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sabato 5 dicembre 2009

Il poeta che amava la poesia

“Qualunque parola tu dica –\rendi grazie\alla perdizione”. Non è grato il destino dei salvati. È questo il buio non tanto oscuro della poesia di Celan. Primo Levi lo accusava di oscurità e nichilismo, ma Celan non si cela, è solo un poeta critico: se è ossessionato dalla morte, lo è anche dalla lingua, che lo ispira e lo diverte, la lingua tedesca, fantasioso, acrobatico, inventivo.
Fatta la tara dell'acuta sensibilità, non aveva molto peraltro da stare allegro. Il più grande poeta innovativo della lingua tedesca nel Novecento sarà stato uno che le avanguardie tedesche hanno rifiutato, perfino con disprezzo. Giuseppe Bevilacqua ricorda che Celan, invitato da Ingeborg Bachmann al Gruppo 47, fu isolato e costretto ad andarsene, da gente del calibro di Grass e Uwe Johnson. Cioè, Bevilacqua non lo ricorda, ma il fatto è noto: avvenne proprio in quel 1952 in cui, dice il germanista, “il poeta tenta di costituirsi una «seconda soglia»”, di vita e di opera, salvando la memoria e la lingua materna. E approda alla sua cifra, “un modello di linguaggio”, specifica Bevilacqua, “allo stesso tempo cifrato ed esplicito; cifrato per sottrarlo alla declamazione frettolosa che «indora» la parola e quindi la sterilizza”. Il caso esemplare è l’“oscuro” Char, contro la sgargiante retorica di Eluard – che sono anche due casi di chi la Resistenza l’ha combattuta e di chi la canta.
Celan è un poeta critico. Uno che evita di pubblicare, o è in grado di rivedere, riesaminare, il già pubblicato (ritira presto la sua prima pubblicazione, a Vienna, straniero, già di ventisette anni). A più di un titolo innovativo del Novecento tedesco, più di Benn, seppure rifiutato dalle avanguardie. In una lingua, di una lingua, che lo rifiutava, anche maldestramente. Ma musicale. Di una musicalità ricercata. Anche risonante, cantabile. Con aggettivazioni omeriche, felicemente, naturalmente: zeitroten, spätrot, rosso serale, messerumfunkelte, di lame sfavillante, sonnendurchschwommene, del mare attraversato dal sole. E sostantivazioni: Nachtgewiegte, ciò che la nota culla, Tagenthobene, sottratto al giorno, la Zwiegestalt, l’ambigua figura. In “Assisi”, a contatto col santo, si vuole anche fortemente ritmico e rimato. Ugualmente ritmici e assonanti i due componimenti precedenti e più noti, “Innestato nell’occhio” e “Chi ci contò le ore”.
È una poesia che si dovrebbe leggere con le note, le note esplicative. Che in traduzione non ci sono, ma sarebbero poi una: il lutto. La seconda metà dei suoi cinquant’Anni Celan l’ha trascorsa nel lutto. Sempre interrogandosi e mai liberandosene, fino a soggiacervi, alla resa col salto finale nella Senna. Sovrastato dalla solitudine del Fremdling, l’eterno estraneo, dalla sabbia, il buio, il freddo. Ma con un’oscura fede nella poesia. Inetto all’amore: “Questo sfarfallìo, questo volteggiare intorno,\io lo sento – e non lo vedo!” O: “In due nuotano i morti”. Ma non all’amore della poesia, costante. Molto ben accudito, sempre perfezionato.
La poesia dopo Auschwitz naturalmente c’é. È quella del dolore, del disinganno per l’uomo di fede. Dell’io sommerso, dalla sabbia, dal ghiaccio. Delle ripartenze (di onda in onda, le due porte, la doppia chiave). In questa sua seconda raccolta, naturalizzato ma straniero a Parigi, dove poeta in tedesco, Celan vede l’amore e la bellezza, ma sempre su fondo malinconico, la sabbia, il buio e il freddo sono ricorrenti. La sera della parola, la dice, la notte della parola. La memoria di un mondo rubato. E una morte che non muore, occupa anzi la memoria. Quel misto di memoria intransitabile, fredda nella sua terminologia, ghiacciata. Ma sempre musicale, e quindi comunque allegra, vivente – studiata in quanto sofferta.
Paul Celan, Di soglia in soglia

Spatuzza spaventa

Un record. Un mafioso pentito di cui non sono state verificate le affermazioni è teste a carico in tribunale. Dopo una promozione pubblicitaria di sei mesi. Con un apparato scenico costosissimo. Un pentito che parla per conto della mafia, come sfrontato avverte. La quale è, insiste, “per me madre natura, come fosse un padre”. Contro un – fino a questo punto – incensurato. Ma un record negativo, e infatti tutti scappano, compreso Di Pietro.
Che un simile mostro, personale e giuridico, sia stato creato ed esibito al mondo in pompa dai giudici italiani ha spaventato più d'uno. Ha creato un anticlimax, un effetto contario a quello ricercato. Che non ci libererà dalla giustizia che da vent’anni jugula l’Italia, ci vuole ben altro. Ma ha aperto più di una crepa. Tra gli stessi promotori: tra i magistrati fiorentini ai quali Spatuzza ha promesso la verità della strage dei Georgofili più di uno ha storto la bocca.
Politivamente, l’attesa annunciazione di Spatuzza, preparata amorosamente dalla pie beghine che gli insegnano la teologia, è finita nello sconcerto generale. Solo Bottiglione è d’accordo col neo pentito, e questo ne dice tutto lo squallore. Non solo Di Pietro, anche “La Stampa” del buon Calabresi, che non è figlio dell’odio, tituba. Uno che ha ucciso un centinaio di persone, donne e bambini compresi, che disquisisce sulla parola “anomalia”, è un’anomalia. Una corte che non fosse stata siciliana l’avrebbe buttato fuori dal suo processo.
Spatuzza in tribunale ieri rimarrà comunque come un documento storico incontrovertibile. Della mafia. Dell’antimafia. Degli sprechi – il pentito svirgolava sotto un orologio fermo alle 16 e sette, nell’aula bunker di massima sicurezza. Della politica italiana negli anni, purtroppo, di Napolitano. Dell’oppressione in cui la mafia e questa antimafia tengono il Sud. A opera di giudici e sbirri meridionali, ma con leggi dello Stato.

La Dc già in campo contro Bersani

Se pensava in una ripartenza, ha avuto subito il no di mezza squadra, prima ancora di scendere in campo. Bindi e Franceschini alla manifestazione di Di Pietro, il suo presidente e il presidente del suo gruppo parlamentare, i giovani vecchi routier democristiani del partito Democratico, sono molte cose, ma non sono una sfida a Berlusconi. In termini di sfida, sono contro Bersani. È una conferma come un’altra che il cammino del partito Democratico dovrà essere lungo, come lo stesso Bersani prospetta, ma è una conferma anche che le due anime del Pd non si conciliano.
Bindi e Franceschini sono anche due clericali. Quindi due che con Berlusconi ce l’hanno per via della ragazze. E sono due a cui piace andare in tv, questo è noto, per una comparsata ucciderebbero la madre. Ma capitalizzano politicamente sfidando Bersani, o almeno così pensano. Il segretario ha molti mezzi per neutralizzarli. Per primo la composizione delle liste alle amministrative: dovrà scalzarli localmente. Anche Bindi e Franceschini però ne hanno contro di lui. Per primo far fallire ogni tentativo di qualificare il Pd in Parlamento attraverso le riforme: non ci saranno riforme, possano i giudici arrestare anche tutti i Dc, ex naturalmente. E se ciò non fosse la frana è pronta di "non possumus", credenti coscienziosi con la fede in Casini. Anche senza passare per Rutelli.

giovedì 3 dicembre 2009

La videocracy è della Rai

È molto mediocre “Videocracy”, il film che “L’Espresso” offra ai lettori: nulla che non si sapesse, “Annozero” è molto meglio, una sola puntata di “Annozero”. Però fa pensare: perché il film non è interessante? Per la sessuofobia un po’ luterana. E perché ripete un copione sfruttato. La novità – la verità – sarebbe stata di fare proprio “Annozero”. Non è difficile.
Si provi a immaginare un “Annozero” con Berlusconi e i berlusconiani veri in studio. Non le maschere angeliche Belpietro e Ghedini, longobardi dagli occhi cerulei. E che si comportano come da copione: accusano ogni altro delle peggiori nefandezze, ghignano sarcastici, esibiscono carte, lasciano intendere, invocano carceri e ghigliottine, l’occhio scuro minaccioso nell’illuminazione infernale, con i lazzi e gli applausi del pubblico, a regia. Dopodichè, dopo tre ore, se ne vanno a laute cene, pieni degli indici d’ascolto, che non sposteranno i voti ma tanti soldi sì.
Non è difficile, e anzi sarebbe normale che così fosse. Che ciò non avvenga è un altro copione, magari già sperimentato e noi non lo sappiamo: magari Berlusconi “sa” che “Annozero” senza di lui gli rende di più. In voti magari, non in soldi, di cui non ha bisogno. La trasmissione di Santoro, col suo sfondo infernale, ha il fascino sinistro di una sedduta del CC del PCUS, come si immaginava il CC del PCUS, gli stessi colori, gli stessi discorsi incolori, gli stessi occhi traditori, che scrutavano amici fraterni e belle menti, per concludere tutti all'attesa fucilazione - non si spiegano altrimenti gli occhi sbarrati e i ghigni compiaciuti degli spettatori in sala, ancorché comparse pagate. E viceversa: Santoro “sa” che con Berlusconi convitato di pietra il suspense resta sempre teso, un nuovo record di ascolti è nell’aria, e la stagione è salva.
Anche questo sarebbe normale, lo è, e non c’è da scandalizzarsi. Se non che avviene alla Rai, che malgrado tutto resta un’emittente pubblica, con qualche finalità quindi di salvaguardia dell’interesse pubblico. E che ce ne frega a noi degli interessi di Berlusconi e di quelli di Santoro (e di Fazio, Annunziata, Floris, Gabbanelli)? Tutto il veleno dell’antipolitica è in questa videocracy, della Rai, non nelle cosce delle veline.
Erik Giannini, Videocracy

Violante Placido dopo la Loren

Sceneggiatura obbligata e scontata. Con la cura di una buona serie tv. Ma un vero personaggio vi si condensa: Violante Placido è il primo personaggio femminile del cinema italiano dai tempi della “Ciociara” e Sofia Loren. Pensato e realizzato attorno a una pornostar – a una che non lo faceva per soldi. “Merito” del cinema? Delle donne italiane? Ma non è pensabile che sino buone solo a quello. Delle attrici allora?
Interpretazione non memorabile ovviamente, il genere è subalterno. Ma sì per lo spessore e la qualità. Peccato che non possa concorrere a nessun Oscar: Violante batterebbe Marylin d’“A qualcuno piace caldo”.
Sky Tv Cinema, Moana, miniserie

Ombre - 36

“Figlio mio, lascia questo Paese”, ha intimato Pier Luigi Celli da “Repubblica” a Mattia, ventenne neolaureato. Fuggi, gli consiglia, i tronisti e l’Alitalia. Non se stesso - insomma, i sessantenni. O i treni pendolari, che vanno peggio di Alitalia.
Ma, poi, Enrico Cisnetto concorda con lui. Enrico che Valentina ha destinato alla nascita a un destino cosmopolita a Berlino. Buon pro!

È compassionevole Milano come suole con i due terroristi estradati da Guantanamo. Giudici garantisti li hanno attesi in aeroporto, e poi li hanno interrogati prima di carcerarli. Per tre ore, dice il giornale: tre ore l’uno, o tre ore per tutt’e due? Ma non importa: i due non capivano che il carcere non è per loro automatico, che dei giudici li aspettassero per interrogarli, alla presenza di veri avvocati della difesa.
I giudici milanesi sono sempre comprensivi, con i terroristi.
Ma i due magari erano storditi da una giornata di volo.

Sotto processo, di nuovo, Cuffaro, Formigoni, Moratti, Berlusconi, insieme con Podestà e Elvira Savino, sei incriminazioni tutte in un giorno. Questa destra è proprio assatanata dal malaffare. E impenitente: ruba e si annette la mafia alla vigilia di elezioni.

Fini parla a Trifuoggi come a un familiare. Trifuoggi è il Procuratore capo di Pescara che abbatté il Pd in Abruzzo. Ma naturalmente i due non si frequentano, sono lì per le istituzioni che rappresentano.

Marina Berlusconi continua a querelarsi contro “Repubblica”. Perché, pensa di vincere le cause?

Per protestare a Pechino contro il G 2, il duopolio Usa-Cina sul mondo, l’Unione europea manda
il ministro lussemburghese Juncker. Si vede che ha perso il gusto della metafora – l’intelligenza. L’Unione si fa un dovere della democrazia, per cui qualsiasi scarrafone è legittimamente bello a mamma sua, ma questo non implica la rinuncia al senso del ridicolo.

Cloney-Canalis: era stato scritto (http://www.antiit.com/2009/11/ombre-34.html) e si verifica. I due non si tengono più la mano, nemmeno per i fotografi. Clooney si spende per un caffé, seppure della Nestlè, perché non per un paio di foto con una bella donna? La donna-caffè.

Dopo averne rischiato la rielezione a Bari (lo salvò il giudice Scelsi, fatto tornare a razzo dalle ferie per lanciare la D’Addario), lo candida alla presidenza della Puglia. Contro Vendola, che era riuscito a conquistare la Regione cinque anni fa malgrado il suo boicottaggio. Si spiega che D’Alema resti a Gallipoli una grande speranza della politica sempre perdente.
A Emiliano, è di lui che si parla, il sindaco-giudice della Procura di Bari, D’Alema aveva però rifatto la città in questi cinque anni. Sarà forte nei lavori pubblici.

Il trans di Marrazzo è in Italia da dieci anni, è sposato a Velletri, gestisce via Gradoli, con mazzette pesanti e percosse, ricatta mezzo modo. Tutto questo si sa grazie al lavoro dei giornalisti. Gli inquirenti, l’antimafia di Roma e il Ros dei carabinieri, che ci lavorano da sei mesi, lo proteggono come un pentito.

Di Pietro ironizza su Napolitano, che affida “a questo Parlamento, con troppi conflitti d’interesse con la giustizia”, il compito di riformare la giustizia. Lui però si esclude, né lui né De Magistris né altri dei suoi eletti: i giudici non hanno conflitti d’interesse.

Il presidente della Repubblica si vorrebbe rivolgere ai giudici, ma ne parla invece ai giornali. Per pudore? Per dare più risalto a ciò che dice? O ha paura anche lui dei giudici?

Marrazzo chiede perdono al papa. E lo fa sapere ai giornali. Sarà la sua una vicenda da velina?

mercoledì 2 dicembre 2009

Il razzismo degli altri

Tutto voluttuosamente raccontato, il razzismo, nel ridicolo oltre che nella truculenza. C’è l’Olocausto ovviamente, e l’apartheid, e molto altro: la puzza di aglio, la propaganda di guerra del 1914-18, perfino Siena e Firenze in guerra, i cori negli stadi, i partiti xenofobi di questi anni. Non c’è il leghismo contro il Sud. Di cui Stella è firma autorevole di successo sul “Corriere della sera” (anche oggi, per chi volesse documentarsi:"Se la Befana arriva alla Regione Sicilia" http://archiviostorico.corriere.it/2009/dicembre/02/Befana_arriva_alla_Regione_Sicilia_co_9_091202071.shtml). Nella prossima edizione magari ci metterà un compendio delle sue odiose corrispondenze sul Sud, di cui è stato a lungo l’onorato specialista del giornale milanese.
Gian Antonio Stella, Negri, froci, giudei & co. L’eterna guerra contro l’altro, Rizzoli, pp.331, € 19,50

Milano perdona Tobagi

Gli anni di piombo? Tutti pietas. Il modello fortunato di Mario Calabresi in Mondadori ricalca Einaudi con Benedetta Tobagi. E la città è salva, Milano sempre si assolve. “Benedetta ha letto e studiato tutti gli atti processuali, con rabbia, amarezza e tanta voglia di capire un periodo complesso come gli anni Settanta”, così il libro si presenta. Ma non è storia: non di quello che Tobagi era, e rappresentava a Milano e al “Corriere della sera”. Non è un saggio politico - il linguaggio è questo: “A quel tempo la politica era una cosa terribilmente seria, le etichette e le logiche di appartenenza prevalevano spesso sulla sostanza delle persone” (dove “spesso” sta per i gruppi che non si possono nominare). Non è un libro di nera, come vanno di moda. Non è nemmeno una vera cronaca giudiziaria, di cui ci sarebbe gran bisogno: l’assassinio di Tobagi e la sua copertura sono una delle non minori vergogne di Milano. Non è un libro di memorie, Benedetta aveva tre anni quanto il padre fu ucciso, di appena trentatrè. Da un giovane bene di Milano.
C’è Caterina Rosenzweig, la pasionaria che viveva con l’assassino Barbone, sparita dall’inchiesta dello zelante procuratore Spataro – lo stesso che per molto meno, la cattura di un imam a Milano, ha incriminato i capi dei servizi segreti italiani e mezza Cia. E c’è Craxi, sebbene non sia simpatico a Benedetta – anche se suo padre gli era molto legato, “troppo” secondo i giornalisti che spadroneggiavano al “Corriere della sera” e in Rizzoli. Ma il “Corriere” non c’è. E non si vede come. Ha ricordato Chiaberge sul “Sole 24 Ore” del 15 novembre di quando nel 1978, sbarcato alla Rizzoli, dovette smentire di essere “amico” di Tobagi di fronte a un membro del Comitato di reazione che lo interpellava con la stella rossa sul berretto alla Lenin. Di quando, un anno dopo, richiesto al telefono da Tobagi mentre era in riunione in redazione, si rifiutò. E di quanto, un anno dopo, seppe dell’assassinio di Tobagi, a opera di “enfants gatés della buona borghesia milanese”.
La storia è bruttissima. Tutta politicizzata, in senso improprio e anzi violento – di “ordinaria” giustizia politica già a quei tempi. Il capitano dei carabinieri che ricevette l’informativa sui nomi e le circostanze dell’assassinio di Tobagi e la cestinò – la relegò agli atti – sarà otto anni dopo il colonnello col quale si confesserà Marino, l’accusatore di Sofri. Avviando infine in chiaro la orrida stagione, di cui ancora Milano si vanta, della giustizia politica.
Uno è tentato di dire che Tobagi non avrebbe approvato: lui era uno che parlava chiaro anche nella mafia del terrorismo, densissima a Milano. Il che è solo vero. Ma non è la cosa più importante di queste pubblicazioni. La cosa più importante, anzi tragica, è che, oggi come allora, di quel terrificante clima di odio e intimidazione si può scrivere solo in punta di penna e facendosene una colpa. Segno che a Milano e nell’editoria il “gruppo di comando”, se non di fuoco, è lo stesso.
Benedetta Tobagi, Come mi batte forte il tuo cuore. Storia di mio padre, Einaudi, pp.302, € 19

Il filo si perde verso Costantinopoli

A Kardamyli Leigh Fermor ha da tempo completato la memoria del suo memorabile viaggio a piedi da Londra a Costantinopoli negli anni 1934-37, iniziata con “Tempo di regali” nel 1977 e di cui questa seconda parte è uscita nel 1986, ma non trova il filo. È possibile. Qui il suo talento di far rivivere il nulla, luoghi scomparsi, parole, usi in disuso, appare disappetente. Raggiunge sempre le vette del narrare breve note ai suoi lettori, anche in un capoverso, o in una frase. La storia del Filioque, che tuttora alimenta inimicizia acerrima tra il Vaticano e Costantinopoli, è magistrale in mezza pagina. Ma più che altro si parla di baroni, conti e duchesse con lo stampo, o zingari e pastori, poco sbalza: Leigh Fermor gira l’Austria, l’Ungheria, la Transilvania come i trovatori la Provenza e l’Aquitania, da un castello all’altro. Ci sono anche disattenzioni. Errori (Mattia Corvino alla liberazione di Otranto dai turchi, o le guerre di successione al trono di Polonia). Ripetizioni e imprecisioni nel calderone della Transilvania, tra le tante orde che fino ai turchi presero possesso a ondate dell’Europa latina.
Ritorna tre volte la storie dei mongoli che nel Duecento avevano conquistato il mondo, dalla Cina all’Ucraina e all’Ungheria. In un anno, o poco più. Ma all’improvviso, essendo morto nel Karakorum Ogoda, il successore di Gengis Khan, i capitribù voltarono i cavalli per correre alla successione. Dopodichè si scordarono di tornare. E questo è forse augurale, se al posto dei mongoli si mettono i cinesi invasori dell’Unione europea.
Era di Leigh Fermor originariamente, di un suo personaggio, il conte Jëno Teleki, l’idea di far derivare gli ebrei ashkenaziti dai Khazari, la fantomatica tredicesima tribù convertitasi dal paganesimo all’ebraismo. Confidata a Koestler a pranzo in una taverna di Atene, è divenuta un anno dopo “La Tredicesima tribù” dello stesso Koestler.
Patrick Leigh Fermor, Between the Woods and the Water, Nyrb, pp. 294, $ 15,95

lunedì 30 novembre 2009

Problemi di base - 21

Spock

Che figura ci fa Cosa Nostra, se Berlusconi è il capo della mafia?

Il killer Spatuzza in carcere diventa teologo. Il suo boss Graviano diventa economista. Tutti con buoni voti. Bene assistiti dai tutor. È il carcere una buona università, o l’università funziona bene solo in carcere?

Perché Dio non tollera gli scherzi?

È vero che il centralismo democratico è nato in suo nome?

Dio si dice che l’abbia inventato sant’Agostino: non si bastava?

Sappiamo chi per primo ha ucciso, ma non chi per primo disse all’altro “ti amo”: dove comincia la storia?

Perché il presidente della Repubblica per le celebrazioni dell’unità non fa aprire finalmente gli archivi della Difesa sulla lotta al brigantaggio?

E perché parla ai giornalisti se intende parlare ai giudici?

spock@antiit.eu

La forza dell'antisemitismo

Un racconto dell’antisemitismo nella Germania profonda, prussiana. In questo racconto a torto trascurato, pubblicato nel 1859, l’anno della morte, il germanofilo De Quincey anticipa di quasi un secolo le “ragioni” e le rovine dell’antisemitismo in Germania: di crudeltà, d’insensibilità, d’insensatezza. Fino alla rappresaglia. Sotto gli occhi che non vedono o non capiscono del tedesco eponimo, colto, cosmopolita, parte eletta della città e ad essa forestiero. Il De Quincey inquieto vi agita da maestro “le forze della paura”. Soprattutto della passione comune, meschina e entusiasmante.
Thomas De Quincey, Il vendicatore, Passigli, pp. 84,€ 8

L'altra lingua dei libri in Calabria

Un linguaggio diverso emerge, timidamente, come già in “Italian Sud-Est” e poi in “Baarìa”, sotto la cappa ambrosiana (giustizialista, leghista, berlusconiana, morattiana) che l’Italia omologa al preteso genere international dell’amorfismo. Col recupero occasionale del voi, tanto più socievole del lei, il rito del caffè, la conversazione come esplorazione (l’ignoranza temperata dalla curiosità), il tempo lento. E soprattutto con l’ironia che da sempre, da Swift, s’inocula nel rifiutato. Anche, purtroppo, con la filosofia, che in provincia è il primo passo verso la misantropia – di cui Reggio Calabria ha esempi illustri, dalla “Chanson d'Aspremont” a Diego Vitrioli. Questo “Odore dei libri” vuol essere molte cose, ma alla fine è un “libro della città”, di una città del Sud, al volgere del millennio.
È il libro di un libraio. Non sui libri, sulla libreria. Attraverso i libri certo, e i clienti affezionati. Materia della narrazione sono i personaggi dei libri, le trame, di più quelle “segrete”, la piccola vita di una libreria. Una “letteraturizzazione della vita”, che l’ironia però alleggerisce e anima, con le illustrazioni “infantili” di Alice Caccamo, e situa dentro le cose. Fulminante l’apertura, il sogno del cane Pallino di Bulgakov, “Cuore di cane”, con le “Uova fatali” della rivoluzione, da cui escono mostri. Una o due riletture sono prolisse. “La metamorfosi” è una, che pure rivede con Kafka i fatti reali della vita, quelli che accadono comunque, la malattia, la separazione. Ma più spesso i libri rivivono con brio, con gusto, gli “Antenati” di Calvino, il Mattia Pascal ovviamente, l’Ivan Il’ic tolstojano, il Dostoevskij delle “Notti Bianche”. Dove emerge incognito il personaggio più sorprendente, tanto è dimenticato: Schiller, lo scrittore delle tragedie - “Schiller aveva rovinato la gioventù dell’epoca preparandola all’anarchia”. O col passeggiatore Robert Walser, ma per entrare nel mondo e non per prepararsi a uscirne, per la buona ragione, s’impenna il narratore, che “mio padre mi ha lasciato in eredità dei pensieri” - una chiusa che Flaiano o Campanile avrebbero invidiato.
Un apologo. Divertito, sotto le allucinazioni di superficie. Divertente. È un classico. Canetti immagina Kien, il suo bibliomane, ascoltare i libri parlare fra loro di notte. Roversi pure, in una recente intervista, il poeta-librario bolognese oggi quasi novantenne: E cosa vuole che facciano i libri di notte? Immagini la biblioteca dell'Archiginnasio, in inverno, gelo e neve fuori, buio dentro, i libri disposti in ordine bizzarro, per altezza e dimensione, magari si trovano fianco a fianco due volumi incompatibili, si parlano, litigano, si sfidano a duello... Poi, la mattina, quando torna il bibliotecario, tutto è di nuovo in ordine”. Caccamo li distare parlandoci.
Il libraio apre la mattina inchinandosi ai libri, grandi maestri. Li odora. E ci parla, sdoppiandosi in varie persone: il Sognatore, il Maestro scultore, lo psichiatra Savio Gentile. Con il quale, nella malattia, muta l’animo – il narratore dice l’anima. Si costruisce in breve multiplo, con la stessa acribia filologica di Pessoa – il suo più proprio alter ego, anche nell’esistenza minima, quotidiana, ma uno scrittore col quale invece paradossalmente non dialoga. Uscendo indenne dalla sua stessa figura camaleontesca, che s’immagina tormentosa per un negoziante che l’occhio del cliente vuole confuso col negozio, ed è rischiosa per il lettore del suo libro. Forse perché dotato di forte, incontenibile, capacità aforistica – benché pericolosa: “In una società iniqua un innocente non ha speranza”, è “uno scandalo, un pericolo e un crimine”.
Sregolato, “L’odore dei libri” è del genere disusato della satyra, che raggruppa e trapassa i generi, narrazione dell’esistente più che di una storia. È un libro anche risarcitorio, si sente, un “libro degli amici” familiare. Caccamo è il libraio di Culture, la libreria di Reggio Calabria, dove “la gente non entra in libreria”. Dietro la villa Genoese Zerbi, che ospita le mostre della città, cui migliaia di persone si affollano. Ma più che dalla disattenzione minacciato dall’acedia, provinciale, meridionale, sottile, invadente, che finisce nel rifiuto della città e del mondo, tanto forte quanto lo è – lo è stato – il disegno adolescenziale - solitario – di conquistare il mondo, tutto, subito. E tuttavia il libro è sempre vivo. La storia visionaria scorre naturale, più Savinio che Kafka, nel senso della lievità e dell’apparente inconguità dell’approccio: la storia che si propone ai limiti dell’assurdo e invece si scioglie nel verosimile e perfino nell’ordinario. È lo scarto che origina qui l’umorismo.
Caccamo, “libraio di Reggio Calabria”, ha pubblicato in autoedizione il libro più promettente e, con poco editing, forse più riuscito del 2008.
Vincenzo Caccamo, L’odore dei libri, Libreria Culture, pp.145, € 18