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venerdì 2 gennaio 2009

Il viaggio di Dante è verso la felicità

“Nel mio romanzo in uscita a gennaio, “Les Voyageurs du Temps”, il narratore si ritrova nella chiesa di San Tommaso d’Aquino, nel 7mo arrondissement di Parigi. Tutto è triste, trascurato, grigio, senza speranza. Ha allora l’idea barocca di convocare san Tommaso stesso, quale appare nel “Paradiso” di Dante”. Con lui il narratore fa un viaggio verso la felicità, e l’autore Philippe Sollers con loro. Nello speciale del “Nouvel Observateur” intitolato À la poursuite du bonheur, Sollers apporta questa scoperta, che il viaggio di Dante, "musicista del pensiero", è verso il paradiso: “È un’esperienza storica e fisica, una esplorazione delle radici del tempo. Il 14 aprile 1300, d’improvviso, è più prossimo a noi che la confusione mondializzata dell’inizio del XXImo secolo. All’indomani di tante catastrofi, la felicità del paradiso è un’idea nuova sul pianeta…" http://hebdo.nouvelobs.com/hebdo/parution/p2303/dossier/a391534-eden_caché.html Philippe Sollers, Les Voyageurs du Temps, in "Le Nouvel Observateur", 24 dic.-7 genn.

Alvaro, il primo proustiano

Il ricordo dell’infanzia, tra lo Jonio e l’Aspromonte
I racconti della terra, o della nostalgia - anche se della terra inominabile. Tutti in un modo o nell’altro vivi dopo ottant’anni. San Luca, la montagna e lo Jonio sono esplorati in dettaglio e con precisione, gli anfratti della natura, i linguaggi segreti dei bambini, il carattere molteplicemente forte delle donne, la distanza (l’estraneità) del potere, l’umore sempre tagliente, anche nella balordaggine. “Sebbene io non ricordi quasi più le passioni della mia terra, me n’è rimasta una solidarietà carnale”, dichiara Alvaro d’acchito nel celebre racconto “Ritratto di Melusina”, il primo della raccolta.
Tutto è ripassato nella nostalgia, anche i vecchi nemici. Il barone S.(Strangio), che vive solo, cinquantenne, fuori del paese, è agli occhi di una gentildonna inglese sua ospite “un bell’uomo, con quell’aria che anno di solito quelli della sua regione, di chi avesse trovato la verità e nulla più al mondo lo interessasse e lo dovesse scuotere”, e “amabile, della gentilezza nativa di chi vive tra gli elementi”. Solitario ma non solo, arguisce la nobildonna allargando la visuale: “Questo era il Sud, turchino e stupito nel sole, vestito di scuro, calcinato dal vento, coi lunghi sguardi senza stupore della gente silenziosa, e con le voci gutturali della gente solitaria”. C’è uno stupore di troppo, lo scrittore andava di fretta, ma per vantare un’identificazione superba con la terra d’origine. Tanto più rimarchevole nel letterato più cosmopolita e miglior conoscitore del mondo negli anni 1920 e 1930. Alvaro, prima di oggettivarla in “Gente in Aspromonte” (all’insegna del terribilismo, malgrado il lirismo manzoniano dell’incipit), s’identifica nella Calabria, tra l’Aspromonte e lo Jonio, dov’è nato, vi vuole trovare radici, è la sua unica realtà, dopo una serie di trapianti ovunque in Italia e in Europa.
Tutto si rilegge con interesse. Omessa un’aggettivazione incongrua del meridione e del meridionale. Sono “meridionali” la sera, il volto, il silenzio. Ci sono santi “piccoli come meridionali”, l’“aria secca del paese meridionale”, perfino “una sofferenza di razza” in un ragazzo, per le rughe emergenti tra le narici e la bocca. E un “malessere della sera meridionale, così tarda a finire”. Al Sud la sera finisce prima - in estate, ma è in estate che la sera “non finisce”. E con almeno una sorpresa: “L’amata alla finestra”, il gruppo di racconti che dà il titolo alla raccolta, declina l’amore con un netto impianto proustiano. A tratti potrebbe essere un calco. Così pure altri racconti, per quanto concerne l’uso della memoria.
È l’aspetto di Alvaro meno studiato, quindi sorprendente, ma che meglio ne configura la personalità: la vivacità intellettuale, la conoscenza diretta e l’estrema curiosità per tutto ciò che innova l’Europa e il mondo nei due decenni della sua maturità. Di Proust Alvaro è stato il primo traduttore in italiano, nel 1921. Anche se a uso privato, la sua stima dell’autore della memoria non fece breccia nell’editoria e nella critica. Amico a Parigi e poi e corrispondente di Benjamin Crémieux, il primo proustiano, e di Nino Frank, il joyciano. Ricorrono qui anche “una rosa è una rosa” e il “presente prolungato”, o “presente assoluto”, con cui Gertrude Stein innovava negli anni 1910 e 1920 l’arte del racconto, seppure per una ristretta cerchia a Parigi.
Corrado Alvaro, L’amata alla finestra, 1929

Ombre - 11

Delle tre-quattrocentomila social card che le Poste sono riuscite a distribuire per Natale, un buon terzo sono andate alle suore. Monache di oltre 65 anni, ma anche di età inferiore, bisognose. A Roma soprattutto, ma anche a Milano e in Sicilia. Non c’è un dato preciso che accerti quante suore sul totale hanno fatto richiesta della social card e l'hanno ottenuta, ma è il commento ricorrente fra gli addetti delle Poste: la sorpresa per il gran numero di monache che si sono presentate.

Rachida Dati, bella, colta e capace, non fa “l’algerina”. Per questo la Francia non le perdona, e la fa l’amante del presidente, o di Aznar, o di Blair, insomma la puttana dei potenti. A sinistra proteggendosi con la politica, a destra con l’etica, ma in realtà per forsennata cattiveria.
La Francia è un paese inesplorato. In cui ci sono anche le parigine alla Dati che ne fanno l’immagine, libere e anzi sfrontate, con i tacchi alti, incinte senza marito. Ma di suo è sempre un mondo terragno, chiuso, e anzi cupo. Che non c’è nella letteratura, a parte Giono e Céline, né nei giornali, ma è lì nel voto, nel razzismo, e ora in questo bislacco femminismo anti-femminista.

“Potrei disegnarvi la mappa degli interessi elettorali attraverso i contratti di locazione… ereditati dal Comune di Napoli o dal Comune di Roma”. L’imprenditore Romeo, in carcere per corruzione, si offre di certificare il malaffare di cui tutti a Roma e Napoli sono a conoscenza. “A questo punto”, scrive il “Corriere della sera”, “i pubblici ministeri cercano di entrare nei dettagli”. Ma non delle case date agli amici e parenti. “Lei ha rapporti all’interno del consiglio (comunale) di Roma?”, chiede il Pm.
L’azione penale è obbligatoria, ma per chi?

Lo stesso Romeo afferma che a Milano, dove aveva vinto un appalto, non vollero darglielo perché doveva andare ai milanesi. “Questo camorrista amico di Bassolino non può venire a Milano”, si sarebbero detti in giunta il sindaco Albertini e gli assessori. Invalidarono il bando e suddivisero l’appalto in tre tronconi, afferma ancora Romeo: “Io me ne aggiudico uno, Edilnord un altro, e Pirelli il terzo”. Può darsi che Romeo dica il falso, ma nessuna inchiesta si apre a Milano per accertarlo.

Il sindaco di Pescara è scarcerato. Veltroni critica i magistrati. “L’Unità” sparge veleno su chi critica i magistrati. Al “Corriere” il mite giustizialista Furio Colombo assicura: “Assurdo. Qui a New York, dove mi trovo, nessuno si sogna di prendere posizione o criticare i giudici”. New York, come si sa, è piena di giudici che intercettano e arrestano i sindaci, e poi li liberano.

Prosegue a Cosenza il processo Why not, con interrogatori a questo e a quello. Per l’ipocrisia senza veli della giustizia: non ci può essere una vera indagine, dopo il raid di Salerno Catanzaro può solo condannare gli inquisiti. I calabresi, non Prodi e Mastella, quelli erano già fuori.

Paolo Borsellino era uomo di destra - per questo fu insolentito da Sciascia, che poi si scusò. Agnese Borsellino, la vedova, che si è astenuta in questi quindici anni dall’occupare i giornali nel nome del marito, fa un apprezzamento a Sgarbi, che ha rivitalizzato Salemi, di cui è il sindaco. Tanto basta per suscitare l’ira dei cognati Borsellino, che hanno fatto carriera politica a sinistra, custodi della memoria del fratello assassinato da Riina. Nell’attacco a Borsellino Sciascia coniò la figura del “professionista dell’antimafia”. Era un preveggente?
Anche Maria Falcone si pretende custode unica del fratello. La cui memoria ha dato in uso politico alla sinistra. A quella sinistra, di Orlando e dell’ex Pci, che il fratello ha isolato e messo nel mirino della mafia.

Mastella dice sabato 27 al “Corriere”, per tutta una pagina, cose che incorniciano una repubblica delle banane e una situazione di golpe permanente, a opera dei giudici, con i carabinieri. Ma niente. Lo stesso giornale, che non ne contesta le terribili accuse, le pubblica come gli amorazzi della Marini – o bisogna dire di Luxuria? Un po’ di nudo, seppure coi bozzi.

Moratti dell’Inter ha vinto una partita grazie all’arbitro, e passa all’attacco: “Ma quali favori, ce li meritiamo”, dice. E: “Chi sbaglia oggi lo fa in buonafede. Fino a tre anni fa, invece…”. Può darsi che il presidente dell’Inter sia quello che dice. Ma bisogna essere realisti: è uno che la Procura di Milano ha graziato in almeno tre occasioni, non è uno sprovveduto. Tutti vedono che sei giocatori dell’Inter su undici erano in fuorigioco nella partita incriminata, tutti vestiti di scuro mentre gli avversari erano sul bianco, l’arbitro non poteva in nessun modo sbagliare. E dunque? Perché gli si fa dire quello che dice?

Il giorno dopo Siena-Inter, Sky e la Domenica Sportiva erano alla ricerca ansiosa dell’errore con cui scusare il regalo all’Inter. Hanno creduto di trovarlo in un (forse) errore a favore della Juventus, e per tutto il pomeriggio e la serata della domenica non hanno fatto altro che rimarcarlo, centinaia di replay. Sono succubi di Moratti? O non della par condicio scalfariana, uno a te uno a me, purché vinca io, la virtù della viltà.

L’ex procuratore Gabriele Tinti, autore di “Toghe rotte”, critico della magistratura, scrive sulla “Stampa” che le intercettazioni fanno sempre bene: “Ma chiediamoci anche: se si trattasse di fatti che non costituiscono reato e che però danno la misura della statura etica e politica di chi appartiene alla classe dirigente, non sarebbe bene conoscerli? Io facevo il procuratore della Repubblica; se si fossero intercettate mie telefonate con qualche mafioso che mi invitava con regolarità nella sua riserva di caccia o che mi ospitava a casa sua, non avreste voluto saperlo?”.
È una conferma che ai magistrati, anche ex, il giudizio difetta: ricevere favori da un mafioso è un reato e non un pettegolezzo.
La verità è che per un magistrato i mafiosi non sono veri, non si condannano. Il mafioso è uno che ha (anche) una riserva di caccia, dove convita i magistrati. I magistrati solo perseguono gli amministratori pubblici e i politici in quanto tali. Se vanno a caccia coi mafiosi tanto meglio, o peggio.

Non si sa perché il napoletano Romeo abbia avuto dieci anni fa la gestione delle strade e del patrimonio immobiliare del Comune di Roma. O meglio si sa, ma non si dice. L’ottimo Pippo Pullara, senz’altro informato, esordisce con un titolo promettente, “Immobili comunali: gli interessi di ieri, oggi senza memoria”, ma quando arrivo al fatto si ferma. Fabrizio Caccia sullo stesso giornale, il “Corriere”, facendo parlare assessori vecchi e nuovi, riferisce incuriosito di una Loredana De Petris che non ricorda molto, ma ricorda un Angelo Canale, il consigliere di Stato, rimosso infuriato dal Patrimonio. La verità è ben scritta altrove, per esempio, sul “Messaggero”. Ma seguiamo il “Corriere”.
Canale non era stato commissario al Comune di Roma, distinguendosi per il blocco della rilevazioni di Census, la società della Fiat cui l’ex sindaco Carraro aveva commissionato la ricognizione del ricchissimo, ma costosissimo, patrimonio immobiliare del Comune? L’appalto a Census era troppo oneroso, dissero i commissari. Poi venne l’appalto a Romeo, per il doppio del costo di Census, senza beneficio per il Comune, non che si veda. Canale è dunque la persona giusta da interpellare. Ma Canale è anche ottima fonte del giornalismo della “questione morale”. Da che lato?

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (28)

Giuseppe Leuzzi

L’imprenditore Romeo, in carcere a Napoli per corruzione, afferma che a Milano, dove aveva vinto un appalto, non vollero darglielo perché era destinato alla Edilnord, impresa milanese. “Questo camorrista amico di Bassolino non può venire a Milano”, si sarebbero detti in giunta il sindaco Albertini e gli assessori. Invalidarono il bando e suddivisero l’appalto in tre tronconi, afferma ancora Romeo: “Io me ne aggiudico uno, Edilnord un altro, e Pirelli il terzo”. 
Può darsi che Romeo dica il falso, ma nessuna inchiesta si apre a Milano per accertarlo. 

Reggio Calabria è nei posti alti della classifica del “Sole 24 Ore” sulla qualità della vita per quanto concerne le infrastrutture e la sicurezza. Ma la percezione che ne hanno i reggini è catastrofica: Reggio è ultima fra le 107 province per le infrastrutture, e quartultima per la sicurezza. Effetto dell’immagine riflessa dai media? Anche perché la soddisfazione di chi ci abita è elevata: Reggio viene nella seconda decina dell’indice di felicità, o della soddisfazione individuale, con Firenze, Siena, Padova, Trieste. 

C’è stato a lungo, fino a recente, un uso incongruo, vagamente spregiativo, dell’aggettivo meridionale. Goffredo Parise nel “Prete bello”, 1954, ha un personaggio napoletano, del quale si compiace a mettere in rilievo il “colore meridionale”, il “sangue meridionale”, e più di tutto “uno strano miscuglio di sentori umani” che sarebbe il meridione: “Alla base di questo miscuglio stava il meridione: un odore di laggiù, composito di aromi delle trattorie, dell’eccitante lezzo dei «bassi», di case e alberghi, fino alle abitazioni di ricchi e baroni, e di pisciatoi pubblici”. Ha anche un “sangue meridionale”, che alle ragazze dà vizi segreti “fin dalla tenera età”, i “sogni da napoletano”, “l’odore del letto napoletano, dolciastro”, una “fantasia meridionale”, uno “sguardo meridionale”. “Il prete bello” è scritto bene, fluisce esatto, è un dono che Parise ebbe ventenne e non ripeté, se non a tratti. Questa è l’unica sbavatura. Il narratore sa di Milano, dell’Italia, della guerra di Spagna, del fascismo, ma del meridione ha sentore vago. 
Anche Alvaro, negli anni della riscoperta delle origini, usa un incerto “meridionale”. Nei racconti di “L’amata alla finestra” molte cose sono “meridionali”: la sera, il volto, il silenzio, i santi “piccoli come meridionali”, l’“aria secca del paese meridionale”, perfino un “una sofferenza di razza” in un ragazzo, per le rughe emergenti tra le narici e la bocca. E “malessere della sera meridionale, così tarda a finire”. Al Sud la sera finisce prima - in estate, ma è in estate che la sera “non finisce”. L’odio-di-sé meridionale Non muore la storia dello sbarco alleato che si fa in Sicilia con e per la mafia. “Non esiste”, si direbbe a Roma, ma in Sicilia sì. “Tutti, in Sicilia, (lo) sapevano”, scrive Gaetano Savatteri da ultimo in “La volata di Calò”. Protestando di non crederci, certo. “Tutti conoscevano questa storia. Se ne parlava nelle piazze, magari sottovoce. Tutti erano sicuri che fosse andata così, e ancora molti lo sono”. Savatteri, che è nato nel 1964, lo saprà per scienza infusa – da suo papà, certo, da suo nonno, che in Sicilia sono tutto. E magari non ci crederà, ma l’aneddoto gli piace. Ha scritto “La volata di Calò” per celebrare una famiglia di industriali isolani, i nipoti di Calogero (“Calò”) Montante, che sono al fronte contro la mafia. Ma della mafia gli piace dare questa immagine di onnipotenza. Anche perché il libro, che Sellerio pubblica in bella edizione con molte fotografie, si legge unicamente per questo aneddoto – contro gli americani che hanno imposto la mafia, e contro Mattei che ha imposto le cattedrali nel deserto, mentre i siciliani si battono come si sa contro la mafia e per il mercato. Dopo il racconto di Camilleri “Una corsa verso la libertà”, che rappresenta gli alleati come truppe di occupazione. Piero Chiara così apre il racconto “Una cattiva scelta”: “La caduta del Regno delle Due Sicilie portò alla rovina molte famiglie nobili del meridione e soprattutto gran numero di famiglie borghesi, che erano fiorite all’ombra della corte borbonica. Accadde così che gentiluomini e borghesi di ottima educazione e di elevato tenor di vita, ridotti a povera sorte, aspirarono a modesti impieghi, di preferenza nella pubblica amministrazione, unica immagine in terra della quiete eterna. “Nobili impoveriti e figli di buona famiglia accedettero alle gabelle, alla giustizia, all’esercito, alle finanze, all’istruzione ai lavori pubblici, dilagando in buona parte nell’Italia settentrionale”. “Wiscardo submittitur Calabria” è già nell’arazzo del castello di Pirou in Normandia, nel sec. XI. Ma la Calabria rischiò di essere stato indipendente anche dopo i normanni. Antonio Centelles, barone di origine iberica feudatario pro tempore nel 1444, ne accarezzò il sogno, che nel 1465 Ferrante re di Napoli nel sangue sconfisse. Non c’era strada da Napoli a Reggio Calabria fino ai primi dell’Ottocento. La ragione del sottosviluppo è tutta qui, nell’isolamento. Ottomila dipendenti delle Ferrovie sui 90 mila totali erano nel 2006 in Sicilia. Presumibilmente in vacanza, poiché nell’isola non ci sono treni: le linee sono a binario unico, i treni pochi e con poche carrozze, e nessuno li prende. Paolo Borsellino era uomo di destra - per questo fu insolentito da Sciascia, che poi si scusò. Agnese Borsellino, la vedova, che si è astenuta in questi quindici anni dall’occupare i giornali nel nome del marito, fa un apprezzamento a Sgarbi, che ha rivitalizzato Salemi, di cui è il sindaco. Tanto basta per suscitare l’ira dei cognati Borsellino, che hanno fatto carriera politica a sinistra, custodi della memoria del fratello assassinato da Riina. Nell’attacco a Borsellino Sciascia coniò la figura del “professionista dell’antimafia”. Era un preveggente? Anche Maria Falcone si pretende custode unica del fratello. La cui memoria ha dato in uso politico alla sinistra. A quella sinistra, di Orlando e dell’ex Pci, che il fratello ha isolato e messo nel mirino della mafia. Si potrebbe dire la Sicilia, il paese con più storia in Europa, un paese senza storia. La Sicilia contemporanea, da Cuffaro Vasa Vasa indietro fino a Sciascia compreso. Che tutto scioglie nelle sue passioni, senza riserbo e senza saggezza. Le quali si riducono in realtà a una, la facondia, o sentirsi parlare.

lunedì 29 dicembre 2008

La Repubblica del suk

È lo stesso panettone degli altri anni, dell’esibizionismo della miseria. Resteranno, questi libri di Vespa annuali ossessivi, malinconica ma dura fonte della politica nella Seconda Repubblica. Un negozio. Tra chi vende primizie, chi coloniali, e chi pesci, presto puzzolenti. Ma tutti commercianti col fegato ingrossato perché il vicino vende sempre di più. Senza un’idea o uno slancio, che i censori arcigni non consentono, le mummie dei sanatori giudizari o tra gli stessi giornali che se ne fanno beffe, e incapaci di ribellarsi.
Un politico dovrebbe dare fiducia, condurre gli elettori verso un fine. Questa politica è invece un suk o un bazar, e più per le contumelie che per l’esposizione della merce. Si capisce che Berlusconi, che è un venditore, sbaragli la concorrenza. Che peraltro non sa che dire, a parte accusarlo di turpitudini. Perché non ha merce, o ce l’ha avariata e non sa liberarsene.
Aspettiamo ancora che Prodi parli, o Rutelli. Veltroni e D’Alema non solo non menzionano il comunismo ma neppure il socialismo. E in fatto di democrazia si muovono male, nel loro stesso partito. In tutte le democrazie, anche le più radicalizzate, i politici si rispettano, Zapatero rispetta Rajoy, per esempio, e viceversa, solo in Italia si recitano i reality, a chi ce l'ha più grosso, e questo è tutto.
Bruno Vespa, Viaggio in un’Italia diversa, Mondadori, pp. 478, €19,50

Millennium fancy: farsi fare dalle donne

“Il libro più venduto in Europa” è dunque su un uomo di media età, media reputazione, medio vigore, media intelligenza, che si fa fare dalle donne, dai venti ai sessant’anni. Perché le donne sono più degli uomini, l’amore si fa quando loro vogliono. E anche più numerose, e quelle che più leggono, i romanzi. Il vecchio maschio è imbroglione, traditore, stupratore, assassino, coglione, o cornuto compiaciuto.
O non è una nuova fantasia (strategia?) degli uomini, quella di lasciarsi fare, all’epoca del femminismo? Si può ipotizzare la scomparsa dell’uomo non come una fuga (un’eliminazione?) ma come una resa, una servitù volontaria.
Supereretto dal “Sole” a più riprese a monumento del genere, si legge in realtà fino a pagina trecento solo per questo, per l’arboriana “pasqualite”, la sindrome del vediamo come va a finire.
Stieg Larssson, Millennium Trilogy. Uomini che odiano le donne, Marsilio, pp. 676, € 19,50

Pd: Casini incassa, Rutelli attacca

Natale di gran festa per Casini, a fronte degli attestati di stima e mezzi pensieri di passaggio. Da Lusetti fino a Marini. La parziale assoluzione del sindaco di Pescara D’Alfonso ha fatto crescere i mugugni tra gli ex Dc del partito Democratico, e anche i sospetti. Lo scontro politico fra le due anime, coperto a Roma ma acuto in molte province, si è tramutato a caldo nell’accusa di un tentativo di manomissione della componente popolare a mezzo di una magistratura compiacente. Non con Berlusconi ma con Di Pietro e quindi con Veltroni.
Casini, subissato dalle telefonate di auguri di tanti ex amici, non si illude che una svolta sia imminente. Sa che il democristiano si vuole prudente. Per ora si limita a smarcarsi il più che può da Berlusconi, stanco di aspettarne la morte. Sul semipresidenzialismo com’è sempre stato, ma anche su questioni sulle quali finora aveva in sostanza concordato, le intercettazioni e la giustizia.
Si sposta verso sinistra, ma non al di là della linea divisoria, nessuno dei suoi lo seguirebbe in un’alleanza con gli ex Pci. Abbastanza però per fare da calamita verso la Margherita. La terza posizione, fuori dalla coalizione berlusconiana, non ha l’obiettivo di prendere voti a Berlsuconi, ma di prendere candidati a Veltroni.
Casini si è collocato in posizione intermedia per capitalizzare sul nodo che soffoca il Pd, e si gonfia, il solco tra le due anime, post-Dc e post-Pci. Rutelli stesso, che più di ogni altro della Margherita è stato finora legato all’anima diessina, nella persona di Bettini, suo creatore e sponsor politico, vuole smarcarsi. Attende di sapere come si muoverà la Procura di Roma quando saranno arrivate le famose carte preannunciate da Napoli, ma sta predisponendo una difesa, non solo legale. Su questo aspetto Rutelli si ritiene coperto: un’eventuale incriminazione non potrà isolarlo dai suoi assessori diessini, tra essi Morassut, il successore di Bettini alla federazione della capitale. Ma è sul piano politico che Rutelli è diventato improvvisamente attivista, al Comune, alla Provincia e nelle circoscrizioni. Tra i vecchi della Margherita per frenare la fuga verso Casini. E tra i nuovi del Pd, quelli che non erano parte dei due vecchi partiti, gli ambientalisti e i giovani.

Un eroe anticomunista

Dunque Campanile, che tre anni prima aveva avuto il premio Viareggio, pubblica nel 1976 una novelletta anticomunista. Dunque, si poteva. O non deve Campanile a questo penchant politico la sua marginalizzazione? L’utensileria messa in ridicolo è picista: doppiezza, militarizzazione, ipocrisia. È anche detto: si parla di rivoluzione, compagni, occhio di Mosca e materialismo. Anche l’Eroe è tipicamente comunista. Ma Cordelli lo presenta nella Bur come antifascista. Un lapsus? Ci sono perfino le impiccagioni in Cecoslovacchia, e i servizi segreti dei servizi segreti.
Il segreto è forse assolvere anche i nemici, senza fare autocritica. Ma Campanile è pervicace: irride Churchill e de Gaulle, e salva Pétain. Anche se aggroviglia indissolubilmente il suo gioco dell’essere-non essere, sotto la specie dell’agente segreto.
È anche il 1976, il romanzo è d’epoca – benché probabilmente abbozzato vent’anni prima.
Achille Campanile, L’Eroe, 1976

Pìcaro a Vicenza

Scrittura cristallina, dopo sessant’anni. Miracolo di Parise ventenne. Il libro è pasticciato (scritto in fretta, edito in fretta): dieci lire, “una miserie di elemosina”, diventano dopo poche pagine “una somma enorme”, c’è un dialetto “napoletano” che invece è, forse, romano (“Muoio fascista pe’ mano de rosso”), c’è un “odore del letto napoletano, dolciastro, misto dell’effluvio della biancheria…”, in stanze che poche righe prima “non avevano letti, ma solo materassi stesi per terra”, eccetera. E tuttavia scritto senza una sbavatura, una parola di più. Con enfants terribles molto neo realisti, ma senza il patetico.
Parise era dotato di solida corazza, anche se il generone romano lo rigurgiterà senza affanno, che lui era sceso a dominare. In “Come non ci si difende dai ricordi” Nico Naldini ne fa un ritratto scurrile e anzi cattivo, di segaiolo, opportunista, frivolo, e infine, con Comisso, matto: “El xe mato come so mama”. Una signora che, simile in questo a Goffredo, dice Naldini, era nota in città per la nevrosi dell’accumulo, di guanti, borsette, eccetera. Ma non può esimersi dal distillarne con acume il dono, a proposito della curiosità all’apparenza superficiale: “Goffredo aveva spesso questa visione di se stesso come pianta fanerogama capace di inseminare a distanza mentre lui sarebbe rimasto in ozio. Perché sapeva che il suo ozio secerneva una materia che solidificandosi sarebbe diventata un racconto bellissimo”. Specie con le zie: “Le tantes non hanno mai smesso di attrarlo, per il gusto dell’intrigo che accompagnava ogni loro accidente. In ciascuno trovava contorni surreali per un impianto scenico inesauribile”.
È un romanzo comico, più di Campanile allora in voga, più del redentorista Zavattini. È il picaresco che Parise reinventa. La trascuratezza sarà allora del genere, le ripetizioni, le contraddizioni – il picaresco è un raspare, più che un intaglio. C’è anche la falsità della prima persona, un ragazzo di strada che parla come un glottologo, un esperto d’arte, e un sociologo. Il cui paradiso è una bicicletta mezzo rubata, lui che ha un nonno socialista e biciclettaio. Il genere si vuole incongruente, con un fondale di maniera, come qui è Vicenza. Le avventure hanno poco di avventuroso, come il genere invece vorrebbe: il prete bello è un ex cappellano militare, che, aitante, fascista, ignorante dell’amore, accende l’immaginario e la vita delle nubili del quartiere. Ma c’è un segreto nella scrittura.
Goffredo Parise, Il prete bello, 1954