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sabato 26 marzo 2022

Ombre - 607

Tace Mattarella. È disorientato Draghi: un giorno manda armi e aumenta le spese militari, il giorno dopo, bacchettato dal papa, promette: “Cerco la pace, parlerò con Putin”. Eppure hanno consiglieri diplomatici. Scontato il rosario bruxellese, niente si sa e si può dire del resto del mondo. 


Ne sa di più la Farnesina, il ministero degli Esteri? Se l’Italia ignora il mondo la colpa non sarà di un ministero derubricato a agenzia viaggi, tutto spesato, per qualche signora e per Di Maio?

 

Gli Stati Uniti non apprezzano i “giri di valzer”. Nemmeno le “alzate di capo”. Il secondo Conte aveva recuperato su Trump (l’entusiastico tweet del “Giuseppi”) dopo le sbandate del primo Conte per la Cina. Ma Di Maio, che è ministro degli Esteri? Sarà per questo che parla solo con alcuni ministri africani – non con tutti.

 

Non abbiamo più saputo nulla delle banche colpite dalle sanzioni anti-Russia, delle banche occidentali a Mosca, per l’Italia Intesa e Unicredit – che peraltro la Borsa sembra riapprezzare. Se non che le banche americane, che non hanno attività sensibili in Russia, insistono per aggravare le sanzioni. Dopo essersi pagati gli interessi sui btp russi in dollari. E mentre ne fanno ancora scorta. Tutto questo è bizzarro, molto.

 

Gravina, il presidente della Federcalcio (Figc), quello dell’Italia battuta in casa dalla Macedonia del Nord, si era aumentato a ogni buon esito l’indennità da 36 a 240 mila euro. Quanto il presidente della Repubblica.

 

Anzi no, Gravina ha di più. Con amicizie importanti, è nella Giunta del Coni e nell’esecutivo della Uefa, con altri 150 mila euro di appannaggio. Il calcio sì, è un mestiere redditizio.

 

“La Nazionale ha appena 60-70 calciatori eleggibili in serie A”, Matteo Pinci su “la Repubblica” - su venti squadre iscritte in campionato, va aggiunto, su una rosa cioè di 440 calciatori: “Si riempiono le Primavere di stranieri utili solo per le plusvalenze e a ingrassare le tasche degli agenti”. Senza “sfioramenti”?

 

Sono cinque mesi che Gualtieri è sindaco di Roma e non ha fatto niente. Ora però è deciso, deve rinnovare la direzione della Festa del Cinema. Non si crederebbe ma è la cosa più importane per il Pd romano. Sono in campo “la Repubblica”, con tutti i grossi calibri di Hollywood (le segreterie dei grossi calibri: quelle che una volta mandavano la foto con dedica, ora mandano attestazioni, i fans non vanno delusi), Goffredo Bettini, vecchio cuore rosso del Pd, con Bologna e la giunta Emilia, e perfino Nanni Moretti.

 

Anche la candidatura a una qualche Expo è in gran voga nella capitale a leggere le cronache romane. Con nomine di ambasciatori e ambasciatrici. Si capisce che Gualtieri non abbia tempo per altro, le discariche, l’immondizia, le ortiche, i senza tetto.

 

Il vertice Nato contro la Russia campeggia su “la Repubblica” con una foto di gruppo di gentiluomini soddisfatti e sorridenti. Ma la guerra allora non è una cosa seria?

 

Subito sotto, “nel cuore di Odessa che resiste ai russi”, il solito Bernard-Henri Lévy di tutte le disgrazie passeggia in capotto di cachemire, accanto a un uomo in mimetica, davanti a una barriera di cavalli di frisia ordinatamente disposti se dovessero arrivare i russi. Un invito al turismo?


Venticinque firme del “Corriere della sera”, mobilitate per fare un quadro della guerra dopo un mese riescono a non dire niente di più delle venticinque pagine quotidiane di foto e didascalie emotive. Forse è un (buon) servizio all’Ucraina? Chissà. Certo non alla pace – augurabile, possibile, ogni guerra ha una pace, con dignità naturalmente. 

 

Nell’entusiasmo pro-ucraino della sua cronaca satirica di Zelensky a Montecitorio, Roncone ha una dimenticanza. Nei precedenti interventi, il presidente ucraino ha introdotto un particolare locale: “In Gran Bretagna ha citato Winston Churchill; negli Usa Martin Luther King; in Israele si è avventurato in un paragone con l’Olocausto (non del tutto gradito). Qui molti si aspettano un riferimento alla nostra Resistenza”. Ma poi non dice se l’ha fatto – non l’ha fatto. Una dimenticanza come indicazione?

 

Se Zelensky ha evitato il richiamo alla Resistenza di proposito, è stato onesto, Nei diciotto mesi dell’occupazione, tra il 1943 e il 1945, gli ucraini erano accanto ai tedeschi, nei rastrellamenti e nelle rappresaglie. Ci fu anche una Repubblica cosacca del Friuli, creata dagli ucraini inquadrati nella Wehrmacht:

http://www.antiit.com/2022/02/il-mondo-come-439.html

 

Curioso. Gabanelli augura alla onorevole Granato, “che non ha esitato a schierarsi a favore di Putin”, in andare a bearsi nella democrazia russa, supponendo che “vivere in un Paese come l’Italia sia un inferno”. Curioso, era l’argomentazione al tempo della guerra fredda, contro i comunisti. Ora viene svolta in prima pagina sul “Corriere della sera”, s’immagina da sinistra.   

 

Rasentano lo scherzo le motivazioni della giudice bresciana Brugnara che ha assolto Storari,

https://www.pressreader.com/italy/corriere-della-sera/20220322/282149294805958

Storari è il giudice di Milano che crede nella loggia massonica “Ungheria” dell’avvocato Amara, o Armanna?, e per questo sollecitò il suo compagno di cordata Davigo, allora membro del Csm, a intervenire contro il suo capo alla Procura di Milano. “Irritualità”, “inappropriatezze”, “errori scusabili” trova Brugnara a carico di Storari.

La giustizia politica è di uno squallore – oltre che violenta – difficilmente eguagliabile.

 

Statistiche giudiziarie e cronache documentano un ricorso ordinario dei Tribunali dei minori alla Pas, Parental Alienation Syndrome, sindrome di alienazione genitoriale, che non “esiste”, come si dice a Roma. Teorizzata da uno psichiatra pedofilo, Richard Gerner, mai accettata in sede scientifica. Per strappare i bambini dalle madri, solitamente, quando i padri le hanno abbandonate o violentate, e darli in affido. Un semplice caso d’ignoranza? La solita giustizia ingiusta?

La sindrome è certificata dagli psichiatri consulenti dei Tribunali. C’è un business degli affidi?

L’ordine mondiale senza l’Europa

Ritorna controcorrente, o comunque in un momento inappropriato, giusto perché previsto da un progetto editoriale di affari internazionali, l’ultimo lavoro di Henry Kissinger, oggi prossimo ai 99 anni, nel 2015 (il penultimo, tre anni fa si è prodotto con alcuni collaboratori sul mondo dell’intelligenza artificiale). Così si è tentati di pensare – così ci viene detto: con la guerra russa all’Ucraina siamo entrati in un nuovo “ordine mondiale”, questo di Kissinger sarà al meglio un reperto antidiluviano. E invece no: la guerra in Europa, la seconda guerreggiata dopo la fine della guerra fredda - la prima fu nella ex Jugoslavia, appositamente smembrata -, è parte del conflitto mondiale per le aree di influenza. Si svolge infatti attorno al tema, una volta finito nel 1990 l’immobilismo imposto dalla guerra fredda, dell’Europa: se deve – vuole, può - continuare a essere prim’attore della scena mondiale, o deve accontentarsi di un ruolo di comprimario commerciale, restando, nell’insieme e singolarmente, gregaria degli Stati Uniti – nel senso del ciclismo: portatrice d’acqua, volenterosa collaboratrice, e qualche volta, nelle tappe minori, vincitrice in proprio, non per la classifica, per la soddisfazione.
Europa, convitato di pietra
Questo non sembra il caso con Kissinger: l’Europa è, come anche per esempio Israele, la grande assente dai suoi scacchieri. Ma proprio per questo è invece una presenza, in negativo: un convitato di pietra, il convitato di pietra. Ancora si ricorda il suo fatale “anno dell’Europa”, il 1973, che vide l’embargo del petrolio, i prezzi del petrolio e del gas triplicati in una notte, le domeniche a piedi, al buio, inflazione al 10 e al 20 per cento, un mese dopo la sua ascesa al dipartimento di Stato il 3 settembre - in coincidenza con il golpe sanguinoso contro Allende in Cile. È in Europa e con l’Europa che Kissinger assume la fisionomia di Stranamore, non con le bombe atomiche. 
L’“anno dell’Europa” fu utilizzato da Kissinger per agganciare il Medio Oriente, fino alla Persia dello scià, in funzione anti-sovietica, e insieme  manifestare la debolezza (dipendenza) dell’Europa? Nello stesso anno, non si ricorda ma ha progettato pure questo, ipotizzando un gasdotto North Star, dal bacino russo dell’Urengoy agli Stati Uniti attraverso il mare di Barents – contro i gasdotti dell’Eni… (cui tentava di agganciarsi la Germania, è vero). Che bisogna dedurne?Forse Israele c’entra. Forse Kissinger è sempre l’ebreo espatriato dall’Europa, dalla Germania, un’origine alla quale non ha mai sentito il bisogno di tornare – benché lo abbia marchiato a vita, nella parlata, nel modo di vita. Non espatriato, in fuga, nel 1938, con la famiglia, a quindici anni. La storia è fatta anche di eventi personali. Ma Kissinger, certo, ne sa di più.
Multipolare in Orwell
Si parla di mondo multipolare in “1984”, il romanzo fantapolitico di Orwell, 1949: nel 1984 il mondo è già diviso in tre, Oceania, Eurasia, Asia Est – Oceania è la Nato. Il multilateralismo che Kissinger qui (ri)spiega è la sua dottrina fin dal 1974, scritta in una brochure che circolò poco, discussa con i ministri degli Esteri di Francia, Germania e Gran Bretagna. Ai colleghi europei Kissinger prospettò sei fronti: la guerra civile in Jugoslavia dopo Tito, in Spagna dopo Franco, in Finlandia dopo Kekkonen, in Italia e Portogallo con i comunisti al governo, e il blocco di Berlino. L'Europa, dunque, votava alla guerra civile.  
Non bisogna sottovalutare Kissinger. Ai tempi in cui era attivo aveva l’abitudine di scrivere dieci anni prima quello che avrebbe fatto poi. In pensione, ha sempre saputo quello che stava per succedere, e come si poteva gestire, con la Cina, e su altri scacchieri. Qui si parte dalla pace di Vestfalia, il riferimento non si può evitare, Kissinger è pur sempre un vecchio trattatista, studioso dei trattati internazionali. Studioso della balance of power, nostalgico del Congresso di Vienna, il suo studio di dottorato, di cui non manca mai di fare menzione. Ma prima di Vienna, e non famigerato, viene l’equilibrio di potenza “vestfaliano”, il primo e più durevole tra gli Stati nazionali novellamente costituiti in Europa, col riconoscimento e la definizione del concetto di sovranità – senza contare che fu il capolavoro del cardinale Mazzarino, lo statista per eccellenza, come Kissinger lo concepisce.
Nel mondo nuovo post-ideologico e globalizzato ci vorrebbe una Vestfalia della globalità, un ordine mondiale. Kissinger lo intravede, e sa anche come gli Usa possono gestirlo – il punto di vista è naturalmente americano. Nell’interesse proprio e di ogni altro, è ovvio, altrimenti nessuna “pace” tiene - questo è molto importante, è il presupposto della diplomazia, della arte cioè della pace, che la presidenza Biden, in contrasto netto con gli otto anni della presidenza Obama-Biden, non intende praticare: la pace tiene se tutti vi hanno un interesse. Kissinger giunge al punto di prospettare una sorta di quinta colonna, in uno Stato per qualche verso ostile, che ne faccia gli interessi, per evitare uno scontro.
La cattiva opinione 
La novità è il posto che Kissinger assegna all’opinione pubblica. A quarant’anni dalla sconfitta in Vietnam, da molti imputata al “fronte interno”, alla tensione antibellica che fotografi e televisioni montarono implacabili, in America, contro la guerra americana in Vietnam. Qui l’allarme è preventivo. Le opinioni pubbliche sono sempre eccessive, nella militanza come nella passività, ma oggi sono qualitativamente diverse, e non per il meglio. Sono praticamente senza giudizio: l’“interazione quasi costante con uno schermo durante tutto il giorno” che “televisione, computer e smartphone formano”, è inaffidabile. Per “la sua enfasi sul fattuale piuttosto che sul concettuale, su valori plasmati dal consenso piuttosto che dall’introspezione”, dal giudizio. 
Per fattuale il realista politico intende superficiale: il vizio della navigazione oggi rimette in gioco tutti i dati della partecipazione, o controllo democratico. Non solo sugli eventi internazionali, sempre complessi, ma su ogni decisione di politica nazionale, dalle elezioni presidenziali alle scelte locali. Si perdono “la conoscenza della storia e della geografia”, e il senso comune, “la mentalità necessaria per percorrere sentieri politici poco battuti”. Lo spettatore inerme di questi giorni, accasciato sotto un profluvio di immagini di cui non gli viene data il nesso, non può che dargli ragione: l’opinione è più che mai manipolabile, anzi, la sua manipolazione sembra essere l’arma migliore – più distruttiva, meno cara.  
Condominio con le potenze asiatiche
Con questo limite, se esso non dilagherà sugli sviluppi internazionali, un ordine mondiale tuttavia si prospetta. Con al centro sempre gli Stati Uniti - nella “pax americana” cioè, che Kissinger mai pronuncia, insieme lenta e vincolante. Come un condominio multilaterale, allargato alle potenze asiatiche, Cina, India, Giappone, e a una voce latino-americana. Se la balance of power, Vienna-Vestfalia, è il pilastro dottrinale del Kissinger studioso, il multilateralismo è l’opera sua di statista da cinquant’anni, da quando nel 1969 fu associato alla Nsa, la National Security Agency, e poi al dipartimento di Stato. Teorizzato nel 1974, subito dopo la crisi del petrolio, è rilanciato ora su scala mondiale. Senza l’Europa.
Un multilateralismo, con assenza inclusa dell’Europa, che è lo stesso che si prospetta a Pechino, va aggiunto, all’altro estremo del manifesto globale – è un merito di Kissinger, un demerito? Anche a Pechino l’ordine americano è assunto nei fatti, non contestato. In un quadro multilaterale: Usa, Cina, India, America Latina (Brasile-Messico). Con un dubbio: se ci sarà una “potenza Europa”.
Una lettura che è una ventata di rinfrescante conservatorismo: Kissinger sarà stato l’ultimo maestro dell’arte diplomatica, ossia della politica intesa a tenere i popoli fuori della guerra. Lo studio e l’applicazione diplomatica sono in bassa stima, in questa epoca di wilsonismo a perdere, di moralismo e superficialità. Mentre le insidie sono dietro l’angolo.
La politica dei brand
Già nel 2015 Kissinger parla di campagne presidenziali trasformate in “confronti mediatici tra operatori internet”. Ancora senza QAnon e le spie russe, ma con i candidati ridotti a brand, a “portavoce di operazioni di marketing”. Anzi no, c’è pure il Russiagate: il Kissinger cyberanalfabeta sa già che “un portatile può avere conseguenze globali”. Anche senza complotto: “Un attore solitario con sufficiente capacità di calcolo può accedere al cyberdominio per disabilitare e potenzialmente distruggere infrastrutture chiave, da una posizione di quasi completo anonimato”.
Kissinger va anche un passo più in là, a un accordo sull’uso del cyberspazio analogo a quelli suoi sui missili e la potenza nucleare. “Una qualche definizione di limiti”, chiede, in “un accordo su regole di reciproco autocontrollo”. Il realpolitiker si fa a questo proposito profetico: il cyberspazio è “strategicamente decisivo”. Di più: la “prossima guerra” si combatterà in rete – che è la guerra di oggi, quale la vediamo.
Ha pure il populismo invasivo dei primi arrivati, “individui di oscura estrazione” liberi di manipolare la politica, al punto che “la stessa definizione di autorità statale può diventare sfuggente”. Le opinioni pubbliche sono sempre eccessive, nella militanza come nella passività, ma oggi sono praticamente senza giudizio: l’“interazione quasi costante con uno schermo durante tutto il giorno” che “televisione, computer e smartphone formano”, è inaffidabile. Per “la sua enfasi sul fattuale piuttosto che sul concettuale, su valori plasmati dal consenso piuttosto che dall’introspezione”, dal giudizio.
Fattuale per il realista politico è superficiale: il vizio della navigazione oggi rimette in gioco tutti i dati della partecipazione, o controllo democratico. Non solo sugli eventi internazionali, sempre complessi, ma su ogni decisione di politica nazionale, dalle elezioni presidenziali alle scelte locali. Si perdono “la conoscenza della storia e della geografia”, e il senso comune, “la mentalità necessaria per percorrere sentieri politici poco battuti”.
Henry Kissinger, Ordine mondiale, “Corriere della sera”, p. 405, € 9,90

venerdì 25 marzo 2022

Problemi di base bellicosi 5 - 690

spock


Si fa la guerra per scegliere la data della morte – magra soddisfazione?
 
Si fa la guerra ora totale, anche alle rovine?
 
Ma noi, volevamo allontanare la guerra all’Ucraina, o la volevamo?
 
Una guerra annunciata?
 
Ci voleva una guerra per rilanciare la ricerca e la produzione di gas e di petrolio?
 
E l’industria degli armamenti?

spock@antiit.eu

Povero Pasolini

Così pieno di vita
Morire per caso
E scoprire che la morte
Cancella il mondo
O se è una festa
È per tutti
Senza di noi.

Borghesia corsara

La recensione di “Un po’ di febbre”, la raccolta di racconti di Sandro Penna, esordisce: “Che paese meraviglioso era l’Italia, durante il periodo del fascismo e subito dopo!” Con “la felicità «reale»” dei contadini e sottoproletari, perduta con lo sviluppo. Il poeta voleva sconcertare, e ci riesce. Ma non di più.
Questi sono gli articoli migliori di Pasolini, i più quotati: i capelloni, le lucciole, io so, la rivoluzione antropologica, le recensioni. Ma sono passatisti. Paesaggistici, vedutistici. Si sono letti come ribelli, dissacratori, anticonformisti, si leggono come perbenisti – il vero liberale è sempre un po’ anarchico (“superiore”). Anche “strapaese”, quarant’anni dopo - Malaparte però e Longanesi, altrettanto mordaci, erano nel ruolo, e quindi restano vivi.
Si leggono ancora, ma come reperto. Come scritti d’autore hanno perduto lo smalto di quando uscirono. E bisogna chiedersi se la loro forza straordinaria non stava nel veicolo, il “Corriere della sera”, più che nel testo - “Il Pci è un paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante”: detto sul “Corriere della sera” indubbiamente fa rumore. L’unica cosa onesta resta il titolo.
La raccolta è stata curata da Pasolini qualche mese prima della morte. Nella riedizione postuma di Garzanti era preceduta da una introduzione, impacciata, di Alfonso Berardinelli. Qui è sostituita da una, meno impegnata, di Paolo Di Stefano, che cura la collana Pasolini per il “Corriere della sera”.
C’è anche l’articolo non pubblicato contro Carlo Casalegno, presto vittima delle Brigate Rosse. Pasolini dice di odiarlo, più del “miserabile fascista di dieci anni fa”, uno sconosciuto che il poeta ricorda di avere inseguito per un buon quarto d’ora attraverso tutta San Lorenzo tanto il suo sdegno era inesausto. A Casalegno Pasolini imputa, per un articolo sulla “Stampa” contro di lui e Moravia, “la mania che ha preso gli italiani di darsi continuamente dei fascisti tra di loro”. Mania che però egli stesso aveva avviato qualche mese prima, con “Il fascismo degli antifascisti”. Con leggerezza, certo, alla Pannella, alla Ottone, i vaffanculisti dell’epoca. Certo tirati ai quattro pizzi, sobri, inappuntabili. Molto borghesi.
Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, “Corriere della sera”, pp. 303 € 8,90


giovedì 24 marzo 2022

Secondi pensieri - 477

zeulig


Cretino – La filosofia non ne tratta, ma lo pratica. Lord Russell, all’inizio della “Filosofia Occidentale”, sostiene che Socrate fu condannato giustamente. E perché? Perché Senofonte, cui si deve la tesi della condanna ingiusta, era un cretino. Lo Zenone di Yourcenar ha ragione, gli dei e i demoni che risiedono in noi sono reali. E se l’interlocutore appartiene a una setta, possiamo adoperare contro di lui nell’argomentazione i principi di quella setta. È il topico – la topica? – VIII, 9 di Aristotele. La filosofia lo consente, la quale stabilisce che “il vero può conseguire da premesse false, ma mai il falso da premesse vere”. Da cui lo stratagemma numero cinque di Schopenhauer, usare liberamente le premesse false.

Natura – Suggerisce la bellezza: l’elegia, l’idillio si legano alla natura. Le albe e i tramonti, i cieli trascoloranti, i fiori, i frutti, la materializzazione delle stagioni, gli animali, anche se sempre meno accomunati alla natura e sempre più domestici. Anche nei sui aspetti ostici o minacciosi o catastrofici: la foresta, il dirupo, il terremoto, il tifone. 
Per trasposizione dall’aristotelico “in tutte le cose della natura c’è sempre qualcosa di meraviglioso”. Che però non è la stessa cosa. È una proiezione, ma anche un modo di essere: la bellezza (l’idea, l’ideale) non deriverà dalla natura, dal suo proporsi e dalle sue metamorfosi, anche nefaste? Il bello è meraviglioso, il meraviglioso è bello, è vecchia estetica, che si dice romantica, ormai bisecolare. Che però non si supera, l
’ecologismo la fa anzi legge fisica. Contro ogni evidenza.  

Nichilismo – Può essere etico, una proposizione, un programma. In fisica, e in metafisica, non ha risolto tutto il verso di Lucrezio, “Non può nascere nulla\ dal nulla”? Il creazionismo, sia pure nella forma ridotta del Big Bang, riciccia ovunque.
 
Le leggi naturali non sono la spiegazione dei fenomeni naturali. Il lemma di Wittgenstein (“tutta la moderna concezione del mondo si fonda sull’illusione che le cosiddette leggi naturali siano la spiegazione dei fenomeni naturali”) constata un’ambiguità, criticamente.
 
Pornografia
– Esclude l’erotismo – lo ha cannibalizzato, eraso. La pornografia libera e diffusa ha svuotato l’erotismo – in una col succedaneo alcol, la vera droga delle nuove generazioni, il disinibitore, cieco. Non ci si innamora più, solo si scandagliano moti e misure sulle posizioni del coito. Che peraltro è esso stesso privato d’urgenza – ridotto a ginnastica e pratica igieniche, doverose. Per i ragazzi allo stesso modo, ora, che già per le ragazze: non c’è passione, colpo di fulmine, attesa, corteggiamento, ma solo curiosità, poca, e mutevole, con facilità.
L’attesa, l’incontro, la scintilla, la lontananza (separazione), la lettera, tutto svanito. I profumi (ora scaduti a odori), i colori, il contatto, l’epidermide, il calore, l’incertezza, la gioia, “il miele e il fiele”, tutto il fondo dell’erotismo, sono cancellati dalla pornografia, che l’amore riduce al coito, alle tecniche del coito. Sguardi, sfioramenti, carezze, calori, aspettative, sogni, timori, illusioni, immaginazione, tuto svanito. Di colpo. Anche per le generazioni precedenti: la scomparsa dell’erotismo, scacciato dalla pornografia, non è una novità o un assetto generazionale ma epocale, vale per i figli come per i genitori: l’erotismo non trova più alimento, non nell’immaginario né nella realtà. Il coito stesso riducendo peraltro a un momento, con la sola varietà delle posizioni.
L’eliminazione dell’erotismo è l’eliminazione dell’amore, malgrado le tante storie che se ne scrivono e si serializzano. Che è ora anch’esso incerto, e unicamente legato agli esiti del rapporto sessuale – soddisfacente, insoddisfacente, e comunque occasionale e circoscritto.
Una reductio ad bestiam? No, è un fatto, evidente, incontestato. In un quadro semmai più ampio, degli orizzonti e le prospettive ristrette, delle ambizioni, le passioni, le attese dell’umanità, e a maggior ragione di chi vi entra. Gli epistolari, oggi pubblici – messaggi, social, immagini – sono tutti mirati a ridurre l’infinita varietà dell’erotismo all’atto. Spogliato di ogni mistero, cioè di attrazione. L’erotismo, peraltro eraso, sarebbe comunque uno spreco - una “perdita di tempo”: non è utile, non produce, non serve.  La sessualità ridotta alla pornografia, una sorta di ginnastica, a fini di fitness, è parte della mercificazione totale dei rapporti umani nel quadro del mercato.
 
Psicoanalisi
– È una pratica esorcistica? “La psicanalisi insegna e promette un esorcismo a regola d’arte: fa vomitare fuori i diavoli e gli ospiti maligni, li rimanda nel deserto, nella terra di nessuno, donde è sperabile che non tornino più a insidiare il territorio civile abitato dal paziente. Li restituisce al caso, come è dovere di ogni buon esorcista. Propone inoltre la figura del medico con la sua disponibilità ad accollarsi il transfert del paziente, come il tipo insieme dell’esorcista e del capro espiatorio”, Giacomo Debenedetti, “La sua Quinta Stagione” (in “Italiani del Novecento”).
 
Rivoluzione - La rivoluzione è di tutti. Anche di tutti contro tutti, non si può sapere quando si è dentro, a ogni passo bisogna fare il punto. Le rivoluzioni, dice Lessing, vanno col tempo, sono il divenire storico. E il divenire storico cos’è? È Salamina, Cesare, Attila, la scoperta dell’America, l’Ottantanove, Lenin, la Bomba? O basta Cristo? E Omero? E le larve, le stelle, i dinosauri?
Fede è certezza di cose sperate, come diceva Dante? Rivoluzione rivelazione, questo è. La rivoluzione ha il ruolo che era della vita eterna, salva quelli che ci sperano. Ciò è stato scritto da un dannunziano minore, il Malraux ladro d’arte, già nel 1933, cinico nella Speranza. Ma la storia non è mai come appare.
La rivoluzione è un coitus interruptus, si è argomentato per decenni, per giustificarne la prudenza. Per una ragione anche nobile, evitare di essere cannibalizzata dalla borghesia. Il movimento rivoluzionario, che era fervido fino poco più di trent’anni fa, ha temuto che l’astuta elasticità del sistema ne fagocitasse le richieste, qualora venissero formulate. Ma l’unico suo obiettivo, giusto, non compatibile, non assorbibile, non domesticabile, era “rovesciare il sistema”.
 
La rivoluzione non è in Hegel buona cosa, al famoso capitolo “La legge del cuore e la follia della presunzione di sé”. La legge del cuore è la rivoluzione. È “coscienza impazzita”, “non-essenza”, “irrealtà”. Hegel fu conservatore, si sa. Ma la rivoluzione spregia la ragione, “la tanto disprezzata realtà delle cose”. Rivoluzione viene col basso latino, per dire svolgimento. Nelle lingue moderne è documentata nel 1267, e sta per ciclo, giro. È quindi una fine, che non implica un principio, un salto. Il problema è di chi è la fine. Un sinonimo greco per rivoluzione è metastasi.
 
Tommaso d’Aquino sancì il diritto di rivolta. San Tommaso era suddito di Federico II, re illuminato e quindi scomunicato. Era domenicano e quindi per il papa, anzi teologo della curia - mentre i francescani, si sa, erano agenti della propaganda imperiale, nella lunga lotta tra papato e impero.
 
La rivoluzione è avversione al salaud, che è meno di salope, assicura Barthes, ma è sempre un piccolo borghese. O salaud o vacanze intelligenti, fra romanzi di avventura e mostre didascaliche. È l’avversione alla civiltà di massa, alla democrazia. Non da aristocratici ma da sdegnati, declassati senza classe. Da insofferenti. Per anzianità, pusillanimità. È un fallimento, individuale e della ragione, cosa dice Marcuse che ne ha fatto l’analisi? Eccetto Camus, che è morto, gli altri sono finiti male, bolscevichi non marxisti, ministeriali, uxoricidi, pedofili, e fra le chiappe delle allieve, o degli allievi. Surrogati di surrogati. Come bere cicoria pensandola caffè, di orzo. Per tornare a Hegel, il quesito subito, essenzialmente, è: che filosofia è questa? I tedeschi, siccome Platone è morto e il greco pure, se la cavano con allusioni.

zeulig@antiit.eu




Drago in affari, perduta nella vita

Lo stentato recupero delle sale nell’allentamento della pandemima ha costretto molti film fuori scena. Quest’ultimo di Soldini meritava di più, specie per la semplicità del soggetto. E per la forza trascinante della protagonista, Kasja Smutniak, che lo rende credibile: uno sdoppiamento, tra la massima sicurezza, certezza di se stessi, e il nulla – incomprensibile, intrattabile.
Una brillantissima avvocatessa d’affari, impermeabile ai sentimenti, se non sotto forma di foja di un momento con questo o quell’amante, di impazienza con la figlia, di superbia verso i colleghi e protettori, in un momento d’ira resta vittima di un incidente stradale. Marginale per lei, mortale per un degli investitori, in motorino. Un incontro\scontro con un’altra vita, di curiosità e impulsi, che invece non sa dominare.  
Silvio Soldini, 3\39, Sky Cinema

mercoledì 23 marzo 2022

Problemi di base bellicosi 4 - 689

spock

“Non c’è mai stata una buona guerra o una cattiva pace” (B. Franklin)?)

 

“Facciamo la guerra per poter vivere in pace” (Aristotele)?

 

“Fanno il deserto e lo chiamano pace” (Tacito)?

 

“La guerra nutre se stessa” (Tito Livio?

 

“La guerra può essere abolita solo con la guerra”, Mao Tse-tung?

 

“Una spada costringe l’altra a rimanere nel fodero”, G. Herbert?

 

“Un uomo può essere distrutto ma non sconfitto”, Hemingway?


spock@antiit.eu

Il canto ai sordomuti, da Oscar

Rifacimento di “La famiglia Bélier”, film francese del 2014, di Éric Lartigau. Una ragazza, piena di energia, voglia di vivere, unica parlante in una famiglia di sordomuti, pescatori, che deve aiutare a ogni uscita, riesce anche a frequentare il liceo, ed è specialmente accudita dal maestro di musica, che ne apprezza la voce. Il coro prestigioso a Parigi cui la ragazza concorreva nel vecchio film è sostituito dalla borsa di studio di una università a Boston cui la ragazza deve concorrere per il canto.
Una trama semplice, raccontata con gusto. Con Emilia Jones,  adolescente, possible Oscar attrice debutante lunedì prossimo.
Stan Herder, I segni del cuore, Sky Cinema

martedì 22 marzo 2022

Il mondo com'è (442)

astolfo

Kerč – La cittadina sull’istmo tra il mar Nero e il mare di Azov, annessa con tutta la Crimea alla Russia nel 2014, innesco della guerra ora in corso, annoverava fra gli abitanti una folta colonia di italiani, soprattutto pugliesi, che vi erano immigrati a metà Ottocento. Erano contadini e pescatori, attratti dalla penisola, ricca di frumento e di pesce. Sette anni fa i superstiti avevano avviato una pratica di riconoscimento delle origini italiane, e quindi di concessione del passaporto italiano. Erano rimasti in pochi, e avevano avuto brutte esperienze con Mosca negli anni di Stalin.
La Russia rivendica la Crimea sulla base dell’annessione al tempo di Caterina II, dell’espansione che la zarina progettò e realizzò verso Beirut, verso il Mediterraneo. La colonia di emigrati italiani, originariamente russi, poi sovietici, poi ucraini, infine di nuovo russi, consistente all’origine di alcune centinaia di persone, era l’ultima delle tante colonie franche, cioè genovesi, disseminate per il Mediterraneo orientale – Odessa, Galata o Pera, etc.
L’Ucraina, compresa la Crimea, fu conquistata dalla Germania nella prima offensiva contro l’Urss, a settembre del 1941. Col concorso degli stessi ucraini. Ma fu riconquistata quasi subito dall’Armata Rossa, quattro mesi dopo, e Stalin ordinò l’epurazione dei collaborazionisti. Il 29 gennaio 1942 anche i cittadini di origine italiana furono deportati: svegliati all’alba, consigliati di portare un bagaglio non superiore ai 16 kg., e imbarcati per la città russa di Novorossijsk. Da qui furono indirizzati, con un viaggio lungo un mese, in Kazakistan, disseminati in borghi rurali. Dove le donne furono assegnate ai kolchoz, le fattorie collettive create dopo la confisca della terra ai contadini, e gli uomini impiegati nelle miniere, e nell’impianto metallurgico di Cheljabinsk, a 200 km. da Ekaterinburg. Alla fine della guerra molti sono rimasti a Cheljabinsk o in Kazakistan – moli dei sopravvissuti all’inverno della deportazione, rigido. I pochi che si ristabilirono a Kerč provarono a riprendere i contatti con l’Italia.
Kerč era uno dei pochi luoghi nominati degli ebrei kazzari, la “tredicesima tribù”. Era ottimo porto, che signoreggiò il Bosforo Cimmerio, attesta Algarotti. “La morta Kerč”, una città che trasloca, così la vede invece Sklovskij nel “Punteggio di Amburgo” (1928), con le donne sedute su cuscini alla finestra, verso una fabbrica in costruzione.


Obsolescenza pianificata – È stata introdotta nella produzione industriale un secolo fa per limitare o ridurre il ciclo vitale di un prodotto, e accelerarne il ricambio. Al fine di tenere sempre attivo e incrementare il ciclo produttivo. Una sottocategoria allora analizzata e codificata è l’obsolescenza simbolica, o percepita: quella indotta dalla pubblicità o dalla moda.
Le storie industriali la fanno nascere come politica industriale nel 1924, quando il cosiddetto Cartello Phoebus, dei principali fabbricanti europei e americani di lampadine, stabilì di limitarne la vita a cica mille ore di esercizio. Giustificando la limitazione con la maggiore efficienza rispetto alle lampadine di durata superiore o indeterminata.  
Il termine è invece fatto risalire al 1932, quando fu avanzata la proposta (da un Bernard London, mediatore immobiliare americano), di imporla per legge, come misura anti-depressione e di stimolo all’economia.
     
 
Sloanismo – È da quasi un secolo la tecnica di fabbricazione delle automobili: la creazione di una “piattaforma” che consenta la fabbrica di più modelli di automobili, di costo\prezzo e qualità diversa, per ridurre i costi di fabbricazione, e insieme venire incontro alle esigenze di una clientela diversificata, come Chevrolet, Pontiac, Buick, Cadillac, Oldsmobile. Elaborata e adottata, in concorrenza con Ford, negli anni 1920 dall’allora presidente-direttore generale della General Motors, Alfred Sloane, che con questa tecnica superò in produttività e produzione la rivale Ford nel 1926 - per circa settant’anni GM sarà poi il più grande gruppo industriale americano (da cui il motto “ciò che buono per la General Motors è buono per gli Stati Uniti” – solitamente attribuito al presidente Wilson, che però era stato presidente fino al 1921, in epoca fordiana cioè, ed era morto nel 1924).
A Sloane e alla General Motors è anche attribuita l’innovazione\introduzione del design nella fabbricazione dell’automobile. Per concorrere, benché l’automobile sia un prodotto costoso e quindi di lusso, all’obsolescenza pianificata, all’esigenza di cambiare modello con rapidità. Moltiplicando la diversificazione (colori, forme, novità di vario genere - gadget, optional).
 
Viaggio a Weimar – Il primo Convegno dell’Associazione Europea degli Scrittori promossa dalla Germania di Hitler, dall’8 all’ 11 ottobre 1942, si tenne a Weimar, con la partecipazione di una folta delegazione italiana, comprendere anche Vittorini e Giaime Pintor. L’Associazione era stata creata il 24 ottobre 1941, sempre a Weimar, al termine di un “Incontro degli scrittori della Grande Germania” convocato dal ministero tedesco dell’Istruzione e della Propaganda (Goebbels), al quale però per la parte italiana avevano partecipato solo il filosofo fascista Alfredo Acito e il germanista Arturo Farinelli. Hans Carossa ne era stato nominato presidente. E come vice la Germania avrebbe voluto Riccardo Bacchelli. Che però declinò l’invito. Si scelse allora Papini.
Per il primo convegno Carossa invitò Papini, e ancora Bacchelli, Farinelli e Pastonchi, quali membri designati dall’Accademia d’Italia), con Alfredo Acito, Corrado Alvaro, Enrico Falqui, Giaime Pintor, giovanissimo ma acclarato germanista, Mario Sertoli, Bonaventura Tecchi, Elio Vittorini. Il ministero italiano si adoperò per dare consistenza alla partecipazione, estendendo l’invito anche a Montale. E aggiungendo alla delegazione Giulio Cogni, il teorico razzista. Mentre l’Accademia modificava le sue indicazioni: Emilio Cecchi e Antonio Baldini prendevano il posto di Bacchelli e Pastonchi. Montale si disse indisponibile “per malattia”. Alvaro, già corrispondente a Berlino, e Tecchi, prigioniero di guerra nel 1918 a Celle in Germania (con Gadda), non risultano aver partecipato. La delegazione italiana fu comunque cospicua: Baldini, Cecchi, Falqui,  Farinelli, Pintor, Vittorini, oltre a Acito, Cogni e Sertoli. Il convegno fu chiuso da un’allocuzione di Goebbels.
Pintor risulta, nel curriculum che il ministero inviò all’ambasciata a Berlino, “proposto dall’Addetto culturale germanico presso l’Ambasciata di Roma, dott. Hoffmann”. Scriverà del convegno per “Primato”, la rivista di Bottai, ma l’articolo non fu pubblicato. Si può leggere ne “Il sangue d’Europa”, la raccolta postuma di suoi scritti. Il suo resoconto non fu negativo, se letto in parallelo con la relazione che Sertoli scrisse per il ministero della Cultura Popolare (il parallelo è in Maria Clotilde Angelini, “1942. Note in margine al Convegno degli scrittori europei a Weimar”). Farinelli dice “generoso di parole e di abbracci… a volte impaziente”, Cecchi “placido”, e “acuto” Baldini: “In realtà la loro educazione rondista non corrispondeva al clima di folklore cosmopolita che inevitabilmente si era creato a Weimar”. Di Falqui notando che “aggiungeva alla reazione dei due maestri un rapido e vivace commento” (a Falqui si accredita il sommario: “un covo di cretini”).
Sertoli, a Weimar per conto del Ministero, riferisce invece di un convegno “inutile”, molto disorganizzato, “alloggiamento da caserma”, cibo da rancio, “una disorganizzazione grave in un Paese, la cui forza è basata sull’ordine”. Critica perfino il discorso di Goebbels.
Il “clima di folklore cosmopolita” peserà molto sui partecipanti francesi - i quali però al ritorno ne avevano fatto resoconti entusiastici. Il viaggio fu uno dei principali capi d’accusa per i collaborazionisti. Brasillach è stato fucilato, Drieu La Rochelle si è ucciso, Ramon Fernandez, ex comunista divenuto hitleriano, era intanto morto annegato nell’alcol. Bonnard e Fraiganux saranno emarginati. Jouhandeau si giustificherà con la caccia al giovane biondo – “i miei viaggi furono viaggi di nozze”.
 
A un viaggio a Weimar aveva partecipato nello stesso anno Pasolini, Che ne scrisse sul mensile della Guf bolognese, “Architrave”, “Cultura italiana e cultura europea a Weimar”. Un resoconto molto positivo, fra i giovani dell’Europa hitleriana, di svecchiamento per gli italiani seppelliti nel provincialismo. Sotto una citazione dallo “Zibaldone” di Leopardi, 1106: “
... le illusioni quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile”.
 
Yalta - Gli “Accordi di Yalta” in Crimea, del 4-11 febbraio 1945, sono di fatto di Livadja, a Ovest di Yalta, dove furono discussi e firmati nell’hotel omonimo. Ma, sempre di fatto, già concordati a Mosca, fra Churchill e Stalin, nell’ottobre 1944 – il presidente americano F.D.Roosevelt essendo impegnato negli Stati Uniti nella campagna per la rielezione. Furono Churchill e Stalin a dividere l’Europa – con la soglia d’incertezza sulla Grecia che poi portò alla guerra civile.

astolfo@antiit.eu

L’alcol è buono e fa bene

Quattro professori di liceo trovano che l’alcol aiuta. Al divertimento, all’autostima, anche di qualche studente, e perfino con le mogli, fugata qualche incomprensione. Una commedia, Oscar 2021 per il miglior film straniero.
Ci voleva la Danimarca per il miracolo, l’Oscar una commedia. Per di più politicamente scorretta – l’inno all’alcol. Non si ride, ma è garbato.
Thomas Vinterberg, Un altro giro, Sky Cinema

lunedì 21 marzo 2022

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (486)

Giuseppe Leuzzi

“Il padrino, quando la mafia imita il cinema” è la colonna di Morreale sul cinema per “il Venerdì di Repubblica”. “Il padrino” di Coppola mezzo secolo fa salvò la Paramount dal fallimento, influenzò molto cinema americano, e aprì un genere all’Italia, tra giallo, violenza, e una Sicilia mafiosa: “I film italiani sulla mafia furono almeno una quindicina”. Subito, ora sanno dieci volte tanti, tra film e serie tv, il genere e il filone più vasto e seguito. Un regalo?
 
Fra le tante evocazioni di Aldo Moro emerge Alberto Ronchey, che lo disse “l’incarnazione del pessimismo meridionale”. Un peccato, cioè. Ma il meridionale pecca più per pessimismo o non per ironia? C’è differenza. Moro era ironico, per costituzione, negli occhi e nel taglio della bocca.
Il pessimismo è anche difficile da definire. Pessimista si direbbe per esempio senz’altro Baudelaire, che invece fu inguaribile ottimista, malgrado i lamenti. iperattivo, curiosissimo, e sempre in palla.

“Montalbano”, “Màkari”, “Imma Tataranni”, i grandi successi Rai del lunedì, il giorno più difficile, sono meridionali: i personaggi, i luoghi, esterni e interni, le psicologie, i parlati. Il Sud è più avventuroso, più invidiabile?
O gli spettatori sono al Sud più assidui alla televisione – ci vorrebbe un auditel regionalizzato?
 
Il pesce spada è di stagione nello Stretto di Messina nei mesi “senza la r”. È una regola inderogabile, nessuno consuma pesce spada fuori di quei mesi. In Danimarca, si apprende dal film premio Oscar “Un altro giro”, il merluzzo è di stagione nei mesi “con la r”.
I danesi essendo considerati i meridionali della Scandinavia (famiglia, sole, canto, vino, manca solo il mandolino), sarebbero le fisse alimentari cosa meridionale?
 
A Milano l’università Bicocca elimina un corso su Dostoevskij, per protestare contro l’invasione russa dell’Ucraina. Dopo che il sindaco Sala ha chiesto al maestro Gergiev un atto d’accusa contro la Russia, la sua patria, per poter dirigere alla Scala come da programma. A Bologna la Fiera del libro per l’infanzia elimina la letteratura russa. Il Nord parte alla guerra: non costa niente, solo un po’ (molto?) di stupidità. C’è però da averne paura.
 
L’“Io” è “una popolazione”, Carlo Dossi: “Non ho io forse in me stesso una popolazione di  lì, l’uno diverso dall’altro (“Note azzurre”, 2369). Si nasce radicati, e si resta radicati, anche nella lontananza-assenza.
 
Il comune di Grizzana Morandi, sull’Appenino bolognese, 3.916 abitanti, 547 m. di altezza, riceve 20 milioni di euro dal Pnrr. Quattro bilanci e mezzo del Comune. Per le sue frazioni di La Scola, sedici residenti, e Campo, quarantaquattro. Per “riqualificare” i due borghi “fortemente spopolati”: scuola per scalpellini, recupero di (poche) case abbndonate, completamento e restauro di una Rocchetta Mattei (un rudere), con studi cinematografici all’interno. È uno dei perni del programma della Regione Emilia-Romagna. Simpatico. Fosse avvenuto in Sicilia?
 
Contrordine, non è il Sud che bara sull’ecobonus. L’inchiesta della Guardia di Finanza di Rimini che denunciava una banda di criminali di Abruzzo, Puglia, Basilicata, Campania, Sicilia (in realtà di riminesi, con qualche comparsa da queste regioni: manovali, subappalatatori), è superata dalla Guardia di Finanza di Roma che “in due sole operazioni” ha recuperato il 56 per cento dei 2,3 miliardi di crediti d’imposta illeciti recuperati finora in Italia. Bisogna guardarsi anche dalla Guardia di Finanza?
 
Nell’autunno del 1978 Sciascia, avendo deciso di fare per un breve periodo il critico teatrale per “L’Espresso”, comincia col rivedere il teatro di Racalmuto, della sua infanzia. Racalmuto aveva un teatro, nell’Ottocento e nel primo Novecento: “La stagione teatrale era lunga e splendida”, con la partecipazione delle migliori compagnie, “dall’anno in cui l’architetto Dionisio Sciascia (non parente, n.d.r.) aveva consegnato all’amministrazione comunale, dopo cinque anni, quel piccolo capolavoro. Anno 1879”.  Lo trova in rovina – “mi è parso di trovarmi dentro una delle carceri di Piranesi”. La storia va “n’arreri” – Domenico Tempio?
 
Mafiosa diventa la memoria
Il Canzoniere delle Lame, il complesso emiliano che animava le “Feste dell’Unità”, del partito Comunista, fu mandato nell’autunno del 1970 a Reggio Calabria per provare a rianimare gli anti-“boia-chi-molla” della rivolta fascista. Vi composero all’impronta, come erano soliti lavorare, canzoni di circostanza, scrivendo parole e musica in accordo con le persone che animavano le proteste o le feste, “Alle Sbarre qui di Reggio Calabria”, “La rabbia esplode a Reggio Calabria”. E furono mandati anche a Rosarno.
Qui, nel docufilm del Canzoniere, “Gli anni che cantano”, l’animatrice del gruppo Janna Cairoti ha un lapsus. Lei racconta, e il regista Vendemmiati fa vedere, di una serata in una piazza vuota. Cioè, ricorda che, avendo deciso di non cantare, i compagni di Rosarno avevano insistito: “Non fa niente, cantate pure, la gente vi ascolta dietro le finestre”. E Janna commenta, ma un po’ incerta: “Avevano paura della mafia”.
È probabilmente un lapsus. Sarà stato a Reggio che il Canzoniere avrà avuto difficoltà a farsi ascoltare, lì il seguito era sparuto. Rosarno votava socialcomunista, con un sindaco ora socialista ora comunista.  Il Canzoniere sarà stato a Rosarno, una delle sue due o tre uscite fuori dall’Emilia, per l’insistenza dell’amministrazione, se non per una “festa dell’Unità” paesana. Ma il nome oggi è legato alla protesta degli immigrati dodici anni fa. E la cattiva fama legata a quell’evento riverbera sulla memoria.
Gli immigrati protestarono a Rosarno perché in qualche misura sindacalizzati, Rosarno avendo continuato a votare a sinistra. Ma questo è fuori del cliché.
 
Pasolini non amava il Sud
Per il centenario di Pasolini anche il Sud si mobilita, a partire da Lecce, Melpignano e Arnesano, per un ciclo di manifestazioni itineranti dedicate a lui e alle culture vernacolari del Sud. Musica, parole, proiezioni, “ispirate all’amore di Pasolini per il Sud”, su proposta del Collettivo Quo Vadis? dell’associazione Patr’Act, patrimonio attivo. Un ciclo organizzato dal comune di Melpignano e dall’associazione Manigold. Con un progetto drammaturgico, “Volgar’Eloquio. L’amore di Pasolini per il Sud”. In ricordo anche della sua ultima conferenza, tenuta al Liceo Palmieri di Lecce il 21 ottobre 1975.
Ma Pasolini non amava il Sud – Pasolini non amava, e il Sud gli era estraneo.
“Il Sud per Pasolini non fu solo un luogo geografico ma una regione dell’anima”, nota Marino Niola presentando il progetto. È vero, per alcune, poche, occorrenze della sua multiforme attività: Matera, Ninetto Davoli, il ragazzo napoletano che gli sfida il borsello durante le effusioni, la “Medea”. Ma fu – non era, fu – giusto un luogo diverso, come lo fu l’Africa, l’India. Di curiosità.
“Il Mezzogiorno per Pasolini fu sempre l’altra faccia della mutazione antropologica italiana”, continua Niola: “Non un luogo in ritardo dello sviluppo, ma la testimonianza di una differenza, custodita nella lingua e nelle tradizioni. Una sorta di antidoto contro il genocidio culturale prodotto dalla modernizzazione che a suo avviso stava sfigurando il volto dell’Italia. Rendendola un paese straniero a se stesso”. Non un antidoto: Sud e Nord Pasolini accomunava nel “genocidio”.
Del Sud si occupò di passata, distrattamente. Non solo nel viaggio in due giorni per tutta la costa italiana quanto è lunga, ma sempre altrettanto di fretta.   
 
Il Sud come colpa
Di Commisso, l’imprenditore americano che ha rilevato la Fiorentina, la squadra di calcio, e la sta dotando di  un “Viola Park”, centro sportivo molto grande, da 25 ettari, e di uno stadio ammodernato, non si fa che accularlo alle origini, a Marina di Gioiosa Jonica in Calabria. Per sottintendere, siamo furbi, l’inevitabile legame ‘ndranghetista. Anche a costo di rovesciare il cliché dell’emigrato, non più vittima della patria ingrata, ma, chissà, avventuriero, intrigante, capobastone – dove c’è Calabria c’è ‘ndrangheta è assioma corrente, anche dei giudici, calabresi.  
Niente al confronto avevano fatto per la Fiorentina in molti anni i fratelli Della Valle, gli imprenditori del lusso. Sempre però omaggiati, non erano calabresi. Un meridionale di successo non la conta giusta.
Geraldine Ferraro nel 1983 maturò l’idea di candidarsi alla vicepresidenza degli Stati Uniti l’anno successivo in ticket col candidato democratico di sinistra Walter Mondale. Subito un investigatore fu inviato dal partito Repubblicano a Messina e sui Peloritani, per cercare tra i parenti di Geraldine un qualche mafioso. La famiglia di Geraldine risultava originaria di Marcianise, in provincia di Caserta, ma un suo parente prossimo, pare uno zio, forse materno, risultava essere o essere stato nel messinese. O così si premurava di far sapere l’investigatore subito mandato dagli Usa, anche alla “Gazzetta del Sud”, il quotidiano locale: l’amerikano non si nascondeva, e anzi si premurò di far sapere che era lì per quello.
Non ebbe da faticare, la lauta parcella anzi se la guadagnò con gaudio: tutti furono felici di raccontargli che Geraldine aveva uno zio pregiudicato. Che lei non ne sapesse l’esistenza non voleva dire nulla. Una lezione per i Carabinieri, che sempre lamentano l’omertà.
L’investigatore anti-Ferraro voleva “sapere” tutto, a prescindere dal fatto che lo zio ci fosse, o ci fosse una parentela riconosciuta. Aveva il compito d’indagare, disse, su tutto: sulla cartella penale ma anche sulle cartelle fiscali, su quelle mediche, se l’uomo non aveva barato con le assicurazioni o la sicurezza sociale, se aveva pagato i contributi delle sue colf e baby-sitter, etc. Costruiva con elementi sicuri un colpevole. Di cui gli sarebbe rimasto da provare, se necessario, un qualche legame con la vice-presidente candidata. Ma non fu necessario: il ticket Ferraro-Mondale si scontrò male col Reagan bis.
Ferraro personalmente uscì bene dalla sconfitta: la sua campagna elettorale fu apprezzata, la sconfitta fu attribuita al freddo Mondale. Ma quando si candidò al Senato, i Repubblicani fecero circolare voci di sue connessioni con la mafia, sull’evidenza delle sue origini italiane, e non fu eletta. 


Il corrispondente mafioso di Sciascia
In “Nero su nero”, il diario in pubblico nei dieci anni dal 1969 al 1979, tenuto su “L’Ora”, “La Stampa”, “Corriere della sera”, Sciascia racconta per alcune pagine una sua corrispondenza col mafioso Giuseppe Sirchia, confinato a Linosa, a partire dal giugno 1972. Notevolissima. Di elocuzioni perfette in lingua. Di retorica sottile. Di argomentazioni mai scontate.
“La sua prima lettera diceva: è venuto qui a Linosa un giornalista tedesco, mi ha parlato dei suoi libri; vorrei leggerli ma non so come fare per averli”. Sciascia glieli fa spedire. Sirchia lo ringrazia e, scusandosi, gli pone il quesito: “Perché io sì e «loro» no?”  Per loro intendendo i suoi soci in affari, non ritenuti, chissà perché, mafiosi, perché politici o professionisti.
Le lettere s’indovinano molteplici. Di Sciascia Sirchia apprezza la “cruda verità” sulla Sicilia, “non sempre coerente alla vita civile e morale”. Ne riferisce anche una curiosa, ma non balzana, teoria dell’omertà: “In Sicilia l’omertà bisogna rispettarla in qualsiasi settore, politica, polizia, giustizia, etc.”. La sua personale condizione Sirchia assimila allo “schiavismo”: “Le mie figliole … studiano e spero che, almeno loro, riscatteranno il marchio dello schiavismo di cui io sono stigmatizzato”. La possibile tentazione di Sciascia di rendere pubblica la corrispondenza vanifica in anticipo: “Ora smetto, pregandola che le sue confidenze siano solo sue, perché voglio vivere in pace, voglio rifarmi una vita, non potrò essere io a cambiare qualcosa. Io sono soltanto una piccola tessera di un grande mosaico (che è la Società) e se non voglio essere schiacciato, bisogna che mi stia incastronato nella mia casella”.
Incastronato Sciascia apprezza più che incastonato. Ma la Società maiuscola legge, come tutti, come cupola mafiosa. Mentre più verosimilmente è la società in senso proprio, un mammut, più cattivo che insensibile – il mafioso è anarchico.


leuzzi@antiit.eu


Poesia confessionale

“Il delfino” è la raccolta di poesie scritte per la moglie Caroline, la seconda moglie. Le “altre poesie” sono per Elizabeth, la prima moglie, e per Harriet, la figlia decenne cui la quotidianeità tocca vivere come uno spettacolo, tra un padre “genio, non savio, non brillante, strambo”, come si dice nei suoi versi, e una madre “brillante, non savia, non stramba, nervosa”. La storia insomma di un uomo che risposa. Un passo difficile per un cattolico convertito, anche se già mezzo agnostico. Tra sintomi di follia che si ripresentano ogni anno.
“La storia di un uomo che si risposa” è la diminutio dello stesso poeta alle obiezioni dei critici, delusi che mettesse in mostra in versi le sue minute vicende personali – alcune poesie sono brani di lettere della moglie ripudiata. Lowell celebra “il nostro ventesimo anniversario di matrimonio” con Elizabeth, e poi la lascia. Fatto traumatico per un cattolico convertito, cresciuto alle lettere per una poesia politico-religiosa. sotto l’ombrello atomico.
“Cal”, Caligola, nomignolo familiare del poeta da bambino, aristocrazia bostoniana, ricco erede di grosse sostanze, poeta per diletto, animatore della poesia americana di metà Novecento – “poeta laureato dell’età dell’ansia” (Massimo Bacigalupo), degli anni della guerra fredda - è qui curato da Rolando Anzilotti, il suo devoto interprete e apostolo in Italia. Ma con qualche perplessità, quasi con dispetto. È una raccolta prosastica, molto descrittiva, di cose dette e fatte. Che indispettì la critica in America. Elizabeth, la moglie abbandonata, è Elizabeth Hardwick, nota scrittrice, Caroline , di quindici anni più giovane di Elizabeth, era la moglie di Lucien Freud. Indispettito, sotto traccia, è lo stesso devoto Anzilotti. Che però si diede cura di farne un’edizione di peso per “Lo Specchio”, la grande poesia Mondadori.
È una prova singolare, che i grandi temi della vita scioglie nella routine giornaliera. Con un verseggiare piano, ritmato ma sintatticamente prosastico. Non una poesia d’amore – non c’è nel Novecento poesia d’amore, non in italiano né in francese, o inglese, forse in tedesco, Rilke.  “Il quadro è troppo perfetto per le nostre vite”, lo stesso poeta si dice per “Il nostro ventesimo anniversario”: un materiale autobiografico fin troppo ordinario. Ma (Anzilotti) “il tono è sincero, le immagini sono raramente scialbe, i versi hanno un tensione morbida, asciutta, il ritmo è spontaneo e virile”.
Unico lirismo nell’ultima composizione, quella del titolo, “Il delfino”: “Mio Delfino, solo di sorpresa tu mi guidi,\ schiavo come Racine, l’uomo dell’arte,\ attratto nel suo dedalo di ferrea composizione\ dall’incomparabile voce delirante di Fedra….”.  
Un poeta bizzarramente uscito di catalogo, lamentava “Poesia” quattro anni fa, che gli dedicò uno speciale per il centenario della nascita. E fuori è rimasto. Questa raccolta recepisce e consacra la poesia “confessionale”, di Anne Sexton, Sylvia Plath, di molta poesia hippie, soprattutto Kerouac. Prosastica, a distanza, aneddotica, ma di svolta, in America e fuori.  
Robert Lowell, Il delfino e altre poesie

domenica 20 marzo 2022

Problemi di base bellicosi 3 - 688

spock


E dunque chi aspira alla pace prepari la guerra?
 
Non c’è pace senza guerra?
 
Chi non è con me è contro di me?
 
Si fa la guerra contro qualcuno o per se stessi?
 
Muoiano pure gli amici purché i nemici muoiano con loro?
 
Non c’è verità nella guerra?

spock@antiit.eu

Letture - 485

letterautore

Boccaccio – Non è solo l’autore del “Decameron”, e un dotto umanista. Ha lanciato strofe e generi letterari, in particolare il poema in ottave.  Quindi ha iniziato e “formattato” la novellistica. E ha influenzato l’epica cavalleresca, fino all’Ariosto e al Tasso. Il filologo spagnolo Francisco Rico, specialista di Petrarca, spiega in “Ritratti allo specchio (Boccaccio, Petrarca)” che in Spagna è stato moto amato e imitato il suo romanzo d’amore in prosa, “Fiammetta”.
 
Cadaveri – Sono stati larga parte della letteratura erotica noir nell’Ottocento. Non in funzione del coito o dell’orgasmo, quanto di un’eccitazione ambigua – nell’erotismo macabro l’orgasmo ha piuttosto la funzione di far morire di voluttà. Barbey d’Aurevilly, “Le diaboliche”, ne è stato l’autore più rappresentativo. Petrus Borel, “Racconti immorali”, sul frontespizio allineava un teschio, una donna coi seni nudi indifesi, le braccia legate dietro la schiena, una ghigliottina, e altri utensili macabri, con la qualifica di “licantropo”. Théophile Gautier ha il morto vivente in forma di vampiressa. Camillo Boito, “Un corpo”, fa giurare a un giovane medico viennese, folgorato da una dama intravista al caffè, che presto giacerà sulla sua talvolta anatomica, per mostrare i segreti della sua bellezza. 
 
Fellini – Celebrato senza riserve retrospettivamente, ebbe in vita successo di pubblico ma non di critica, non in Italia – fu “riconosciuto” e consacrato in Francia (“La dolce vita” a opera di Simenon, presidente della giuria a Cannes) e in America con gli Oscar. In Italia era sospetto, a  sinistra come cattolico, e inviso naturalmente ai cattolici, sessuofobi. “La Dolce vita” l’“Osservatore Romano” ribattezzò “La sconcia vita”. Franco Fortini sull’“Avanti!” disse il film di “ripugnante cattolicesimo di fondo”. Luigi Russo su “Belfagor” di “un cattolicesimo putrefatto e massoneggiante”. Sul “Corriere della sera” Arturo Lanocita bocciava “i dialoghi mediocri, gli interpreti che tradiscono dilettantismo”. Mario Gromo sulla “Stampa” spiegava che “la materia non vibra”. Su “l’Unità” Mario Alicata si limitava a invitare Fellini: “Venga on noi”. Il successivo “8 e mezzo” Buzzati sul “Corriere della sera” disse “la masturbazione di un genio”. Su “La Stampa” Guido Aristarco ci vedeva “l’inconsistenza della visione felliniana”. Su “Paese sera” Flora Volpini lo liquidava, di “una noia spaventosa”. Morando Morandini su “Le Ore” si chiedeva se era “opera d’arte o esercizio di stile”.  Filippo Sacchi su “Epoca” dichiarava di non essere “riuscito a capire il capolavoro”. Per “Prova d’orchestra” Fofi su “Ombre Rosse” non aveva dubbi: “L’aspetto più costernante del film è la sua sciocchezza”.  
 
Fondazione Feltrinelli – È stata l’idea di un prete. Lo spiega Carlo Feltrinelli a Cazzulllo sul “Corriere della sera”, 8 marzo: Togliattti propone a Feltrinelli la creazione di una biblioteca delle lotte operaie in ogni parte del mondo, e gli dice “che l’idea veniva da un prete. La Fondazione Feltrinelli nacque così”.
 
Gadda - “Me lo ricordo come una comica”, il suo vecchio editore Livio Garzanti, intervistato per i suoi novant’anni da Nello Ajello su “la Repubblica” il 15 aprile 2011: “Grande, strano, ossequioso”. Gli scriveva lettere come a persona di grande autorità, o a un padre: “Gadda mi professava una deferenza ridicola. Era un grade nevrotico. Non aveva mai dato un bacio a una donna.  Mi mostrava – io all’epoca ero un giovanotto di trent’anni o giù di lì – l’adorazione che si può provare per uno zio, un principe del sanghe o per Gheddafi”.
 
Gattopardo – “Rifiutat
o da tutti gli editori. Fu Elena Croce, la figlia di don Benedetto, a segnalarlo a Bassani, dicendo che era opera di «una signorina aristocratica siciliana… » - Carlo Feltrinelli a Cazzullo, sul “Corriere della sera”.

 
Intellettuale\sessuale – “Il meditare da solo è onanismo – il pensare con altri (conversare) è coito”, Carlo Dossi, “Note azzurre” 1589
 
Latino - Ce n’è di ottimo, notava Luciano Canfora commentando l’addio al papato dei Benedetto XVI (“Un esempio di latino moderno”), “una specie di mosaico che abbraccia due millenni di latinità, dal ciceroniano «ingravescente aetate» al «portare pondus» che ricorre in Flavio Vegezio”.  Con “un disinvolto «ultimis mensis» che figura in scritti ottocenteschi (addirittura del calvinista Bachofen)”. È “prelievi dal dotto e audace Rufino traduttore di Origene, nell’espressione «incapacitatem meam»”. Mentre altre “solide attestazioni di epoca classica, da Quintiliano a Plinio, sorreggono la frase più importante di tutto il testo e cioè: «Declaro me ministerio renuntiare»”. Ma “nella frase cruciale” viene “inferta una ferita alla sintassi altina, visto che al dativo ministerio viene collegato l’intollerabile accusativo commissum («incombenza affidatami»). Mentre doveva esserci, “per necessaria concordanza, il dativo commisso”. Come “addirittura nella frase di apertura”, dove il Pontefice annuncia di “«comunicare una decisione di grande momento per la vita della chiesa», ma si legge pro ecclesiae vitae laddove avremmo desiderato pro ecclesiae vita”.
Succede, conclude Canfora, il latino condensa molte novità successive. Per scurare il pontefice, ricorda di passaggio “i rari ma disturbanti errori di latino che macchiavano le «Quaestiones callimacheae» di un grande filologo come Giorgio Pasquali, rettificate nella ristampa realizzata poi dal bravissimo Giovanni Pascucci, grammatico fiorentino”.
 
Manzoni - Un personaggio molto solido malgrado le fobie, un believer: Umberto Eco tutto sommato lo assolve, nella plaquette “Tra menzogna e ironia”. Nella quale Manzoni figura per un saggio intitolato “Linguaggio mendace di Manzoni”.
Dell’autore dei “Promessi sposi”, che non ama ma teme, Eco traccia i vari linguaggi nel romanzo: erudito, convenzionale, “popolare”, figurato, ironico, etc.. Facendone un giocatore linguistico – un organista abilissimo ai vari registri, si direbbe, il Bach del romanzo – più che un ideologo e un uomo di fede. Ma tale, tanto immerso è in questo gioco, da rendere i suoi giochi linguistici irrilevanti, “prova ne è che tanti lettori hanno capito il romanzo saltando, per giustificata pigrizia, tutti gli esempi di discorsi inconcludenti”.
 
Petrarca – Riconosceva la grandezza di Dante, della “Divina Commedia”, a malincuore, “con una certa considerazione” ma “con reticenze e ambiguità”. Il suo studioso spagnolo, Francisco Rico, “Ritratti allo specchio”, lo fa emergere di carattere difficile. Il conterraneo e quasi coetaneo Boccaccio considerava “a volte come un servitore e a volte come un fratello”.  Ma “un fratello minore che s’istruisce e incoraggia ma il cui talento non si apprezza”. Avvantaggiato peraltro, spiega, dalla devozione di Boccaccio, invece indefettibile.
 
Riflusso – “Un orologio che va male non segna mai l’ora giusta; un orologio fermo la dà esatta due volte al giorno. Si può spiegare così il riflusso verso la moderazione, la conservazione e la reazione dell’elettorato di sinistra in Europa” – Leonardo Sciascia, “Nero su nero”, 247.

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Chi era Pasolini 13

“L’estate del 1943 era bellissima e la guerra aveva reso Casarsa un luogo ancora più desiderabile”. Pasolini, 21 anni, e Naldini, 14, trovavano compagnia in abbondanza per giochi erotici. Pasolini di preferenza con un Bruno, “ragazzotto né bello né dolce, ma plebeo, violento e sgarbato che coronò in modo sbrigativo e brutale il sogno così a lungo cullato da Pier Paolo”, Naldini con un Attilio.
I racconti di Nico Naldini, “Come ci si difende dai ricordi”, una successione di ordinari dragaggi, dell’uno e dell’altro, che non lascia mai traccia, se non dell’inappagamento, rappresentano e spiegano il tema della colpa, che sarà centrale in Pasolini: la sessualità non sarà mai diletto e gioco, come a volte si diceva, ma tormento. Perfino nella forma della gelosia, cupa e violenta, in almeno un caso (Ninetto Davoli adolescente, una storia che la riedizione delle lettere denuncia con la censura...). 
Saranno storie di ragazzi più che di amori. Di cacce di ragazzi. Anche rischiose legalmente. Ma  più indispettite che lussuriose. Già nei primi anni, a Casarsa e Versuta, gli anni della guerra, anzi quelli più brutti, 1943 e 1944, dei bombardamenti, dell’occupazione, della resistenza o guerra civile. La guerra non c’è, se non per il bello del biondo teutonico, e per i lampioni abbuiati, che lasciano spazio per “gli insaziabili abbracci” nel “buio più fitto”. Naldini lo sa, che si giustifica: “Non sapevamo quasi nulla della guerra”. Nell’inappagamento, la vera condanna, la vera colpa. Della “libidine compulsiva soprannumeraria”, la dice Naldini, incontenibile e insoddisfatta. Nel caso di Pasolini nevrotica, sempre “per bene” e sempre in “situazioni allarmanti”.
Compresa, si direbbe, la religiosità. Non praticata ma vissuta. Specie nelle idolatriche - decadenti, affettate – rappresentazioni del sacro, mitico oppure cristiano, a partire dalla figura del Cristo, seppure femminilizzata. Pasolini è l’unico autore religioso del secondo Novecento, ne “L’usignuolo”, “In forma di rosa”, e altrove, anzi di tutto il secolo. Voleva fare San Paolo, dopo aver fatto il Vangelo. Non il prete, chiesastico: un rivoluzionario, seppure con la parola. Ma anche questo non del tutto: si riporta il papa Bergoglio a Giovanni XXIII, ma si potrebbe meglio riportarlo a Pasolini, strada, borgate e omosessualità comprese.
Pasolini fu e rimane solo. Non un amico, uno della squadra di pallone, un compagno di viaggio, anche occasionale, purché non di marchette, non un discepolo. Benché socievole, di tutti i convegni, le manifestazioni, le iniziative, le tavolate, quasi un presenzialista. Non per carattere: non era solitario in gioventù, prima di Roma, fino quindi ai 28 anni. Isolato anche dopo morto: senza ora, pur nelle celebrazioni, un interprete, un “sistematore”, l’esegeta folgorante che pure meriterebbe, se non altro per la molteplicità delle espressioni: poeta, narratore, regista, drammaturgo, critico letterario, linguista, moralista, giornalista, pittore - “L’affollata solitudine di Pasolini” è il titolo centrato con cui il “Corriere della sera” presentava il 26 ottobre 2015, per i quarant’anni dalla morte, la testimonianza di De Ceccaty, uno dei suoi prefatori: Non so se fosse solo. Aveva probabilmente il sentimento della solitudine ma c’erano tanti amici attorno a lui. Il sentimento di solitudine per un creatore, per un genio come lui, è molto relativo. Pasolini, anche se si identificava molto con Rimbaud, non era Rimbaud. Era infatti molto più coinvolto nella vita sociale, era un poeta civile, non era un poeta isolato”. Ma lo era, da poeta civile. Della sterilità dell’impegno si potrebbero fare libri.
Pasolini sbaglia che lamenta, nella “Supplica a mia madre”: “Non voglio esser solo. Ho un’infinita fame\ d’amore, dell’amore di corpi senza anima” - può finire male. Pasolini si lamenta vittima dell’iterazione, della compulsione a rifarlo, con chiunque, ovunque, vittima della sua diversità, da intendere l’omofilia, e non sa di dare ragione agli omofobi, che l’omosessuale è senza cuore, mentre è probabile che subisse l’incontinenza dei cinquanta, dell’età che fugge. È impossibile amare i moralisti.
Perché questa cosa è importante? Perché Pasolini ne è morto, già prima di finire a Ostia. Nel tradimento, continuato, di Susanna, la madre vezzosa sempre a tiro, sui tacchi nel fango di Versuta, sposa pur sempre di un Carlo Pasolini dell’Onda, padre amorevole, sebbene reduce di guerra trascurato, rifiutato, amareggiato. La madre dolce che cancella il marito, il tremulo nibbio di Leonardo e Freud - lo è nei geroglifici in Egitto. Nella leggenda cristiana il nibbio è solo femmina, fecondata dal vento, novella Vergine. Se l’omosessualità, forzatamente senza figli, è narcisista, la moltiplicazione delle marchette diventa un martello pneumatico contro se stessi, una forma di autocrocefissione, la morte oscena.
Non si sa di un erotismo goduto infernalmente, neppure in Sade. Non nell’esercizio esasperato dell’omosessualità, la retorica del genere è mite. Pasolini voleva essere il Poeta della Vita, di ciò che è. E la realtà, essendo beffarda, gli ha restituito odio e umiliazione. E disattenzione, nella baldoria.
(fine)

Flaubert narratore imberbe

Due racconti di Flaubert a quattordici anni, quello del titolo, “I girovaghi”, un racconto lungo, e “La nobildonna e il suonatore di gironda o La madre e il feretro”, titolo e soggetto impegnativi ma di un racconto breve, abbozzato. Due racconti che Flaubert non pubblicherà e non riscriverà, e tuttavia di buona lettura – da antologia, nella media di oggi.
La “Nobildonna” è un racconto di amore e morte attorno a un incesto. Su un doppio rovescio di fortuna, economico e morale. Causato da un ignaro menestrello. Derivato, questo, forse dalla saga di “Tristano”, lettura di Flaubert da piccolo. L’insieme del racconto – contemporaneamente abbozzato da Flaubert come scenario teatrale, ma il tema non sarà da lui mai più ripreso – è modellato sullo specialista best-seller di “amori e morte” di quegli anni 1830, Petrus Borel.
Il racconto del titolo è dei saltimbanchi e gli artisti di strada, tema che poi diventerà “flaubertiano”. Tra sublime e grottesco, ma anticipatamente verista. Perfino eccessivo: né Zola né Verga, né il neo neorealismo avrebbe saputo concentrare in così poche pagine tante disgrazie: fame, freddo, incidenti sul lavoro, malattie, disperazione, violenza. Ma il Flaubert imberbe, di più, già “sa” cosa e come scrivere, e perché, nelle note che antepone e pospone al racconto dei poveri circensi girovaghi: lo svelamento gli si impone delle verità dell’amore, “scienza così bene esposta in «Faublas», le commedie di second’ordine e i «Contes moraux» di Marmontel”.
Chiara Pasetti, che cura la traduzione, fornisce un’ampia presentazione, in particolare sulla “malattia nervosa” che proprio a partire da quegli anni ha poi afflitto Flaubert.
Gustave Flaubert, Due racconti giovanili, Aragno, pp. 126 € 15
Un parfum à sentir ou Les Baladins
, Folio, pp. 113 € 2