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sabato 21 novembre 2020

Il mondo com'è (415)

astolfo

Gulag – I campi di lavoro forzato nella Russia sovietica sono durati fino al 1960 – ma “colonie di lavoro forzato” furono tenute aperte, nelle aree polari, fino a perestrojka inoltrata, il regime di relativa liberalizzazione inaugurato negli anni 1980 da Gorbacov, fino al 1987. Vi passarono 18 milioni di russi e assimilati. Tutti “traditori del popolo”, trockijsti, antipartito, categoria che sempre si rinnovava, a ogni mutamento di equilibri politici a Mosca, e chi aveva nome germanico, polacco, baltico, cosmopolita (ebraico), tutti spie, “nazionalisti”, più i soliti sovversivi, destrorsi, menscevichi, socialrivoluzionari, anarchici, emigrati. I campi a “regime speciale” erano situati nelle aree più remote o impervie, alcuni vicini o sopra il Circolo polare, Pečora, Intra, Vorkuta, Kolyma.
I detenuti a “regime speciale” avevano impresso un numero sulla pelle, indossavano una “uniforme” a strisce, non potevano avere nessun contatto col mondo esterno. Tutto per creare una massa lavoro di schiavi, “fino a esaurimento” – alla morte. Nel 1950 erano due milioni e mezzo, uno in più del 1945. Erano addetti alle miniere polari e alle grandi opere: la ferrovia Bajkal-Amur e quella transpolare, il canale Mosca-Don, la metropolitana di Mosca, l’università della stessa capitale, di cui costruirono gli edifici più alti e più belli.
 
Schlageter – Albert Leo, riemerge periodicamente come eroe nazionale in Germania, che pure non ne celebra molti – non  ha il gusto della celebrazione.
A Natale del 1922 Raymond Poincaré, altrimenti benemerito per il franco omonimo, con cui stabilizzerà nel ‘26 la moneta, rifugio tuttora solido ai ricchi del mondo malgrado la svalutazione decretata nel ‘36 dal socialista Blum, smantellava l’Europa. Chiedendo la condanna della Germania alla Commissione per le riparazioni, da lui costituita a Parigi. Per la mancata consegna di 200 mila pali del telegrafo previsti dai trattati di pace. Ora, non si può dire che l’Europa è finita per i pali del telegrafo, ma così è.
Per la Befana Poincaré scoprì la Germania inadempiente pure per il carbone. E invase la Ruhr, lasciando i tedeschi senza carbone e senza ferro.
Gli alleati si sfilarono, incaricando il delegato Usa Dawes di concorrere al Nobel con un piano di ricostruzione della Germania - cui il cav. Mussolini, fresco presidente del consiglio, contribuì con ben 800 milioni. Ma a Berlino intanto destra e sinistra avevano deciso il boicottaggio nella Ruhr e la ricostituzione dell’esercito, vietata da Versailles, al coperto di società sportive, di reduci, di lavoro. La Germania aveva scelto la repubblica per essere accettata tra le democrazie, ma ne fu respinta. Sotto accusa andò quindi la stessa repubblica, il voto a Hitler sarà una presa d’atto: si può pure dire che la Germania resistette dodici anni a Hitler, fino al ‘45. 
La Germania affrontò spavalda il gelo, ma la resistenza passiva le costò quaranta milioni di marchi oro al giorno di mancata produzione, il marco si ridusse a un miliardesimo di dollaro, Hitler emerse a Monaco col
putsch fallito. I militari puntarono la semiclandestina “Organizzazione Consul” contro i separatisti della Renania, in quanto filofrancesi, e scatenarono i gruppi armati, di cui il tenente Albert Leo Schlageter era animatore. Arrestato dai francesi, Schlageter fu fucilato il 13 maggio ‘23. Nell’occasione fu arrestato anche Harro Schulze-Boysen, il futuro animatore dell’“Orchestra Rossa”, la Rote Kapelle, sceso da Kiel quattordicenne a combattere l’invasore. Schlageter era stato già in contatto in Slesia con l’entità segreta O.C.. E con agenti inglesi, che lo incitavano a far fuori i “negri bianchi” della Commissione interalleata, e a combattere i polacchi.
Karl Radek ne rivendicò la figura, “pellegrino del nulla”, all’esecutivo dell’Internazionale comunista il 20 giugno: “Durante il discorso della compagna Zetkin ero ossessionato dal nome di Schlageter e dal suo tragico destino. Egli molte cose ha da insegnarci, a noi e al popolo tedesco. Non siamo dei romantici sentimentali che dimenticano l’odio di fronte a un cadavere, e neppure dei diplomatici. Schlageter, il valoroso soldato della controrivoluzione, merita da parte nostra, soldati della rivoluzione, un omaggio sincero. Noi faremo di tutto perché uomini come Schlageter, pronti a donare la loro vita per una causa comune, non diventino dei Pellegrini del Nulla”. Lo poteva, i camerati di Schlageter ne imputavano la morte al governo Cuno, espresso dal Centro cattolico e dai Democratici. Ma loro stessi avevano assassinato Rathenau, l’uomo che aveva organizzato la Germania nella dura guerra, un patriota, che però da ministro di Weimar aveva firmato la pace di Versailles. Tutto il capitolo va riscritto.
Schlageter piacerà anche a Giaime Pintor. Era una specie di condottiero: comandava un gruppo d’assalto nei paesi baltici all’inizio del ‘19, contro i russi e i polacchi, e contro la Novemberrevolution. I tenenti che non accettavano la sconfitta comandavano anche battaglioni e reggimenti, erano dei capi. Una storia dimenticata, la guerra per bande in Germania, che solo si legge in Yourcenar, nel trucido “Colpo di grazia”. Farà da modello a quella tentata in Italia nel ‘45, mal riuscita malgrado i tanti morti, e in Grecia: il terrore viene con la pace, dopo le crociate, nella belle époque, dopo il Vietnam.
I Freikorp, gruppi volontari, impedirono alla Russia bolscevica d’incorporare la Germania, ha stabilito nel 1975 la Repubblica federale. Gustav Noske, l’esperto socialista di difesa e antisovversione, li sosteneva, benché fossero illegali. La Repubblica federale stabilì nella stessa occasione, nel 1975, che l’assassinio di Liebknecht e Rosa Luxemburg da parte dei Freikorp fu “un’esecuzione conforme alla legge marziale”. C’era confusione: Jünger in quegli anni scriveva per i nazionalisti “Standarte” e “Vormarsch”, stendardo, avanzata, e per “Widerstand”, la resistenza – Werner Lass, suo condirettore a “Vormarsch”, ex Freikorp, sarà del resto comunista.
La fine di Schlageter non è chiara. Fu catturato in un attentato fallito alla ferrovia di Düsseldorf. Ma forse è stato venduto. Era andato volontario nel ’14, lasciando gli studi, sul fronte baltico e in Slesia. Aveva continuato la guerra nel dopoguerra, nei Freikorp. Il corpo fu sottratto alla morgue di Düsseldorf da Viktor Lutze, il capo locale delle SA, compagno della prima ora di Hitler, e sepolto al paese d’origine, Schönau im Wiesental, nel Baden, fuori della zona occupata. Ogni anno si celebrava la data della fucilazione, il 26 maggio. I francesi hanno distrutto nel ‘45 il monumento eretto nel ‘34 alla Golzheimer Heide presso Düsseldorf. La celebrazione del decennale della morte, nel 1933, fu fastosa, con l’inaugurazione di un momento sulla Zugspitze e un discorso di Heidegger, rettore di Friburgo. Si rappresentava uno “Schlageter” per il compleanno di Hitler, autore l’espressionista Hanns Johst, il futuro presidente dell’Accademia Tedesca di Poesia contro il quale Brecht aveva lasciato la poesia per il teatro. È il dramma che alla scena prima, atto primo, reca il celebre avvertimento: “Quando sento la parola cultura, levo la sicura al mio Browning”.
Schlageter aveva fatto gli stessi studi, un paio d’anni dopo, nelle stesse scuole di Heidegger, il collegio Sankt Conrad di Costanza, ribattezzato Liceo Schlageter nel ‘36, il ginnasio Bertholds di Friburgo – Benjamin studierà a Friburgo con lo stesso Rickert con cui Heidegger si sta laureando, differenza di tre anni. Il futuro eroe della resistenza nazista era audace e pio, animatore del Falkenstein, circolo di studenti bravi alla spada, e dei gruppi cattolici, ferventi contro il Kulturkampf, le leggi anticattoliche prussiane. Dal fronte manifesta l’intenzione di farsi prete, “dopo aver pregato e cercato il sostegno dello Spirito Santo e della Madre divina”.
Heidegger ne fece un modello germanico, opposto “all’oscurità, l’umiliazione, il tradimento”. Un precursore posteriore: “Donde gli è venuta questa durezza della volontà, capace di far sorgere nell’animo ciò che più è grande e lontano? Studente di Friburgo, studente tedesco, sappilo, provalo, quando sulle piste e i sentieri entri nei boschi e le valli della Foresta Nera, culla di questo eroe: nella pietra originaria, nel granito, sono tagliati i monti tra i quali il figlio di contadini è cresciuto”. Suggerì agli studenti una Völkische Kameradschaft Schlageter, l’associazione Schlageter, e nel suo nome fece giurare le matricole a fine anno, sul “Mein Kampf”.
Nel 1973 il cinquantenario della fucilazione di Schlageter si è celebrato in sordina perché il giovane tenente era bandiera del “bolscevismo nazionale”: nel ‘19 in Slesia disegnò d’allearsi con l’armata a cavallo del generale rosso Budjenni per stritolare la Polonia, “la colonia più solida dell’Occidente”. Schlageter è uno dei santi laici che la Germania canonizza ai tornanti della storia, Friedrich Staps, l’attentatore di Napoleone a Vienna nel nome della Rivoluzione, Karl Sand in preparazione del Quarantotto, l’assassino di Kotzebue – di cui Dumas ha scritto la storia che nessun tedesco ha scritto. Sa di Schlag, razza, di buona pasta, di buona lana, uno dei nomi che sono un destino. E fu fatale a molti che avevano combattuto la guerra civile fino al ‘23, nel Baltico e altrove, già a sedici, quindici anni, come Staps e Sand e lui stesso. La carriera criminale di Rudolf Höss, adolescente soldato di ventura in Iraq, combattente dei Corpi volontari nella guerra per bande, cominciò con l’assassinio del maestro Kadow, sospetto traditore di Schlageter. L’inventore delle camere a gas era fatto così: da bambino andava a Lourdes, a Auschwitz volle giardinetti, biblioteca, orchestra, anche il bordello - ma niente cappelle. Höss massacrò Kadow a colpi di mazza, gli tagliò la gola, e lo finì a pistolettate. “Schlageter era mio buon camerata”, si difese al processo, “con lui ho sostenuto tanti duri combattimenti nel Baltico e nella Ruhr, insieme abbiamo lavorato dietro le linee nemiche in Slesia, e battuto gli oscuri sentieri del traffico d’armi”. In tribunale perché il complice Jurisch l’aveva denunciato al giornale socialista Vorwärts, temendo di essere eliminato a sua volta.
Schlageter non è solo, nazionalista e bolscevico. Si può anzi dire storia nota, anche questa, la staffetta partigiana che amoreggia col biondino SS, gli ebrei salvati dai cristiani, e i papi comunisti, in petto. Si può dire il sinistr-destr anzi usuale, non solo nell’addestramento in caserma. È il “Destra e sinistra” di Joseph Roth, che è morto nel ‘39. È Merlino, il fascista anarchico di Piazza Fontana, il nazimaoismo planetario. Era l’entrismo, al tempo del partito Comunista di Togliatti.
Il feroce Ernst von Salomon prima del mite Roth l’ha raccontato nel ‘30, nel best-seller che abbagliò Cantimori, “I proscritti”. E Giaime Pintor fece tradurre a Einaudi nell’inverno del ’40 in cui rinnovò la casa editrice, quando da sottotenente fu membro a Torino della Commissione per l’armistizio con la Francia, che lo zio generale Pietro presiedeva, con “stupenda sovraccoperta illustrata a colori” del pittore Guttuso – i compagni riconoscenti gli dedicheranno la cellula del Partito alla liberazione, molto attiva, c’erano pure Pavese e Calvino.
 
Sfrondati – Cardinale Sfrondati è il nome di una collezione d’arte importante e famosa. Opera del cardinale Paolo Emilio Sfrondati, nipote del papa Gregorio XIV, che avviò la collezione con due opere di Santa Maria del Popolo a Roma, la Madonna della Seggiola e la Madonna del Popolo (di cui ora non si trova più l’originale), due opere di Raffaello. La collezione divenne presto famosa, per l’ampiezza e soprattutto per la qualità delle opere – “era gigantesca ed era famosa in tutta Europa”, attesta Federico Zeri, “Dietro l’immagine”, p. 85. L’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, altro grande collezionista, che gliela invidiava, mandò degli emissari a Roma per studiarla, e studiarne l’acquisto. Tra i pezzi eccezionali, oltre Raffaello, “L’amore sacro e l’amor profano” di Tiziano e “La predica del Battista” di Veronese. Fece anche restaurare Santa Cecilia a Roma, dove poi sarà sepolto, con l’annesso convento.
La collezione fu racconta dal cardinale Sfrondati nel palazzo Spada a Roma – oggi sede del Consiglio di Stato. Fu poi dissolta dallo stesso cardinale (per grande parte confluì ai Borghese, nella galleria Borghese): in età, aveva avuto una crisi religiosa, insieme col cardinale Baronio, il discepolo di san Filippo Neri e storico dei santi.
I cardinali Sfrondati e Baronio sono negli annali della chiesa anche per avere sostenuto, nell’ultimo conclave cui hanno partecipato, nel 1605 (maggio 1605, un conclave si era tenuto anche a marzo, ma il papa eletto, Leone XI – Alessandro de’ Medici – era morto dopo 25 giorni), il futuro santo Roberto Bellarmino. Che però non fu eletto, si disse, perché era gesuita.

astolfo@antiit.eu

Cronache dell’altro mondo – Trump aveva ragione (78)

Non molti anni fa l’Oriente si vedeva nel coolie, che trasportava merci in spalla, e nel risciò, il biciclo con cui un uomo alla stanga trasportava merci e persone. Ora niente di questo è visibile e nemmeno immaginabile a Singapore o a Taiwan – nonché ad Hanoi -  e non perché l’ordine sociale lo impedisce, come nella madrepatria continentale dopo Mao, ma perché le tre Cine sono i ricchi del pianeta. Si sorpassano invece a Roma – o si viene sorpassatati da – giovani che portano pizze e altri pesi su biciclette traballanti, per mezzo euro, un euro, a consegna, e per la vergogna si chiamano rider, all’inglese, cavalieri.
Ci sono effetti deleteri della globalizzazione. Che ha prodotto più ricchezza. Ma l’ha spostata, verso l’Asia governata con lo scudiscio, e verso i ceti parassitari in Europa e in America, di importatori e delocalizzatori. Che sono venditori in patria, grazie alla posizioni di rendita che hanno maturato, di beni di consumo a caro prezzo, per produrre i quali niente corrispondono ai consumatori\utenti, in retribuzioni e commesse.
La globalizzazione è imbattibile, senza sindacati e senza leggi, orari di lavoro estensibili, paghe ridotte. Ma nell’interesse, in Europa e Stati Uniti, di pochi mercanti – la borghesia compradora che fino a ieri si disprezzava.
Fa pena Trump, che esce a ritroso dalla Casa Bianca, recalcitrante. Come un tennista sconfitto al tie-break che non si dà pace e fa notte alla rete – se non è un furbastro, che vuole negoziare l’uscita. Ma Trump è soprattutto una spia, quello che il re nudo l’ha detto nudo, e un reagente. Delle due cose che ha eretto a muro. La globalizzazione produce povertà nei paesi ricchi, molta, e moltissime incertezze e paure.  L’America è classista, come nessun altro paese – non più – in Europa, e quindi nell’Occidente.
Questo è ridicolo detto da un affarista, ma è un fatto. Che non lo dica chi dovrebbe, la stampa liberal, è una conferma, di un classismo talmente radicato da essere pieno di sé.
La lettura quotidiana dei giornali e periodici di New York, la stampa liberal, e compresa la “Washington Post”, non registra un solo articolo, uno solo, sulle donne e sui giovani che fanno due e tre mestieri - anche a New York, tutti lo vedono - per qualcosa che si possa dire una paga giornaliera. O sulle campagne e sulle aree industriali, che occupano i quattro quinti dell’America, che stanno tornando all’età della pietra. Sulle vittime, pure tanto visibili, della globalizzazione. Dei ricchi importatori di città, con le loro coorti mediatiche.  Dei ceti urbani professionali. Specie di quelli che possano vantare un quarto razziale, ex africani, ex indiani, ex cinesi, ex latinos, quelli dei diritti, così pieni di sé, con carnet  di rivendicazioni alti come grattacieli.
Non si vede perché i giovani in Europa debbano portare pesi, solo perché il mondo – il “mercato” – lo fa la borghesia parassitaria. I ricchissimi, influentissimi, anzi dominanti, riccastri delle mediazioni e le importazioni delle “scarpe schifose” della Lidl, che una stampa compiacente – si spera prezzolata - fa oggetto di culto. A fronte dei guasti la reazione è semmai blanda. Lo chiamano populismo ma è classismo, semplice, netto - e liberal, progressista.

Comica cosmologica, evolutiva

Dopo quasi mezzo secolo – le comiche cosmiche sono state pubblicate nel 1965, era lecito ancora in Italia fantasticare, sulle ali del boom, quel miracolo mai visto prima nella lunga storia, prima del tutto politico, o  Sessantotto -  durano. Le storie fantascientifiche del signor Qfwfq non appassionano - lo scrittore non vuole, s’interpone e lo strattona a ogni piega, il lettore non deve immedesimarsi, vuole fare un racconto o romanzo contro il racconto o romanzo, e la chiama operazione verità - ma incuriosiscono. Per il misto di scienza e fantasia che di Calvino sarà il trademark - sia pure sullo stimolo di una immagine, come racconterà da ultimo agli studenti americani (qui Popeye, Grandville e Sebastian Matta, assieme, in ordine). Consentendogli finalmente di evadere dal mondo reale che lo opprimeva – non lo opprimeva, ma lo respingeva, lo faceva assente, lontano. Un “disimpegno” che all’epoca poteva costargli caro, ma che riuscì a imporre, non facendosi atterrare dalle critiche – l’anteprima del libro uscì su “la Fiera Letteraria”, settimanale conservatore. Grazie al pubblico che aveva fidelizzato con la raccolta delle fiabe e con “Marcovaldo”, e soprattutto, dieci anni prima, con la trilogia “I nostri antenati”.
L’immaginazione qui Calvino dispiega, in forma di apologo, in una fantasmagoria geologica e animale che tutto si permette. Avendo l’evoluzione proceduto come le è parso, di fatto senza regole né modelli. Per cui anche il signor Qfwfq può essere stato un dinosauro, come pretende, al capitolo apposito. Erano intelligentoni, anche loro come già i molluschi.
Una divagazione. Che però scorre come una presa in giro dei principi di Sir George H. Darwin, richiamato alla prima riga – che naturalmente non è “il” Darwin (è il figlio, uno dei dieci): una comica, cosmologica.
Italo Calvino, Le cosmicomiche, la Repubblica-Sorrisi e canzoni tv, pp. 187 € 9,90

venerdì 20 novembre 2020

Ombre - 538

“La Calabria è irrecuperabile”. Il presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra non vuole perdere la battuta, sulla farsa della Sanità in Calabria, e non sa che altro dire. Poi dice che la mafia è invincibile.
 
“Ogni popolo ha la classe politica che si merita”, dice anche il senatore in tema di irrecuperabilità. Questo Morra, grillino genovese come Grillo, laureato a Bari, ha lavorato in Calabria, come insegnante di liceo, ed è senatore della Calabria da due legislature. Mah!
 
Ettore Jorio, amministrativista, professore a Unical, università della Calabria a Cosenza, va in Commissione alla Camera, spiega che il decreto semi-lockdown è fatto male, e che il commissariamento della sanità in Calabria ha funzionato malissimo. Dà le cifre che nel 2008, incaricato di portare in chiaro l’indebitamento della sanità in Calabria, accertò. Solo questa cifra viene ripresa, dall’antipatizzante Stella sul “Corriere della sera”, che ci costruisce sopra quattro colonne di barzellette, per dire: chi ci salverà dalla Calabria?
 
Nell’occasione – è il giorno del terzo o quarto nome sbagliato del governo per la sanità in Calabria - il “Corriere della sera” fa un paio di pagine contro la Calabria. Come a dire: sappiamo di chi è la colpa.
Ma chi legge un giornale che parla tanto della Calabria, anche se male? Milano si diverte così?  
 
“A settembre”, confida ai giornali un infermiere dell’ospedale romano del San Camillo, “qualcosa era cambiato: su 70 ingressi al Pronto Soccorso, 40 erano Covid”. Come non detto.
 
Dove il virus è più letale è in Italia – dopo Messico e Iran: 3,8 morti ogni 100 positivi. Effetto indubbiamente del disordine ospedaliero e dei protocolli di cura. Però si accredita la teoria consolatrice ai che gli italiani muoiono di più perché sono vecchi. E i tedeschi (ne muoiono 1,6), i francesi (2,2), gli spagnoli (2,8)?
 
“Per il Lazio 4 milioni di vaccini”, apre il “Corriere della sera-Roma”, a corpo 36, ben spaziato. Come a dire : ce li abbiamo in tasca, pronti. Poi dentro dice la verità: “”Serviranno 4 milioni di vaccini”. C’è una grande voglia di minimizzare il contagio nel Lazio. In omaggio a Zingaretti’, capo del Pd e presidente della Regione Lazio? Ma i morti e i contagi giornalieri?
 
È per questo che la regione Lazio ha smesso di dare i numeri dei nuovi contagi giornalieri, e dei decessi? Certo, non bisogna alimentare l’allarme. Ma quando è giustificato, e aiuterebbe a osservare le misure di contrasto? Tutto si fa per Zingaretti.
 
Si fa il caso, a Roma, di “un noto vivaio, nella zona di vila Pamphilj, nei pressi di via Aurelia Antica”, in cui il titolare, positivo acclarato, ha nascosto la positività e ha infettato i dipendenti. E i clienti? A questi non si dà nemmeno il nome o l’indirizzo del vivaio – ce ne sono tre nella zona. Che informazione è questa? Divertimento, terrorismo?
 
“la Repubblica” apre “Affari&Finanza” con, a destra, Giovanni Pons, “Il pericolo francese e la difesa dell’italianità”, e a sinistra Rizzo, “I frutti marci del sovranismo”, contro l’emendamento  Pd pro Berlusconi - contro il raider francese Bolloré. Non c’è più Debenedetti al giornale ex di Scalfari, ma Berlusconi è sempre un fantasma.
 
“Attrazione fetale” è il titolo che “Il Sole 24 Ore” dà a una ricerca sulla “natura” dell’omosessualità, che la individua nei geni. Una “diversità” che ora piace soprattutto in ambito omosessuale.  Quando lo disse Rita Levi Montalcini, venti o trenta anni fa, fu insultata come omofoba. La scienza è capricciosa?
 
A Taranto, all’acciaieria, “bruciati in otto anni quasi 50 miliardi”, calcola Bricco, dettagliando, sul “Sole 24 ore”. Di ricchezza non prodotta. Perché l’investimento era sbagliato all’origine, per “la sottomissione della politica alla magistratura”, per i politici commissariamenti incompetenti, perché il mercato è entrato in crisi. Con uno solo si sarebbe pagato un vitalizio, a tutti di dipendenti? Risparmiando a Taranto le morti.
 
Sei mesi di Mes “assolutamente da prendere”, schieramento compatto, “Corriere della sera” e “la Repubblica” in testa, martellamento quotidiano. Poi, all’improvviso, Sassoli da Strasburgo lo dichiara uno strumento dubbio. E il silenzio subentra. Senza spiegazioni.

L’emigrazione, l’avventura

Un repertorio delle dimensioni e i problemi dell’immigrazione italiana dall’unità a oggi, ricostruita con articoli e saggi pubblicati sulla stampa di tutto  mondo dove gli italiani sono emigrati, corredati da una vasta galleria di foto d’epoca. Una storia non felice, anzi specialmente dura.
L’emigrazione è una scommessa, in un orizzonte di speranza – quanti non sono emigrati, nella stessa stabile Europa ora ricca, da una città o una regione a un’altra, tra mondi diversi seppure della stessa lingua? Un segno di vitalità, comunque di iniziativa personale. Per quanto ardue possano essere le sue condizioni, anzi tanto più.
L’emigrazione è stata per quasi un secolo transoceanica, e in lingue e mondi diversi e alieni. Ma la difficoltà è parte dell’atto di coraggio. La durezza viene dallo sfruttamento. Che, non si penserebbe, ma la raccolta testimonia opera per lo più di connazionali. I “padroni”, oggi “caporali”, che condizionavano l’accesso al lavoro, le paghe, la sussistenza (casa, cibo). I “reclutatori”, soprattutto di bambini, nelle campagne remote e misere, del Sud prevalentemente: di bambini “comprati” per poche lire da adibire ai commerci non remunerati e alla piccola delinquenza nelle città e oltremare. Le mafie. Il linciaggio di New Orleans nel 1891, la caccia all’italiano che la raccolta documenta per prima, in apertura, fu la giustizia popolare contro la banda uscita vincente in una guerra di mafia, che in questa guerra aveva ucciso il capo della polizia, e poi si era fatta assolvere da una giuria da essa prezzolata – una mafia strapotente, a New Orleans, nel 1891: la folla che li assaltò nella prigione, e poi con una ricerca tignosa nei loro vari nascondigli in città, era capitanata dal Procuratore Capo.
Una rassegna delle tante emigrazioni, diverse per tempi e, di più, per destinazione. Le destinazioni di diritto inglese, in Gran Bretagna (molti in Scozia…) e nel Commonwealth (Australia, Canada), si caratterizzano per l’accettazione di diritto e di fatto, e una assimilazione rapida. Col “pesce fritto e i gelati” a Dundee, italiani, nel 1928 – o il caffè napoletano, si può testimoniare per esperienza, a Inverness, estremo Nord della Scozia, nel 1960. Gli alti e bassi in Francia, terra di accoglienza e di rifiuto, con la tragedia di Aigues-Mortes, a Ferragosto del 1893, contro gli italiani che abbassavano le paghe nelle saline (mancano le restrizioni, anche in regime di Fronte Popolare, a metà degli anni 1930, che per molti aspetti anticipano le difficoltà e incomprensioni odierne). Gli accordi postbellici, braccia in cambio di carbone, o di petrolio, di cui non si sa che pensare. L’emigrazione così era protetta, censita dai consolati, ma l’occupazione era nelle miniere, dove registrò centinaia di morti. L’emigrazione tutto sommato felice in Sud America, Brasile, e Argentina soprattutto, ma anche Venezuela e Perù, di immigrati presto qualificati e integrati, presto spina dorsale della classe media locale, di agricoltori, imprenditori, allevatori, professionisti.
In cerca di fortuna
, Internazionale Storia, pp. 192, ill. € 14

giovedì 19 novembre 2020

Problemi di base congressuali - 607

spock

Che ne pensa Di Maio di Di Battista?
 
E viceversa?
 
Ma pensano – non sembrerebbe, non fanno che parlare?
 
Hanno il pensiero pesante, come il sonno, come l’acqua?
 
I grillini si sono riuniti, poi si sono separati, e soli ci hanno lasciati?
 
Dice il professor Carlo Galli che i grillini non sono un partito, come lo era la Democrazia Cristiana, ma ne è sicuro?

C’è nulla di più antico - storico, classico - del nuovo grillino?

spock@antiit.eu

Grisélidis commediante e martire

“Il nero è un colore” suona, oggi, un manifesto. Controcorrente. Una rivolta, “Black lives matter”, contro le morti dei giovani neri americani per mano della polizia.  Ma non è la sola sorpresa: è un romanzo, comincia con un botto, “Ho sempre amato i Neri”, detto da una Bianca, svizzera, e scoppietta come un gioco pirotecnico, colorato, anche cupo. 
“Il nero non esiste” è la terza o quarta frase, non esiste nel senso della diversità. Ma non è un proclama: è la storia di una giovane madre bianca che l’innamorato nero porta a prostituirsi, e lo fa di preferenza con i neri – americani, bisogna dire: caciaroni, cioè, ubriaconi, spendaccioni. E non è la sola sfida: il romanzo è anche degli zigani, belli, forti e generosi.
Grisélidis comincia come un treno, e non si ferma. Un racconto di stenti e prostituzione, per lo più lurida, che sa però rinnovarsi e tenere avvinti. Non disturba nemmeno la sua figura sociale, protagonista nel “Sessantotto” del movimento dei diritti delle prostitute, fondatrice della cassa mutua di settore Aspasie. Tournée narratrice, racconta come pochi. Sa perfino imbastire in tanta degradazione, botte, spaccio, malattie, fame, prigione, sporcizia, stanze luride non pagate, tra i rifiuti, montagne di rifiuti, con i figli dietro, un lieto fine. Sempre con un nero – a volte indiano (dell’India?) e nero insieme. Quello che l’abbandona nel bisogno, dopo essere stato salvato da lei, quello che la picchia e le impone la prostituzione, quelli che se la fanno allegri al bar. Un racconto che più non si fa della derelizione, dopo Victor Hugo. La marginalità – i bassifondi, le borgate – ricostituendo nel fatto razziale. Da irriducibile indomabile suffragetta del “tipo nero”, anche non credibile, tanta è l’abiezione, ma non noiosa.  
Il titolo sembra di oggi, ed è quello che forse ha spinto alla riedizione, ma è del 1974 e già vecchio, ripreso da Martin Luther King e il Black Power, anni 1960 – la paura del nero, del diverso, si allenta per tappe, ed è ora, cinquant’anni dopo, la volta dell’Europa. Di neri si racconta per lo più, mariti e amanti, anche cattivi, e molto cattivi. Nonché di zingari, i pochi sopravvissuti in Germania a Hitler, di cui  Grisélidis è parte – “sono di razza gitana”. Il racconto è invece nuovo e nuovissimo, del genere che si apprezza leggendo.
È un racconto-verità, come usava – del ladro, dell’operaio, del galeotto? Non sembra inventato. Cioè lo è, ma “scritto”, con un occhio al genere, porno, e uno alla prosodia e poetica. Più Genet che “Papillon”: il diario della prostituta come il “Diario del ladro” – il “Santo Genet, commediante e martire” di Sartre. Il racconto non tralascia nulla del repertorio sessuale, il Krafft-Ebing, aggiornandolo anzi, all’“odore aspro della negritudine” e al pene ricurvo dei neri, doloroso uncino. E forse è vero, per minuti particolari. Per esempio “Roma, città aperta”, visto a Monaco, in una sala gremita. Ma riscatta la pornografia. E la noia. La vita di una prostituta, con la coda alla porta i giorni di paga, il sabato, il 30-31, non è varia. Nel racconto sì.
Grisélidis pubblicherà poi altri nove o dieci libri. Qualcuno anche premiato – “Carnet di ballo di una cortigiana” sarà premio Humour Noir in Francia nel 1979. Avvinta all’immagine di attivista della prostituzione in quegli stessi anni 1970, dopo aver scritto il libro, che data 1972-1973: alla radio, alla televisione, nei libri, nelle chiese occupate a Parigi e Lione nel 1975, e ai “convegni internazionali” che naturalmente se ne fecero. Ma narratrice dotata. Nata a Losanna nel 1929, aveva fatto in tempo a sentire gli ultimi hitleriani minacciare il pericolo nero, dei “violentatori delle vostre figlie”. Su questo sfondo mentale procede col suo racconto goloso, tra i liberatori in Germania di colore in Chevrolet.
Cresciuta in Egitto e in Grecia, studi al Liceo Artistico di Zurigo, Grisélidis fa la Modella all’Accademia, ma è presto madre di due figli, e a trentadue anni fugge in Germania con l’amante Bill, un nero americano che ha aiutato a evadere dal manicomio di Ginevra – in realtà con tutti i crismi dottorali, purché ne liberasse la Svizzera. È l’inizio del racconto, che sarà di cose vissute e viste. Scappa anche perché l’assistenza sociale vuole toglierle i due figli che già ha, di padre violento svanito. L’autobiogafia si svolge tra l’occupazione americana, la ricostruzione tedesca, avventurosa e tignosa, tra sessuomani invariabilmente deviati, e la vita confinata ai margini. Tra le cantine del jazz e i piccoli traffici, il sesso nelle sue peggiori declinazioni subendo ogni notte, mentre i figli dormono. E ciò malgrado l’amore sessuato con un uomo, con un nero, con costanza perseguendo, invariabilmente ingannevole e violento. Eccetto, forse, l’ultimo.
Una vita “maledetta”. Nei due sensi, anche in quello letterario. della bohème nel secondo Novecento. Nel senso della riuscita di una bohème iperletteraria: questo è un racconto che si recupera, l’autrice resterà pure marginale, il libro no. O anche: la sua vita sarà stata il racconto migliore. Se non è Genet in gonnella, narratrice dell’abiezione più che abietta – si riesce a immaginare “la vita è bella” di un ladro, non di una prostituta con la coda alla porta, e i figli nel letto.
Nel 1959, a trent’anni, con due figli e un polmone in meno, Grisélidis esce di nascosto dal sanatorio a Montana nel Valais per divertirsi in paese, finendo a letto con uno che le lascia cento franchi. Ma è già in corrispondenza con Maurice Chappaz, tra altri letterati, come si vede dalla corrispondenza, che ha curata e lasciata, “Mémoires de l’inachevé”. Anche qui, qualche segno lascia. Dalla casa in Svizzera, che ha affittato alla solita ricca americana, per scappare col nero pazzo e sfuggire all’assistenza sociale che vuole prenderle i figli, risultano scomparsi a un certo punto “manoscritti e poesie”. Un cliente l’assomiglia a Elizabeth Taylor, dopo alcuni anni di mestiere infaticabile, tra sberle, pedate e ossa rotte. E beve già il vino rosso in fresco.
Grisélidis Réal, Il nero è un colore, Keller, pp. 320 € 17

mercoledì 18 novembre 2020

Allegri, la colpa è della Calabria

Gramellini, leghista honoris causa, non s’informa su chi ha nominato chi, su Gaudio, sulla Calabria, ma punta il dito, anzi il pugno, a ombrello: “Prosegue la sfida tra Calabria e Perù”, a chi fa peggio, intende:
https://www.corriere.it/caffe-gramellini/20_novembre_18/calabria-vale-peru-18abcd24-291b-11eb-92be-ccd547aa4d2b.shtml
Gaudio è qualificato, come ricercatore (H-Index 75) e come amministratore, all’Aquila e alla Sapienza. Chiunque va in rete lo sa, Gramellini non se ne cura: Gaudio è calabrese e questo gli basta per insolentire. Non è il solo.
È una sagra di dileggi, nel “Corriere della sera” oggi, sulla farsa del commissario alla Sanità in  Calabria. Ma non contro Conte e l’incredibile Speranza, che devono decidere il commissario. Dopo (non) aver deciso contro il virus. Non tempestivamente, non coi modi e i mezzi giusti. Contro la Calabria.
Cosa non si fa per non dire che il governo è ridicolo, e affronta il virus malamente. O è il leghismo? Il leghismo dilaga – lo stesso presidente f.f. della Regione Calabria è leghista, fervente. Sottotraccia: noi non siamo razzisti, ma la Calabria, proprio….
Ma non c’è solo il giornale di Milano. Il presidente del consiglio Conte, messo al corrente dell’“alto profilo” di Gaudio, che tra l’altro ha un inglese parlato e scritto come un inglese, si esibisce in un: “Mi ha colpito, non sapevo fosse calabrese”. Lui che, invece, in inglese zoppica, ed è pugliese. Questo è l’altra parte dello psicodramma, l’odio-di-sé meridionale, una miniera. 
La sagra anti-Calabria è organizzata al “Corriere della sera” da un direttore napoletano. Che esuma per l’occasione in prima lo specialista anti-Calabria del giornale, l’altrimenti desaparecido Gian Antonio Stella – il “Corriere della sera” ha uno specialista anti-Calabria. Con la volenterosa collaborazione degli informatori di Stella, quelli della Calabria “‘ndrangheta e barzelletta”. E naturalmente del giudice Gratteri di Catanzaro.

Dumas si traveste da Poe

Dumas giallista a Napoli, da Napoli. In compagnia di Edgar Allan Poe, detective sopraffino. Uno dei tanti feuilleton che Dumas dettava - “col cappello fra le mani congiunte dietro la schiena, si dava a passeggiar su e giù fra i tavoli nella camera di redazione e a voce alta, staccando bene le aprole, detta” (Federico Verdinois, uno dei collaboratori) - per il suo giornale “L’Indipendente”, da lui fondato e diretto dal 1860 al 1864. Qui assortito dall’incontro prolungato con Poe, che sarebbe stato suo ospite per alcune settimane a Parigi nel 1832, presentato da Fenimore Cooper, l’autore de “L’ultimo dei Mohicani”, il romanziere del momento, e avrebbe “risolto il caso” – molto alla Sherlock Holmes, ancora di là da venire.
Un caso di assassinio, duplice e bestiale, un massacro, nella camera chiusa. Ma il giallo più appassionante è raccontato in appendice da Ugo Cundari, che ha disseppellito il racconto, pubblicato a puntate, come usava, dal 28 dicembre 1860 all’8 gennaio 1861, e mai ripreso in volume né analizzato dai critici dello scrittore. Un plagio, di E. A. Poe, dei “Delitti della rue Morgue”?
Dumas e Poe sono i principi della querelle sui plagi che ha infettato l’Ottocento, spiega Cundari nei dettagli, i più sospettati e accusati. Ma, poi, non si copia sempre? E Dumas, nell’occasione, non fa di Poe il protagonista del racconto? Con in più la questione: è stato Poe a Parigi nel 1832, come Dumas vorrebbe – e come “I delitti  della rue Morgue” lascerebbe supporre, prima di Dumas nel 1860.
“Un giallo (storico) nel giallo (letterario)”, lo dice Cundari. Che dà credito alla scomparsa di Poe fra il 1828 e il 1832, forse a San Pietroburgo, per arruolarsi nella guerra d’indipendenza dei Greci,  da byroniano fervente – Byron era morto in Grecia, per la Grecia, nel 1824. Una favola inventata da Poe, che James Russell Lowell avallerà nella celebrazione postuma, ma senza riscontri possibili: in quegli anni Poe vive a Boston, pubblica la sua prima raccolta di poesie, byroniana, si arruola nell’esercito, quasi due anni, raggiungendo il grado di sergente maggiore, fa il concorso per West Point e lo vince, infine abbandona l’accademia militare e si costituisce una famiglia a Filadelfia, puntando sul solo lavoro giornalistico-letterario.
La familiarità fra Dumas e Poe Cundari può dare comunque per accertata, stante la comune appartenenza alla “setta massonica e rivoluzionaria americana, la «Society of the Cincinnati”», di cui faceva parte anche Fenimore Cooper – e Alexander von Humboldt, cui Poe ha dedicato “Eureka”.
Alexandre Dumas,
L’assassinio di rue Saint-Roch, Baldini Castoldi Dalai, remainders, pp. 111, ril. € 6,45





martedì 17 novembre 2020

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (440)

Giuseppe Leuzzi

C’è un Dyonisos Taurokeos. C’è anche, nell’“Aiace” di Sofocle, e a Andros, nelle Cicladi, una Atena Taurobolos, o Tauropolos. Non  si indaga abbastanza il toro onnipresente, nella simbologia e nella toponomastica, in Grecia e nella Magna Grecia, eredità dei Micenei, prima della civiltà greca e quindi della Magna Grecia – dove pure le tracce sono frequenti e anche vistose.
Il Dizionario Italiano Olivetti elenca Taurina (s. femm.), taurinense, taurino (agg.m.), taurisanese, tauriscio, taurite, tauro,taurobiliare, taurobolo, taurocaptasie (sost. femm. pl. – ma di “taurocaptasie, giochi del toro, in Tessaglia tratta a lungo Evans, l’architetto di Cnosso, n.d.r.), taurocolato, taurocolico, tauroctonia, taurocton, taurodesossicolico, taurodontìa.
 
Il Grand Tour, il viaggio italiano di iniziazione alla storia e all’arte dei ricchi e nobili europei, escludeve fino a tutto il Settecento la Magna Grecia e la Sicilia, cioè il Sud: troppo pericoloso. La fama è antica.
 
Sudismi\sadismi
In un soprassalto d’intelligenza Conte nomina Eugenio Gaudio, calabrese, medico, ricercatore e manager, commissario alla Sanità in Calabria. Gaudio rinuncia, o non accetta la nomina. E ha di che. Il “Corriere della sera” non ha trovato di meglio che dirlo “indagato”: “In Calabria tocca a Gaudio (ma è indagato)”, a corpo 36.
Gaudio, con un H-index (misura la qualità della ricerca) elevatissimo, 75, ex preside di Medicina all’Aquila, ex rettore della Sapienza fino all’altro ieri, uno che sa l’inglese come gli inglesi, per il giornale milanese è solo “un indagato”. Per la solita faida tra giudici, a Catania: il Procuratore nuovo contro il Procuratore vecchio, che accusa di avere pilotato l’assunzione della figlia all’università. Gaudio non c’entra, ammesso che il fatto criminoso ci sia stato, ma questo non interessa, basta poterlo dire “un indagato”.
Quello che si dice “un avvertimento”. Che il “Corriere della sera” fa dare opportunamente dal suo corrispondente in Calabria, Carlo Macrì.
 
Sulla stessa linea lo stesso giornale si affida a Marco Demarco, ex direttore del “Corriere del Mezzogiorno”, la sua edizione napoletana,  per ironizzare sul primadonnismo dei politici nella pandemia. Demarco sceneggia De Luca vs. De Magistris, il presidente della Regione Campania contro il sindaco di Napoli (non bene: mette in scena De Luca ma non De Magistris, ma questo è un altro discorso). Niente di più ridicolo, nella tragedia, del presidente della Regione Lombardia e del suo assessore alla Sanità, traffichini, inconcludenti. Ma questo si lascia a Crozza – il “Corriere della sera” sarà sempre dell’opinione del suo segretario di redazione (da Tropea) che a Natale del 1955, al tempo di Mike Bongiorno e “Lascia o raddoppia”, sentenziò: “Se non ne parliamo  noi, non esiste”.
 
Cupole, coppole e spesa storica - un’altra storia
L’insouciance del governo – l’albagia, la supponenza, la disattenzione esibita - sulla Calabria, sulla sanità e il relativo commissariamento, ha buttato la questione in ridere, per cui, vedi Crozza e buon numero di quotidiani, la sanità nella regione è al solito questione di cupole e coppole, mafiose. Mentre il problema è uno solo, e neanche difficile, che un qualsiasi governo, anche mezzo governo, avrebbe affrontato e risolto: la spesa storica.
Che la sanità venga garantita in base alla spesa storica è un abuso e una stupidaggine. Vuol dire che i calabresi, con gran concorso di spese, se non altro per i viaggi, dovranno continuare a correre, per curarsi, a Roma e a Milano. Ma così è – è stato per dieci anni e continua a essere. È un aspetto della ineguaglianza nella distribuzione della spesa pubblica. Non nuova, ma ultimamente aggravata.
Il concetto di spesa storica è lo zoccolo di qualsiasi trasferimento pubblico: “quanto hanno avuto l’anno scorso? aggiungiamoci uno zero virgola”, e la pratica è chiusa. La burocrazia s’acquieta così, altrimenti dovrebbe lavorare: calcolare, decidere. Ma questo semplicemente significa che chi più ha più avrà. Che sembra lapalissiano, e lo è: una sciocchezza. E tutti lo sanno. Compresi i ministri Pd meridionali nel governo a base 5 Stelle, Boccia, Provenzano (ex Svimez, se non lo sa lui) e Speranza, che però non cambiano: la sinistra si vuole aralda indefettibile del Mercato.
Su “basi storiche”, la spesa pubblica complessiva annua per servizi (scuola, sanità, ferrovie, assistenza) e infrastrutture si è così divaricata a dismisura. Va dai 27.874 euro pro capite della Valle d’Aosta ai 9.761 euro della Calabria (la spesa pubblica annua in euro pro capite è calcolata da Eurispes, sui Conti Pubblici Territoriali, come valori medi per il primo Millennio, gli anni 2000-2017). Prima della Calabria vengono per ultime tutte le regioni meridionali: Puglia, Sicilia, Campania, Basilicata, Molise, Sardegna, Abruzzo. In ordine crescente di spesa, ma tutte al disotto abbondantemente della media nazionale dei trasferimenti pubblici, che è stata di 16.697 euro.
A seguire la Valle d’Aosta tra  le regioni privilegiate vengono Bolzano, Lombardia, Lazio e Trento, con oltre 21 mila euro pro capite, Emilia, Friuli e Liguria con oltre 19 mila. Una bella differenza.
 
Si ricicla – senza la ‘ndrangheta?
“Oltre duemila miliardi” di dollari sono stati riciclati dalle grandi banche, Deutsche, l’olandese Ing la francese Société Générale (ma l’elenco è lungo: JPMorgan Chase, HSBC, Standard Chartered, Bank of New York Mellon, American Express, Bank of America, Bank of China, Barclays, China Investment Corporation, Citibank, Commerzbank, Danske Bank, First Republic Bank, VEB.RF e Wells Fargo). Negli anni dal 1999 al 2017. Pur sapendo della provenienza illecita, senza scrupolo.
Non è una novità. Si suppone, si sa, che le banche preferiscono il denaro sporco, ci guadagnano molto di più (il pizzo…), in commissioni, custodia, cambio. La novità è che il riciclaggio è documentato, dai FinCen Files del dipartimento americano del Tesoro, i documenti del Financial Crimes Enforcement Network del ministero, una sorta di polizia finanziaria. Il sito americano di indiscrezioni Buzzfeed ne è venuto in possesso, e li ha pubblicati il 20 settembre, coadiuvato dall’International Consortium of Investigative Journalists, l’organizzazione dei giornalisti d’inchiesta. Sono oltre 200 mila files, che documentano altrettante operazioni sospette.
I giornalisti d’inchiesta hanno accertato anche che la documentazione non ha prodotto nessuna conseguenza - eccetto un crollo temporaneo dei titoli bancari in Borsa il 21 settembre, il giorno dopo la pubblicazione (ma la Borsa ha la memoria corta, l’incidente è dimenticato). Né negli Stati Uniti, che del riciclaggio avevano cognizione documentata da tempo,  né altrove, in Europa, in America Latina, in Asia: né i governi né le banche hanno fatto nulla per arginare il riciclaggio. In Europa non c’è nemmeno un organismo di segnalazione, se non di controllo, alla Bce o altrove (c’è in Italia, alla Banca d’Italia attraverso l’estinto Ufficio Italiano Cambi, ma può agire solo in via giudiziaria, cioè in tempi fuori dal tempo).
Ma anche questo si poteva dare per scontato. Il problema è che questo traffico si svolge senza la ‘ndrangheta. E come è possibile? I servizi si devono svegliare, che ne è della Calabria über alles, al comando del mondo? Aisi e Aise, ancora uno sforzo.
 
Milano
“All’infuori dei polacchi, non c’è nell’intera Europa gente che abbia, in fatto d’invasioni nemiche, la tremenda esperienza degli italiani del Nord” – Guido Morselli, “Contro-passato prossimo”, 95.
 
“La grande pinacoteca di Brera fu fondata dal viceré Beauharnais, che letteralmente sequestrò alle regioni veneta, lombarda, romagnola, emiliana e marchigiana molti quadri che ormai erano avviati a rapida rovina”, F. Zeri, “Dietro l’immagine”, 120. Un francese che non rubava. Ma ben un francese, per pensare Brera.
 
“Non appena  i quadri” di Brera “giunsero a Milano, accadde un fatto che, ai nostri occhi, può sembrare piuttosto bizzarro” , id.: “Una commissione li divise in tre categorie: categoria A, da esporre, categoria B, da tenere in deposito, categoria C, da vendere”. Come categoria C, “insieme a opere di nessuna importanza furono venduti anche capolavori, o pezzi di capolavori”.
Tanto bizzarra la vendita non è, prima dell’arte viene l’avidità.

“Tra poche ore le ambitissime sneaker della catena Lidl saranno finalmente acquistabili anche in Italia a 12,99 euro. Spazio anche a ciabatte, calzini e t-shirt. Tutto in edizione limitata”. Blurb – gratuito? - gigantesco del “Corriere della sera” al discount tedesco di periferia: l’indomani è un pandemonio a piazza Corbetta, mezza Milano si litiga le scarpe e le ciabatte. Indifferente ai contagi e alle ore di attesa.
 
C’è anche chi ne ha fatto incetta, delle scarpe-non scarpe Lidl. Sempre sfidando il virus. All’ora di pranzo le stesse scarpe, colorate ma non utili, erano in vendita su eBay e altrove a prezzi d’affezione. I milanesi si facevano pagare la sfida al virus.
 
In primavera s’infetta di covid mezza Lombardia: Lodi, Cremona, Mantova, Pavia, Brescia e fino a Bergamo. Questo novembre, piena di anticorpi la Lombardia padana, è la volta di Varese e Como. La Lombardia non si priva di nulla, anche a rischi di morire. Ma altrove questa pratica si direbbe colposa.

leuzzi@antiit.eu 

Quando il calcio era Totti

Una celebrazione, purtroppo chiusa sull’amaro, con la polemica, lunga, incattivita, contro l’allenatore Spalletti che non voleva più il quarantenne Totti, benché tonico (o non aveva preso impegno con la società di convincerlo a smettere, per risparmiare sull’ingaggio?).  E manca del tutto il Totti delle barzellette, di persona che le ha accettate con grandissima presenza di spirito - e ne ha anche tratto ampio beneficio, generoso, per opere di bene. Resta il piacere di un Totti bel ragazzo biondino, che smarca e segna con tre\quattro geometrie calcolate, non casuali. Della grande famiglia Totti, fino ai suoi bambini, con Ilaryi. Degli amici di sempre, tutti puliti - già il tatuaggio è sospetto. Dei tanti allenatori che hanno dato a Totti e alla Roma, Mazzone, Zeman, Capello, compreso il primo Spalletti (manca Boskov) - mentre dell’enigmatico argentino mister Bianchi (bianci), che voleva Littmanen e non Totti, si dice giusto il giusto. E un calcio inventivo, frizzante, non lo smosciante possesso palla di questi anni – prendere palla di fronte al portiere avversario, portarla rinculando fino al proprio portiere, che poi nel migliore dei casi rinvia con un calcione, fuori campo, o su una testa avversaria. Con la fedeltà alla squadra, che era – ed è, sarebbe – il cemento del tifo, dell’orgoglio di bandiera, di un po’ di passione.
Già un com’eravamo del calcio, già un Totti è così remoto?
Alex Infascelli, Mi chiamo Francesco Totti, Sky

lunedì 16 novembre 2020

Secondi pensieri - 434

zeulig


Ascetismo
– “Dopo l’ascetismo contro la carne, abbiamo l’ascetismo che è fobia dell’intelletto, che loda la stupidità come «semplicità», il culto della naiveté”, E.Pound, “Medievalismo” (nel saggio “Cavalcanti”, nella raccolta “Make it new”). Come forma della conoscenza è restrittiva, e quasi castrante, come un accecarsi.
 
Bellezza
- “Καλον quasi καλουν” la dice Coleridge, “Principles of Genial Criticism”, 1814: la bellezza sta in sé, è qualcosa di oggettivo, ma connaturale anche alla condizione umana, un richiamo dell’anima. Dove Coleridge svolge l’argomento kantiano della soggettività del gusto, in dialogo fra Milton e un puritano, che il poeta non riesce a convincere, finendo allora per decidere, dopo tante argomentazioni andate a vuoto su un concetto oggettivo della bellezza, che essa è una condizione autonoma, in grado di attirare le menti umane - sulla traccia del “Cratilo” di Platone, dice Pound (“Dante”, a commento del canto XXIII del “Paradiso”), ma più probabilmente di Plotino: “Come la luce all’occhio, così è la bellezza per la mente. Che non può che accettare ogni cosa che percepisce come pre-configurato alle sua facoltà vitali. Per questo i Greci chiamano un bell’oggetto καλον quasi καλουν, cioè che si appella all’anima, che lo riceve all’istante e lo apprezza,  come qualcosa di connaturato”.
 
Heidegger
- Lo scandalo non è l’errore. O la furbizia, come diceva Arendt (“Heidegger è una volpe, che si scelta una trappola come casa”), di chi presumeva un nazismo altro da Hitler. L’errore lo commise Pound, che “per seguire certe sue utopie estremistiche sulla necessità di eliminare l’usura dal mondo perché l’arte possa trovarvi spazio…., cadde nella trappola dell’ideologia più folle collaborando con il fascismo mussoliniano” (Corrado Bologna, intr. a “Ezra Pound. Dante”), propagandista in guerra contro il suo stesso paese. O Hamsun, per l’attrazione pangermanica, nordica, eddica, della natura lavacro. Di Heidegger fa dubitare il silenzio, lungo, polemico, sul passato, l’ossessione, ancorché blanda, dell’ebraismo, che ebrei di qualità suoi seguaci sconcertò, Celan, Lévinas e una lunga serie di filosofi, la stessa ubbia, a suo tempo (discorso del Rettorato, 1934) e forse dopo, per decenni dopo la guerra, di essere stato miglior nazista di Hitler. La costanza, seppure nel riserbo. L’occhio furbo, mai addolorato. E una programmazione dell’opera omnia nel tempo nemmeno tanto riservata. Un filosofo politico, seppure con i silenzi invece che con le parole.
Ritracciare il nazismo, qualcosa del nazismo, in Heidegger non è occupazione banale o scandalistica. È – avrebbe dovuto essere – opera di storici. Ma in qualche modo la traccia va approfondita. Lo scandalo è – sarebbe - se qualcosa del nazismo persuade nel profondo, resta al fondo.
 
Kitsch
– Termine oggi in disuso, ma sempre di accezione sbagliata, Zeri rilevava nel 1985, nelle lezioni milanesi ora in “Dietro l’immagine”: kitsch non è la cosa, il manufatto artistico, ma il modo di vederle la cosa.
Però è anche il manufatto: un modo di rispondere al gusto del cliente.
 
Male
– Metastasizza in varie forme, da varie origini. Ma spesso dal bene, dalla buona coscienza, la supposizione del bene. Metastasizza specie ora, in un mondo che pure si vuole governato dal bene – la democrazia,  i diritti, il politicamente corretto.
Ciò è evidente nella questione sociale. E anche nella questione politica. Del fascismo, che è nato, si è innestato, a forme estreme di democrazia, in Italia, in Spagna, in Germania. E anche in norme non estreme, ma perduranti: della coscienza superiore del bene, una sorta di beghinaggio del bene. Del bene ipostatizzato, per se stesso. È, in forme non estreme, il trumpismo a fronte di una coscienza liberal intollerante. Piena cioè di sé, non critica, non autocritica. Del protezionismo contro una globalizzazione invasiva senza anticorpi. La stessa situazione di guerra civile strisciante, endemica, in America. Dal tempo di Nixon e la guerra del Vietnam. Che non era colpa di Nixon, ma della fazione politica contro la quale Nixon era stato eletto. Dell’ordine che produce il disordine. Che si eleva a buona coscienza, la difesa trasformando in ritorsione. La stasis di Agamben - la litigiosità, la guerra civile - come paradigma politico.
Il trumpismo – l’identificazione di una buona metà degli americani in Trump - è stato rafforzato dall’opposizione. Specie dai media, che non sono andati oltre, nella contestazione, la propria superiorità morale, il disprezzo, l’insulto. Una contestazione costante, ripetitiva, ultimativa, per quattro lunghi anni, che ha moltiplicato i voti per Trump, e soprattutto li ha incoraggiati, li ha sdoganati nella ragion d’essere, dalle paure, dal complesso d’inferiorità.
 
Memoria
– La Ley de Memòria Historica voluta dal governo socialista di Zapatero nel 2007 per la cancellazione della memoria franchista dalla Spagna ora viene applicata anche alla memoria repubblicana: strade e piazze dedicate a Largo Cabalero e Indalecio Prieto – altri seguiranno, non c’è dubbio – vengono ridenominate, monumenti abbattuti. La legge Zapatero fu voluta contro i segni “die esaltazione personale o collettiva della sollevazione militare, della guerra civile, della repressione e della dittatura”. Ma ha riacceso la guerra civile, seppure senza armi, ogni schieramento rimproverando all’altro la violenza – la prima mossa, la prima colpa.
La memoria storica non può essere selettiva. La cancellazione della memoria per legge, a scopo democratico, quanto aiuta la democrazia? Moltiplicando il risentimento offusca semmai la democrazia e acuisce le divisioni - la democrazia ha bisogno comunque del concetto base della società romana, l’“idem sentire de re publica”.
 
Overbeck
- Franz Overbeck, per il quale Nietzsche ebbe l’ultimo segno di ragione che si ricordi, è quello che era corso a Torino per internarlo a Jena. Egli pure professore a Basilea neo laureato, con una tesi su sant’Ippolito di Roma, di cui non ha capito nulla, del martire, primo antipapa, salvatore dei frammenti di Eraclito - l’ateo Overbeck insegnava la teologia. Ma le falsità di Elisabeth Overbeck denunciò con  coraggio, ancora in tarda età e in cattiva salute, sfidando la temibile sorella, e ha salvato Nietzsche.
Tanto migliore l’Overbeck pittore di Italia e Germania, Friedrich, lontana parentela anseatica, della migliore famiglia di Lubecca, figlio del borgomastro, senatore, canonico, giurista e poeta Christian, pronipote di Johann, il corettore del Katharineum, il ginnasio che la Riforma volle nel 1531 per lo studio del latino, di cui l’artista fu allievo come poi i fratelli Mann e Theodor Storm. Friedrich lasciò Lubecca a ventun’anni nel 1810 per Roma, la città laica di Napoleone, dove fu iniziatore dei nazareni e buon cattolico convertito, e nella quale visse i restanti 59 anni: il genio non segue i buoni propositi.
 
Storia – “C’erano i cosiddetti Storicisti a quei tempi e insegnavano, ‘bianchi’ o ‘rossi’ che fossero, che non esiste fatalità, non esiste caso ma solo la Storia, sempre sacra, quand’anche sia dialettica; e provvidenziale. Ha i suoi Decreti solenni, ma anche le sue ‘Astuzie’, e cioè si fa furba, restando sempre sacra, ricorre a trucchi e gherminelle per rimediare alle proprie sviste e malefatte”, Guido Morselli, “Contropassato prossimo”. Per “quei tempi” s’intende gli anni 1910, gli anni del romanzo, ma potevano anche essere quelli della scrittura del romanzo, gli anni 1960.  


zeulig@antiit.eu

Ma la romanità non è bonaria

Molinari si promuove con un contributo “storico” a Gigi Proietti, pieno di cose – interviste, ricordi, pezzi forti, estratti – e di umori. All’insegna della romanità, “Mandrake a Roma” è il sottotitolo. Ma di una romanità bonaria. E questo è in sintonia con Proietti ma non con la romanità - Proietti del resto, benché nato a Roma, e a via Giulia, era tosco-umbro di famiglia, con la quale ha vissuto a lungo da immigrato, provvisorio, cambiando residenza in continuazione, più che da romano-romano. Petrolini lo era, scettico per non essere violento, e comunque cinico, ma di Petrolini Proietti prendeva solo il porgere, nelle imitazioni.
Si confonde la romanità con la bonarietà. Mentre è armata. Proietti per primo lo sapeva che sempre si è difeso – muore con l’aureola, ma quanto ha faticato. Fino a Petrolini – fino a Mussolini, che mezza Trastevere mandò al confino sigillandone i covi, una deportazione, seppure in costosi condomini popolari d’architetto, ai Quattro Venti e a Donna Olimpia – il romano romanesco sapeva di coltello facile. Molinari apre la golosa compilazione celebrando l’apologo del cavaliere bianco e del cavaliere nero, ma appunto: il cavaliere nero non è bonario.  
Stefano Costantini-Paola Ermini (a cura di),
 Gigi Proietti
, “la Repubblica”, pp. 144, gratuito col quotidiano

domenica 15 novembre 2020

Letture - 439

letterautore

Bernini – Fu anche pasticciere – architetto di dolci barocchi, per grandi banchetti. Era l’uso presentare torte fantasiose, di forme e colori, che adornavano il pasto, prima di essere consumate. Di Bernini la pratica è attestata da Zeri in “Dietro l’immagine”, 245: “Fra le più straordinarie produzioni di Gian Lorenzo Bernini vanno annoverati alcuni dolci colossali, che venivano prima esposti e poi mangiati ne grandi pranzi dell’aristocrazia pontificia. Erano strutture di panna montata, di gelatina, di biscotti”

Dante – Il genio della metafora lo dice Pound. Che della metafora fa “il segno del genio”. Per l’autorità di Aristotele: “Poiché l’uso della metafora proviene da una rapida percezione delle relazioni, essa è segno distintivo del genio”.

È un poeta del New England, Hugh Kenner, “Dante tra Pound e Eliot” – lo era, quando c’era ancora in America il New England: “Un delle prime scoperte americane fu Dante. E quando il giovane Eliot, poco prima di iniziare ‘Prufrock’, si dedicò allo studio della ‘Divina Commedia’ senza l’aiuto di una grammatica italiana, avvalendosi soltanto per le parole on familiari di una traduzione in  prosa e recitando passi a memoria a letto o in treno («Dio solo sa che cosa ne sarebbe uscito fuori se io avessi recitato ad alta voce!», ha in seguito dichiarato), egli andava in questo modo impadronendosi di quella parte della tradizione costituita  da Dante, così come si andava facendo ad Harvard da circa un secolo. Fin dal 1836, infatti, Longfellow, Lowell, Norton a Grandgent avevano a turno tenuto un corso che in sostanza consisteva in una ricca e approfondita lettura di Dante. Il principio comune era di leggere i testi danteschi, non di impartire lezioni su di essi, nella convinzione che soltanto attraverso la lettura, er quanto imperfetta, un grande poeta poteva essere assimilato dalla sensibilità di un giovane ed esercitare quindi la sua zione formativa”.

Dante arabo? “L’Inferno lo abbiamo trovato in Pindaro e in Platone”, Ezra Pound spiegava già nel 1910, “Lo spirito romanzo” (“Lingua toscana”), “il Cielo, in qualche modo, in Platone”. Non solo, c’era anche molta virtuosità nei giovani dello stil novo: “I poeti toscani sgambettano allegramente per il complicato universo tomista, con una precisione che stupisce chi non sia abituato a qualcosa di più complesso della nostra civiltà moderna”.

Ma era anche normale rapportarsi con la cultura araba, era la cultura del tempo, continua lo stesso Pound a proposito di Guido Cavalcanti, a commento del poemetto “filosofico” “Donna mi prega”: “Dobbiamo supporre, come sfondo ad ogni serio pensiero nel tempo di Guido”, e di Dante, “il pensiero arabo: le sfere concentriche dei cieli, l’itinerario dell’anima verso Dio di Ibn Bahya, le specificazioni di Averroé sui gradi di comprensione”. Più Grosseteste, per il fondamentale trattato sulla luce, “De Luce et de Incohatione Formarum”, fondamentale per il “Paradiso”. E “Grosseteste deriva dai trattati arabi sulla prospettiva”.

Etruschi - Sono Etruschi i Tirreni secondo Plutarco (“Virtù delle donne”, 27) e i Pelasgi (che invece sarebbe “un popolo originario del Nord della Grecia”, ib., 29). Plutarco li vuole anche padroni di Creta. Dove poterono considerarsi ateniesi per parte di madre, essi stessi (ex) coloni di Sparta. Dove erano intervenuti, cercando fortuna per mare, prima contro, e poi a favore degli iloti.

Gioconda – È misteriosa perché è sporca – F. Zeri, “Dietro l’immagine”, 154: “Un’immensa letteratura parla del mistero, della strana atmosfera sfumata di questo strano capolavoro di Leonardo. Tutte cose che in realtà non esistono e sono dovute  solo alle innumerevoli mani di vernice ed allo sporco che stanno sulla superficie del quadro”.

Ed è meglio così, spiega Zeri: il quadro “è in perfetto stato” e quindi ripulibile senza problemi, ma “la Gioconda” ormai è quella. Ripulita sarebbe un altro quadro, “il mistero si vanificherebbe”, che fa parte del capolavoro – “esiste ormai una tradizione relativa a questo tipo di capolavori per cui è opinione comune che non vadano toccati  proprio perché sono entrati ormai nella nostra cultura sotto quell’aspetto e sotto quella veste”. 

 

Medio Evo – Diventa “medievale”, arroccato un una religiosità rocciosa e mistica, compatto, anche socialmente benché feudale, alla caduta con Napoleone della sovversione. Si riconduce il passato in atmosfera congresso di Vienna, idealizzando i “secoli bui” come un’epoca ideale dell’unità, dottrinaria, culturale, sociale. Mentre è stata un’epoca ridondante di sovversioni, soprattutto in campo religioso (le eresie), e di movimenti millenaristici, di rinascita sociale.

 

Oro – Tra fine Settecento e primo Ottocento si faceva incetta di quadri nelle case e le chiese di paese, remote, per bruciarli e ricavarne oro:  “Un contenitore di pietra o di metallo raccoglieva l’oro fluido che usciva dalle cornici e dai dipinti” – Federico Zeri, “Dietro l’immagine”, 94.  Si bruciavano per questo anche vestiti e arazzi, per recuperare i fili d’oro che li impreziosivano: gli arazzi, “soprattutto i più sontuosi, tessuti con fili d’argento e anche d’oro, venivano poi bruciati per recuperare il metallo e riutilizzarlo. Per questo dell’enorme produzione di arazzi abbiamo una grande quantità di documenti, ma un numero molto limitato di oggetti”.

 

Padre – Il revival si prolunga nel Millennio, con Régis Jauffret che riscopre il papà – dopo settant’anni, dopo Annie Ernaux e Onfray. Un revival che ha avuto espressioni importanti, in Handke, Philip Roth, Camus, Richard Ford. Dopo la lunga eclisse, anzi si può dire l’assenza: quella paterna è una figura recente nelle lettere.

 

Pci – Rifiutando la pubblicazione de “Il Comunista” presso Einaudi, di cui era direttore editoriale, Calvino così scriveva nel 1965 a Morselli: “Dove ogni accento di verità si perde è quando ci si trova all’interno del partito comunista. Lo lasci dire a me che quel mondo lo conosco, credo proprio di poter dire, a tutti i livelli. Né le parole, né gli atteggiamenti, né le posizioni psicologiche sono vere”.

 

Raffaello – L’artista più copiato. Della “Madonna del popolo”, commissionata da Giulio II a Raffaello appena arrivato a Roma e originariamente a Santa Maria del Popolo, dove “era difficilmente visibile, si conoscono almeno novanta copie, che hanno fatto i giri più strani e si trovano nei luoghi più impensati. Ce n’è una addirittura in un antico monastero russo, oltre gli Urali. Altre si trovano, adattate a composizioni con più figure, nelle Fiandre, in Francia, in Spagna” – Federico Zeri, “Dietro l’immagine”, 95. È peraltro un quadro di cui non si trova l’originale.


Spagna – È stata scoperta, in letteratura e nelle arti, con la Restaurazione postnapoleonica in Francia. Per l’aura romantica che si era acquisita con la resistenza all’occupazione. E per il gran numero di manufatti artistici che erano stati rubati dalle chiede e dalle residenze private, ora messi in commercio. Prima non si sapeva in Europa di Velázquez, Murillo, Zurbarán, El Greco. E non erano stati tradotti, né altrimenti fruibili, il “Don Chisciotte”, la “Celestina” o altre opere del gran teatro, Góngora, il “Lazarillo de Tormes”. 

Weimar – “Una piccola e sudicia città della lontana Turingia”, al tempo di Goethe – Peter Stein, “La Lettura”, 15 novembre.

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Gotham City e l’America 2020

Rivisto, dopo questo 2020 negli Usa, sembra raccontare in anticipo quanto è successo poi in America, con le morti degli afroamericani nelle mani della polizia e le sommosse di piazza. È anche una parabola del male che viene dal bene. Che si impone come bene: la rivolta dei joker.
Un film che si conferma scorrettissimo, politicamente. E ciò malgrado di enorme successo di pubblico, a conferma che il cosiddetto populismo ha qualche ragione - il film è anche premiato dalla critica, seppure a disagio. Joker, una vittima, può assassinare ridendo. La folla dei joker pure, che assassina i poliziotti per divertimento, ma non è vittima, non sappiamo, e solo si diverte, per imitazione. In una Gotham City stranamente da cronaca, non da fantasy. Nell’America cioè reduce da una guerra civile strisciante – “reduce” supponendo che il voto presidenziale l’abbia chiusa, ha chiuso la guerra civile.
Un soggetto che è il cardine del populismo: il rifiuto umano - della società, della famiglia, della buona salute - condannato a ogni piega del racconto alla emarginazione si fa giustizia. Senza giustizia, di furia, ridendo. Uno che pure non chiedeva tanto, giusto far ridere, da pagliaccio. Un’impressione di forza, di violenza, accentuata dalla carica densa del film: nella sceneggiatura, nelle immagini, nella tensione ritmica infernale – non ci si salva da una guerra civile, dissolvendosi in essa la distinzione tra male e bene, torto e diritto, giusto e ingiusto.
Todd Phillips, Joker, Sky