentale: singolarità dell’autore, primato del testo originario”. Ma per costruirci sopra una singolarità e un primato più forti.

letterautore

Una famiglia

È estate, è l’una del pomeriggio, fa caldo, specie nell’angusta rosticceria di Rosolino Pilo, coi forni accesi. Due ragazzi in un angolo, con una lattina in due, si indicano l’avventore solo che ingurgita supplì. In giacca e cravatta. È un sabato, i romani sono al mare. È l’estate del 1968, dunque Giuseppe, che ora è morto di 69 anni, ne aveva 25. Ridono con la complicità dei fratelli, non è uno sfottò da adolescenti – Bernardo, il maggiore, che ha già due ottimi film all’attivo, è un coetaneo.
Bernardo ha lavorato anche lui con l’Ente, lo stesso che richiede questo sacrifico al week-end, il lavoro intellettuale si fa anche di sabato, sempre in giacca e cravatta, a “La via del petrolio”, dopo il famoso porco dei suoi sedici anni, partendo dal Golfo Persico e i monti Zagros fino alla raffineria a Ingolstadt. Dove ora Fassbinder vorrebbe ambientare “Pioniere in Ingolstadt”, un dramma del 1927, insidioso, benché ipotetico, il genera exempla: tratta l’effetto di un battaglione in città, tra le ragazze che civettano e restano incinte, non si sa di chi. Di autrice amata in Baviera, Marieluise Flaisseri, “il più bel seno della Mitteleuropa”, di cui Brecht beneficiò introducendola a Berlino. A Ingolstadt, che è oggi città petrolchimica, Stendhal dormì vestito, fra tre-quattromila feriti, rimuginando di farsi la locandiera, benché attempata, “niente di speciale”, con la morte gli tirava, ma non ne ebbe il tempo – lui non ha mai il tempo, solo di fantasticare. Ma del petrolio non si dice per il sospetto di favoritismo, essendo il padre Attilio il committente per conto dell’Ente. O perché il petrolio puzza. Non ha visto del resto Bernardo nel Golfo l’enfasi nella semplicità, i gesti lenti, l’eloquio piano, la storia trimillenaria, né negli altri posti che ha attraversato, forse per andare veloce.

Ubaldo, giornalista che “Il Giorno” delega a seguire l’Ente, ne è familiare per ragioni tribali, e anzi un po’ famulo, non è sicuro di esserne ricambiato, i patti agrari erano gonfi di doveri reciproci, la civiltà borghese invece dissecca. Ne parla con malcelata distrazione. Anche lui ha partecipato al film dello scannamento del porco Ne parla ma non volentieri. Di Attilio ha rispetto, come padre, sarà stato lui a introdurlo al “Giorno”, benché il giornale sia pieno di parmigiani. È del resto per Stalin contro gli americani che impongono le bombe, la droga, la mafia, e lo vorrebbe risuscitato in piazza San Pietro, a insegnare la religione, insieme col papa, alla gioventù loffia del movimento.
Ubaldo, la Quarantottesima, è stato veramente in montagna. Ma non ne ha ricordi. Non grati. Da raccontare ha solo il maggiore Stevens, che appariva la notte teatrale nel mantello, dopo i lanci, per dividere le armi, le radio e i soldi, e la voglia d’amare delle donne:
- Più di tutto le eccita il pericolo che l’uomo corre – dice con l’occhio lucido. Vive a Roma del resto solo, la moglie sola a casa.

Anche il signor Mario, il barbiere sottocasa che si diletta di letture storiche, è guardingo:
- Né buongiorno né buonasera. – Ma non ce l’ha con i ragazzi, piuttosto con Pasolini (di Attilio non sa nulla, si conoscono solo le facce da cinema): - Veniva a bottega. Ma poteva aspettare un’ora, non una parola. Sembrava che non guardasse nemmeno.
Ubaldo anche fisicamente è diverso dai suoi patroni: piccolo, minuto, baffuto. E non ha gli studi, così dice, forse per malinteso hemingwaysmo. Scrittore, pure lui, ma di cose vissute. Il naso a patata, le gote sanguigne. Terragno, gallo celta. Senza il mito di Maria Luigia, la quale dev’essere a Parma un contrassegno.

È venuto Attilio, collaboratore dell’Ente alle origini, di cui cu-rava l’apprezzata rivista aziendale, per preparare un viaggio in Iran. Nel paese profondo, dice, non le solite Teheran, Isfahan, Shiraz, ne ha ansioso bisogno. È giusto, buona idea, un paese antico va vissuto nella sua polvere, la pietra, gli alberi invecchiati, la gente millenaria nelle pieghe della terra. Vuole andarci in macchina, via Turchia, facendo tutti i passi:
- In Anatolia risalire l’Eufrate fino alle sorgenti. – Anche questa è un’ottima idea, perché no. Fino a Erzerum sotto l’Ararat, e al lago Van, sul crinale proseguire, Bazargan, Tabriz, fino a Mashad, al deserto con l’Afghanistan. Lo fanno i giovani in autobus da Vienna: - Per trenta dollari. – Lui lo sa, l’occhio gli brilla. Lo facevano le virago degli anni Trenta intrepide, per fumare forte e farsi, se mai la voglia le penetrava, una carezza. Ma il poeta non fuma, ha solo voglia di cieli trasparenti: - Si può fare una deviazione a Jerevan, – ha un altro lampo, chino sulla cartina, - conosco l’addetto culturale sovietico. – Pure lui. Samochvalov è il nome, e a lui è grato: - Grande pittore, quando il comunismo aveva un Majakovskij. - Parla monocorde, basso, mangiandosi le parole, guardando nel vuoto, ma è sempre come lo dice Fortini: “Bertolucci divaga e il suo zirlo\ è quello gentile del grillo”, nel corpo massiccio.
È solo e si vede, benché si fatichi a capirlo, d’un uomo che è stato in mezzo alla migliore cultura degli ultimi venti o trent’anni, ne è stato in tanti modi anzi il demiurgo, acuto, generoso, Gadda, D’Arzo, Bassani, Pasolini, i figli. E affettuoso, si legge nelle poesie, la sua famiglia include e non esclude. Si rimedia allo sconcerto parlando molto. Di Pasolini che prese casa sotto di lui, nome che però lo sorprende, ne riflette parlando:
- Il destino a volte è personale. Dramma o commedia che sia – pausa. – L’impegno può corrompere. Eliot fu impegnato, e non l’apprezziamo. Pound. - Che Cristina Campo vide a Roma nel 1967 “dopo un folle sciopero della fame per divergenze familiari a Brünnenburg, presso un incredibile Colonnello, ex massone, ex fascista, ex spia nel Medio Oriente, ora igienista e letteratoide, calato di 20 chili e del tutto disidratato: è una larva stupenda dagli occhi di diamante”. I poeti si consumano.
Solo il viaggio lo riscuote. E allora non c’è problema, quando vorrà partire avrà tutti i mezzi a disposizione. Pure in Turchia, l’Ente non vi è presente ma qualcuno che l’attraversa si trova sempre. Con partenza da Atene, sicuro: in aereo fino a Atene, poi col fuoristrada. Potrebbe scriverne per la rivista aziendale? Senz’altro: la rivista non si fa più da quando lui l’ha lasciata, non c’è più genio, ma va risuscitata, è l’occasione per farlo. Conviene però rimandare, a dopo l’inverno. Il motivo è ragionevole e se ne va fiducioso, benché all’erta. La moglie ha telefonato prima per concordare. E ha assistito al colloquio, senza interloquire. Sarà la durezza di essere solo in famiglia. Si è veduto un paio di stagioni solo per le strade del quartiere, incupito sotto il cappello largo, per la passeggiata nervosa che qualche strizzacervelli gli avrà imposto, o alla Posta, dove grugnisce e guarda indispettito. Solo con quelli che hai amorosamente curato e che pure ti somigliano, ma per i quali non esisti, sarà il destino di tutti i padri. Per i quali è più interessante evidentemente un qualsiasi altro poeta, anche un narratore vacuo, meglio un qualsiasi altro consulente editoriale, o produttore senza soldi, per passarci il tempo e confidarsi. Si dice dei padri che si realizzano nei figli, ma chissà. C’è in Spinoza, l’amor Dei che non si ricambia: non c’è scambio per l’amorosa misura, ancorché saggia, produttiva. Un destriero sembra di tempi remoti, che alla fine di una impetuosa cavalcata si trovasse in nessun posto, massiccio e curvo.

Giuseppe sarà stato l’onesto regista, volenteroso. Bernardo è il genio. Delle grandi masse alla Cecil B.De Mille. E della coppia, al modo di Moravia, che il padre non ama e forse non apprezza. È così che ha portato la rivoluzione al Lincoln Center, al party della United Artists, produttrice di “Novecento”, intonando l’Internazionale. Dopo l’impossibile coppia di “Ultimo tango”. Il fascismo sempre magnificando, anche lui, come Cavani, Wertmuller, e da ultimo Pasolini. Anche Bernardo vede monumentale il fascismo, con donne apache in stivali maschili, mentre era popolato di falsi invalidi.
Attilio lo ha seguito dappertutto, a Parigi e a ogni altra prima, trepido, orgoglioso. Che ora gira per il quartiere arcigno, irritabile, ma è stato di ironia lieve. E mesta, sul filo del sentimentale, come la rimembranza. Presto, e poi per metà abbondante della sua vita, padre sorridente e malinconico del genio, Bernardo. Ha seguito Bernardo, Giuseppe no. Che forse non ha nemmeno prime memorabili cui convitare il babbo. E di lui sa molto, versi e storie. Mentre Bernardo, richiesto da Pivot, con insistenza benevola, per movimentare il suo incontro con Attilio, francesista emerito, no. Non ricordava neppure un verso.

lunedì 25 giugno 2012

La clamorosa assenza in Assisi di Povertà

Cacciari giunge, nel suo inquieto percorso, all’inno religioso. Un percorso allo specchio, in quanto Dante, “profeta laico, passato attraverso il confronto con l’aristotelismo radicale, l’agone politico, il più crudo disincanto, che alla fine trova nel quadro di un’escatologia religiosa nuova promessa, nuova forza di sperare”? Seppure ben presente a se stesso, alla “coscienza del reale”. Il doppio ritratto del titolo c’è, ma per dire che Dante nella “Commedia” e Giotto ad Assisi hanno tradito, uno meno l’altro più, il messaggio di Francesco: l’apoteosi della povertà, e anche l’immedesimazione nella natura, gli uccelli, l’acqua, il sole. La “figura viva della santità francescana”, humilitas, oboedientia, paupertas, hilaritas, di cui il saggio è la rivendicazione.
La genialità, dopo l’afflato, non difetta, benché sempre aggrovigliata. Nella restituzione poliedrica di Giotto, da tempo trascurato, giovane e affermato pittore, che studia da architetto e poeta. E nell’identificazione della Povertà di Francesco come affermazione del Regno. La Povertà come “energia agente: la forza che va all’amato, che scopre il volto nuovo dell’ente come dell’impossibile e indistruttibile”. La spoliazione come “kenosi divina”, l’autolimitazione luterana della divinità, e per questo tramite “l’aspetto femminile, materno, di questa santità, che il misticismo francescano esalta continuamente”. In un lampo proiettata sull’attualità: Rilke del “Libro delle ore”, Lukáks giovane, “Sulla povertà di spirito”, Heidegger, “Die Armut”, la povertà, a margine dei seminari su Hölderlin. E Nietzsche – poteva mancare? Nella figura del “mendicante volontario” che Zarathustra incontra dopo essersi “liberato” di Dio.
Massimo Cacciari, Doppio ritratto. San Francesco in Dante e Giotto, Adelphi, pp. 86 € 7

Irrompe la malacreanza nello stagno del Millennio

Comincia come un gioco di parole sulla “creanza”, che al Sud è il resto del pasto – da finire secondo l’autore, da lasciare secondo altre tradizioni, per la servitù (crianza in castigliano) e per non mostrarsi affamati. Sovrimposto alla disattenzione verso i bambini, con l’intercalare ricorrente “che stai facendo?”, una sorta di logo. Comincia come un gioco di bambini, che però ne saranno le vittime - l’horror fa più senso quando tocca i bambini, ma qui non se ne abusa. La storia è di deiezioni: sangue, sperma, merda, le violenze del turismo sessuale, gomme rimasticate, vomito, diarrea, fogne, ratti. Di incapacitazioni: lingue tagliate, arti asportati o fracassati, cornee ablase. E di abbandoni. Continui, costanti: i figli delle madri, le madri dei figli, gli amici degli amici.
Un libro importante, premio Calvino per l’inedito, candidato allo Strega e al Viareggio. Con l’irruenza dell’opera prima (che Calvino redattore sconsigliava ai suoi autori: “Lasciati qualcosa per il secondo libro”), rischiando cioè il catalogo freddo delle turpitudini. Una voce sicuramente singolare nella letteratura stagnante del Millennio. Cinque o sei racconti, di bambini del “profondo Sud”, di bambini vittime di pistoleros, forse in Messico forse in Brasile, o prostituiti al turismo sessuale, o di strada, e di olvidados all’Est, si dipanano intersecandosi in 45 episodi. Che i giurati del Calvino, Barilli, Carlotto, Geda, Mazzucco e Vasta, così sintetizzano nella motivazione del premio: “La temeraria impresa di narrare l’infanzia delle periferie del mondo globale, da Napoli al Brasile ai Paesi dell’Est”. L’andamento è favolistico. I personaggi si metamorfizzano, in una sorta di ragnatela di bave. L’impianto è da fratelli Grimm aggiornato, con qualche durezza in più: la serialità degli episodi, ossessiva, senza mai una catarsi, una pausa. Un romanzo sociale forse, ma da decomposizione quasi esistenziale, da condizione umana, non Unicef. 
Greco ha finito per costruire un incubo prolungato, e una forma di letteratura del male. Notturna, chiusa, senza orizzonte. Mefitica, asfissiante. Di una violenza ribadita, anche troppo, e asintotica, da teatro della crudeltà artaudiano. Con una singolare esumazione dei linguaggi surrealisti. In un quadro espressivo invece espressionista, o post-mitteleuropeo, di dopo la caduta degli dei – Bernhard, Jelinek, Herta Müller, questi nomi vengono spontaneamente a galla, trasposti in ambiente esotico, come già con I.Bachmann, o Ransmayr. Una letteratura, si direbbe, dei rifiuti, di fronte alla quale è difficile reprimere il rifiuto. Ma al fondo frenata, pur nell’oltraggio: permane l’innocenza sia pure perversa dell’infante, nel fantasticare sregolato, prima del mondo quale è o della maniera, che la “creanza” e il “che stai facendo?” ripropongono, innocui benché (perché) ripetitivi. 
La deiezione non vuole stomaci forti, seppure addestrati e opportunamente caricati: non vuole stomaci – non vuole pietà: o si fa di testa, o sennò si vomita prima. Per esempio bisogna aver perso una guerra prima, nella razza, nella famiglia e nell’onore. Aver perso la faccia. E soprattutto essere sterili, volerlo essere: niente figli veri a portata di mano. 
Giovanni Greco, Malacrianza, Nutrimenti, pp. 267 € 18

L’assedio alla politica

L’assalto a Napolitano rimette a nudo il vero senso della lotta feroce alla politica che la grande stampa e i suoi giudici conducono. In altre fattispecie è possibile rilevare, comunque impossibile contestare, ipotesi di reato: corruzione o concussione nella sanità e gli appalti, collusioni con le mafie, traffico di voti e raccomandazioni. Anche se sostenute quasi sempre da soggetti giuridicamente infami: concorrenti falliti, killer di mafia, intercettazioni manipolate. Nel caso di Napolitano (come nel caso di Berlusconi, eh sì!) l’ipotesi delittuosa si configura altrimenti: sono all’opera frammenti di un unico, benché vecchio e sbriciolato, disegno, dei monconi ex Dc.
Gli ex Dc non si rassegnano. F orti dello stesso armamentario terrificante che affossò la stessa Dc insieme con la Repubblica. Compreso Ingroia, che fu il contestatore (e immobilizzatore) della Procura di Palermo quando essa fu governata da magistrati di provenienza Pci, Grasso come prima Caselli, e già con Caponnetto. Sostenuto da Lo Forte e Schiacchiano, che già tormentavano il povero Chinnici, e poi felicemente hanno coronato la loro carriera.
La geografia di Milano, della Procura di Milano, è analoga. Anche se ha avuto un forte presenza di ex Pci, fino all’espunzione di Colombo e D’Ambrosio.
Il tiro contro Napolitano mette a nudo un’altra debolezza: la subalternità del Pci. A un cursus nefas di cui si vuole volenteroso esecutore, ma che non controlla. E che ne limita il campo di manovra politica. Per esempio verso la galassia berlusconiana – di imprenditori, socialisti, garantisti, modernizzatori. Un partito politico, e un partito di sinistra, ha solo da perdere dal cosiddetto qualunquismo, dal costante, aggressivo, assedio alla stessa politica.
I punti di raccolta e condizionamento dell’opinione sono rivelatori. Sono i giornali di De Benedetti, che si vuole il “primo Democratico” ma di fede bianca. E la Rai, da sempre feudo (ex) Dc, non scalfito dai martelliani prima né poi dai veltroniani.

Morsi come Erdogan

Non hanno le stesse personalità, né le stesse incombenze istituzionali, ma toccherà al presidente islamico Morsi, una novità totale per l’Egitto moderno, muoversi nel sentiero già tracciato in Turchia, dopo quasi un secolo di laicismo, per l’islamico Erdogan: modernizzare l’islam, occidentalizzarlo. Nei due paesi più popolosi e di maggior peso nel Medio Oriente.
La prima prova per Morsi saranno gli accordi pace con Israele. Che dunque si farà confermare, nell’anonimato delle urne, da un plebiscito. Soluzione da tempo escogitata dal suo partito, i Fratelli Mussulmani, che hanno voglia di arricchirsi e non di fare guerre. La nomina a primo ministro di El Baradei sarà invece un’immediata manifestazione di buona volontà – di “pluralismo”. Ma, ammesso che El Baradei diventi primo ministro, lo sarà per poco. A meno che non si accontenti del ruolo di esecutore, che nella costituzione egiziana tocca al primo ministro nei confronti del presidente.
Il problema è che Morsi non è Erdogan, ma una seconda scelta. A un ruolo istituzionale accresciuto corrisponde una personalità più debole: è qui la maggiore differenza tra Morsi e Erdogan. Questi è capo del suo partito e sa orientarlo, componendone gli interessi in quelli più generali del paese. Morsi è debole politicamente e anche caratterialmente. È un sostituto del vero capo del partito, il miliardario Kheyrat El Shater, su cui i generali e gli altri milionari del post-nasserismo, dell’epoca mubarakiana, hanno posto il veto, e dovrà mediare.

La spending review fa quindici anni

Tanti anni, quindici, sono passati da quando una seria spending review fu fatta in Italia. La promosse Prodi, dopo aver vinto le elezioni nel 1996. E la affidò a Paolo Onofri, economista di Prometeia, il centro studi bolognese fondato da Andreatta e animato dallo stesso Prodi.
La ricerca di Onofri e dei suoi esperti aveva portato a conclusioni sorprendenti. L’Italia non spendeva – non spende - troppo per la spesa sociale, se non per le pensioni di anzianità. E anzi per la salute e la ricerca spendeva – spende – meno della media europea. E non spendeva – spende – nulla per la formazione. Che in un mercato del lavoro liberalizzato diventa la prima funzione di uno Stato.
Oggi come allora il vero cancro della finanza pubblica italiana sono la burocrazia inetta e gli appalti. Per le opere pubbliche e per i servizi. La “stella” di questa vera e propria corruzione era allora la sanità (si spendeva – si spende – poco ma male), oggi insidiata probabilmente dall’“economia verde”, soprattutto dalla produzione di energia. Per la burocrazia, sovradimensionata, inefficiente, costosa, intermini di salari e di efficienza del sistema, il rimedio avrebbe dovuto essere da una parte la delegificazione e la deburocratizzazione (chiamata sindacalismo), con l’assunzione del principio di responsabilità a ogni livello, e dall’altra procedure più moderne, snelle, efficaci.

domenica 24 giugno 2012

Come ci siamo impoveriti

Si dice crisi di liquidità ma significa che non ci sono più soldi. Non come prima. Non abbastanza per far marciare l’economia. E questo è un fatto, ognuno lo sperimenta. C’è dunque la crisi dell’economia, che il governo sottovaluta, tutto impegnato a un’assurda “cura” di aggravi fiscali – una terapia assassina per un paziente già debilitato. Ma quanto è grave la crisi dell’Italia? Basta leggere alcuni dati semplici, che purtroppo non si comunicano.
L’ultima notizia, giovedì, è stata che nel 2011 il prodotto interno lordo (pil) per abitante in Italia, espresso in potere d’acquisto, era inferiore alla media euro, pigs quindi inclusi: 101 per cento rispetto al 108 per cento dei 17 dell’euro - contro un valore di riferimento fatto pari a 100 per l’insieme dei 27 della Ue, quindi solo lievemente meglio mettendo nel conto Romania, Bulgaria eccetera. In passato l’Italia era al di sopra della media Ue, ma dal 2008 le cose vanno male.
Nel 2008 l’economia registrò il record storico del pil, valutato a prezzi correnti dall’Istat in 1.568 miliardi di euro. L’anno successivo il pil scese a 1.520 miliardi. Nel 2010 risalì, ma sotto il valore del 2008, a 1.549 miliardi. Nel 2011 forse è tornato sopra il valore del 2008, a 1.580 miliardi - il dato è da “assestare”. Quest’anno il pil scenderà di nuovo verso i 1.500 miliardi.
In termini pro capite la riduzione del pil, e quindi del reddito disponibile, è ancora più consistente, essendo la popolazione aumentata, seppure di poco. L’Istat l’ha calcolato nel 2008 in 26 mila euro, in standard di potere d’acquisto, o in termini reali, mentre per il 2011 lo calcola in 24.500 euro.

Il mondo com'è - 99

astofo

Fratello Hitler 2 – Una tesi vuole che Hitler non sia stato ucciso, malgrado una serie di attentati bene organizzati, per non dargli l’aureola del martire, ed evitare un nuova psicosi della “pugnalata alle spalle”, della Germania invincibile sconfitta solo perché tradita. Tesi storicamente arrischiata, ma politicamente non inconsistente.

I dirigenti e padroni ebrei di banche, quindici su ventuno grandi banche tedesche, e la banca Schröder di New York aiutarono Schacht a consolidare Hitler, confortati da Warburg e Wassermann, che erano sionisti e membri del consiglio della Reichsbank.

L’appeasement è un fatto politico di cui si sottovaluta storicamente la rilevanza. A Monaco nel 1938 la preoccupazione era di tenere fuori Stalin dal concerto europeo. «Giacobiti alla corte di Francia», traditori: così furono bollati a Londra quanti prospettavano a Chamberlain il rove-sciamento di Hitler. Dopo l’invasione della Cecoslovacchia Londra e Parigi lasciarono passare sei mesi prima d’inviare a Mosca una delegazione di funzionari, che provarono a perdersi per strada. Concordavano col genero di Mussolini, Ciano: la storia e l’ideologia volevano Mosca nemica di Berlino. Hitler ci mandò invece Ribbentrop, con l’aereo più veloce.
Furio Jesi censiva ne “La cultura di destra” oltre la metà di volontari stranieri nel 1944 tra i 940 mila effettivi delle Waffen SS, le SS combattenti.

Golpe – Quello classico-contemporaneo si può dire quello di Scalfaro contro Berlusconi nel 1994. Con l’avviso di garanzia fatto abborracciare in fretta a Borrelli alla Procura di Milano, e fatto comunicare all’allora presidente del consiglio, alla vigilia del vertice Onu di Napoli sulla criminalità, tramite Paolo Mieli e il “Corriere della sera”. Il golpe contemporaneo si fa in dolce, soprattutto con la disinformazione, sotto forma di controinformazione, e in tempi sgranati. Come se fosse un’evoluzione politica e non un colpo di mano. Col consenso preventivo e compiacente degli apparati giudiziari e mediatici.
Il precedente - il fondamento - è il caso turco, del laicismo imposto a una nazione islamica in dolce, con mano ferma ma con poche forzature. Come se fosse un’evoluzione della democrazia. Semrpe attraverso il controllo della giustizia e dei media. Il discrimine si ha negli esiti della “primavera araba”: dove la reazione è stata violenta (Egitto di Mubarak, Libia, Siria), è finita male, dove è stata compiacente (Tunisia, forse l’Egitto dello Stato maggiore oggi), ha “sovvertito la sovversione”.

In affari è pratica corrente, e si vuole dichiarato. Bertrand Russell, nella “Storia delle idee del secolo XIX”, sceneggia alcuni tycoon americani poi diventati monopolisti che avevano cominciato menando letteralmente le mani, con squadracce e colpi bassi – specie di mafie scoperte. È il caso a Milano sempre del “Corriere della sera”, ora di Ferruccio de Bortoli, che, sempre in combutta con la Procura, ora nella persona di Bruti Liberati, inviano l’avviso di reato a Formigoni in anteprima. Questo avviso di reato, per quanto sempre a mezzo “Corriere della sera”, è di natura diversa da quello del 1994, affaristica. Si tratta di sovvertire la sanità lombarda, che paga le convenzioni più basse, in favore dell’azionista principale del giornale, Rotelli, e del loro patrono Bazoli – patrono di entrambi, il giornale e l’azionista. Eliminando gli ostacoli politici e i concorrenti: Formigoni e la Fondazione Maugeri vengono dopo la don Verzé, silurata attraverso Gotti Tedeschi.

Prussia – È molto spagnola, secondo Spengler. Gli spagnoli sarebbe stati anzi i migliori tedeschi, specie i gesuiti. Il prussiano come lo spagnolo “è soldato o prete”, attesta Spengler, al presente, nel 1919 in Prussianesimo. E: “Bismarck fu l’ultimo uomo di Stato di stile spagnolo… L’antico stile prussiano è affine all’antico stile spagnolo”. La materia non difetta, dai visigoti al gotico, e chissà quanti spagnoli la pensano allo stesso modo, che in Germania sono emigrati.

Riforme - Fumista idealista
Intervista il giornalista
Sapiente polemista
Il farmacista minimalista
E l’artista avanguardista
Che il monopolista moralista
Vogliono socialista
O anche il Monti rigorista

Sandro Viola – In morte di un amico si vorrebbero sempre dire cose belle, trattenuti poi dal pensiero che tanto è inutile. E invece in morte di Sandro è gratificante dirsi che l’intelligenza esiste, e l’onestà intellettuale. Anche se è necessario mascherarle di snobismo. Non sempre, perché a volte è necessario usare i propri buoni argomenti, non negare o camuffare la migliore capacità di giudizio, per formazione oltre che per dote naturale. È così che, benché legato a Scalfari dalla reverenza dei fratelli minori, Sandro recalcitrò anche con veemenza alla riduzione di “Repubblica” a bollettino democratico(cristiano), con l’incredibile reverenza a De Mita e Andreotti e ai loro epigoni.
Fu nel lavoro l’inviato speciale di politica internazionale più veridico del giornalismo italiano. Intanto, perché “parlava le lingue”. Poi perché sapeva interloquire con cancellerie e ambasciate: capiva. E perché leggeva. La politica internazionale si dice sempre un settore debole dei giornali, ma perché pochi parlano le lingue, quasi nessuno capisce il linguaggio diplomatico, nessuno legge.
Fece cadere tacendo le insinuazione del torbido affare Mitrokhin, che lo voleva spia dell’Urss: non amava giustamente le spie, anche sedicenti. “Il cardinale e il generale”, Glemp e Jaruszelski, 1982, la sintesi delle sue cronache del “golpe” polacco, si rilegge come un capolavoro. Benché susciti tuttora scandalo, a quasi un quarto di secolo della caduta del sovietismo, perché la realpolitik non deve esistere per le sacrestie – scandalizza le sacrestie laiche: non ammetteranno mai che il sovietismo è crollato sotto i colpi del papa polacco e della sua chiesa. Si avvicinò con umiltà al Terzo mondo, soprattutto al mondo arabo-islamico, chiedendo lumi e consiglio, e seppe valutarlo fuori dal romanticismo dei vecchi inviati, alla Igor Man o alla Bernardo Valli.

Spionaggio – È la parola più che il fatto – a parte i rari casi di trafugamento di calcoli e procedure per l’armamento nucleare (più immaginati peraltro che reali, con l’eccezione di Pontecorvo, che però si sopravvaluta come scienziato, mentre Oppenheimer fu probabilmente un doppio agente americano). Tipico il caso britannico, di tanti prim’attori che si accreditano spie: Graham Greene o Le Carrè, perfino Wittgenstein e forse Sraffa, e compresi i transfughi Philby, MacLean, Burgess e Blunt.
Sedate le polveri dell’affare Mitrokhin, c’è solo da ridere alle spie italiane che i russi censivano. Gozzano e Lizzadri all’“Avanti!” non erano in grado di rivelare alcunché. E i giornalisti che frequentavano cancellerie e ambasciate, come appunto Sandro Viola, avevano in spregio lo spionaggio.
Per esperienza diretta, avendo lavorato all’ufficio stampa dell’Eni in anni delicati, dal 1968 al 1975, i corrispondenti sovietici della Tass, che si sapevano essere tutti colonnelli in borghese, non lo nascondevano: erano impacciati, non cercavano confidenze, se invitati avevano cura più che altro di non bere, e non potevano a loro volta convitare mai nessuno. Avevano anche vincoli di polizia a spostarsi da Roma, per una manifestazione a Venezia o a Taormina. Diverso il caso dei cinesi, quando fu possibile “scoprire” la Cina nel 1973 grazie a Kissinger: sia all’ambasciata che alla Shinuà si chiacchierava e si beveva incontinenti. Il compagno Wang Yen-Lin, il primo corrispondente della Shinuà a Roma, era ubiquo in tutta Italia, per convegni e incontri occasionali, tifava Fanfani contro il Pci, e Strauss contro l’eurocomunismo, fumando come un turco, aveva il portafoglio pieno, e impose coi suoi inviti a cena un facsimile di vera cucina cinese, ai primi connazionali – allora Roma non era multietnica – che smerciavano surgelati al microonde.

astolfo@antiit.eu

Quando giudicano le zoccole

Tradotto, senza malizia?, in linea con la nuova rappresentazione del mondo, in cui le cortigiane tengono la scena e fanno la morale e la giustizia. Un libro del 1994, gradevole, di uno specialista della fine della Belle Époque e degli “anni folli” a Parigi, specie di Natalie Barney, “l’amazzone”, la ricca letterata americana che accudì in vecchiaia, quasi centenaria, e della sua corte di donne apache. Nonché delle cortigiane che, come Liane, non ne disdegnavano le carezze, se serviva alla carriera.
Liane de Pougy, che morirà a fine 1950, di 82 anni, finì beghina, terziaria domenicana, prigioniera della vocazione moralista – di cui però non si conoscono lamentele tra i protettori. In precedenza era stata sposa a sedici anni, stella delle Folies Bergéres, mantenuta celebre nel mondo intero, concorrente di Cléo de Mérode, ballerina questa dell’Opéra, infine principessa rumena. Dal primo matrimonio aveva avuto anche un figlio, Marco, abbandonato col marito: Marco, aviatore, cadrà in guerra nel 1916, e sarà allora molto pianto. Cléo farà causa a Simone de Beauvoir per averla iscritta, nel “Secondo sesso”, tra le cortigiane di lusso. Liane scrisse, con negri compiacenti, invece molto, riclassificandosi lei stessa donna di lettere, autrice di romanzi, “L’insaisissable”, “La mauvaise part” e “Myrrhille”. Il libro di memorie “Mes cahiers bleus” è una divertente galleria, sapendo su che fondo i personaggi si muovono, dei migliori artisti e letterati dei suoi anni: D’Annunzio, Colette, Cocteau, i Guitry, Sachs, Rostand, Rouveyre, Auric, Max Jacob, Lorrain, Reynaldo Hahn, Rémy de Gourmont, Salomon Reinach – che paragonava Liane scrittrice al “miglior Casanova”.
La “cosa” Liane menziona solo indirettamente, facendo apparire di qua e di là una “lionne”, con aria diminutiva. Anche in “Idylle sapphique”, la sua “opera” più nota, non è questione tanto della “cosa”, lasciata supporre col titolo, quanto delle partecipanti, Natalie Barney, Renée Vivien e altre letterate del bel mondo parigino. Chalon non ha di queste reticenze.
Jean Chalon, Liane de Pougy. Cortigiana, principessa e santa, Nutrimenti, pp. 335 € 19