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sabato 15 ottobre 2011

La doppia morale della signora Clinton

Hillary Clinton critica la giustizia italiana a Perugia, non ringrazia l’Italia per la guerra a Gheddafi, e in viaggio per Tripoli evita Roma. Alla Farnesina non ne sono meravigliati: mai un segretario di Stato americano è stato così inconsistente come la signora Clinton, su tutti i fronti della diplomazia americana, dalla Cina alla Corea, al Medio Oriente e al nord Africa. Una persona tra l’altro digiuna di geografia, malgrado gli otto anni passati alla Casa Bianca come moglie di Bill Clinton, non sapendo distinguere la Bosnia dalla Serbia.
All’ambasciata americana invece si ride della ragione che la signora Clinton adduce per evitare l’Italia, quella che il suo ambasciatore a Roma Thorne accredita con i giornalisti amici: i festini di Berlusconi. Ricordando che suo marito li faceva alla Casa Bianca, lei presente, con collaboratrici e donne di professione, e senza pagarle, abusando del potere d’influenza. Subendo almeno quattro processi, poi naturalmente messi in sordina, con la moglie sempre al suo fianco per difendere la sua propria carriera politica.
Si può anche dire che la Clinton non viene a Roma perché non è popolare tra gli stessi americani. I quali ricordano che suo marito e lei stessa parteciparono tra la fine del 1998 e il 1999 a varie kermesse-seminari in Italia “dell’Ulivo mondiale” o della Sinistra Mondiale, ospiti di Veltroni e\o di D'Alema, facendosi pagare.

I conti non tornano del partito neo guelfo

Mentre il “Corriere della sera”, il giornale di Bazoli e della curia milanese, moltiplica i supplementi che invitano alla crociata, alla Cei i conti non tornano. E la setimana prossima verrà detto alle assise di Todi.
Gli echi all’idea di un nuovo movimento politico neo guelfo sarebbero stati tiepidi. E le prime analisi degli spostamenti ipotetici del voto: una nuova Dc è accreditata di “molto meno” del 30 per cento, che era stata la sua soglia storica minima, e più vicina al 20. Solo una parte dei berlusconiani confluirebbe nella nuova entità. Che sommata al Grande Centro di Casini, Fini e Rutelli, e a briciole del partito Democratico, non farebbe un partito di maggioranza relativa.
Il partito Democratico verrebbe ad essere, secondo queste analisi, il primo partito. Secondo due ipotesi. Una di minima: che il Pd mantenga i voti attuali, meno un 2-3 per cent di ex Popolari. E una di massima: che in un Pd meno diessino, ora che nel cuore delle regioni rosse, la Toscana e metà Emilia, il voto va a ruota libera, confluisca la parte laica dei berlusconiani, i sociliasti, compresi gli astenuti, i repubblicani, e forse anche i liberali.

Le istituzioni all’opposizione

Se il debito un mese diminuisce, il governatore Draghi subito dice che è sempre eccessivo. Se la disoccupazione cala, il governatore Draghi subito ricorda che i disoccupati hanno meno di trent’anni. Se la produzione in qualche modo aumenta, il governatore Draghi subito ammonisce che l’aumento è inferiore alle attese. Non passa giorno, né ora del giorno, che il governatore della banca d’Italia non alimenti la sfiducia sui conti italiani. In altro regime il suo sarebbe un atteggiamento criminale, in presenza di una turbolenza monetaria ormai triennale: è come se il governatore volesse mandare l’Italia in malora, e non c’è bisogno di provarlo, lui sa quello che fa. Ma Draghi non è solo.
Il presidente della Repubblica Napolitano corona una onorata e perfino nobile carriera politica con messaggi altrettanto criminosi, quotidiani, anzi plurimi nella giornata. Quelli ufficiali e quelli ufficiosi, che i suoi uffici (“il Colle”, “il Quirinale”) fanno circolare con i giornalisti amici. Tutti intesi naturalmente a proteggere l’Italia ma in realtà utili a sbancarla – alla sensibilità politica di Napolitano, uomo per una vita in minoranza e all’opposizione, questo non sfugge.
L’atteggiamento criminoso non è dunque tanto delle persone, quanto delle istituzioni. È il linguaggio della Seconda Repubblica, costantemente eversivo, al massimo livello. Scalfaro ha stabilito il precedente, e le istituzioni si adeguano, il Quirinale, la Consulta, il Csm, la Banca d’Italia. Ogni istituzione si ritiene slegata dai vincoli costituzionali, e anzi legittimata ad agire contro l’Italia, per presunti interessi di partito, o di gruppo d’influenza o di cordata. Ciampi ha tentato di reintrodurre un sano concetto di limiti costituzionali, ma è stato presto trascurato.
Il governo è imbelle. Ma le istituzioni sono golpiste. Non c’è altra parola.

L’eccentrico Pessoa è molto naturale

È l’unico atto privato noto, autografo, di Pessoa, ed è un curioso, straordinario, indiscreto, lampeggiante laboratorio di creatività. La storia d’amore di Pessoa con Ofelia Queiroz è letta come una delle bizzarrie del poeta, che invece vi è lineare – i donchisciottismi vengono con ogni innamoramento “poetico”.
E un esercizio di scomposizione. Un lacerto dissociato sotto la superficie levigata della poesia. Tabucchi nella postfazione cita l’analogo di Kafka con Felice, ma qui il testimone-prova è scoperto, “sanguinolento”. Indirizzato magari alla persona meno adeguata. L’invio delle lettere Pessoa cessa il 29 novembre, ma già il 19 marzo, tre settimane dopo che l’aveva iniziato, il poeta deve scoprire che Ofelia era forse meno “Ofelia” di quanto lui fantasticava.
Resta anche da sapere, di fronte alle tante cose accennate che in queste lettere non ci sono, se non si tratta di una scelta, operata da Ofelia. Senza cattiveria certo, saranno tutte quelle “rimaste”. Il “destino” di Pessoa, lo stesso direbbe, è stato di restare indecifrato.
Fernando Pessoa, Lettere alla fidanzata

Padre, in ogni incarnazione del figlio

Iperromantica elegia. Innamorata, nostalgica, affettuosa, sensibile, amichevole, e antinaturalistica, immaginaria, esoterica. In forme e su temi attualizzati. Giocati cioè sull’assenza, l’identità, la ricerca (il viaggio), l’irrealtà. Ma lo stile è molto romantico (la langue, la filosofia), è struggente. È ciò che fa il fascino della scrittura di Tabucchi.
Il figlio-padre a un certo punto chiede al padre-figlio: “Perché mi parli in portoghese, padre?” la grazia di questa narrazione è nell’alloglossia, nel fatto che sia stato scritto presumibilmente “di getto”, “automaticamente”, in una lingua che, pur non essendo quella dell’autore, è tuttavia di una seconda patria che gli è cara, o di un amore che vive intenso, identificandovisi. E coinvolge in questo altro se stesso il padre: è l’omaggio più commovente.
Antonio Tabucchi, Requiem

venerdì 14 ottobre 2011

Problemi di base - 77

spock

Tutte col frustino le giudici di Berlusconi a Milano: che sia diventato masochista?


L’Italia ha un problema di crescita (produttività, servizi, credito), perché Berlusconi lo nega?


Perché Obama vuole gli islamici al potere, in Tunisia, in Libia, in Egitto?

Oppure non li vuole, ma allora perché fare come se?

Perché gli Usa istigano gli islamici e poi li buttano addosso a noi?

I Protocolli di Sion non esistono, ma perché fare come se esistessero?

La democrazia fa male ai ricchi. E ai poveri?

Marcandolo stretto non si blocca Messi, a zona nemmeno, e allora?

Che rispose Dio al suo Figlio in croce?

E se Dio fosse muto?

spock@antiit.eu

La guerra perduta del Nord

L’assunto principale, la frantumazione del Reich tedesco e la fine dell’ebraismo europeo, è contestabile, giacché né l’uno né l’altro sono finiti, e anzi sono ben vivi. Il punto di vista è perfino assurdo, benché non isolato: la guerra viene limitata ai fronti Nord. Una prospettiva irreale, che rende così possibile ipotizzare un ’44 ancora improntato alle attese di vittoria, con un seguito di false deduzioni sui comportamenti dello Stato Maggiore, le resistenze dei militari, l’inasprimento della Soluzione Finale. Mentre a tutt’altre conclusioni si arriva se si guarda al conflitto nell’insieme: la guerra era perduta già nel ’43, a Stalingrado e Alamein.
In particolare, lo schema di Hillgruber dovrebbe essere portato sul fronte meridionale, Italia e Mediterraneo (che lo stesso Rommel aveva perduto prima di perdere il Nord). Che bizzarramente invece si tende a porre in prospettiva contemporanea, sottovalutandone quindi il ruolo e anzi cancellandolo nel Gran Teatro della guerra. L’Italia era una grande potenza europea. Che a metà del 1943 aveva: 1) cacciato Mussolini e il fascismo, 2) dichiarato perduta la guerra. E ciò in presenza dei tedeschi: sarà stato opportunismo ma era coraggioso.
Il giudizio politico e morale – successivo quindi – sull’impreparazione italiana alla guerra, l’inettitudine dei comandi, l’inefficacia di piani e strategie, l’ambiguità della monarchia, non deve cancellare il fatto che l’Italia e Mussolini erano gli alleati della Germania. Questo è importante anche per l’analisi dei quasi due anni di guerra successivi al 25 luglio.
Andreas Hillgruber, Il duplice tramonto

giovedì 13 ottobre 2011

Gli Usa, terza scelta di Marchionne, la buona

Ha naturalmente tentato dapprima il rilancio in Italia, dove il gruppo Fiat ha malgrado tutto sempre la fetta di mercato maggiore. Ma il futuro dell’auto, un’industria così fortemente competitiva, dai margini ristrettissimi, ha trovato in Italia ripetutamente, costantemente messo in scacco dalla parte più retriva del sindacato, con gli assurdi referendum, a Pomigliano, a Termoli, a Mirafiori. Perduti i quali l’infinita contestazione pagliettistica è partita. Con accompagnamento, prima, durante e dopo, di pensosissimi (ipocriti? ipocriti) commenti del “Corriere della sera” a mucchi e del “Sole 24 Ore”, giornali (quasi) della Casa.
Poi Marchionne aveva puntato sulla Germania. Che è ormai per tutto, e quindi anche per l’auto, il vero governo, il governo supremo, dell’Italia. Tanto più che nell’auto ha un modo tutto nuovo di fare – bisognerebbe mandare la Cgil a scuola dalla Metallgesellschaft, che è ben più a sinistra. Dapprima le trattative, con Mercedes e con Bmw. Poi l’affondo su Opel. La Germania ha detto no, poiché ha deciso da un ventennio buono di tenersi lontana dal contagio italiano, e questo Marchionne forse non lo sapeva. Ma si è rifatto negli Usa.
Nel mercato più difficile, con l’azienda più disastrata, Marchionne ha riuscito il miracolo. Di salvare la Chrysler e (forse) anche la Fiat. Questo grazie non tanto a tecnologie speciali né a posizioni di rendita – la Chrysler era anzi in crisi cronica da quasi mezzo secolo, e prima che arrivasse la Fiat ha minacciato di mettere in crisi nientemeno che la Mercedes, il vecchio padrone. Ma grazie a due accordi sindacali, una “tecnologia” pure di uso libero e costo irrisorio.
La Fiat è passata da quarto gruppo automobilistico mondiale a piccola comprimaria nella gestione familiare di Gianni e Umberto Agnelli. Marchionne però dimostra, non c’è da aspettare uno sguardo retrospettivo per dirlo, che gli Agnelli non potevano fare meglio. Che l’Italia è stata e rimane un rischio,che fare industria in Italia è possibile solo negli interstizi, dove l’outsourcing ancora resta possibile, la flessibilità di orario, la produzione just in time - ricette già del passato, benché prossimo.

Il conservatore (italiano) sempre si nega

Alla fine resiste di più, attaccato al vecchio, chi si vuole rivoluzionario. Mentre il conservatore, volendosi saggio, Max Weber direbbe disincantato, vede per il meglio. Il “paradosso” di Armando Torno non è nuovo, ma vederlo applicato massicciamente, com’egli sa fare in questo svelto, garbato, inoppugnabile pamphlet al progressismo – in realtà il paradosso è qui del progressismo – è lettura irresistibile. Specie alla cura di sé, dalla fitness al botulino. Fino all’argomentata abolizione (“nessun manuale di casuistica può accusarvi….) del peccato di lussuria, poiché non si stringe più che silicone. Toccando temi seri come la globalizzazione, inevitabile, il lavoro, colpevolmente consegnato alla flessibilità.
Altri che avrebbe potuto meglio trattare, da amabile ex direttore del supplemento culturale del “Sole 24 Ore”, il postmoderno in filosofia, il post-sperimentalismo in letteratura, finito nelle scuole di scrittura, Torno si limita ad accennare sprezzante, forse a ragione. Ma la conclusione sicuramente vuole troppo modesta. “I conservatori”, annota, “si camuffano. Da progressisti, da innovatori, da quel che capita”. In Italia, però. Solo in Italia, non nel resto dell’Europa, da Lisbona a Parigi, Londra o Mosca. E non da ora - anche i fascisti, nessuno si voleva conservatore. Ciò fa il “blocco storico” dell’Italia, una sorta di blocco intestinale del corpaccione Italia, variamente detto “trasformista” ma così affine alla corruzione – alla necrosi.
Armando Torno, Il paradosso dei conservatori, Bompiani, pp. 105 € 14

L’angelo lieve di Tabucchi

L’entrata è folgorante, “Voci portate da qualcosa”, col meglio dello scrittore (e col suo “vizio”: eventi e persone d’un beato passato adolescenziale): la narrazione per incidens, casuale, e una corrispondente scrittura lieve, di agganci fortuiti, echi, insorgenze. Sapientissima scrittura: il secondo periodo è lungo una pagina e mezza senza punto fisso, e verte su un soggetto ostico, la casualità del narrare, ma va giù come acqua di sorgente – niente faticosità di proposito, alla Bernhard. Recupera anche il romanzesco più imprevedibile, in forme perfino automatiche: Staccia Buratta, la Seguridade…
Con malizie a chiave? Il signor Coscienza di “Farfalla a New York” è una condanna di Sofri? “La trota” è Montale-Cima?
Antonio Tabucchi, L’angelo nero

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (104)

Giuseppe Leuzzi

Milano
Non è la prima volta che la Lega vuole i ministeri. Già Maroni aveva aperto una succursale dell’Interno, nientemeno, a Milano nel 2003. In precedenza la pretesa era stata avanzata dal sindaco berlusconiano Albertini, al grido: “Se Roma è la capitale, Milano è il capitale”.
Di nuovo c’è ora che Napolitano vuole sbolognare il governo. Per una grande coalizione. Senza parere. A piccoli strappi. Si può dire che è Napoli che muove Milano? È un caso di comunione d’interessi.

Woodcock sollecito ha mandato a Milano anche le virgole delle chiacchiere, all’orecchio assoluto dei colonnelli della Finanza (due e-mail innocenti d’impiegati Mediolanum, l’affitto di Tremonti, etc.) Mentre non ha mandato a Roma le sue inchieste su Roma, un atto palese d’illegalità. Protetta, bisogna dire dal Csm, cioè dal presidente Napolitano, la napoletanità c’è e lavora.
Da buon napoletano Woodcock sa chi comanda: è Milano. Nelle vesti del vice Procuratore Francesco Greco, primo napoletano della capitale morale.

C’è molto Borromeo nel Sud della Germania, la Baviera, il Baden, l’area ricca del paese, la più ricca d’Europa, e cattolica: collegi, suore, conventi. A conferma che Max Weber sbaglia sulle “origini” del capitalismo (ma il vero Weber non dice in nessun luogo che il capitalismo nasce col protestantesimo, questo è vero solo in Italia, per l’anticlericalismo, solo ne analizza una figura, quella del trhift). E di un comune destino “lombardo”, di qua e di là delle Alpi. Che si ritrova nella religiosità, molto controriformistica, oltre che nell’operosità.

Non c’è nessun calabrese nello scandalo alla provincia di Milano. Né c’è Berlusconi. Che novità è questa? Forse perché l’hanno sollevato i giudici di Monza, non i napoletani di Milano.

Berlusconi è triste da qualche tempo. Nemmeno la televisione lo stimola più, apparire – per non dire delle troie, ha fatto un’estate di continenza, il compagno Zappadu ha dovuto ripiegare sulle statue. Si pensava la depressione causata dalla sconfitta alle elezioni nella diletta Milano. E invece no: a tutti, anche a Lino Banfi, confida che è triste perché l’hanno costretto a pagare il salatissimo riscatto a De Benedetti. Che, intascato il malloppo, non lo libera. Una vera ghenga di gentiluomini.

Sicilia
L’orgoglio dell’isola sono i normanni, francesi. E i Vespri, antifrancesi. Un odio che il nuovo orgoglio ortodosso, della “vera fede”, rinnova, che i francesi dice (tutti, normanni e angioini) “gli agenti del papa”.

Ogni libro di Camilleri, seppure ora a frequenza mensile, è sempre un bestseller, il numero uno delle classifiche. Considerato che sono ormai scritti in una lingua accessibile solo a siciliani e calabresi, è come se le due regioni da sole facessero il top market, almeno nei libri.

Quasi la metà delle monete greche della collezione privata Gulbenkian a Lisbona vengono dalla Sicilia. Era l’isola già allora prodigale, inflazionistica? O espatriare monete dall’isola è più facile?

Ci fu in Calabria, nel 1848, “un’insurrezione di vasta portata in Calabria”, narra lo storico Mike Rapport in “1848”. Criptico. Ma con un particolare: “Una forza di 600 siciliani inviata in aiuto della rivolta calabrese si rifiutò stizzosamente di avere a che fare con i contadini”.

Calabria
Le donne scalze erano l’ossessione di Alvaro a San Luca, segno di degradazione. Ora vanno su tacchi alti e puntalino, bionde ossigenate, e hanno parte attiva nel business, compresa la strage di Duisburg.

Arthur John. Strutt, il pittore-paesaggista-acquarellista inglese che nel 1841 si avventura con un amico a piedi in Calabria, balla a Spezzano le “torsioni misteriose della tarantella”. Convitato da tre belle ragazze, Angiola, Carolina e Rosa Maria.

Capita solo qui di aggirarsi fra contadini-contadini. In un mondo cioè di contadini reali: generosi, presuntuosi, diffidenti, e quindi oggi faticosi. Anche quando esercitano una professione. Anche in città, con l’eccezione, forse, di Cosenza, e di piccole porzioni di Catanzaro, Vibo e Crotone – Reggio è un paesone, di contadini inurbati. La Calabria non ha città.
In Sicilia il contadino residuo è “villano”, cittadino di seconda serie, con quale non si ha commercio. E così in Puglia, nel Gargano, nel Salento: i contadini vi sono forme residue, marginali per la loro stessa mentalità - la Campania è Napoli, e Napoli è la cultura più metropolitana d’Italia.
Nasce da qui la meraviglia del visitatore? Lo spaesamento, l’indigeribiltà? Altrove in Italia s’incontrano pochi contadini-contadini. Nelle Alpi, ma sono isolati. E nell’Appennino romagnolo, a Bagno e dintorni, ma qui non più isolati. Anzi, ottimi coltivatori, moderni, senza complessi.

Si entra in Calabria, lungo la famigerata Salerno-Reggio Calabria, con l’impressione di attraversare un paesaggio tedesco. I paesi si chiamano Lauria, Galdo, Laìno Borgo, Mormanno Sono anche puliti.
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“Gli Albanesi si credono superiori, e non di poco, al resto dei Calabresi”. Lo diceva trent’anni fa l’oste di Altomonte, proprietario di terre dove produceva le ottime cose che serviva, fino alla ricottina, anticipatore dell’agriturismo – il cui figlio è albergatore e cuoco a più stelle. Aveva fatto le scuole a Luzzi, paese albanese. Lo stesso diceva due secoli prima Johann Heinrich Bartels, il giovane amburghese che visitò la Calabria nel 1786.

“La Calabria assomiglia a tutto tranne che all’Italia!” è la prima impressione di Adolphe de Custine, giovane esploratore nel 1812 dell’impervia contrada. Con molte lettere ufficiali di presentazione-ingiunzione alle autorità locali da parte del regno murattiano: la rivolta antifrancese è domata, ma i francesi non sono amati in Calabria, la liberazione è cosa complessa.
La natura il marchesino vede meravigliosa, quale è. E l’uomo apatico, quasi indifferente, nella sporcizia, nell’indifferenza, l’uomo maschio. Quando pensa è alle chimere.
A Cosenza, “città pestilenziale la gran parte dell’anno”, trova un barone Mollo famoso improvvisatore, che i nobili della città tengono in grande onore. La specialità del barone è un’ode alla conquista napoleonica dell’Asia. Con gran sorpresa dell’antinapoleonico Custine – ma il barone non improvvisava?

L’irrilevanza (l’incapacità?) della politica è ben sintetizzata da Custine nelle sue “Lettere” del 1812: “Non conosco nulla di più faticoso che una conversazione fra due calabresi sui fatti del giorno: è soprattutto qui che si può dire che la parola è stata data al’uomo perché se ne servisse per nascondere il proprio pensiero”.
Non si capisce come abbia fatto a capirlo, Custine non parlava l’italiano, figurarsi il dialetto, ma è incontestabile.

leuzzi@antiit.eu

mercoledì 12 ottobre 2011

Irène-Balzac anni ’30, con spruzzo antisemita

È la parabola di un levantino immigrato in Francia nella grande guerra, Dario Asfar, un “meteco”, povero ma addottorato, che fa sua la violenza della società in cui vive, inventandosi il dopaggio nervoso per la gente di successo. Un te absolvo laico sufficiente a rimontarli, seppure sempre critico di se stesso. Con finale amaro – ma non cattivo, la differenza sarà importante. Lo affiancano via via una generalessa russa, piccola usuraia a Nizza, che sarà broker regina a Parigi, un potente portiere d’albergo a cinque stelle, Ange Martinelli, poi derelitto, e la mantenuta Elinor. Questa soprattutto, la donna di tutti i delitti, che anch’essa ricorda la fame - “crepare di fame sul pavé di New York” - ma anch’essa costruisce, e ben solidamente: una grande azienda automobilistica, la sua vita e quella di Dario.
È il romanzo di due “costruttori”, molto balzacchiano nell’impianto - la Némirovsky si precisa narratirce sociale, alla Balzac - se non nella scrittura. Che qui scorre svelta, a fogliettone, ben secondata dalla traduttrice Marina Di Leo, ogni puntata una storia: il protagonista è un “lupo affamato” che diventerà “bestia selvaggia”, lo stesso la deuteragonista. È il racconto di una duplice riuscita, anche se a costo, apparentemente, del sacrificio di sé per l’opera. Anche se L’opera (il successo) è sempre incerta. Avrebbe potuto essere il romanzo degli anni Trenta, a cavallo della Grande Crisi, con una struttura più consistente. Ma è il racconto più ingombrante, l’altro romanzo “antisemita” di Irène Némirovsky, dopo il “David Golder” di dieci anni prima, che le aveva dato fama e lettori. Benché con tutta evidenza non lo sia.
È la stigmata che su di esso hanno impresso i biografi della scrittrice, Philipponnat e Lienhardt, nell’introduzione alla riedizione (qui più opportunamente in postfazione). Bizzarramente. Dopo avere cioè dato tanti pratici e utili punti di riferimento al racconto stesso. Tra essi il tentativo di interdizione per via giudiziaria nel 1935 di Bernard Grasset, editore della stessa Némirovsky, da parte di familiari e azionisti. La questione sarebbe posta dal fatto che il racconto uscì a puntate su “Gringoire”, una rivista più antisemita che non. E che il protagonista e la moglie Clara vengono dai ghetti poveri di Odessa. Il racconto era uscito col titolo “Les Échelles du Levant” (non più riutilizzabile alla prima riedizione in volume, nel 2005, essendo diventato nel frattempo il titolo di una narrazione di Amin Maalouf), che echeggia gli scali del Levante ma nel senso di “salvati”, sopravvissuti.
Clara è detta di madre ebrea, Dario di genitori greco-italiani. Ma entrambi sono ripetutamente, a ogni puntata, “meteci”, parola che allora stava per ebreo, argomentano Philipponnat e Lienhardt. I quali Asfar, che in arabo è viaggiare”, vogliono “nome punico assimilabile a Ahasverus”, l’ebreo errante. Il tutto “sulla scena «razziale», che è il fondale del… tempo”. Con una difesa d’ufficio, da parte dei due futuri biografi, che aggrava i sospetti: “Irène Némirovsky non produce stereotipi infami, li svia”. Stereotipi che “fanno parte della panoplia letteraria francese dopo Voltaire e l’illuminismo”. Più difficile l’ebraismo con Elinor, ma i due insistono. La diabolica deuteragonista, “che rappresenta qui il richiamo dell’eredità”, dicono Philipponnat e Lienhardt, “è l’anagramma di l’Oriente”. E orientale, in Maurras, Léon Daudet, Céline e anche Martin Buber, “è sinonimo di Ebreo”. Mentre Elinor è per l’autrice che “l’Americana”, la donna dura – personaggio anche tropo semplificato.
“Gringoire” è un’altra questione. Pubblicò il racconto dal maggio all’agosto 1939, alla vigilia della guerra. E sarà l’ultima cosa che Irène Nèmirovsky avrà potuto firmare col suo nome. Già il suo editore Albin Michel protestava l’opportunità di non riprenderlo in volume, stanti le leggi razziali. “Gringoire” era il settimanale di maggior tiratura a Parigi negli anni 1930. Con tratti sempre più antisemiti, che nel 1935 costrinsero Joseph Kessel a lasciarne la direzione letteraria. Irène Némirovsky, che era stata introdotta a “Gringoire” da Kessel, continuò invece a collaborare. Ma nella stessa rivista, dicono Philipponnat e Lienhardt, Marcel Prévost poteva denunciare “la persecuzione degli Ebrei”, ed elogiare il temperamento slavo e la chiarezza francese di Irène Némirovsky. Era l’epoca. Horace de Corbuccia, l’editore di Gringoire” e sua moglie Adry, erano personaggi in vista della società parigina. E Irène era elogiata dall’“Action Française”, il giornale nazionalista e antisemita, da Brasillach nel 1932, da Maxence nel 1939.
Anche questa ricostruzione dei biografi si presta all’equivoco: si può pensare Irène una venduta ai suoi peggiori nemici. Tanto più che “Fantasio”, l’altra rivista, bimensile, su cui pubblicava, fin da quando era studentessa nel 1921, “si distingueva per la stupidità e la grossolanità del suo sciovinismo”. Ma tutto questo riguarda l’editoria, e forse le opinioni politiche della scrittrice, come di tanti altri ebrei, non l’antisemitismo.
C’è spesso nella narrativa d’Irène Némirovsky, per ispessire i personaggi, la generalizzazione: ci sono gli “ebrei”, come i “borghesi”, gli “intellettuali”, i “meridionali”, qui le “americane” e la “confusione russa”. E i destini sono più spesso perdenti. Ma questo è un modo di vedere la storia diffuso, per esempio, nell’Ottocento e il Novecento italiani. Si può anche dire un marchio della scrittrice, una sorta di dato metafisico: la povertà induce la colpevolezza, e così la separatezza. Lo fa dire anche a Dario di se stesso: “Non puoi cambiare la tua carne. Non puoi cambiare il tuo sangue, né il tuo desiderio di ricchezza, né il tu desiderio di vendetta”. O altrove, come lo stesso risvolto editoriale sottolinea: “Io credo che esista una fatalità, una maledizione: sono destinato da sempre a essere un mascalzone, un ciarlatano. Non si sfugge al proprio destino”. Ma non c’entra la razza o la stirpe.
Sospettare di antisemitismo chi ne è morto, ad Auschwitz, non è onesto e non è possibile. Irène Némirovsky ha avuto gravi problemi con i genitori, che ha riflesso sull’eredità o le origini, oltre che di integrazione in Francia, e più come scrittrice francese - “il 2 febbraio 1939, la Chiesa vuol bene accordarle il battesimo, ma lo Stato le rifiuta la naturalizzazione”, ricordano in conclusione i biografi. La Francia è nel romanzo l’inaccessibile – troppo bella, troppo saggia e amabile, e alla fine insensibile: nella figura di Sylvie, che è parte di tutte le tragedie del racconto, ma incontaminata. L’ebraismo è per Irène un problema, ma è quello dell’allontanamento, da una radice che per più motivi, l’arretratezza della Russia a Kiev, la madre, il padre, la Francia, difficilmente è fertile o componibile. Soprattutto quando l’identificazione si vuole totale. Gli anni dopo la prima grande guerra, di grande immigrazione dall’Est, sono per l’Europa in piccolo, anche se con in più il nazismo, quello che oggi è in grande il rifiuto – reciproco – con l’islam.
Poi c’è Clara, la moglie buona e fedele, che è forse la vera protagonista, nel senso dell’autrice. Che in un mondo di ambizioni ridotto al denaro, in cui niente si oppone alla miseria, materiale e morale, ripropone, fragile e ferma, il mistero dell’amore. È Clara, a dire la verità, difendendo Dario, il padre “ciarlatano”, contro l’amatissimo figlio: “Voleva il bene con più forza, con più ardore di chiunque altro, non è colpa sua se gli avete dato questo sangue, questi desideri, questa febbre, questa facoltà di amare e odiare più forte degli atri. È impastato col fango della terra”.
Irène Némirovsky, Il signore delle anime, Adelphi, pp. 240 € 18

Il mondo com'è - 71

astolfo

Antipolitica – È il segno dell’epoca, non soltanto in Italia. È il segno dell’Europa, in Germania, in Olanda, in Francia, della sua “decadenza”.
Anche la storia si fa nel segno del’antipolitica. Quella dell’Italia nel cento cinquantenario, o del Sud. O della Libia, per dire, e gli altri paesi del Nord Africa. Quanta semplicioneria! O ebetudine: il rifiuto della politica non è intelligente. Neppure nel none dell’umanitarismo, della giustizia, e delle tante innovazioni che si vorrebbero beneauguranti (eu-) e sono assassine: eugenetica, eutanasia, eunomia, e l’eucrasia chimica. È l’incapacità d’immedesimarsi, di suscitare identità, legami. E l’inutilità intellettuale – dell’opinione comune (pubblica) e dei maîtres-à-penser. La sterilità: del saperne di più, della perfezione, dell’albagia.
È la trovata migliore – più vasta, più furba – del disusato totalitarismo. I capi sono capetti, e tuttavia ancora maestri, guide, padroni. E fuori del potere nulla, solo buoni sentimenti e buona coscienza.

Napolitano reagisce infastidito a Della Valle che fa una campagna pubblicitaria contro i politici: “Si impreca contro la politica ma la politica siamo tutti noi”.
L’antipolitica è una politica, estremamente insidiosa. La più brutta perché perversa: si finge infatti perseguitata mentre è la politica dei padroni: imprenditori, mercanti, professori, vescovi.

Colpa - La Germania paga. Ma non ha fatto dell’Olocausto una rinascita. Come avrebbe fatto ogni altro paese filosofico. L’ha riconosciuto, e accantonato. È avvenuto, ma continua a sembrarle impossibile. All’ora, ancora, del vecchio Hijalmar Schacht, il banchiere di Hitler, che non se ne faceva una ragione: “Il nostro superamento del passato è consistito nel rovesciare ogni colpa sul nazismo: il nazismo ci ha imposto una guerra, ci ha terrorizzati, ci ha attirato l’inimicizia del mondo, ha distrutto ogni senso d’umanità”. Questa è l’essenza della Colpa: con la storia del non esserci e non sapere “abbiamo assistito non una bensì due volte”, aggiunge Hannah Arendt, “al totale collasso dell’«ordine» morale”. Non solo il tempo non aggiusta le cose, ma “quello è un passato che è diventato sempre peggiore col passare degli anni, in parte perché i tedeschi si sono rifiutati di processare gli assassini che ancora si celavano tra di loro, e in parte perché tale passato non può essere dominato e domato da nessuno”.
La colpa in sé è discutibile. Bisogna stare con la filosofa Lou Salomé, con “la prevenzione innata contro ogni sentimento di colpevolezza”. Ma non dopo Hitler. La Germania invece non riconosce nell’Olocausto un unicum. Non ne ha fatto un humus, non ne è germogliato nulla, un ripensa-mento radicale, un dramma, una filosofia, un romanzo. E col tempo lo metterà, è inevitabile, nel conto della storia, del dare e avere. L’equivoco di Jaspers apre la scorciatoia, della colpa che è individuale e non “collettiva morale”, né “collettiva metafisica”. Certo che no, ma in tribunale. Non nella vita, né in filosofia. Il compito non era minore, farsi laboratorio di un’altra umanità. Ma la Germania ha voluto restare la stessa, solo più ordinaria, legata al marco invece che alla filosofia. Il “fratello Hitler” di Thomas Mann resta figura retorica, malgrado la straordinarietà, priva di senso reale.
Heidegger aveva già “avviato il discorso”, prima di Hitler e l’Olocausto, è qui la sua grandezza. Ma il seme non ha germogliato, o il fango era sterile. I tedeschi ebrei si direbbero morti tedeschi, ma le morti non hanno lievitato, nessun tedesco s’aggira in quei campi o se n’è impregnato. Gottfried Benn, che con Heidegger è stato nazista, e in più è stato l’ultimo allievo della Pepinière, l’accademia prussiana per la formazione gratuita dei medici militari, è divenuto dopo Hitler il Poeta della Nazione, insignito del premio Büchner. La colpa di Heidegger è questa, che il suo metodo rivoluzionario, pensare il pensiero, ripartire daccapo, ha trascurato - per primo bisogna dire, per dare la misura dell’uomo e dello stesso metodo – questa nuova possibile storia. Cioè l’ha azzerata: nel suo gergo, poiché non se ne parla, l’Olocausto non è, per quanto contriti si sia.

Copia – Si insegue su tutti i marciapiedi, le spiagge, e nei paesi anche casa per casa. Tramite i vecchi ambulanti e i vu’ cumpra’, i nuovi magliari. Come il nylon aveva rimpiazzato il cotone, e la plastica ha rimpiazzato il ferro o il rame. I fiori finti al cimitero e ora anche in casa. Anche nei sentimenti e nei ragionamenti la copia prevale, Ersatz addomesticato, semplificato, abbreviato, l’attenzione è minima. E nei cibi: non si può mangiare il già masticato, ma vanno gli alimenti dove non si mastica, cioè non si gusta. Alla multiforme bellezza della vita viene preferito il surrogato più dozzinale. A conferma che il più grande egualitarista è il mercato, certo più del socialismo, che implicava obblighi anche gravosi, non soltanto per la libertà.

Occidente – I giapponesi chiamavano nambanjiing, i cafoni del Sud, i portoghesi che si erano avventurati fino da loro. Ma non c’erano, non ci sono stati, giapponesi in navigazione verso Sud e o altro punto cardinale. O cinesi, altrettanto, anzi di più, antichi, colti e potenti. O indiani. Nemmeno un Marco polo giapponese, o cinese, un giovane con la voglia di scappare di casa per vedere il mondo. L’Europa figura in questo atlante mentale come un posto insicuro.

Una tradizione obsoleta vuole l’Occidente in vesta talare, come quello del cristianesimo. Ma questo è vero per la storia. Poi l’Occidente si qualifica per essere quello che ha perduto la fede, unico al mondo. Anche nel comunismo. Nel nome del quale però si fa grande, Stalin è l’ultimo conquistatore europeo.

Non è molto che il mercato ha preso il sopravvento: è avvenuto in Europa, la prima, e per ora unica, società secolarizzata, o materialistica nel senso di Marx, dal tempo della Riforma. La compravendita di beni e favori, il mercato, che è ideologia e anche filosofia, l’individuo, la rela-zione soggetto-cosa, la realtà che si autoproduce, mezzo Heidegger. È un fatto che il mercato, esistito sempre e ovunque ma in condizione subordinata e spregiata, per esempio nel cattolicesimo romano, che inventò le forme del capitale moderno, si rende indipendente come economia e forma dello spirito, e anzi pretende l’egemonia nell’etica individuale e nella politica, con Lutero e Calvino. Al papa e all’imperatore si sostituì il re denaro. Una gabbia per matti e un sistema di schiavitù ferrea, interiorizzata – questa non è una critica radicale, è Max Weber, se ben se ne capisce la razionalizzazione, che si potrebbe tradurre secolarizzazione, dell’Occidente. Weber che il Vecchio Testamento ha collegato agli eredi puritani della Riforma, e ha studiato le origini del capitale anche nel confucianesimo e nel taoismo, arduo dev’essere stato, ma non a Roma.

Usa – Sono più tedeschi che inglesi. Nelle stime dell’origine etnica della popolazione, gli americani tedeschi sono 51 milioni.
Gli americani di origine italiana sono il quarto gruppo, con 18 milioni. Il quinto contando gli afroamericani, gruppo però disomogeneo, di varia origine, anche caraibica, e compresi i neri ispanici. Ai tedeschi seguono a distanza i britannici (inglesi e scozzesi) e gli irlandesi, con una consistenza analoga, 36,5 milioni per entrambi i gruppi etnici. Gli afroamericani sono calcolati in 41 milioni. Dopo gli italoamericani vengono a grande distanza i franco americani, 12 milioni.

astolfo@antiit.eu

martedì 11 ottobre 2011

L'Italia sconfitta dalla Germania

Non si tratta della rivincita di tanti mondiali persi in finale, ma di un'azione decisa di mercantilismo. Di un mercato contro un altro. All'interno dell'Unione Europea pure tanto unita e solidale.
Al ragionamento dell'analista del "Financial Times" sarebbe da aggiungere: che mercato ha portato al rincaro del debito italiano, tanto eccessivo da ogni punto di vista? Il mercato europeo: alcune grandi banche e alcune banche centrali. Quali? La Germania e i suoi satelliti.
L'evidenza della cosa non si contesta: la Germania ha agito contro l'Italia con asprezza, e quasi con piazzate. Preannunciando catastrofi, svendendo i titoli italiani, Con quali vantaggi? Che senza nessun merito, come per la tripla A britannica, il costo del suo debito si riduce comparativamente invece di aggravarsi. Nel mentre che lo stesso debito aumenta, dal 2007, ogni anno del 10 per cento in rapporto al pil. Non si tratta di un miracolo, ma di una certa idea di Europa.

Se l'A+ Italia e' migliore scommessa delle tripla A Uk

Lungo esercizio, non paradossale, dell'analista Erik Nielsen sul "Financial Times" di oggi, che vale la pena di sintetizzare.
La retrocessione del debito italiano viene in automatico, come effetto della deriva intrapresa dal mercato, che, "abbandonando i fondamentali", ha portato i costi di finanziamento del debito sovrano italiano oltre il 5 per cento. "Ma talvolta il mercato capisce tutto storto, come in questo caso". Nielsen non trova il motivo per cui il debito italiano costa il 5,1 per cento e quello britannico l'1,6. Due paesi all'incirca della stessa grandezza e ricchezza. Con il debito italiano al 119 per cento del pil e quello britannico all'80, ma: 1) il settore privato italiano, ancora vastamanete manifatturiero, ha bilanci migliori di quello britannico, e le posizioni d'investimento internazionale netto dei due paesi sono "entrambe confortevoli, a meno 24 per cento del pil in Italia, a meno 13 in Uk"; 2} entrambi i paesi hanno accresciuto il prelievo fiscale nel prossimo triennio per tenere l'indebitamento sotto controllo, ma meglio ha fatto l'Italia, che passa da un attivo primario dello 0,9 per cento del pil quest'anno a uno del 5,7 entro quattro anni; 3} la sterlina ha sempre variato al ribasso dal 2007, e la tendenza appare destinata a rafforzaarsi, non avendo il deprezzamento rilanciato finora le esportaioni, mentre l'Italia sta e deve stare entro l'euro.
Le posiziooni relative dei due paesi, anche se entrambi sono deboli, con economie stagnanti, vedono la Gran Bretagna peggiorare sensibilemente dopo la crisi del 2007:
"Nel 2007 il Britannico medio aveva un reddito sueriore del 30 per cento a quello dell'Italiano medio, ora solo del 5 per cento, secondo l'Eurostat".
Una sola ratio Nielsen trova al mercato, collegata all'ultimo punto della sua esposizione: che il debito britannico resta legato a una banca centrale britannica, finora sempre disposta ad accettare aggravi fiscali marginali stampando invece moneta.

lunedì 10 ottobre 2011

La Grecia fallisce al 60 per cento

La Grecia non fallisce, non del tutto. Il riscadenzamento del debito che si sta per varare non ne colpisce tutta l'esposizione, ma almeno i suoi due terzi. Su questo il governo tedesco non trasige, e anzi chiede una percentale superiore.
Sul riscadenzamento massiccio puntano con decisione i fondi hedge, tutti americani, specializzati in asset sotto tensione, che da qualche tempo aprono sedi a Londra. Con un occhio soprattutto sulle banche francesi.
Sono una diecina di fondi che operano nel mercato delle obbligazioni e altri titoli di debito che soggetti in crisi si trovino a dover monetizzare a prezzi di realizzo. I detentori di titoli a rischio negli Usa, dove questo mercato funziona da tempo, se ne sono sbarazzati ai primi segnali della crisi europea, con perdite minime. Per le banche europee e britaniche invece, e gli altri grandi detentori di titoli pubblici sotto stress il sacrificio potrebbe essere di un buon sessanta per cento - la quota del riscadenzamento viene ipotizzata in base a questo mercato.

I Sarkomerkel a scuola, a Londra

Domenica per la seconda volta in due settimane David Cameron ha chiesto di "fare presto". Ha anche dato la ricetta: prevenire collassi bancari, evitare il contagio, circoscrivere il problema greco e... risolverlo. Roba da scuola. Il punto secondo riguarda l'Italia, esposta a un crudele rincaro del suo debito, per effetto unicamente dell'indecisione europea.
Il premier britannico ha messo pure le mani avanti, sapendo il duo europeo Sarkozy-Merkel molto suscettibiile: ha premeso che Londra non ha voce in capitolo. Ma ha aggiunto una quarta evidenza: dall'Europa dipende l'economia mondiale. Lo stesso giorno Merkel e Sarkozy si sono riuniti a Berlino, hanno cenato insieme, e hanno deciso di non decidere. Fra un paio di settimane, forse.
Oggi il "Financial Times" riprende il bisogno di un intervento "subito" a caratteri ingigantiti, in un fondo unico nella pagina dei commenti. Spiega ai due leader europei che cosa Cameron (e Obama prima di Cameron) hanno inteso dire. E ad Angela Merkel cosa essa stesa ha inteso dire quando ha detto che se fallisce l'euro fallisce l'Europa. No, funziona all'inverso: se fallisce l'Europa fallisce l'euro, con tutto il resto, mercato comune compreso. Talmente ovvio che perfino questo sito lo aveva rimarcato, ma non i due statisti. Che, come una vecchia copia, si ritrovano a quel che sembra senza parlare, aspettando l’ora di cena – a Berlino, figurarsi, alla famosa cucina tedesca.