Cerca nel blog

domenica 23 dicembre 2007

Bugie e omissioni

Si vara la Finanziaria, dopo tre mesi di annunci, e quali sono le novità?
“Visco: presto l’Irpef leggera”, apre “Il Sole 24 Ore”. “Repubblica” apre anch’essa con Visco ma va molto più in là: “A gennaio sgravi sui salari fino a 40 mila euro l’anno”. Il “Corriere” invece tace, per pudore, o per non essere nella manica di Visco.
L’Ici si riduce sulla prima casa, è l’unica notizia certa e concorde. Ma si tace che il risparmio medio sarà di cinquanta euro. E che oltre la metà dei Comuni hanno già aumentato le aliquote, mentre un Comune su tre ha avviato la revisione dei coefficienti catastali, a carico del contribuente, retroattiva di cinque anni.
Si portano in detrazione gli affitti, fino a un massimo di 300 e di 150 euro, in dipendenza dal reddito. Ma con procedure tali che bisognerà fare ricorso al fiscalista, che costa altrettanto, se non di più.
Il pubblico impiego fa 70 mila assunzioni, 50 mila per turnover e 19 mila in deroga al blocco. Così dettaglia “Il Sole 24 Ore”. Le assunzioni erano 200 mila sullo stesso giornale un mese e mezzo fa. L’anno scorso la Finanziaria stabiliva 200 mila stabilizzazioni nel pubblico impiego, non ne è stata fatta nessuna.
I fondi per la ricerca scientifica previsti inizialmente dalla Finanziaria, insufficienti e inferiori al 2007, sono stati dirottati a copertura delle maggiori spese per gli italiani all’estero, rappresentati dai due senatori che tengono in vita la maggioranza, e degli oneri per l’accordo con gli autotrasportatori.
Non sono previsti fondi per i contratti, scaduti o in scadenza, del pubblico impiego.
Non sono previsti in nessuna forma, neppure ipotetica, fondi per migliorare il reddito disponibile dei salari, pubblici e privati, che a questo punto è fra i più bassi in Europa, e delle rendite. Né fondio per migliorare la produttività (investimenti), che da alcuni anni è ferma.
Non sono le sole approssimazioni, bugie, omissioni, che si leggono sulla Finanziaria. Incuria? Troppa concordanza. Incapacità? Le redazioni economiche sono le più tecniche nei giornali. Piaggeria? Ma di tutte le novità tutti i cittadini sono più o meno correttamente informati, per capacità di giudizio, attraverso le associazioni di settore, per esperienza quotidiana.
Non si è ancora letta in Italia una ricostruzione del tesoretto, salvo avallare il piacere di pagare le tasse dello stesso Visco e di Padoa Schioppa... Eppure le cifre dell'amministrazione finanziaria sono semplici e precise. E tutti gli italiani sanno che hanno pagato tra 500 e 2.000 euro in più per bolli, tasse (la spazzatura, la Rai, la depurazione...), imposte di registro, contributi, procedure amministrative e giudiziarie, anticipi dell'Irpef regionale e comunale, e altri rivoli. Né si è letta una ricostruzione, che pure è negli atti parlamentari, dell'uso del tesoretto - e che sarebbe stata anche esilarante: i 27 miliardi sono stati spesi tra luglio e dicembre liberamente dai ministeri, fuori da ogni programazione e vincolo di bilancio, è bastato sottovalutare in Finanziaria le entrate, ed ecco le mani libere...
Non si è letto neppure un bel ritratto di Visco, che farebbe sfracelli. Si può prendere infatti Vincenzo Visco per un burlone. In più di un'occasione nella sua precedente esperienza di governio tre anni fa, nell'ebbrezza da ministro delle tasse, così egli interpreta il suo ruolo, che aveva portato i balzelli in tre anni al record storico, bloccando anche allora i consumi, gli investimenti e l'economia, si era compiaciuto in atteggiamenti da fratelli De Rege, quelli del "vieni fuori, cretino". Come quando volle far credere che gli Italiani lo imploravano in massa, via fax, d'imporre l'eurotassa.
I giornali sono dunque servi sciocchi? No, l'informazione è in Italia una piccola parte del potere, e i giornali si adattano, all'irrilevanza.

sabato 22 dicembre 2007

Prodi e Sarkozy si scambiano Az e Generali

Su Alitalia e Generali Prodi ha proceduto nei colloqui romani con Sarkozy a un simbolico scambio: i soci francesi rinunciano a crescere nel sistema Mediobanca-Generali, a Air France andrà quanto di buono ha ancora Alitalia (Fiumicino, la Roma-Milano e i collegamenti intercontinentali di Malpensa). La presidenza Bernheim a Trieste verrà lasciata alla deriva, verso un incarico onorifico, forse in Mediobanca, e il riassetto dei vertici di Generali in primavera - che dovrebbe portare a Trieste il presidente di Mediobanca Geronzi. Per Alitalia Prodi ha adottato la tecnica dello “smussamento attraverso il rinvio” che ha caratterizzato le tante scelte, benché complicate, della sua litigiosa maggioranza. Il patron di Intesa, Giovanni Bazoli, non insiste più su Air One, e Prodi ha solo il problema di ammansire i sindacati, ora schierati sulla “soluzione nazionale”, e non dare l’impressione di voler punire Malpensa.
Con le due partite Prodi ha chiuso, in appena un anno e mezzo, tutti i problemi aperti nel big business. Con un deciso spostamento della banca e dell’industria verso l’area ex Dc, ora confluita nel Partito Democratico. Da questo punto di vista il presidente del consiglio guarda confidente alle scaramucce politiche che agiteranno la ripresa dei lavori parlamentari a metà gennaio.

Bazoli non sostiene più Air One

Dopo l’abbandono di Lufthansa, il presidente di Intesa Giovanni Bazoli ha abbandonato il progetto Air One per Alitalia, ritenendolo troppo rischioso. L’ad Corrado Passera, che ha congegnato l’offerta Air One, si espone ancora personalmente in favore della soluzione nazionale, ma senza il sostegno del presidente e azionista Bazoli. Senza un grande vettore internazionale, Air One non ha l’expertise e la capacità organizzativa che sono necessari per tirare Alitalia fuori dalla crisi: il giudizio del presidente di Intesa è semplice. Lufthansa avrebbe potuto in particolare risolvere il nodo di Malpensa, cosa che è del tutto fuori delle possibilità di Air One. Passera insiste invece che è Alitalia in realtà che si salverà da se stessa. Grazie al forte aumento di capitale che non ha mai potuto avere da una quindicina d’anni a questa parte per essere a capitale pubblico. È su questa posizione che ha raccolto a suo sostegno i sindacati e buona parte della politica, compresi Berlusconi e Fini: Intesa farebbe quello che lo Stato non ha potuto fare, dare ad Az il capitale di cui ha bisogno, per rinnovare la flotta, migliorare il servizio, adottare tariffe competitive. Ma con Bazoli è come sempre Prodi.

Air France, senza scelta

A un certo punto del lungo consiglio venerdì gli amministratori di Alitalia si sono accorti che non avevano in realtà una scelta: dare l’ex compagnia nazionale a Air One, per quanto finanziariamente spalleggiata da Intesa, sarebbe stato come se la Fiat se la fosse presa Colaninno, giusto perché aveva dietro la politica. L’unanimità si è così formata senza resistenze attorno all’ad Maurizio Prato. Il tempo è stato preso per dettagliare la scelta di Air France. Per parare il prevedibile contrattacco politico. E soprattutto a futura memoria, contro le inevitabili inchieste giudiziarie sui ricorsi degli scontenti.
Af è l’unica possibilità per Alitalia di sopravvivere nell’immediato, con la ricapitalizzazione, il rinnovo della flotta, e la ristrutturazione. E' la scelta del personale viaggiante, piloti e di cabina, malgrado l'esubero anunciato di mille posti. Fra otto anni, quando scadrà il periodo di garanzia del marchio e della società, se Alitalia sarà tornata efficiente, allora una soluzione nazionale realistica si potrà configurare, con il riacquisto dell’azienda da Af. A Air France va anche l’Az Servizi, l’attività di manutenzione che per ora è parcheggiata presso la Fintecna, la finanziaria pubblica di provenienza di Prato. Ma previo scorporo e liquidazione\cessione di alcuni rami d’azienda.

venerdì 21 dicembre 2007

Troppe palle alzate, litiga il fronte anti-B.

Una palla, anzi “un pallone”, alzato a favore di Berlusconi, che a questo punto ha a tiro una serie di schiacciate micidiali. Soprattutto se bisogna votare, se l'offensiva cioè andrà avanti. Sono circolate ieri, e ancora di più stamani, parole dure a Milano contro la messa in onda della telefonata tra Berlusconi e Saccà. Il direttore della Rai ci fa una pessima figura, ma di lui non frega niente a nessuno, mentre Berlusconi giganteggia. Per Bazoli ha parlato Corrado Passera, creatura peraltro di Carlo De Benedetti, per il Gruppo Espresso la direzione generale, forse lo stesso Benedetto. Berlusconi tra l’altro ha spiazzato il fronte passando a sostenere Passera nella sua prova d’acquisto di Alitalia. Mentre il presidente Napolitano spiazzava Milano, ribadendo il suo interesse per un’intesa parlamentare sulle riforme, l’unico modo anche per mantenere in vita il governo e la legislatura.
Sarà durata appena due settimane l’offensiva anti-Berlusconi messa a punto nel week-end dell’Immacolata dai maggiori editori, De Benedetti e Bazoli, per scongiurare la grande coalizione con Veltroni e il Partito democratico. De Benedetti ha prontamente reagito tramite il suo avvocato Pisapia, che ha bollato la messa in onda della registrazione come “un reato gravissimo”. Ma l’incidente potrebbe avere ripercussioni, in quanto Milano non è più certa che De Benedetti non voglia metterli in difficoltà affondando il Pd di Veltroni.

Angelucci erede culturale di Geronzi a Roma

Il "banchiere" affabile, o discreto e generoso: portato da Geronzi e la Banca di Roma ai grandi affari, Giampaolo Angelucci assume la personalità del suo mentore e patrono sulla scena culturale romana, nella quale si presenta come suo erede. La contestazione all’“Unità”, ultima sua acquisizione, è destinata a rientrare di fronte alla nota ricetta: molti soldi e nessuna ingerenza. Così come è rientrata nel gruppo teatrale del Brancaccio, quando ha voluto sostituire Costanzo a Proietti. Ora resta in attesa del “Tempo”, se Bonifazi, dopo le tante ristrutturazioni, dovesse accorgersi che non sa fare l’editore.
Fra i nuovi imprenditori che Geronzi ha cercato di far crescere a Roma, Cragnotti, Sensi, Bonifazi, lo stesso Lotito, e i fratelli Toti, Angelucci figlio è il solo che dall'inizio è sembrato saper marciare sui suoi piedi. A parte il caso inimitabile di Gaetano Caltagirone. Come Geronzi, e a differenza dei nuovi imprenditori dell’editoria, i sardi Grauso e Zuncheddu, Giampaolo Angelucci si pone in posizione defilata: ogni giornale o istituzione confida a manager di orientamento omogeneo, Costanzo, la Marcucci, il direttore-editore Feltri. E sembra avere anch’egli mezzi illimitati. I giornali cui “ha dato una mano” hanno infatti tutti bisogno di soldi: “Libero”, “il Riformista” e ora “l’Unità”. Era questa la ricetta di Geronzi, farsi avanti nel momento del bisogno. Con la differenza, però, che Angelucci non ha una banca a disposizione.

Il Presidente sfiduciato dal "non governo"

Non sono stati i voti di fiducia a ripetizione a indispettire il presidente della Repubblica, ma la superficialità del governo da una parte e dall’altra il fatto che esso non abbia più maggioranza politica. Sullo sfondo, forse, la delusione per l’impossibilità di far decollare un dialogo politico almeno sulle riforme. La constatazione cioè, forse più amara per un presidente che era fuori dai giochi di potere, che l’agenda politica non è dettata dalla politica ma da interessi potenti, attraverso intercettazioni, indiscrezioni, insinuazioni, e si risolve nel “non governo”.
La superficialità il presidente addebita ad Amato e Padoa Schioppa, che pure sono le presenze che danno più immagine al governo: per l’incredibile decreto deportazione, e per l’improntitudine dei licenziamenti e della nomine. Senza contare che le dichiarazioni in Parlamento del ministro dell’Economia contro l’ex generale Speciale potrebbero rivoltarglisi contro in sede penale, esorbitando dall’autonomia del giudizio politico. Contro i ministri però nessuno può agire (se non si dimettono, contro di loro si può solo fare una crisi di governo). Mentre sulla maggioranza parlamentare del governo il presidente ha degli obblighi, sui quali Napolitano ritiene di non potere più transigere: manca l’autonomia politica in Senato, dove il governo va avanti con i sei senatori a vita, e manca l’unità di indirizzo su temi politici qualificanti, lo Stato sociale e la laicità dello Stato.

giovedì 20 dicembre 2007

Nemesi su Schädlich, delatore non pentito

È morto suicida tre giorni fa per essere stato abbandonato da una fiamma, dopo aver resistito quindici anni alla vergogna della denuncia come spia di Günter Grass e degli atri scrittori tedeschi dell’Ovest che visitavano l’Est, nonché a Est del suo proprio fratello, lo scrittore Hans Joachim, di quattro anni più giovane. Ma la fine di Karlheinz Schädlich è una sorta di nemesi: anche nei particolari finali rientra nella vera e propria tragedia antica che si è consumata tra le due Germania, dove la giustizia si fa alla cieca.
Schädlich è morto nella Danziger Strasse, la via di Danzica, la città di Grass. Dopo la riedizione dello studio storico che l’aveva reso famoso, “Appeaser”, sugli inglesi filohitleriani. Hans Joachim l’aveva immortalato inconsciamente in un romanzo del 1986, “Tallhover”, una figura di delatore condiscendente, benevolo, che aiutava gli scrittori a sopravvivere. Grass riprese il personaggio, anagrammandolo in Hoftaller, nel suo romanzone della riunificazione, “È una lunga storia”, pubblicato nel 1995 ma riferito agli eventi del 1990-91 (e anche prima: Grass descrive il ministero della Aeronautica anni 1930 basandosi su uno "storico inglese" che altri non è che David Irving, il negazionista, autore di ujna biografia di Goering...).
Dopo l’apertura nel 1992 degli archivi della Stasi, il servizio segreto della Germania Est, e la rivelazione che Schädlich ne era un confidente, a spese tra l’altro del fratello e di Grass, era rimasto isolato ma senza complessi di colpa. Come altri scrittori di maggiore statura, Christa Wolf, Anna Seghers, che avevano anch'esse collaborato. All’idea che lo Stato Operaio e Contadino, come lo chiama Grass, aveva una superiore moralità. Come il Reich di Hitler – il comunismo finito nel 1989 deve ancora farsi l’esame di coscienza.

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (11)

Giuseppe Leuzzi

Milano, capricciosa, incostante, frou-frou come si vuole, distrugge più che creare. Crea molto, distrugge moltissimo. Distrugge mentre crea. In tutt’e quattro i suoi settori portanti: l’opinione pubblica riduce a gossip, la gestione a chiacchiera sulla gestione, la moda (formazione del gusto) a immagine, la questione morale a sopruso. È formidabile, distrugge l’Italia. Non con l’ascia, svuotandola.

“Da Malpensa non si può partire prima delle 9 di mattina”, rivela il pdg di Air France, Spinetta. È tutto quello che c’era da sapere su Malpensa, lo scalo delle perdite. Ma l’omertà, che è durata trent’anni, continua impenetrabile.

Il “New York Times” dice l’Italia in crisi, tra le altre cose, per la mancanza di senso unitario. Ma questo è più vero del resto d’Europa: l’unità nazionale è in crisi in Spagna, Gran Bretagna, Belgio, non in Italia. Il patriottismo non s’indebolisce se i forti criticano i deboli, gli inglesi hanno criticato per secoli gli scozzesi, i catalani gli andalusi, i fiamminghi i valloni, è il loro modo di trarre profitto dall’unità. Il patriottismo finisce quando i deboli si sottraggono.

Hashem Thaci, come sessant’anni fa il bandito Giuliano in Sicilia, gli Stati Uniti sostengono a capo di un separatismo inventato nel Kossovo. Il separatismo rientra nella cultura americana della democrazia federale. Ma si fa – si inventa – all’estero tramite le mafie. Ora quella albanese. Durante l’occupazione attraverso quella siciliana e napoletana.
Negli Stati Uniti la grande politica sempre usa le mafie. La mafia irlandese fece comodo ai Kennedy, e dopo nella guerra civile. La mafia di Miami è stata usata contro Castro. La mafia cecena contro la Russia. Le mafie russe contro Putin. Ma prendendole dall’altro: pagandole e insieme imprigionandole, sbaragliandone gli affari. Senza mai un sospetto di connivenza, eccetto che nei romanzi di McEllroy.

Il vice-capo dell’antimafia Contrada condannato per mafia è sempre sembrato troppo. L’uomo nel suo destino ha qualcosa di Sofri, non solo perché si rifiuta di chiedere la grazia, che alla sua età dovrebbe essere automatica, ma soprattutto perché, malgrado il suo potere, era indifeso, a Roma si direbbe un fregnone. Non aveva “controcarte”, nessun potere di ricatto, e si è affidato alla giustizia. Ma un procuratore generale della Cassazione, nella fattispecie il dottore Antonello Muro, che lo dichiara colpevole “oltre ogni ragionevole dubbio” di “concorso esterno” effettivamente è troppo per essere vero. La giustizia avrà pure le sue regole, ma cos’è il “concorso esterno in associazione mafiosa”, senza altra imputazione? Passava per strada, ha preso un caffè allo stesso bar di un mafioso? Perché se gli passava un'informazione è un mafioso senza concorso. Il "concorso esterno" sarebbe ottima materia di cabaret, ma si tratta di mafia e di carcere.

La storia è che l’unità si fece – il Risorgimento fallì – per l’alleanza della borghesia del Nord col feudalesimo agrario del Sud. Non è vero: il Sud semplicemente si arrese all’idea. Questa e altre verità Bordiga spiegava in “Rassegna Comunista” del 30 settembre nel 1922, “I rapporti delle forze sociali e politiche in Italia”: “In realtà nel Sud d’Italia non esisteva un feudalesimo capace di opporre resistenza alla rivoluzione borghese. La classe dirigente meridionale, in cui la proprietà media prevaleva, si conciliò facilmente con le forme del regime parlamentare democratico, in cui subito inserì le forme embrionali della sua scialba attività sociale e politica, riducentesi ai contrasti di partiti e gruppi puramente locali. Come oggi non ha una lotta aperta di classe tra borghesia e proletariato, così il Mezzogiorno non ebbe un’aperta lotta tra feudalesimo e borghesia, e non dette al nuovo stato una eredità di coefficienti reazionari ma una materia plastica adattissima ad essere utilizzata dall’apparato di governo parlamentare, che largamente si propizia influenze col volgare favoritismo amministrativo”, poi detto sottogoverno.
Sudismi\sadismi. “Calabria Infelix - Ma non si sono ancora stufati i calabresi di essere calabresi? So esprimere solo in questo modo paradossale, di cui spero che nessuno si adonti, il mio stupore (credo condiviso da molti) per come una regione abitata da tante persone per bene possa, però, sopportare condizioni generali di vita sconosciute ai paesi civili. Un sistema sanitario ridicolmente inefficiente, costruito solo per le ruberie della classe politica e che serve solo a far morire la gente (l' ultimo caso l' altro giorno: otto ore di inutile attesa per trovare un posto ad un ragazzino in fin di vita); dappertutto, ma specie sulle coste, una situazione urbanistica raccapricciante, dove l' assenza delle fogne e dei depuratori è la regola; dappertutto il clientelismo come modello sociale a cui non si sfugge; dappertutto la corruzione pubblica, e in intere zone, per finire, il dominio incontrastato della malavita. Questa è la Calabria: quella vera. Chi ci abita, ripeto, come fa a sopportare questo stato di cose? (“Corriere della Sera” 3 novembre 2007, “Calendario” di Ernesto Galli della Loggia). Quaranta giorni dopo un bimbo calabrese di tre anni è morto a Pistoia, in ospedale, per effetto dell’operazione alle tonsille. Un’emorragia è intervenuta, e non c’era il medico all’ospedale. Ma naturalmente non c’è paragone, lo sdegno, di Galli della Loggia e del “Corriere”, e non solo, rimane intatto.
Il Grande Autore fa l’elogio del suo Grande Prefatore, Critico e Presentatore. Di cui il comune editore ha raccolto come strenna le Acute Presentazioni all’Autore. Tutto questo avviene in Sicilia. Ma ne fa la celebrazione - dell’Autore che celebra il Presentatore a una cerimonia dell’Editore - il milanesissimo “Sole 24 Ore”. Perfidia? Il Sud è colpa del Sud.
A Camilleri molto si deve, per avere raccontato Montalbano, la giustizia semplice, di buoni propositi, buona cucina, nuotate rinvigorenti e belle donne. E la Sicilia capricciosa, misantropa, generosa, solare, vivente insomma. Camilleri è consolante. Ma ha una strana concezione dell’impegno civile, compreso l’esibito comunismo. È sempre piatto fuori del siculo-italiano, e il tribalismo adotta a unica cifra, unico argomento. Ma sempre si compiace, senza pudore, e il comunismo riduce all’astioso augurio di pronta morte al suo editore milanese - in poesia, è vero.

Sciascia è ottimo scrittore, persuasivo. Ma usa in maniera errata la chiave del “diverso”, del “noi e loro”, e più per la sua sensibilità politica e l’abilità retorica. Questo nei tre quarti della sua opera, quella dichiaratamente politica. Tutto è negativo nella visione che egli ha della sicilianità, e questo non è possibile. Fa eccezione per la vecchia mafia, il vecchio fascismo, e magari le vecchie zolfare, e questo è ancora peggio.
L’eccessiva dilatazione del conclamato pessimismo è confermata e conformata dalla chiave positiva che egli sempre usa per le realtà a confronto, Milano o Parigi o la Spagna. Contraddicendo la presunta caratterialità del pessimismo, e tanto più per la sua pascaliana razionalità. È un colonizzato o un assimilato. Ottimo scrittore, ma uno introietta gioiosamente la propria “dipendenza”, la rinuncia cioè al diverso, a una parte cospicua di se stesso.

Contestando Manlio Sgalambro, che aveva dato l’“addio” a Sciascia (“Corriere della sera” dell’11 febbraio 2005), Manuel Vàsquez Montalbàn dà la vera ragione del “difetto” di Sciascia, alla passione civile di aver dato un ruolo monopolistico, riducendola peraltro alla mafia (“la Sicilia come metafora”). “In un mondo in cui tutto cospira per farci accettare una verità unica”, scrive Vàsquez Montalbàn, “un mercato unico e un esercito unico, la copertura ideologica che si sta costruendo al servizio di questa congiura è fatta su misura per la capacità di analisi e di smascheramento di Leonardo Sciascia”. È invece il contrario: è parte di essa. Se non della congiura, del servizio della congiura.
La capacità di rifiuto si esclude nel momento in cui si combatte sul terreno dell’avversario, anche se non si aderisce alla sua ideologia, e per quanto vivacemente la si contrasti. Si dice no al pensiero unico, al mercato, all’economicismo, pensando, vivendo e proponendo una realtà altra. Altrimenti se ne è complici, per quanto critici, poiché si opera, o si pensa, all’interno del suo linguaggio, e quindi del suo sistema di giudizio. La mafia che diventa la Sicilia, e la Sicilia che diventa l’Italia e il mondo, sono parte integrante della cospirazione: hanno la funzione di demoralizzare chi (i più, la quasi totalità) ne è fuori e vive o vorrebbe vivere un’altra vita. Il monopolismo dell’antimafia fa parte della mafia, si reggono a vicenda.

Luigi Malerba insiste, sul “Corriere della sera” del 31 maggio 2005, che Sciascia ha fatto solo un piacere ai mafiosi, che lo leggeranno, dice, con diletto. Malerba sbaglia, i mafiosi non leggono, ma è Sciascia che gli ha dato questa idea – Malerba, parmigiano di Orvieto, può non sapere che la mafia è ignorante e anzi analfabeta. Ma è Sciascia l’Autore della Mafia, il suo creatore: questo vedere mafia dappertutto da una parte, e dall’altra la sua ipostatizzazione-intronizzazione, nei saggi più che nei racconti (dove invece la Sicilia è diversa, come è).

Sciascia ha una componente forte – nei saggi e anche nei romanzi – di teismo, o spiritualismo, esoterico. Non alla maniera dei fratelli Piccolo, che si può ridurre a mania senile o esoterica, di cui sorridere con divertimento, come faceva il loro cugino Giuseppe Tomasi, ma nel senso proprio, massonico. Si vede nella propensione a rivoltare la storia, al misterico, al complottistico, e finisce nella magnificazione della mafia – viene sovrapposta alla Sicilia come un macigno una manica di brutti ceffi - e in alcuni riferimenti simbolici. È un laicismo sterile, col culto ridicolo del “com’eravamo”, che è un passato abominevole.
Sterile è il laicismo nell’isola perché massonico: la chiave è sempre quel riempirsi la bocca della Riforma, che l’Italia non avrebbe fatto. È uno spiritualismo sterile ai fini pedagogici e democratici: inevitabile sconfina nella misantropia, che oggi denomina società civile, il disprezzo del volgo, e si chiude nel vecchio notabilato, che in regime democratico non è più produttivo. Ci sono in letteratura più Sicilie, quella della prima lirica italiana, quella del popolo di Guastella e Buttitta, quella di Tomasi di Lampedusa, Vittorini, Brancati, Verga e il primo Pirandello, e c’è quest’altra, che per essere “francese” e “rivoluzionaria” è – direbbe Sciascia - ineffettuale.

Secondi pensieri (7)

zeulig

Amore – Non c’è in Freud, che lo chiama transfert, edipo, angoscia, nevrosi. Né in Heidegger, se non sotto forma di Sorge, la carità cristiana confusamente ereditata da chierichetto. Non c’è nei romanzi del Novecento, e nelle poesie. L’amore muore con la prima guerra mondiale.

Ateismo - È un atto di fede, la negazione del soprannaturale senza prove né riscontri. Il soprannaturale c’è perché c’è. Altrettanto apoditticamente, l’ateismo dice che il soprannaturale non c’è. M la negazione, venendo dopo, necessita della prova – e quanto dopo viene! solo nel Settecento, solo in Europa.

Dio – Ci sono momenti in cui è assente, si può pensare per collera: il diluvio, la peste, un tempo la carestia, i terremoti, le cavallette, l’ondata del Vajont. In cui chiude le porte. Se è la tecnica, l’uomo che si costruisce, si perfeziona. Ma se lo è, ad Auschwitz c’era: è un luogo ordinato, ragionato.

Fede - È immaginazione, si sa, è potentemente creativa. Ma vi si accede con la ragione, per certi preliminari razionali. Attraverso i quali si esercita la grazia.
È operazione razionale più che emotiva (miracolosa). Anche la grazia deve trovare terreno favorevole nella razionalità.

Femministo – Amava tanto le donne che voleva rivoltarle.

Fondamentalismo – Riportando la religione alla distruzione comprova l’inaccettabilità del messianesimo, esclusivo. Non del monoteismo in sé, ma di quello che si vuole esclusivo perché opera di un profeta e una chiesa. Il fondamentalismo esclude dal sentimento religioso, che è riconoscimento e riconoscenza di e a Dio, proprio i monoteismi più rigidi.

Guerra – Ultimamente la fanno le tribù, in Africa, in Medio Oriente e nei Balcani. E gli Usa nel nome dei diritti umani. La facevano le repubbliche, i principati, gli imperi, le classi sociali, le idee, per un interesse.

Hitler - È stato il dittatore più amato.

Imprenditore - È uno che osa. Che scommette, ma con un piano. È Cesare, è Rabelais, è Napoleone. Che fa l’ordinario, ciò per cui si sente cioè nato, ma lo programma e poi lo gestisce, in un’ottica di sviluppo – crescita, innovazione, miglioramento.
È l’Autore di se stesso.
Freud direbbe, o Lacan, che è il Padre di se stesso – le maiuscole qui ci vogliono.

Innamoramento - È sempre allo stato nascente, aurorale. Anche nelle crisi: come per la storia e la politica, il meccanismo del ritorno alle origini può aiutare. Si parte dalla rottura e si torna indietro per vedere cosa delle premesse non ha funzionato. Nelle premesse si possono anche stemperare le errate concrezioni, ritrovando viva la prima immagine, quella vera, della persona amata, un gesto, uno sguardo, un sorriso, il tono di voce che ha fatto innamorare. Vera prima delle concrezioni che s’incrostano giorno per giorno, per stanchezza, ansia, difficoltà pratiche. Poi c’è la libertà di andarsene. Se non di fare il Celibe di Kafka, per il quale “la felicità è capire che il suolo su cui poggia non può essere maggiore dell’estensione coperta dai suoi piedi”.

Latinità – Nasce da una sconfitta, a voler credere a Virgilio (all’imperatore Augusto), nella guerra di Troia. L’Occidente nasce da una sconfitta, a opera dei greci.

Linguaggio - È lo specchio per eccellenza.

Papa – È l’unico re che regna.
Un re intellettuale, regna attraverso la parola: il gesto, la liturgia, le idee, l’immaginazione.

Ragione - È l’origine del mistero.
È la ragione che divide la conoscenza e pone dei limiti. Anche in se stessa: come nasce, come si sviluppa, qual è la sua natura – rispetto agli eventi naturali, alla “ragione” animale (istintuale), e al mondo (il tempo, lo spazio, i penati).

Tecnica – La specie umana si distingue perché ha una conoscenza logica della conoscenza tecnica: sa crearsi gli utensili e migliorarne i rendimenti, e sa valutare i miglioramenti.

Tempo - È giovane. La scoperta del tempo è recente – si contava per genealogie – e in molti posti della Terra deve ancora nascere.

È creazione degli orologiai. Dio ha creato l’eternità.

Sono tempi diversi quello delle piramidi, o delle cattedrali, e la cronometria produttiva, abitativa (pendolarismo), creditizia.

Verità – Slitta. Non è un blocco, e non è un ghirigoro. È un’ombra, che si configura diversamente quanto una luce la colpisce.
È la lettere rubata di Poe: è in evidenza ma non sempre si vede.

Volontà - È tutto per l’uomo, e non è niente. Farà l’1 per cento della storia?

zeulig@gmail.com

mercoledì 19 dicembre 2007

Le rotte del malaffare su Alitalia

Un giovane banchiere, senza pregiudizio politico, si è divertito a contare le irritualità attorno alla privatizzazione di Alitalia. In realtà, in altro contesto politico e in altro ambiente giudiziario, delle illegalità. Eccole, a ritroso nel tempo.
La decisione sottratta al consiglio di amministrazione e all’azionista (il ministro dell’Economia) e avocata alla politica.
Gli annunci a cascata, nella fasi dell’aggiudicazione, di paperoneschi aumenti di capitale, una turbativa della gara senza alcun intervento correttivo della Consob né dell’azienda.
L’azzeramento di valore a tutti gli effetti di Alitalia, malgrado un patrimonio rispettabile (l'avviamento, la professionalità, le rotte ricche in Italia, in Europa e con gli Usa).
La lobbying aggressiva di Intesa su alcune formazioni politiche e su Cisl e Cgil.
La speculazione al ribasso del fondo di Soros nel week-end, analoga in piccolo a quella che affossò la lira nel 1992.
La partecipazione alla gara di una cordata, Valori-Baldassarre, che non ha mai esplicitato la sua proposta, e forse si lega a Soros.
L’allontanamento dalla gara di Lufhansa, il cui management era ed è interessato ma il cui consiglio di sorveglianza ha dovuto dire no per evidenti motivi di prudenza.
Casi anche macroscopici di insider trading nelle varie, lunghe e tortuose fasi della privatizzazione. Il fallimento provocato della prima operazione di vendita.
L’asta iniziale al rialzo, non ancorata ad alcun parametro, progetto od offerta.

Il sorpasso della Spagna, uno Stato democratico

“La crescita dell’economia rallenta, ma nel 2007 il reddito pro capite supererà quello dell’Italia, nel 2009 sarà pari a quello della Francia, e nel 2011 porterà la Spagna al livello della Germania”. Così il primo ministro Zapatero delineava a giugno in un’intervista al “Paìs” la situazione economica. Un’intervista lunga, in due puntate, seduta, da socialisti a socialista, ma leggibile: fattuale, senza retorica apparente. In un arengo politico moderno, concreto, conscio anche dei suoi limiti. Democratico, specie al raffronto con le agitazioni scomposte della politica in Italia, manifesto segno di ineffettualità.
Molte sono le riserve su Zapatero e la sua Spagna. Il sorpasso non c'è. Né in cifra assoluta, la Spagna ha un pil di poco della metà di quello italiano, né pro capite. E Zapatero sede su un boom immobiliare infido, gonfiato e non stabilizzato. Come l'occupazione: molti lavori sono ancora di sussistenza, la disoccupazione può saltare in ogni momento a cifre abnormi. Il boom è della speculazione, molto evidente: la Spagna costruisce più case che non l’Itaia, la Francia e la Germania insieme, quaranta milioni di abitanti contro duecento, case inutili, tanto per tenere su la partita di giro immobiliare, tra costruttori, agenti e banche. Il contrasto degli immigrati ha lati crudeli, perfino razzistici, col muro nel Marocco spagnolo e le mattanze alle Canarie. Mentre il laicismo è un anticlericalismo volgare, che copre peraltro un vuoto politico impressionante: la generazione socialista post-Felipe è singolarmente indigente, quella dei belli guaglioni, compresa la matura vice-presidente de la Vega. Imbarazzante: si può cambiare sesso con una telefonata in municipio. Ma è vero che la Spagna è alle calcagna dell'Italia, e che il fatto è straordinario.
La Spagna ha vinto la rincorsa in meno di quarant’anni, da quando Franco morente aprì alla modernizzazione cedendo il potere all’Opus Dei. Anni luce dietro l’Italia, che ereditava dal fascismo un paese infrastrutturato, e nel dopoguerra aveva beneficiato del Piano Marshall e del Mercato comune. Ma si è mossa con realismo, e senza segreti.
Il successo della rincorsa si apprezza di più al confronto con l’Italia, che invece ristagna da quindici anni. Effetto dei governi Ciampi, Dini e Prodi, che hanno mal preparato l’euro, senza pretendere il consolidamento del debito, che a questo punto non è più assorbibile. Di Berlusconi, che poteva riformare pensioni, sanità e pubblico impiego e non l’ha fatto. Del potere d’interdizione concesso agli interessi settoriali camuffati da “minoranze”. Ma è anche merito della Spagna, e in questo senso può essere confortante, è il successo di una democrazia.
La Spagna ha gli stessi problemi economici del resto d'Europa: la Cina, l'immigrazione, la precarietà, la caduta dei salari. Mentre i suoi problemi politici sono probabilmente ancora i più ardui: il separatismo radicale in Catalogna, nel Paese Basco e in Galizia, il terrorismo basco, l’incerta lealtà dei militari, tra i quali un golpe è stato tentato (Tejero). Ma è in politica che la differenza di stile con l’Italia più risalta.
La Spagna non ha il linguaggio doppio: non adotta condannati a morte negli Usa mentre vara un decreto di deportazione degli immigrati. Le Cortes sono un Parlamento e non un consesso di paglietta, che usa il decreto sulla deportazione per far passere i matrimoni omosessuali: se li autorizza, li chiama matrimoni omosessuali. C’è misura, e senso democratico dello Stato, non l’ambiguità della “rivoluzione italiana” (Mani Pulite), né delle migliaia di bombe che negli anni Settanta portarono al terrorismo - due eventi provocati che se fossero avvenuti in Sudamerica (ora non più in Spagna!) avremmo detto golpisti.

lunedì 17 dicembre 2007

E' Alitalia la "colpa" di Padoa Schioppa

Un'asta andata a vuoto. Una gara a due, tra Air France e Air One, tutta politica. Con furiose manovre destabilizzatrici dell'azienda in vendita, l'Alitalia: dichiarare aumenti di capitale miliardari non è sancire un impegno d'investimento quanto annullare il valore dell'azienda e del titolo. Con un pezzo pregiato del patrimonio pubblico (le rotte, l'hub, il nome) che in queste condizioni abnormi si dissolve senza alcun beneficio per il governo. Anzi, nell'ipotesi Air One, con nuovi aggravi per le finanze pubbliche, per gli ammortizzatori sociali e per il ricollocamento di Az Servizi.
Non è il discorso con cui alla Camera ha dimesso il generale Speciale a lanciare un'ombra sull'operato di Tommaso Padoa Schioppa, ma la vendita di Alitalia, che domani si concluderà con un dichiarato fallimento, almeno per il governo. Il ministro dell'Economia si appresta a celebrare il varo in Parlamento di una difficile finanziaria, in cui non ha messo per una volta nuove tasse, e ha solo scalfito il "tesoretto" accumulato nel 2007. Ma non avrà di che complimentarsi: gli errori sono troppi nella vendita dell'Alitalia. I malumori sulla vicenda all'interno del governo sono perfidi. Più degli interrogativi del palazzo di Giustizia, che valuta la solita generica ipotesi di aggiotaggio. La questione è "politica", si difende il ministro dell'Economia, che oggi ha avuto un colloquio di due ore col presidente del consiglio Prodi, su cui Costamagna (Goldman Sachs) e Passera (Intesa), sponsor di Air One, hanno accelerato il pressing.

Per la Famiglia la Juventus è una liability

Per la Famiglia la Juventus è una liability
John Elkann impacciato ha voluto rievocare al Tg 1 la figura del nonno, l’Avvocato Agnelli, in concomitanza con l’apertura a Napoli del processo alla Juventus. Ma c’è maretta in famiglia. Al primo sdegno delle sorelle dell’Avvocato contro Moggi è succeduta la rabbia, per la continua e generale mancanza di rispetto dei media, dalla “Domenica Sportiva” al “Corriere della sera”, e del mondo degli affari, soprattutto le grandi banche a Milano, la magistratura, la politica locale. Qualcuno, commentando l’intervista di John Elkann, ha detto: “Con l’Avvocato questo non sarebbe successo”. Il ruolo del capofamiglia è inteso, per l’esperienza maturata dal fondatore, il senatore Agnelli, come di parafulmine contro quelli che l’Avvocato chiamava “i malintenzionati”: banche, concorrenti, politici, e il fronte della criminalità degli affari, concussori, ricattatori, bancarottieri. Un ruolo di forza, cioè, e non di buoni sentimenti.
Nella famiglia, svanita la passione dell’Avvocato, c’è anche perplessità: la Juventus è un po’ da tutti ritenuta ora una liability e non un asset. Da cui non è possibile sganciarsi per il momento, poiché la società è sotto processo anche sotto l’aspetto patrimoniale, una cessione non è possibile, e comunque avrebbe un effetto negativo, sarebbe interpretata come un tentativo di non fare fronte alle responsabilità. È il problema principale di John Elkann, più della causa con la madre, che non potrà non finire in un vicolo cieco: Marchionne lo ha sollevato del problema Fiat, mentre la Juventus l’ha allontanato dai cugini figli di Umberto, e ora ne deturpa l’immagine e ne indebolisce gli assetti finanziari.

Contro Fini, Casini schiera l'orgoglio Dc

È irritatissimo Casini per essere stato annesso da Fini nella destra da lui diretta: il leader dell’Udc non ha parlato per non trovarsi isolato tra due fronti, Fini e Berlusconi, ma da ieri ha perso il sorriso e la parola. Si ritiene in gara, come sempre, con Fini per la leadership del centrodestra e non subordinato al presidente di An. Chi lo ha incontrato al direttivo del partito lo descrive furibondo. Ma anche freddo. Determinato ad andare in fondo col progetto dell’“orgoglio democristiano”, finora tenuto nel limbo dei convegni tra vecchi glorie (l’ultimo tre mesi fa a Chianciano).
La Democrazia Cristiana non c’è più, se non per una formazione politica minima, e fino a non molte settimane fa non era di buon gusto rifarvisi. Ma da qualche giorno fioccano le dichiarazioni di orgoglio democristiano, perfino del prudente Andreotti, e di Buttiglione, Giovanardi e altri comprimari. È facile collegarle al progetto del Grande Centro. Che però non sarebbe l’unione fra l’Udeur e l’Udc: Casini, dopo Mastella, non è verso la rifusione tra i due piccoli partiti che intenderebbe marciare. Bensì consolidare i voti propri dove ci sono, in Sicilia, in Abruzzo, nelle Venezie. E fare da punto di riferimento per gli ex Dc ora scontenti, soprattutto tra gli ex Popolari. Ha personalmente ottimi rapporti con Staderini, il consigliere della Rai, e buoni con Angelo Rovati, l’ex consigliere economico di Palazzo Chigi sempre intimo di Prodi.
Il problema di Casini è che non ha mai avuto base elettorale certa. A parte la Sicilia di Cuffaro e Mannino, che la magistratura tiene sempre sotto tiro. Si dice però certo che il voto ex Dc in libera uscita è molto vasto, a destra e a sinistra, scontento di Berlusconi e soprattutto dell’alluvione veltroniana nel Partito democratico.
L’orgoglio Dc di Casini è nei fatti un’apertura e una premessa per uno spostamento verso la sinistra del centro. Berlusconi lo dà per scontato: la sua ricostituzione di Forza Italia ha a sua volta l’obiettivo di attrarre, soprattutto in Sicilia, tra Cuffaro e Lombardo, gli scontenti di questo passaggio di Casini. La pretesa di Fini di annettersi Casini avrebbe avuto l’effetto di obbligare il leader Udc a sciogliere le perplessità.

domenica 16 dicembre 2007

L'economia inverosimile

Immigrati, Malpensa, mutui, incapienti, inflazione, giustizia, Salerno-Reggio, Alitalia, De Benedetti: letta in un giorno di riposo, l’economia appare nella sua ordinarietà inverosimile, e anzi mostruosa - l’economia “letta” su e dai giornali.
Trecentocinquantamila domande di assunzioni di lavoratori stranieri, in regola, sono state presentate, il governo ne consentirà solo cinquantamila.
“Da Malpensa non si può partire prima delle 9 di mattina”, rivela Jean-Cyrille Spinetta, pdg di Air France.
Gli incapienti avranno 150 euro di bonus sulle pensioni. Una sola volta per tutte. Dopo un lungo travaglio politico e parlamentare. Dopo aver dimostrato di essere “incapienti”.
La crisi dei mutui a rischio era latente da una diecina d’anni: per molti americani la casa era una banca, con ipoteche di quinto e anche sesto grado. Ma non si diceva. Le perdite sono superiori al pil dell’Olanda, e peseranno sui conti delle banche per almeno tre-quattro anni.
Dopo sei anni di caro euro, l’inflazione per la prima volta aumenta in Europa, dal 2 passa al 3 per cento. Non dal 200 al 300 per cento.
Per Alitalia “è essenziale un partner strategico in Asia” (Francesco Rutelli). Per Alitalia “è essenziale un partner italiano” (sindacati confederali).
I ritardi della giustizia costano 500 milioni di euro di multe. L’anno. Pagate dallo Stato.
Da Gioia Tauro a Reggio Calabria, 50 km., una pubblicità Anas prospetta uno sforzo immane, in viadotti, gallerie, occupati, spesa, e cinque anni di lavoro, per l’allargamento della carreggiata. Tutta la Salerno-Reggio Calabria, 435 km., quarant’anni fa fu realizzata in cinque anni, a un costo attualizzato inferiore.
La Cofide di Carlo De Benedetti è investimento raccomandato dal “Sole 24 Ore” in una pagina che ne rileva solo debolezze, un margine operativo lordo in aumento del 9 per cento ma in realtà di appena il 10-11 per cento, che lascia un netto irrisorio, e problemi in tutte le aree: la finanza ha comprato una società australiana di mutui alla vigilia del crack, l’energia è in ritardo di dodici mesi, l’editoria ha dimezzato la vendita degli allegati, la componentistica auto è “strutturalmente in declino”.

sabato 15 dicembre 2007

L'invenzione del separatismo: Thaci e Giuliano

È questione di giorni e in Kossovo il separatismo sarà cosa fatta, con a capo un Hashem Thaci che è in tutto e per tutto un bandito Giuliano della Serbia. E come quello siciliano inventato anch’esso dagli Usa, da Clinton e la Cia, che dieci anni fa lo posero a capo dell’indipendenza del Kossovo che nessuno richiedeva.
Gli storici tournés politologi intravedono il disegno di una Grande Albania. Con al centro Tirana, satelliti la Macedonia e il Kossovo. Disegno che però non è nelle corde dell’Albania propriamente detta, che ancora fatica a riconoscersi nella sua propria nazionalità. Né in quelle del presunto patrono della Grande Albania, gli Stati Uniti. Il Kossovo è certamente un disegno americano, ma nel quadro di una accentuata ribalcanizzazione dell’area: più pulviscolare essa è, maggiori difficoltà si creano dentro l’Europa, meglio i Balcani e l’Europa saranno governabili dall’esterno e da lontano. Ci sono anche dei documenti del dipartimento di Stato a comprovare da un lato l’interesse al micro-nazionalismo dei Balcani, dall’altro l’assenza di qualsiasi panalbanismo – gli americani parlano in termini grossolani dell’Europa, da Reagan in poi, ma mantengono il senso delle convenienze.

Calci a Putin 3 - per non darli all'Europa

Dopo Bin Laden, il personaggio più impopolare in America è Putin: contro il “nuovo zar” destra e sinistra sono negli Usa uniti nella lotta. E Washington, che per anni ha dettato la linea, ora segue la corrente. Sia Bush che i candidati repubblicani alla successione, e tutti i candidati democratici, su un punto concordano: i calci negli stinchi alla Russia, dal Kossovo al Caucaso e alle repubbliche sub-siberiane. Dovunque un’occasione si presenti - e se non si presenta si crea. In Cecenia al momento la causa è dormiente, in virtù della superiore paura del terrorismo. Ma in Ucraina ferve, una base Nato nella Crimea sarebbe un bel ceffone a Putin. E presto ci sarà il Kossovo indipendente, un calcione alla Serbia e a tutti gli slavi.
L’America ha, in questa fase, il sostegno della Germania, e quindi dell’Europa. Ma la Nato in Crimea e in Georgia vuole dire per l’Europa continuare indefinitamente contro la Russia la guerra che per quarant’anni ha fatto all’Urss. Senza alcuna necessità di difesa. I diplomatici ritengono anzi Putin un’assicurazione per l’Europa, per l’Occidente. Nel senso che, dopo Putin, o senza di lui, senza il partito del commercio o dell’onore, ci sarebbero gli Zirinovsky, i populisti capaci di ogni avventura, e la mano potrebbe passare a un generale. Il ministero italiano degli Esteri, dopo l’ubriacatura antiserba dei tempi del governo D’Alema e della presidenza Scalfaro, ha ripreso il calcolo delle convenienze. Sa per esempio che il principio kossovaro della secessione potrebbe a maggiior ragione essere invocato dai russi d'Ucraina, o dei paesi baltici. E che la Serbia, che si apprestava a entrare nell'Ue con tutte le garanzie di fatto per le minoranze, sarà respinta dalla secessione inveitabilmente nell'irredentismo slavo. Che, insomma, la Russia, cacciata dai Balcani con l'Urss, ci rientra ora su iniziativa dell'Occidente, degli Stati Uniti.
Ma non è un errore, un ritardo culturale (un nazionalismo vecchio di due secoli), un caso di stupidità, è un disegno: gli Usa, un pericoloso alleato in questo frangente, determinano sempre le d ecisioni europee. Dal concepimento della guerra fredda, alle conferenze di Casablanca e Washington nella prima metà del 1943, quindi da oltre sessant’anni, c’è una sola politica americana nei riguardi della Russia: lo scontro. È sempre Tocqueville, Usa contro Russia. La scena mondiale è del tutto diversa, la storia essendosi spostata verso il Pacifico: col ritorno prepotente della Cina, e in parte dell’India, la Russia è in secondo piano per gli Usa. Non però l’Europa. Aizzare la Russia ha proprio questo fine, impaurire l’Europa, crearle problemi. Se non per gli euromissili per il gas. Per i diritti politici. Per la democrazia in Ucraina – sotto la Timoschenko? E se non bastasse, per Berežovskij, per Kodorkhovskij e ogni altro profittatore di regime, per la squadra miliardaria del Chelsea, per gli affari della mafia russa (le banche, le ville, i negozi esclusivi), che ha dolsi per tutti: i motivi, quando si disprezza l’avversario, non mancano, e gli Usa picchiano su Putin per tenere il morso stretto all’Europa.

venerdì 14 dicembre 2007

Caporale e gli affarucci dei belli-e-buoni

Se n’è parlato poco, perché non vi si fanno distinzioni fra destra e sinistra, ma è andato esaurito più volte: Caporale introduce ai segreti ben custoditi dei belli-e-buoni. Scrittore garbato, racconta gli affarucci soft, quasi svagati, del Sud e del Nord d’Italia, della società cosiddetta civile, di architetti, ingegneri, dottori, professori. Avviata, si potrebbe aggiungere, a Roma nei dieci anni di fine millennio con Francesco Rutelli, con le consulenze e i mini-appalti - di resa irresistibile: sono tutti guadagno - per opere subito richiuse, e macchie, umidità, capperi sulle mura e frane sempre invadenti. Capolavoro dell'understatement di Caporale le trenta pagine di tabelle con cui chiude il libro: gli incarichi extragiudiari, a fine 2006, dei soli magistrati della Corte di conti. A una diecina di posizioni per pagina fanno trecento incarichi, alcuni pluriennali, ben retribuiti, che sono il secondo lavoro dei magistrati contabili: professori, revisori dei conti, consulenti, presidenti.
Antonello Caporale, “Impuniti”, Baldini Castaldi Dalai, pp.314, €17,50

Cresce la corruzione, con la questione morale

A vent’anni da Sutherland, “Il crimine dei colletti bianchi”, e a quindici da Franco Cazzola, “L’Italia del pizzo”, che ancora si può leggere da Einaudi, ritorna la sociologia della corruzione, con impianto sistematico: della Porta, sociologa a Firenze, e Vannucci, scienziato della politica a Pisa, elaborano una categorizzazione minuta delle diverse categorie di corruzione. Manca solo la corruzione dei giudici. Anzi, il volume si apre con l’interrogativo: “Cos’è rimasto della “rivoluzione dei giudici”, che tante speranze aveva suscitate nella prima metà degli anni Novanta”? Si dà cioè per scontato che la cosiddetta “rivoluzione italiana” sia partita dai giudici. Il che non contrasta con la storia. Non ancora – finché, cioè, non se ne farà la vera storia. Ma contrasta con la realtà, come gli autori stessi indicano, purtroppo non volontariamente.
La “rivoluzione” si ferma al 1995. E dopo? Dopo ci sono Scalfaro, Dini e l’Ulivo. Ben prima di Berlusconi e i suoi Cirielli vengono cioè i riferimenti politici degli autori. Questo è già un aspetto della questione morale. Nel 1997, a un convegno di “Micromega” che gli autori trascurano, il magistrato di Milano Francesco Greco disse testualmente: “L’Ulivo ha fatto cose che nemmeno Craxi aveva osato fare”. Era un anno o poco più di governo Prodi. Greco si prese per questo un richiamo dal ministro della Giustizia Flick. Poi il giudice Colombo parlò di “ricatti” della Bicamerale, la commissione parlamentare voluta da Berlusconi e D’Alema per fare le riforme. Ma non ci sono stati processi a carico dell’Ulivo, né indagini da parte dei magistrati Greco e Colombo, che di così gravi reati avevano avuto notizia. Questo è il secondo aspetto della questione morale italiana, o lotta alla corruzione: che la questione morale è parte della questione morale.
In base agli indicatori internazionali, della Porta e Vannucci dicono la corruzione molto più diffusa oggi di prima. In particolare a Milano, si può aggiungere per esperienza, per cifre grandi e anche minute – l’impunità è assicurata fino ai 100 mila euro, il processo non conviene. Ma nessuna sociologia si è spinta a rilevare nell’italiano una tradizione o un imprinting di corruttela. E come si potrebbe, la corruzione non è naturale, neppure in Liberia o in Romania, i paesi più corrotti del mondo. La corruzione è sistemica, ed legata alla funzione pubblica. Della Porta e Vannucci ne rilevano le micro-applicazioni: il mercato degli accertamenti, quello delle sanzioni, quello dei poteri di firma. Ma evitano l’evidenza del Caso Italia, che la repressione è essa stessa parte della corruzione. Sovente della funzione pubblica più alta, la giustizia (senza la quale non c’è democrazia: socialismo, sviluppo, progresso).
Dai processi grandi ai processi piccoli si sa che la lotta alla corruzione è selettiva, a orologeria, e perfino illegale – è il caso delle indiscrezioni, di varie forme d’intercettazione, dell’uso strumentale dei pentiti. Se si fanno quattrocento, o cinquecento, perquisizioni negli uffici Mediaset, senza trovare nulla di penalmente rilevante, e non si istruisce un processo nel caso acclarato di ammanco di 1.300 miliardi alla Rcs, per pagamenti in nero, in Svizzera, alle Bahamas, sovrafatturazioni, sottofatturazioni, e factoring fasulli, la corruzione si ritiene patentata. Lo stesso se per l’affare Sme si processa solo Berlusconi e non anche, in base alle tante inchieste documentate, inchieste giornalistiche è vero, Prodi e De Benedetti. La corruzione si diffonde perché è impunita. Grazie anche alla questione morale della “rivoluzione italiana”.
Della Porta Donatella, Vannucci Alberto, “Mani impunite”, Laterza, pp. 258, € 16

Balestrini vi fa il libro su misura - d'Autore

Balestrini rifà le Prove d’Autore, nel mentre che nega il ruolo, facendosi scrivere il romanzo dai giornali, a una memoria random del computer affidandone la casuale compilazione a ogni ordinativo, e così offrendo a ognuno il suo “Tristano”. Una delle 109.027.350.432.000 versioni virtuali, dice l’editore. Che magari sono tutte eguali, chissà, Balestrini non ha ancora il suo Contini. Un vecchio Saporta alcuni anni fa dava effettivamente molteplici versioni in un solo libro, smazzando le pagine. Ma Balestrini ama scherzare. Un faticosissimo Eco, il pezzo meglio del libro, rimesta l’ars combinatoria dell’alfabeto. Quid pro quo?
Nanni Balestrini, “Tristano”, DeriveApprodi, pp.144, € 15

giovedì 13 dicembre 2007

E' Prodi contro tutti: su Az decido io

È Prodi contro tutti, nell’assegnazione di Alitalia, ma nessuno dubita, a Roma e a Milano, che il presidente del consiglio non prevarrà: in questo anno e mezzo di governo non s’è perso un solo affare. Prodi in realtà non è solo. Con lui è l’establishment del partito Democratico, quello da lui espresso direttamente e la parte ex Ds, su cui l’ambasciata francese e Air France contavano. La pausa di riflessione servirà a disinnescare l’opposizione, e soprattutto gli argomenti di chi è contrario, ma non muterà la decisione.
Dopo il ritiro di Lufthansa, il cavallo vincente di Prodi è Air France. Il presidente del consiglio è anche ansioso di venderselo nei colloqui ornai a ciclo continuo con Sarkozy, che la settimana prossima sarà a Roma in visita dal papa. E' la scelta esplicita del resto di Maurizio Prato, l’ad di Az voluto da Prodi, e Padoa Schioppa, il titolare dell’Economia cui tocca formalmente decidere la vendita: il futuro dell’Alitalia è legato all’alleanza con Air France. Come i piloti della compagnia e la stessa Az Servizi, che dovrebbe sopportare i maggioro tagli. Bianchi e Di Pietro sostengono la “soluzione italiana”. Ma non hanno molte carte: Intesa valuta Alitalia un simbolico euro, e la soluzione Air One significherebbe avere riproposti gli stessi problemi fra qualche anno.

mercoledì 12 dicembre 2007

La Repubblica è napoletana

Napoli è la nuova capitale morale d’Italia, lo scettro lo sta rapidamente sottraendo a Milano. Teatro tredici anni fa di un teatralissimo avviso di garanzia a Berlusconi “capo dei capi”, la città assume ora in proprio il ruolo di moralizzatrice pubblica, mandando essa stessa sotto processo il capo di Forza Italia, dopo l’operazione Gomorra e Calciopoli. Tutti processi che si celebrano ora a Napoli, e non più a Catanzaro, Potenza, Roma, Torino e Milano, sottoprocure di Napoli. Con migliaia di toghe all'opera (per Calciopoli si anunciano centinaia di costituzioni di parte civile), nella propria capitale del leguleismo. Al coperto di una superiore Giustizia tutta napoletana, dai vertici del Csm alle presidenze di commissione del Csm. Speditiva e inflessibile, come nei casi Murolo, Loren e Tortora, Napoli si conferma incontestabile capitale della Repubblica, dopo esserlo stata del noto benemerito Regno.
Ora i magistrati napoletani lavorano in casa, con giornalisti napoletani, con la consueta intelligenza superiore, con la serietà che si vede dagli atti di Calciopoli, e dalla indiscrezioni su Berlusconi. Senza intenti persecutori: le loro sono tutte indagini nate “per caso”. Non ci sono cioè gruppi d’intercettatori, né pubblici né privati, che offrano dossier già confezionati, ma iniziative casuali della Procura, che portano invariabilmente a risultati di grande conseguenza. Dev’essere un effetto della locale Smorfia. O la fortuna di Beatrice e Mancuso, i procuratori che il caso specialmente favorisce. Anche il timing è fortunato: il processo a Berlusconi parte il momento dopo in cui si è deciso l’affondo contro le larghe intese sulla legge elettorale.

Il mondo com'è (3)

astolfo

Bertinotti - Terzo in linea di successione alla presidenza della Repubblica, il rifondatore dei comunisti e presidente della Camera Fausto Bertinotti cerca un battesimo. Magari non quello religioso, ma un ritorno a quando, da ragazzo, leggeva tanto, e usciva con la signora che è ora sua moglie. Non avrebbe fatto le stesse scelte.
La successione gli è assicurata in quanto comunista: dopo Napolitano verrà Prodi e dopo Prodi lui. Ma Bertinotti ha una testa liberale, quella che oggi, per una delle tante “bobbiate”, viene detta garantista – Norberto Bobbio, iperprudente e un tantino ipocrita, ha coniato o avallato più di una parola non asettica per la democrazia italiana (pluralismo, garantismo) quando tutto era scritto con chiarezza nella Costituzione. Ha anche il realismo politico di Togliatti, che era la qualità migliore del Migliore – non il cinismo del Realpolitker ma l’intelligenza di riconoscere ciò che è. Senza l’ossessione dell’Urss. Né, benché comunista, del centralismo democratico che è ancora l’ossatura del Partito democratico.
La presidenza della Repubblica nel 2018 naturalmente non è un obiettivo politico (anche se è l’iter temporale dell’ascesa di Napoletano - 1992 alla Camera, 2005 al Quirinale - e i comunisti sono iterativi), ma chiarisce il presente, nel quale Bertinotti è ormai uno dei padri della Repubblica. Nella sindrome post-adolescenziale si possono inquadrare le sue passioni per il sub-comandante Marcos e per l’ex comandante Chavez, all’epoca delle vacanze intelligenti – il turismo della rivoluzione è la sola maniera per una certa sinistra di poter andare ai Tropici.

Centrosinistra - C’è una grande rimosso, nella storia della Repubblica, e riguarda una formula e una politica, il Centrosinistra – Togliatti lo scriveva senza trattino. La formula è tornata sui giornali ma per dire tutt’altra cosa. Storicamente non si potrà fare che il Centrosinistra non sia quello del 1958. Per almeno tre motivi: 1) ha rinnovato la politica italiana, 2) ha rinnovato l’Italia, 3) è l’ultimo (l’unico) periodo di riforme in Italia, malgrado tutto. Malgrado i dorotei di Segni e Moro, cioè, malgrado Gronchi, Tambroni e Andreotti, le bombe e, infine, il terrorismo.

Civile (società - ) – È il cancro italiano: la borghesia della corruzione, morale, culturale, intellettuale. Per la sua presunzione di superiorità, che è prevaricazione. Non è democratica: è censoria, propagandistica, deliberatamente bugiarda. Non è colta: non va più in là delle vacanze intelligenti e delle guide al buon bere. Non è ecologica: è tutta chefs e modernariato. Non è giusta: basta vederne i corifei, i procuratori di Milano e Palermo, che un Daumier non potrebbe dipingere che con la bava alla bocca. Non è misurata, non è tollerante, non è per nulla generosa, se non di elemosine in occasione dei terremoti, e soprattutto non è responsabile: si definisce civile per deresponsabilizzarsi.

Freud - È l’iperintellettuale, quello che più e meglio ritiene di possedere la conoscenza, incluso dell’inconoscibile, di avere anzi il segreto di trasformarla. Il modello Faust vero, un po’ tonto – lo scienziato è schiacciasassi. L’intellettuale più di ogni altro condannando alla sterilità.
Freud, lui, si salva – sembra di sentirlo sogghignare – perché tutto può essere avvenuto nelle sue segrete: è il privilegio dell’occulto, il molteplice. Non è un caso, tutti sempre si divertono nel mistero, anche se qualcuno lo paga. Ma Freud ne ha fatto una scienza e una terapia. L’intellettuale, di cui è la quintessenza, dannando all’ipocrisia e all’inconcludenza.

Marx - È un po’ confuso, si sa, e autoritario. Ma per un motivo caratteriale: perché era onesto e voleva la giustizia. La voleva subito, ma chi può dargli torto: la rivoluzione liberatoria è un bisogno universale, anche dei controrivoluzionari. Per questo Marx è vivo e lotta insieme a noi.

Rossi, Guido - È l’epitome della “questione morale nella questione morale”. Avvocato dei ricchi e senatore comunista – indipendente di sinistra. Consigliere d’amministrazione dell’Inter, ha tolto due scudetti alla Juventus, in qualità di commissario della Federazione calcio, e uno lo ha dato alla sua squadra, uno che nessun magistrato ha mai contestato. Consulente dei Moratti, vuole Letizia Moratti processata, perché non è “di sinistra” come lui. Autore, ogni anno mediamente, di una paginata sul giornale di De Benedetti in cui detta “da sinistra” le tavole della legge del mercato. Autore anche di Adelphi, che gli ha pubblicato l’impubblicabile “Il ratto delle sabine”, riflessioni su Romolo e Remo di cui ancora non s’è capito il senso. Presidente di Telecom alla privatizzazione, nelle mani di chi “non aveva pagato niente”. Tornato al vertice di Telecom su imposizione di De Benedetti e Bazoli, ha caratteristicamente impedito a Tronchetti Provera di accordarsi con la spagnola Telefònica. Caratteristicamente, cioè con baldanza e scopertamente: ha sottratto Telecom a Tronchetti Provera, che poi è stata venduta a Telefònica da Bazoli.
Uomo emblema della Milano da bere, dove i soldi scompaiono. È l’uomo che agli inizi, da presidente della neonata Consob, portò in Borsa il Banco Ambrosiano che era già tecnicamente fallito: portò alla rovina gli investitori e il Banco in braccio a Bazoli, che v’impiantò la sua impressionante fulminea ascesa. Avvocato di Geronzi, lo ha sottratto a ogni responsabilità nei fallimenti Cirio e Parmalat. Ha denunciato Unipol per l’affare Bnl, e poi ha difeso sullo stesso affare, in linea con Unipol, D’Alema e Nicola Latorre.

Sessantotto – Confuso, e condannato, con l’Autonomia, ne è invece l’opposto. È fantasia, intelligenza, saperi, libertà, tanto quanto l’altra è torva, stupida, e contenta di esserlo (le ope legis, tutti uguali per decreto ministeriale), violenta. Il “pentimento” ne è la raccapricciante prova: il Sessantotto non ha nulla di cui “pentirsi”, da denunciare, da confessare.
Sessantotto sta in realtà per anni Sessanta, in cui tutto sembrava possibile, anche costruire la libertà – senza droghe. Valle Giulia, il Maggio ne sono epitome, e in certo senso il culmine, come la conquista della Luna, anche se non fu figurata.

Socialisti – Sono stati difesi nella Repubblica dal filocomunismo, anche dopo il 1976 e Craxi. Anche i più accesi nemici del Fronte popolare stavano coi comunisti nei comuni, nei sindacati, nelle cooperative. Quando il comunismo infine si dissolve nel 1989, Andreotti in un paio di mosse, compreso il tangentone Enimont, dissolve i socialisti.

astolfo@gmail.com

Secondi pensieri (6)

zeulig

Amico\Nemico – Era la politica – la ratio politica – di Carl Schmitt negli anni 1920. Era allora la politica delle ideologie inconfrontabili. Oggi è la politica dei gruppi di potere.

Dio – Se è Dio, non ha bisogno di esibirsi. Da qui il problema dell’inconoscibilità.
Lo risolve la Rivelazione? Sì, come la fede – se si crede a occhi chiusi.

È – impersona – amore e giustizia.
Forse per questo non parla, da qualche tempo. È mutevole.
Ma o fa tutto, come usava, o non è nulla. Il libero arbitrio lo rende inerme – lo riduce a un metro.

È una presenza assente. Non ci si può contare, poiché ha abbandonato Gesù Cristo.

Eroe – Quello positivo è un mito cristiano.

Fede – Il suo problema è la razionalità: è troppo immaginativa per la logica.

Femminismo – Riafferma la differenza femminile nel mentre che la nega. Non dialetticamente, non è il “razzismo anti-razzista” dell’“Orfeo Nero” di Sartre. È un’ideologia e un’ontologia. E sovverte ogni rapporto, parentale, affettivo, di lavoro, sociale. Ma resta contraddittorio equindi non libera nessuno, restringe gli spazi degli stesi soggetti che afferma di voler liberare.

È una forma del narcisismo, passione femminile dominante. Che si esprime nella domanda di diritti, se non v si esaurisce. Senza esserne intaccata: le donne non sono per questo più democratiche, generose, compassionevoli.

Cristo uomo e donna è fantastico, Freud sarà stato il più subdolo – maschile o femminile? – tentativo d’infeudamento della donna. Attraverso il maschile\femminile, la normazione del fondo sentimentale di bisessualità, che è un togliere alla donna e dare all’uomo. Non modifica i rapporti di forza, nella logica Amico\Nemico, non apre nuove possibilità alla donna, se non di lavorare in pubblico, in fabbrica o in ufficio, nel mentre che fa i figli, come già usava in campagna nel vecchio patriarcato, l’area maschile allargando per il solo fatto di alleviare i sensi di colpa.
Sarebbe stato, sarebbe, meglio dire indifferenziati uomo e donna, se non per genitali e la funzione procreativa – che assurda asenza, la procreazione, nel freudismo. Filosoficamente è così. Non so sono stati, non lo sono, nella società e nella storia, ma questo è ininfluente, la storia è mutevole.

Giustizia – Vuol’essere equanime, ma soprattutto ponderata, non ostile. Deve ristabilire le condizioni, non affermare un potere.

Libertà – Non è naturale. La paura sì: lo schiavo tende a essere grato.

Morte – Si muore e si nasce a ogni istante.

Nulla - È il punto di partenza, non può essere quello di arrivo della filosofia. È il vizio della filosofia contemporanea, girare sul suo asse.

Problemi di base – Se Berlusconi ne sa più del diavolo, non sarà allora Dio?

Perché i giudici credono agli assassini, ai corrotti, ai bancarottieri? Contro coloro che bene o male stanno nella legge.

Razionalità – Con la fede è un problema, troppo indigente.

Storia – Dio non può cambiare il passato, la storia sì. Questo a Dio non piacerà – ne va della sua esistenza. Ci sono per questo catastrofi.

zeulig@gmail.com

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (10)

Giuseppe Leuzzi

Viene dal Nord, più che l’ecologia, la pretesa all’ecologia. La carta viene dalla Scandinavia, ne è la prima industria, ma loro sono i protettori dei boschi, è altrove che i boschi si tagliano scervelloticamente. Ora i governi del Nord Europa adotteranno il flight sharing per recarsi ai vertici europei, due-tre volte l’anno, nel presupposto che l’Unione europea sia qualcosa di troppo meridionale, sprecona. I virtuosi sono Benelux, Svezia e Danimarca, cui la Gran Bretagna potrebbe aggiungersi. “Risparmieremo otto voli l’anno”, fa sapere il premier olandese Balkenende. Il che non è vero: il suo aereo deve atterrare ogni volta a Bruxelles, e poi decollarne, all’andata e al ritorno, il che equivale a dire che il primo ministro belga – quando il Belgio ne avrà uno – potrebbe lo stesso usare il suo aereo senza inquinamento ulteriore. Non è vero per Balkenende, che dovrà comunque partire e tornare su Schipol. Un aeroporto che registra 500 mila voli l’anno.
È ipocrisia, non stupidità naturalmente. Anzi è una logica: non fare pretendendo di avere fatto meglio degli altri, se non seguendo il proprio interesse. L’abito normale del nordico: dire è essere.
Arzignano, la capitale del distretto conciario vicentino, si pone a modello d’integrazione dei suoi quattromila lavoratori stranieri. Ma ha un problema col “forte odore” del curry usato in cucina dagli indiani.

Milano calorosamente accoglie la bellissima principessa del Qatar, intelligente e molto colta, venuta a onorare la prima alla Scala col titolo di “sceicca”. L'accoglia affettuosamente a suo modo, per i milanesi quest'araba dev’essere una “negra”. Sceikh vuol dire vecchio, e per estensione saggio.
L'Eni, il grande gruppo milanese che i principi del Qatar aveva invitato per concludere l'acquisto del gas, di cui l'emirato è uno dei più ricchi al mondo, dovrà ritessere la tela. La superficialità di Milano va oltre gli interessi.

“Ciò che è misantropico è falso”, scriveva il filosofo francese Alain alla filosofa Simone Weill, che progettava saggi risentiti. Il risentimento, su cui nulla si costruisce, è la passione forte del Sud, un revanscismo vago, che si traduce in lagnosità: inesistenti diritti, colpe immaginarie, risarcimenti impossibili, eccetera.
Il leghismo è assertivo. È per questo produttivo, a differenza del risentimento. Il fatto, anche se non dichiarato, di ritenersi superiori e migliori. È per questo produttivo, benché ridicolo, incolto, impaziente. Il Sud invece affoga nel risentimento. Evidentemente incapace di ogni mossa leghista: non mangiare il panettone, per esempio. Pretendere un vero federalismo fiscale, esteso all’Iva, la tassa iniqua che i consumatori del Sud pagano ai produttori del Nord, anche quando la fabbrica è al Sud. Oscurare magari le tv di Berlusconi, invece di votare in massa per lui.

La tradizione scozzese che s’inventa nel primo Ottocento, spiega ad abundantiam Hugh Trevor-Roper, è quella falsa dei violenti highlander, mentre la Scozia si era fin’allora caratterizzata per una tradizione civile. Il principio che la moneta cattiva scaccia la buona vale anche per la tradizione.
La tradizione scozzese fu inventata dagli inglesi, per una serie di motivi. Fu un quacchero inglese del Lancashire, Thomas Rawlinson, a inventare il kilt, la gonna plissettata scozzese, per agevolare il lavoro dei suoi manovali nella con cessione boschiva che aveva in Scozia, impediti dal plaid informe avvitato in vita, l’unico abbigliamento che i poveri si potevano permettere.

Omertà. È una cosa corsa, sarda. Residuo quindi ligure o toscano. È stata importata al Sud con tutto il resto e ora gli viene imputata.

In Vittorini trova Calvino “l’istinto delle scelte vitali”. E aggiunge: “Come in tanti siciliani diventati milanesi con entusiasmo”.
Tantissimi. Perché questo istinto si esercita bene a Milano, male in Sicilia.?

Calabria. Erodoto diventa cittadino della colonia di Turii, fondata da Pericle per ovviare all’incremento demografico di Atene. Anche Protagora si reca a Turii e ne diventa cittadino. Ritornato in Atene, è accusato di empietà, e muore fuggendo in Sicilia.

Calabria. Ancora nel 1968, il peggio che il protagonista di “Belle su seigneur” riesce a pensare della sua innamorata è che essa se la faccia con un Calabrese. V. p. 671. Ca. LXXXIX, terza-quartultima pagina.

Terremoti, alluvioni, colera, niente ha fatto peggio di Garibaldi per il Sud. Che lo adora. Il Libertador non arriva da fuori: ci si libera, non si è liberati, c’è chi vuol’essere liberato, chi è pronto, e chi no. E se arriva deve portare la libertà: Garibaldi è stato un conquistatore e non un liberatore, non gliene è mai fregato nulla del Regno che ha liberato, solo della sua gloriola.

La Sicilia sfida le leggi della probabilità. In un universo di eventi, in un’elezione con più candidati, è impossibile che la totalità dei voti converga su un solo candidato. Perfino la Calabria, che avendo dato il nome all’Italia, e avendo un numero stragrande di Italiano all’anagrafe, votò compatta per l’unità ai plebisciti del 1861, registrò un cospicuo numero di no, sei o sette. In Sicilia invece l’impossibilità stocastica si è avverata, due volte. Leoluca Orlando, sindaco di Palermo, ha preso il cento per cento dei suffragi espressi in due sezioni elettorali nel 1993. Alle elezioni comunali che lo videro vittorioso con il 75 per cento dei voti, tre su quattro, record mondiale, pur avendo a concorrenti personaggi e orientamenti stimabili. L’evento è tanto più apprezzabile in quanto non soltanto la città di Palermo era, a detta dello stesso Orlando, mafiosa, ma le due sezioni unanimi erano in quartieri ad altissima densità mafiosa. La seconda sfida alla stocastica l’isola lanciò nel 2001, dando a Berlusconi tutti i 61 parlamentari parlamentari che essa elegge. Nemmeno con i resti la sinistra riuscì a rimediare qualcosa. In questo secondo caso la straordinarietà della Sicilia si combinò con i noti poteri taumaturgici del Cavaliere.

martedì 11 dicembre 2007

Editori e banchieri contro la riforma

Niente accordo Veltroni-Berlusconi, e quindi niente riforma elettorale. Il referendum è preferibile, anche se prevedibilmente passerà, e quindi porterà alla legge elettorale cui pensano i due leader politici. Una serie d’incontri e di colloqui tra editori e banchieri, su e giù tra l’Engadina e Milano, nel lungo week-end dell’Immacolata ha sancito l’affondamento dell’intesa tra Veltroni e Berlusconi. Tra le governabilità e l’anti-berlusconismo non c’è stata scelta: l’unanimità è stata senza discussione sull’isolamento del leader di Forza Italia, tra De Benedetti, Bazoli, Caltagirone e Montezemolo.
Contro Berlusconi si punterà su Alleanza Nazionale, che è il terzo partito, ed è capofila degli avversari della riforma elettorale. Il prevedibile sì al triplice quesito del referendum, che equivale al nocciolo della riforma cui pensano Veltroni e Berlusconi, non sposterebbe l’obiettivo della campagna: impedire l’incontro tra i due maggiori partiti. Quanto alla nuova legge elettorale essa potrà essere, dopo il referendum, anche diversa da come il referendum stesso la propone. Non è la prima volta, è stato osservato, che il referendum viene “interpretato”.
Il summit informale è maturato di fronte all’evidenza che la riforma elettorale proporzionale e maggioritaria cui lavorano Berlusconi e Veltroni ha una solida maggioranza in Parlamento, tra Pd, Forza Italia e Rifondazione. Questo significherebbe sancire il ruolo politico di Berlusconi, e questo i partecipanti alla consultazione hanno concordi deciso di prevenire: l’obiettivo è tenere Berlusconi isolato. Il referendum è ritenuto preferibile perché ha comunque l’effetto di prolungare di un anno la vita del Parlamento, e quindi di Prodi a capo del governo – di questo o di un altro. Il referendum sarebbe il mezzo migliore, è stato detto, di ritardare nuove elezioni, che in questo momento favorirebbero Berlusconi.

C'è chi lavora al Veltruscone

La tentazione è stata ricorrente, negli incontri e le conversazioni tra St.Moritz e Milano nel lungo week-end dell’Immacolata, di affondare anche Veltroni. Il leader del Partito democratico è sospettato di progettare, col suo partito di provenienza, la liquidazione dell’establishment, o comunque la creazione di un vasto spazio di autonomia.
Nelle conversazioni del week-end ha preso forma anche il “Veltruscone”, una riedizione del “Dalemone”, la campagna di stampa che dieci anni fa contribuì ad affossare la Bicamerale e l’intesa D’Alema-Berlusconi. Ma si è deciso di soprassedere: Veltroni rappresenta l’altra gamba di Prodi. E anche perché Milano è rimasta fredda all’idea. Sia Geronzi che Bazoli sono attestati sul Partito democratico, che in Veltroni s’identifica.

sabato 8 dicembre 2007

Borrelli fa il milanese, ma il pool si dissolve

Con tatto, col tempo, con procedure normali, ma il “cuore napoletano” della Procura milanese cesserà presto di battere, il cosiddetto pool ex Mani Pulite. Dagli avvocati peraltro definito la “cellula”, la “cosca”, la “cupola”, variamente ma sempre in termini non lusinghieri. La decisione sarebbe stata materia di conversazione di Antonio Mancino, il vicepresidente del Csm, con parlamentari ex Dc a lui vicini, nella convinzione che il presidente della Repubblica, che formalmente presiede il Csm, non si opporrà.
L’orientamento viene giustificato con tre motivi. Il processo penale a carico del sindaco di Milano per le nomine è opinabile e poteva essere risparmiato. Le dichiarazioni già rese da Clementina Forleo, il gip milanese rimosso dal Csm, e quelle che sicuramente renderà, gettano ombre non dissolte sulla Procura, sia sul cosiddetto pool che sulla dirigenza. Le frequentazioni dell’ex magistrato D’Ambrosio, ora parlamentare diessino, delineano un pool di partito.
Le ultime due motivazioni si collegano indirettamente anche al disagio di molti ex Dc nel Partito democratico, ritenuto troppo centralista, o ex comunista. La convinzione di Mancino che il capo dello Stato non si opporrà nascerebbe invece dal disagio di Milano. Il flirt della città con la Procura, da qualche tempo indebolito, dopo la kermesse anti-Berlusconi, si è interrotto col procedimento a carico del sindaco per le nomine al Comune. Borrelli, il capo storico dei grandi magistrati napoletani a Milano, ha cercato di rimediare dando ragione a Letizia Moratti. Ma la procedura è ormai avviata, anche se non decisa. La severa critica che D’Ambrosio, altro capo storico dei napoletani, ha rivolto a Borrelli va letta alla luce di questi orientamenti. Con l’effetto più probabile di confermarli invece che, come D’Ambrosio può aver sperato, di bloccarli.

Luttazzi licenziato sul caso Milano

Non sono state le offese a Ferrara a determinare l’allontanamento di Luttazzi da La 7. Il motivo vero è stato il contenuto della trasmissione che doveva andare in onda oggi, e che secondo chi ha collaborato con il comico doveva riguardare anche il caso Milano (le nomine e le consulenze del sindaco Letizia Moratti) e il papa "tedesco". La decisione sarebbe stata presa dopo la comunicazione della scaletta della puntata.
Daniele Luttazzi non parla, tace anche il suo blog, indeciso se non gli convenga uscire ancora una volta da sinistra, sacrificato cioè per pressioni di destra. La 7 ha sospeso”Decameron”, la trasmissione di Luttazzi, e ha rotto il contratto col comico ieri, adducendo le “gravi offese” arrecate nella precedente puntata a Giuliano Ferrara. La precedente puntata era andata in onda una settimana fa, ed era stata replicata sulla stessa rete alle 24 di giovedì, poche ore prima del “licenziamento” di Luttazzi. Con una promozione notevole: la puntata dell'1 dicembre veniva accreditata da La 7 di 2,7 milioni di spettatori, un record storico, per l'ora e per una trasmissione di satira.

giovedì 6 dicembre 2007

Pausa a Trieste, fino a primavera

A una settimana dall’appuntamento, si rinvia la decisione sulla governance di Assicurazioni Generali. I soci francesi di Mediobanca hanno convinto l’amico Geronzi, che a sua volta ha dato indicazioni in tal senso a Vittorio Ripa di Meana, di stemperare le critiche al Leone sulla governance. La questione verrà discussa in privato nelle prossime settimane, e portata di nuovo alla ribalta nelle assemblee di bilancio in primavera.
La questione, solevata dal piccolo fondo Algebris, da null’altro deriva, come si sa, che dal desiderio di Geronzi di finire in bellezza al vertice di Generali. Sostenuto dall’amico Bazoli, che completerebbe la sua napoleonica conquista del grande capitale italiano. Sei mesi di surplace non sono quindi un grande spreco. Lo stesso Geronzi incontra qualche problema: neo presidente del consiglio di sorveglianza di Mediobanca, dovrebbe trovare un adeguato sostituto nel momento in cui approderà a Trieste, e ancora non ce l’ha.

Secondi pensieri (5)

zeulig

Asceta - È tutto corpo, è un fissato.

Ateismo – È un religione – diabolica: è un dogma.

Barbarie – Sempre la barbarie prevale sulla civiltà.
È così ce si abbattono gli imperi – e si ricostituiscono.
È per questo che non c’è progresso lineare, è una sommatoria, per la barbarie insorgente.
La civiltà è un accumulo, ma di residui.

Borghesia - È da sempre in crisi, senza idee, senza principi, senza animo. Da quando ha vinto la Rivoluzione e comanda il mondo. O da quando si fanno i romanzi, all’incirca la stessa data.
Gli autori dei suoi ridicolissimi romanzi, “Bovary”, “Il tempo perduto”, sono però abilissimi. La sua speciale capacità – la sua forza - è il ridicolo?

Chiese – Sono per il turismo, non per la fede. Ma attraverso il turismo – la cultura – la religioe rigurgita, seppure in modo tenue, dissipatorio. Ancora una volta ha torto Freud, “diffondete la cultura e si svuoteranno le chiese”: il turismo reintroduce nella cultura laica le chiese. E cioè, sotto forma di santi, storie, tradizioni e, per quanto ne può risentire un turista affranto, emozioni, la religione.

Classico – S’intende quello che ritorna, un revenant. Anche un rêvenant.

È la più geniale, fortunata, duratura costruzione della storia. Onesta ma imperiale. Culturale ma incisiva, e anzi hard: gli ordini dell’architettura, le proporzioni, la prospettiva, le grammatiche della filosofia, le leggi della politica e dell’economia, tutto questo è stato ed è ben consistente. È l’Occidente, che il classico ha inventato quale misura di se stesso. È due millenni e mezzo – retrospettivamente: classico è anche appropriarsi del passato, seppure con qualche problema (la storia è classico indefinito) – di storia universale. Occultando il semplice incontrovertibile fatto che l’Europa viene dall’Asia, l’Occidente dall’Oriente. Il che a sua volta non vuole dire nulla, è un semplice fatto evolutivo.

Contesto - È contestabile.

Coscienza – È l’altro lato del subconscio. Altrettanto inattendibile.

Deserto - È pieno di se stesso. Mette al centro se stesso e la solitudine cioè, scarnificando le illusioni. È vivo nel senso che scolpisce di ognuno il contorno – il deserto di sabbia come quello figurato..

Dio. È in effetti cosa da teologi, se c’è e come fa. Ma è anche la storia divina di tutti, compreso chi non esprime né merita un briciolo di eternità, il quale altrimenti non sarebbe che un ammasso di gas e d’acqua. È la storia, Napoleone compreso.

Non è buono. È povero, ignorante, stupido, cattivo normalmente – è in questo che la Bibbia ha ragione. È furbo, carrierista, egoista, duro quando è al suo meglio e più ha successo. La religione è un rimedio a Dio.
È umano. È solo umano, Lui stesso lo sa, che nella Bibbia si prospetta uomo, seppure in fieri.

È l’impossibilità.
L’impossibile è qualcosa che si vorrebbe – essere, avere, sapere. Dio è questa tensione, in questo senso è umano.

Sarà fuori dal mondo, ma nessuno che ci crede fa a meno di un suo figlio, un suo profeta, un suo compagno di merende.
Si collega al bene e al male e questo è male: bene e male sono cose tutte umane, incerte, mutevoli, perfino opportunistiche. Lo stesso l'onnimani, è un male. Dio è un derivato - nel senso tecnico, finanziario, della parola – di qualche poeta o lestofante in vena di regalità. Dio è un principio attivo, direbbe un farmacologo.

Ironia – È conservatrice: non rivolta, disinnesca la rivolta.

Media – Sono sempre più parte dell’apparato repressivo e non dell’opinione pubblica.
O l’Opinione è apparato repressivo? Tanto più duro per essere subdolo – avvertito, flessibile.

Opinione pubblica – Ma è la realtà virtuale!
Altro che coscienza vigile della nazione, democrazia, libertà! È finzione. È più spesso sopraffazione, del più dritto (capace) ma anche del più potente e del più ricco.
È il fascismo contemporaneo. Non manesco, ma altrettanto violento e invadente.

Preghiera – S’indirizza in realtà a sé stessi e agli altri, non a Dio. La divinità ne è un punto di forza, m chiedere si può solo a sé e agli altri, individuati e indistinti.
È consolatoria perché è propositiva. È un proponimento.

Scoperta - È riconoscersi. Si fa per immedesimazione. Con un ambiente, una persona, un’opera d’artista.

Tempo - È la paura della morte – è un metronomo, che batte la morte.
In altri orizzonti di passaggio, nelle stelle, nei fiori, nella durata cioè e nell’effimero, lo stesso tempo e lo stesso mondo si caricano di ebrietà. Sicuramente non ci piacerebbe morire in poche ore, e nemmeno durare per un’eternità, come i fiori e le stelle, e tuttavia non ne ricaviamo un’accentuazione della paura che ci incute il tempo terribile. Al contrario, è come se l’effimero e l’eterno si sgravassero di questo sgradevole incumbent. Ci liberano dalla pura della morte, che è scadenza, a tempo.

zeulig@gmail.com

Milano è sempre meno Napoli

C’è un magistrato napoletano, Antonio Patrono, a capo della sezione del Csm che ha allontanato Clementina Forleo da Milano, ma l’impressione è sempre più netta che Milano si vuole distinguere dai “napoletani”. Dai brillanti magistrati della Procura di Borrelli che in questi vent’anni l’hanno rivoltata come un calzino, come si è espresso uno di loro. L’ottimo napoletano D’Ambrosio, che ogni pochi giorni fa delle riunioni riservate con i suoi compagni napoletani, e conviviali con i napoletani simpatizzanti. Le inchieste sulla Moratti e su Penati. La mancata archiviazione delle inchieste su Moratti-Saras e su Telecom-Tronchetti Provera. E più in generale un atteggiamento troppo brillante. Sono tanti i fatti e gli umori che non quadrano più a una Milano solidamente confessionale. La Procura napoletana s’è incuneata nel vuoto di potere tra la Milano laica, di Cuccia, di Greppi, di Aniasi-Craxi, e quella che attorno alla Cariplo e all’Ambrosiano ha ricostruito Giovanni Bazoli. La sua stagione sarebbe quindi conclusa.

Per chi vota Forleo

La giudice Forleo esce dal Csm apparentemente sola. E l’unanimità in effetti c’è stata, contro di lei: instabile, eccetera. Ma più peserà questa unanimità, in un covo smaliziato, per così dire, qual è il Csm, sul futuro del Partito democratico, anche se più su quello di D’Alema e della tecnostruttura dei vecchi Ds che su quello di Veltroni. Perché la Forleo viene cacciata da Milano per le intercettazioni, che sono state e sono patrimonio di certa sinistra ma non si devono applicare ai Ds, e perché lascia a Brescia sei ore di dichiarazioni su cui, malgrado la parola d’ordine del silenzio, non sarà facile non pettegolare.
Il fucile non appare puntato, malgrado lo spirito polemico, dalla stessa Forleo. La quale sembra trovare difficoltà alla discesa in campo politica: molti la vedono in An, ma non è possibile, osta il giudizio positivo sul terrorismo islamico. I suoi argomenti sono però ghiotta materia per gli amici di Veltroni nello stesso Partito democratico. Sui gruppetti politici della Procura di Milano. Sulle inchieste che d’improvviso si fermano, dopo un pranzo con D’Ambrosio, certo casualmente. Sul galantuomo Guido Rossi, che denuncia Unipol per l’affare Bnl e poi difende D’Alema. Sulle pressioni politiche, cioè diessine, sui magistrati. Rivelazioni che, è scommessa facile, sono solo all’inizio. Anche se nella fattispecie non ci sono intercettazioni: i magistrati si abbaiano molto ma non si mordono realmente.

Alfa-Mercedes? Napoli indifferente

Chiudere Pomigliano per due mesi per un corso d’efficienza è il segno più tangibile del degrado di Napoli, che non è tanto materia di droga e di camorra quando di cattiva ideologia e mala amministrazione – la malvivenza c’è dappertutto, diventa regola se è la regola del suo tessuto sociale. L’operaio di Napoli è sempre stato professionale, per molte aziende, pubbliche e private (Ibm), il più professionale: rapido, attivo, produttivo. Finché non è intervenuto un certo sindacalismo, con la cultura politica del “non faticare”, che ha voluttuosamente accompagnato la deindustrializzazione dell’area napoletana e il passaggio al terziario. E la Fiat vi trova oggi la sua maggiore area di sofferenza.
Il gruppo torinese, che ha molto investito su Napoli, spostandovi tutta l’Alfa Romeo, la sua area di produzione medio-alta, raddoppiando l’occupazione in un quindicennio di dimezzamento complessivo del personale, dai poco meno di 4.000 ereditati dall’Alfasud a 7.500, non rinuncia e anzi rilancia. Tenere ferma la produzione per due mesi, per mandare i lavoratori a scuola di efficienza, è un grosso investimento. Da cui evidentemente si attende dei risultati. Che non sono però da considerare scontati. L’obiettivo della ristrutturazione è il raddoppio della produzione e – secondo l’ottima informativa di Salvatore Tropea su “Repubblica” – la produzione di componenti per conto della Mercedes. Dal punto di vista industriale è un forte rilancio, ma non dal punto di vista sindacale. Non necessariamente, non a Napoli: qualsiasi altro territorio farebbe faville per assicurarsi una produzione industriale, in Europa, in un settore maturo, con così forti prospettive di sviluppo, Napoli s’interroga. Cioè non s’interroga, non le interessa, non ci sono capitoli speciali da spendere, appalti, affarucci. Meglio il "Vulcano Buono" di Nola: in un centro commerciale, sotto la bandiera di Renzo piano, ci sono soldi per tutti, quello è un impegno per tutti.

Geronzi apre il salotto a Berlusconi

Direttamente tramite Fininvest, e indirettamente, tramite Mediolanum, Berlusconi diventa socio di Mediobanca. Cesare Geronzi ha già il gradimento degli azionisti storici del gruppo. Fininvest-Mediolanum avrà una quota del 9 per cento messo in vendita da Alessandro Profumo, la partecipazione ereditata da Capitalia. Non una quota di primo piano, attorno al 2,5 per cento complessivo, ma alla pari dei Benetton, altri nuovi entranti.
La decisione di Profumo di ridurre la quota Unicredit all’8 per cento storico ha consentito a Mediobanca di ritornare il salotto della finanza buona che era sempre stata ai tempi di Cuccia. Accanto alle famiglie storiche del capitalismo italiano, e alla miriade di piccoli di cui aveva voluto circondarsi Cuccia per dimostrare che Mediobanca è un’istituzione aperta, entrano finalmente i nuovi entranti del grande capitale – si fa per dire, stanno su piazza da trent’anni buoni.

I tre colpi in uno di Bertinotti

Che l’Unione, il centro-sinistra confuso di Prodi, sia esperienza esaurita Bertinotti non ha fatto che constatarlo. Si sciolgono e si ricostituiscono i vecchi partiti in forma di movimenti, quello di Veltroni, quello di Berlusconi, e Bertinotti ne prende atto. Poteva non farlo, lasciar vivere il governo. Ma questo non è detto, il governo può ancora durare quell’anno-due che comunque sarebbe stato il suo orizzonte. Mentre Bertinotti coglie tre frutti forse insperati: il ritorno al proporzionale, la costituzione di una vera area di sinistra, invece dei trucioli sparsi del Pci e del Psi, la sua personale elezione a statista, il politico che riconosce i dati di fatto e i rapporti di forza. Un vero politico costituzionale, quasi presidenziale. Per questo fa ombra a Lor Signori, anche giornalisticamente, e non è diventato materia di talk-show, fondi, curiosità, pettegolezzi. Ma in politica i fatti pesano, lo scongiuro non può molto.

lunedì 3 dicembre 2007

Primo, non apparire deboli

Prodi e il decalogo andreottiano: come e perché il Proferssore, sempre isolato e sul punto di soccombere, è il più forte di tutti.
La base della politica è non apparire deboli – della politica del mentore Andreotti e non solo (Andreotti che era debole, debolissimo, fu sempre solo, ma fu sempre temutissimo, tuttora lo è). Avviato alla politica da Andreotti, come giovane ministro quasi tecnico per un’estate trent’anni fa, Prodi si attiene alla linea del maestro in almeno dieci punti. Resisterà Prodi, non resisterà, gli scienziati della politica stanno facendo calcoli che non tengono conto dell’essenziale, Prodi non si pone insostenibili traguardi. Dorme bene la notte, sapendo che l’indomani la provvidenza avrà provveduto. L’importante è tenere i malintenzionati al guinzaglio.
Ecco i dieci punti:
profilo basso, sempre la stessa casa, sempre la stessa moglie, qualche passeggiatina (Andreotti andava pure in vacanza dalle suore);
fare partito da solo;
collaboratori di poco conto;
di fedeltà reciproca;
ministri di poco conto;
progetti vaghi: non confidarli, non elaborali;
fare e non dire;
aspettare e non prevenire;
ma reagire fulineamente;
negare l’evidenza: le cose s’aggiustano.
Resta fuori dal decalogo l’abbraccio, quasi adesione, al nemico: i fascisti prima, i comunisti dopo. Tutto questo ora non c’è più, ma resta che il fulcro di questa politica è farsi alleati i nemici, per sconfiggerli nell’abbraccio. Andreotti, che nel 1972 divise i neo fascisti portandone alcuni al governo, fu il primo nel 1974 a legarsi a Berlinguer nel compromesso storico, denunciando alcuni golpe di destra, per poi umiliarlo in ogni modo: governicchi poco rappresentativi, inefficienti, inutili, liberazione di Kappler, l’uomo delle Fosse Ardeatine, sterilizzazione della scala mobile, il ticket sui medicinali… Alla fine Il Pci perse per la prima volta in venticinque anni le elezioni, quattro punti in meno nel 1979.
Oggi l’agguato sarebbe secondo questa scuola, più che a Berlusconi, di cui il Professore non fa che sorridere, all’amico e alleato Veltroni – in termini proverbiali si direbbe: a chi ha più benzina, più fieno in cascina, più tenuta, più…

Pirelli & C. contendibile

Prima il dividendo straordinario esentasse, poi il buy back, e terzo, se necessario, l’apertura del gruppo alla contendibilità. Dissolta nella zavorra Telecom la sua aureola di mago dei soldi, e anzi umiliato da Prodi e De Benedetti che Telecom gli hanno sottratto a vile prezzo, così lui la pensa, Tronchetti Provera tenta di rifare la macchina dei soldi con Pirelli & C. Il business va bene, e il riacquisto di tutte le quote di Pirelli Tyre non è da escludere. Ma non è col business che si fanno scintille. Mtp vuole rinverdire la giovanile baldanza di dieci anni fa, del superaffare Corning, e poi di Telecom, dal suo piccolo scranno a capo del gruppo di famiglia. Dove ha soci di tutta fiducia. Ma è con un altro occhio che ora guarda al gruppo, non più quello del padrone geloso: le banche sono avvertite e i fondi. È attraverso la sua Camfin che Mtp potrebbe allargare le maglie sul gruppo Pirelli. Camfin ne ha il controllo solido: ha il 44 per cento del patto di sindacato, che controlla il gruppo col 46,2 per cento, più un altro 6 per cento in appoggio a questa quota. Una terza quota del 3 per cento sarebbe alienata da Camfin su questa partecipazione extra-patto, in aggiunta a quelle già detenute da Amber Capital e Centaurus Capital, in modo da portare, seppure solo simbolicamente, il controllo Mtp su Pirelli & C. sotto il 50 per cento.

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (9)

Giuseppe Leuzzi

Antimafia. Un gentiluomo di Seminara recita in casa e in macchina, a beneficio delle microspie, la sceneggiata di come, spendendo il nome riverito di suo padre, sia riuscito a mettere pace tra i due clan mafiosi di San Luca in asperrima guerra. Non rischia nulla, solo di essere definito mafioso, ma la collocazione è da tempo acquisita e semmai si tratta di uscirne – ottenerne i benefici - con la collaborazione.
La sceneggiata ha parecchi buchi. Identifica San Luca con Polsi, mentre sono due località distinte e distanti. Propone una mediazione senza capo né coda. A clan ben più potenti, lontani ed estranei. Dei cui convitati, al pranzo della riconciliazione, dà i comunissimi cognomi. Beneficia della meraviglia del figlio, che il tragediatore s’è portato dietro, a tanti “nomi eccellenti”, ma l’ingenuità dell’adolescente non cancella il senso di falso dell’intercettazione. Il summit si celebra con un pranzo, almeno così pare, in cui ognuno paga per sé. Tutti sono contenti, ballano e saltano - "gli Strangio, i Pelle, i Giorgi e i Nirta" - e cantano "la canzone inno della Madonna della Montagna di Polsi". Per il gusto della sociologia, che affascina i pentiti, il superuomo di onore ha sbriciolato dall'inizio ogni sua autorità di mediatore: a San Luca è gente di polso, Seminara invece è "piena di porcherosi che rubano casa per casa”.
Un summit di mafia dove si paga il conto è da ridere. Mentre si sa che la 'ndrangheta purtroppo non è ridicola. L’intercettazione è però servita a mettere fuori causa il parroco di San Luca e il vescovo di Locri, e questo basta: non sentiremo più parlare di don Strangio e monsignor Bregantini. Opportunamente l’intercettato cita i due reverendi come testimoni del summit e della pace mafiosa, benedicenti – dicono pure “shalom!”. I due preti, che pure sono del fronte antimafia, evidentemente stanno sulle scatole a qualcuno dell’apparato repressivo.
È questa la lotta alla mafia in Calabria. È questo che vi fa più forte la mafia, la lotta alla mafia.

Spiegava un anno e mezzo fa al giornalista Peppe Racco del periodico calabrese “La Riviera” il magistrato Roberto Di Palma, Sostituto Procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria: “Sono stato a Palmi nove anni e, per mio puro diletto, ho annotato i nomi dei magistrati che in quei nove anni sono arrivati e poi sono andati via. Circa 103 o 104”. A proposito di certezza della pena il dottor Di Palma portava l’esempio di un’associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti: “Prima udienza a Palmi febbraio ’94. Oggi stiamo ancora celebrando il processo. I fatti sono accaduti nel 1990”.
Il giudice incute timore. Istintivamente, per il rispetto della giustizia. Che è il fondamento dell’umanità, l’ambizione della filosofia, l’oggetto del socialismo. Ma in realtà i giudici sono un’altra cosa: sono funzionari litigiosi. L’orizzonte hanno limitato, alla giurisprudenza e al leguleismo, l’argomentazione per se.

La vera questione morale è la stessa questione morale: per come viene posta cioè, per le sue finalità, peraltro non celate, e per come viene gestita. Sempre selettiva, quasi sempre intimidatoria, e mai risolutiva, tant’è vero che si aggrava.
La militanza non giustifica la discriminazione e la sopraffazione. La questione morale non peggiora per colpa del popolo bue, che non ne è coinvolto e poco ne sa, ma perché è perversa.

“Basta vivere qualche tempo in Sicilia per constatare che i legami di clan possono assorbire completamente i legami statali”. È un inciso in un’opera lutulenta, poco registrata, di Ernst Jünger, “Der Arbeiter”, § 77. Ma lo scrittore, che in Sicilia c’era stato, ha ragione. Lo Stato in Sicilia, fino al Sistema sanitario nazionale, era i carabinieri, scuola compresa. Poi, insieme con l’SSN poco meno di quarant’anni fa, lo Stato è diventato una cosa dovuta: il posto, l’assegno, l’appalto.
Dal Dominio all’Anarchia, direbbe Jünger: non c’è il passaggio intermedio, della Legge. Ma clan è la parola più appropriata della sintesi di Jünger, non si tratta solo di cosche e di mafie: il passaggio intermedio della Legge non c’è nemmeno a palazzo di Giustizia.

Osserva Nazzareno, a torto soprannominato lo Stolto: “C’era onestà, serietà, dignità. Ora anche il tempo è insofferente, le bestie, le piante: non sanno come rigirarsi”.

Sudismi\sadismi. 30 gennaio 2006. Si condannano a pene lievi, con tante scuse, o si assolvono, gli Ali Misbah, combattenti dichiarati di Al Qaeda, con tanto di arsenale in cantina, superconti in banca, batterie telefoniche. Quando non li si dichiarano resistenti. Non c’è verso che il terrorismo entri nel codice dei giudici italiani, perché essi sono “impegnati”, lavorano cioè per la giustizia contro lo sfruttamento. Ma se uno è meridionale basta niente, una semplice lettera anonima, per mandare in carcere, condannare, e comunque distruggere, per concorso esterno in associazione mafiosa in mancanza di meglio: gli stessi giudici giustizieri in questo caso sono inflessibili. Per la ragioni equivoche dell’antimperialismo, certo. Per il misoneismo della giustizia anche – nulla di più incartapecorito di un giudice in Italia: fra cent’anni condanneranno anch’essi i terroristi. Ma anche per un razzismo diffuso. Tra gli stessi giudici di estrazione meridionale: si fa carriera solo con i pregiudizi. La giustizia?

Si sarà processato Andreotti per “dimostrare” che non era colluso con la mafia, via Salvo Lima. Non vedeva e non sentiva. Anzi, non ha mai incontrato un mafioso, nemmeno accidentalmente.
La storia recente si può anche sintetizzare così. Partendo dalla stupida guerra di Palermo a Andreotti, per esempio. Con 120 mila carte. Che, ammettiamo che siano pagine, sono comunque più della Treccani, che nessuno ha mai letto né può leggere. A meno che non volessero erigergli un monumento.
Andreotti, essendo un politico, è andato a caccia di voti. Che sono buoni di chiunque, anche del diavolo. E i voti si trovano soprattutto in Sicilia e a Milano, dove ci sono più elettori. In Sicilia Andreotti ha trovato Lima, il voto già fatto. A Milano si è imbattuto in un fronte compatto, di no. E sì che ci ha tentato: con la chimica dei pareri di conformità, migliaia di miliardi regalati, con Sindona, con Stammati alla Commerciale al posto di Mattioli, con Ciarrapico mediatore. Finché non vi si è sciolta misteriosamente la Dc, con gli ometti di Mani Pulite, quando tutto si è saputo della tangente Enimont. Gestita da Bonifazi, imprenditore andreottiano. Ma pagata dal solito socialista, nella fattispecie uno specialissimo, Craxi, capro espiatorio della cattolicissima tragedia. Da cui il solo Andreotti è andato misteriosamente indenne. Dopo essere stato battuto, dalla Dc e da Craxi, nelle legittime aspirazioni presidenziali.

Pasolini è a Pescasseroli con Ninetto Davoli sedicenne, che per la prima volta vede la neve (“Empirismo eretico”, § “Appunti en poète per una linguistica marxista”). E il divertimento del ragazzo, “il Ninetto di adesso a Pescasseroli”, gli viene da collegare “al Ninetto della Calabria area-marginale e conservatrice della civiltà greca, al Ninetto pre-greco, puramente barbarico, che batte il tallone a terra come adesso i preistorici, nudi Denka del Sudan” - per Pasolini sempre la Calabria è Africa.
Si sa che Pasolini ha la tradizione in grande stima. Ma per gli sfigati, che vedeva primitivi. Pasolini aveva un senso molto vivo dell’altro, e molto riduttivo.

Croce e Giustino Fortunato Gramsci disse “i reazionari più operosi della penisola”. Voleva essere un’ingiuria ed è un complimento. Al confronto col Pci cioè, che al Sud ha portato solo propaganda, per una sorta di “voto di scambio” nazionale, non ha cresciuto nulla.