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sabato 20 ottobre 2012

Problemi di base - 120

spock

Era meglio Zeman oppure Totti? È meglio Zeman oppure De Rossi?

E perché la squadra lotta invece di giocare?

Perché nessuno va a vedere i film di Venezia? Sono gli stessi che a Venezia hanno applaudito i critici?

Sono peggiori i film di Venezia o è peggiore il pubblico? E i critici?

Perché esiste qualcosa piuttosto che niente (la riposta tarda)?

Perché i filosofi si incensano?

Perché i filosofi si credono?

Se il vivo è solo una specie di morto, il morto che cos’è?

Perché il riso è umano e la tristezza universale?

spock@antiit.eu

Gli apparati separati – Italia sovietica 10

Risultano intercettori, a terra, i Carabinieri e la Guardia di finanza. Non la Polizia. C’è una ragione? Sì, sono militari, quindi corpi a parte.
È chiaro da molti processi che tutti più o meno siamo intercettabili e intercettati, anche senza colpe, al computer, al telefono, con le microspie, coi sensori a distanza, coi confidenti, e fotografati, non il solo Berlusconi. Sono intercettazioni legali in Italia, benché di corpi separati e irresponsabili, non si può fare nulla. Anche il capo dello Stato vi è soggetto.
Torneremo alla parola scritta? Victor Zaslavsky, il grande intellettuale russo costretto all’emigrazione nel 1975, ricorda in uno dei suoi ultimi racconti (ora in “Il mio compagno di banco Ramón Mercader”) di vita sovietica come al ristorante, al caffè e in ufficio fosse d’uso evitare le parole chiave durante le conversazioni, scrivendole su un pezzo di carta. Ma qui anche i “pizzini” vengono  intercettati, non si perde nulla.
I giudici sono il corpo più dissoluto di tutti. Tuttavia appare evidente da molti processi che sono i militari a proporre i dossier, a varie Procure finché trovano quella interessata – è così che a Monza avviene d’indagare Milano, a Milano Monza, a Napoli Torino.
Tutti i ladri pubblici sono in questi mesi elettorali del Pdl e dell’Idv. Mentre si sa che non è così, nei consigli regionali, negli appalti, nelle consulenze e nelle assunzioni c’è ovunque una divisione pro quota della corruzione. C’è un coordinamento tra i corpi separati - concentrare il fuoco è parte dell’arte militare?
Un apparato repressivo così totalitario perché non lo è altrettanto contro il crimine: della droga, degli appalti, dell’usura, del pizzo, dell’evasione fiscale?

Memorie allegre dell’Urss

Quattro racconti che si leggono senza poter smettere. Distillato dell’amabilità dell’autore, morto prematuramente tre anni fa a Roma. Sociologo politico e narratore, a suo agio nel racconto lungo. Quattro racconti di una realtà, la sovietica, vecchia e insieme nuovissima. Che si rimuove benché sia stata parte larga della storia della Repubblica (o per questo?) – di essa lo scrittore si era dovuto fare da ultimo storico, per la messe disponibile di documenti tra Mosca e il Pci che non trovavano, e non trovano, storico professionale.
Benché in esilio dall’Urss dal 1975, Zaslavsky fa una rappresentazione senza malanimo, e anzi esilarante, dell’ottusità e la violenza sovietiche. Sono racconti dello sfollamento da Leningrado assediata, cinque anni nei quali il bambino dimentica i genitori. Della coppia di contadini poveri e sciancati che per cinque anni nutrono tre cittadini sfollati. Di una famiglia alta in grado nella nomenclatura i cui membri, genitori, zie, zii, da un giorno all’altro perdono tutto, lavoro, casa, prima o poi avviene, e non sanno perché. Delle insensatezze della vita accademica, privilegiata e sempre a rischio. Di una sorprendente umanità nell’Unione Sovietica, c’era pure quella.
Victor Zaslavsky, Il mio compagno di banco Ramón Mercader, Sellerio, pp. 171 € 12

venerdì 19 ottobre 2012

La crisi che la Germania vuole

Non c’è, non c’è stato, non ci sarà un intervento anticrisi dell’Unione Europea – se non per le iniziative autonome, benché contrastate, della Bce. Non prima e non dopo le elezioni tedesche. C’è un uso della crisi per modificare l’Ue e le sue regole. Da confederazione lenta quale è oggi in federazione. E in una federazione asimmetrica, tedesca. Non con una costituzione o norme statutarie uguali per tutti, ma in dipendenza dalla politica e le leggi tedesche.
Non c’è vertice europeo che non lo confermi – l’ultimo la scorsa notte. Non c’è mai stato, nella crisi europea ormai lunga di quattro anni, un  intervento risolutore, quale era possibile. Ma solo un disegno, contorto però inflessibile, di portare la Ue a un altro assetto grazie alla crisi.
Immaginare un governo tedesco “schiacciato sulle birrerie” è folklore. O credere a una Merkel in bambola degli illustri economisti alla Monti, dell’aneddotica che si fa cucire addosso. Angela Merkel e i suoi consiglieri Weidmann, Weber, Stark, hanno un progetto e intendono imporlo. Lo spread è esploso da quando le banche tedesche hanno venduto in poche ore otto miliardi di Btp. Che non sono molti, meno dell’1 per cento del debito in essere, ma venduti tutti insieme hanno fatto valanga. Non provocata da inesperti.
Ciò che la Germania vuole e ciò che non vuole, essendo in grado di imporlo, è peraltro chiaro. I fondi di salvataggio europei, Efsm e Esm, sono soggetti al veto tedesco. L’uso di questi fondi è condizionato da regole recessive sui recipienti. Non ci sarà vigilanza bancaria europea, non subito e non in un tempo prevedibile, perché la Germania non vuole assoggettarle le sue Landesbanken, le finanziarie regionali che sono il polmone del sottogoverno e piene di buchi. Non ci sarà un “bilancio europeo”, non si tratta di questo: ciò di cui si sta trattando è un potere di veto tedesco. La Germania non vuole gli eurobond non perché si assumerebbe il debito di altri paesi ma perché essi libererebbero gli altri paesi da tassi iugulatori: gli eurobond spunterebbero tassi alla pari con le obbligazioni americane o giapponesi, e forse migliori. 

La sinistra all’orecchio

Leggendo “l’Espresso”, “Repubblica”, il “Corriere della sera”, la “Stampa”, il “Messaggero”, “Micromega”, ogni minuto misfatto della destra viene registrato in dettaglio. Chi ha sbadigliato, senza la mano sulla bocca, chi s’è messo il dito nel naso, chi ha scoreggiato, e come, se con la puzza o senza. Con censori instancabili che settimanalmente si strappano i capelli, Serra, Maltese, Merlo, etc. Frutto di accurata vigilanza, s’immagina, di compagni e capi caseggiato, che per questo non si possono presumere delatori. Oltre che delle intercettazioni, ormai di massa – l’ultimo “Espresso” si diverte con quelle “a strascico” raccolte a Milano indagando su Ponzellini, che”non c’entrano nulla”, dice, col banchiere. Si riempie ogni giorno una Treccani, con le intercettazioni della stampa di sinistra.
Ora, è possibile che a sinistra piacciano queste cose? Mentre siamo disoccupati, tartassati, e in guerra con mezzo mondo. Il genere fu inventato e a lungo monopolizzato dal “Borghese”, un giornale neo fascista. E chi raccoglie e smista le indiscrezioni?
Tanta minuta osservazione richiede un coordinamento. Una centrale che le dispone e poi le smista. Casuale non può essere, contraddice tutte le leggi della stocastica - non cè lo scarto, la sorpresa: oggi, per esempio, nulla. Anche perché, leggendo “Panorama”, “Il Giornale”, “Il Tempo”, si trova poco e niente del genere sulla sinistra. Che è il coordinatore, i carabinieri? La guardia di finanza? Lo “strascico” dell’“Espresso” si dichiara fornito dalla guardia di finanza. La quale lamenta sullo stesso giornale che può controllare solo tre su ogni mille dichiarazioni delle tasse sospette.

(Se) il diritto non è giustizia

“La nozione di diritto è legata a quella di spartizione, di scambio, di quantità. Ha qualcosa di commerciale. Di per sé evoca il processo, l’arringa”. Simone Weil non ne ha buona opinione, da ultimo in “La persona e il sacro”. Non sembra a torto: “La nozione di diritto ci viene da Roma”. A copertura dell’uso della forza (“I Greci non possedevano la nozione di diritto. Non avevano vocaboli per esprimerla. Si accontentavano del nome della giustizia”). Come, scrive la filosofa nel 1942, Hitler: “Si imputa alla moderna Germania di disprezzarla. Invece questa se ne è avvalsa a sazietà nelle sue rivendicazioni di nazione proletaria. È vero che non riconosce a coloro che tiene soggiogati altro diritto se non quello di obbedire. Ma anche l’antica Roma”. Una nozione di proprietà come “diritto d’uso e abuso”, specie sugli uomini.
Meno stringente, ma pertinente, il seguito: “Dal momento che la nozione di diritto è estranea allo spirito greco, risulta estranea anche all’ispirazione cristiana, là dove è pura, non commista a eredità romana, ebraica o aristotelica. È inimmaginabile san Francesco d’Assisi che parla di diritto”.

Rottamatore rivelatore

Come un reagente chimico, Renzi sta “rivelando” inconsistente il gruppo dirigente ex Pci. Senza idee, proposte, capacità politica – in vent’anni ha vinto due elezioni grazie a Prodi, un democristiano come Renzi. Seppure con una struttura di comando ancora forte, asfissiante, nei corpi separati: i giudici, le polizie, le università, il sindacato, l’editoria, i media (occupa sempre i giornali, pur non rappresentando quasi niente). Con l’eccezione di D’Alema. Che invece le idee le aveva, sulla forma dello Stato, sull’organizzazione della politica, sul ruolo autonomo della politica, e forse per questo è stato avversato dal “partito della crisi”, molto forte nello schieramento che oggi è il Pd (banchieri, editori, affaristi, e naturalmente i giudici). Comunque non è riuscito a realizzarle neanche in minima misura.
Hanno amministrato bene, dice la propaganda. Ma Firenze si amministrava bene da sola. Nella lunga stagione compromissoria si è semmai perduta, con l’abusivismo legale degli anni di La Pira, e l’urbanistica forsennatamente affaristica poi del Pci e i suoi epigoni. Ancona e Bologna si amministravano bene perfino sotto il papa. Bologna che da vent’anni non sa come rigirarsi per sfuggire alla morsa: si è dato un sindaco di destra, e altri li cerca fuori. E la papalina Siena, che ha creato nel corso di sei secoli una grande banca, che in pochi anni il Pci ha distrutto.
La candidatura di Renzi finirà con le primarie, il vecchio Pci ha ancora i voti per mandarlo a casa. Ma non sarà più il Pd di prima – ammesso che i partiti sopravvivano alle elezioni, la legge elettorale minaccia di dissolvere anche i simulacri che in questi venti anni hanno preso il posto dei partiti, i quali almeno selezionavano e formavano la classe politica. Renzi ha fatto da solo, in un paio di settimane, quello che i suoi amici-coltelli di vecchia data, Fioroni, Bindi, Franceschini, hanno per decenni tentato senza riuscirci: ribaltare il compromesso storico. Da gregari dei vecchi comunisti, riproporre protagonisti i cattolici. Che hanno continuato a formare dei politici, via parrocchie e organizzazioni confessionali. Mentre l’ex Pci si è fermato ai giovani di Berlinguer

Napoli capitale del buongoverno

Il riepilogo delle competenze accumulate dallo storico in una vita, sul Seicento a Napoli, “La rivolta antispagnola a Napoli di quarant’anni fa, “L’uomo barocco”. E il sorprendente quadro di una Napoli civile. Nel Seicento. Aperta alle intelligenze e consapevole, applicata. In cui perfino la giustizia è giusta: i nemici del potere perseguitando ma con giudizio, e senza ammazzarli prima – Villari dice che era peggio, che “le buone intenzioni e i sogni proibiti erano talvolta puniti con una crudeltà più grande della morte”, ma è una licenza linguistica.
È sempre la Napoli dal 1585, della rivolta popolare e della conseguente uccisione dell’Eletto del popolo Giovanni Vincenzo Starace, fino al 1647 – la breve repubblica di Masaniello. “Il dominio spagnolo non incontrò in Italia soltanto passività, inerzia, provincialismo e ribellismo primitivo. Il sogno di libertà è storia: un movimento composito e multiforme, che coinvolse popolazioni e singole personalità, uomini e donne, si collegò idealmente con le correnti di riforma dei centri più importanti dell’Europa moderna”, dei Paesi Bassi, della Catalogna, del Portogallo, “e della stessa Spagna, e culminò nella rivoluzione del 1647”. Sorprendente ma prevista, il culmine di lunghe e costanti tensioni.   
Tra i tanti personaggi che animano questo vigoroso affresco, la menzione di uno dei minori è indicativa della “qualità della vita” a Napoli nel primo Seicento. L’economista Antonio Serra, nato a Celico, alla falde cosentine della Sila, nel 1550 circa, la cui memoria si conserva solo nell’elogio che ne fa Galiani, correttamente individuava la debolezza del Regno nel deflusso dei capitali a favore di affaristi forestieri. Non poteva dire che il re e i viceré si vendevano il Regno perché era in prigione, per aver partecipato alla famosa insurrezione antispagnola della Calabria di cui non si trova traccia, che veniva addebitata (principalmente) a Campanella. In carcere dal 1613, vi scrisse un “Breve trattato delle cause che possono far abbondare i regni d’oro e d’argento dove non sono miniere” – che dedicava al viceré, Pedro Fernandez de Castro y Andrade, conte di Lemos, in offa per la clemenza. Serra “inventava” la bilancia dei pagamenti, aggiungendo alle importazione ed esportazioni di beni materiali, nel calcolo del benessere del Regno, anche i servizi e i movimenti di capitale. 
Rosario Villari, Un sogno di libertà, Mondadori, pp. 715 € 24

giovedì 18 ottobre 2012

L’Europa pensionata

Turchia-Siria si gioca alle porte dell’Europa, ma l’Europa non lo sa. Non è interessata, non saprebbe che fare. Si fanno molte ipotesi su questa albagia, ma una è certa: è un questione del Medio Oriente, che per l’Europa, questa Europa, è remoto, benché ci confini.
Quando Erdogan varò il progetto di portare la Turchia nella Ue, una decina d’anni fa, la risposta fu negativa per motivi religiosi e politici. Che Giscard d’Estaing, allora incaricato dell’unione politica europea, sintetizzò in tre motivi: la Turchia, troppo grande, sovvertirebbe gli equilibri su cui si sta costruendo l’unione politica, è troppo diversa culturalmente, sta geograficamente fuori dell’Europa. In altre parole: ottanta milioni di turchi avrebbero spostato la bilancia etnico-religiosa della Ue. Invece no, la religione non c’entrava, c’entrava la geografia. Che stando in Italia, pendolo moscio dell’Europa, riesce difficile capire ma oltralpe è scontato: la Turchia sta nel Medio Oriente e la Ue non sa niente del Medio Oriente, e non vuole saperne. È avanti con gli anni, questa Europa, e ci vede poco. E stando in pensione si gode la rendita, finché dura.

Quando il golpe accese i riflettori

Vent’anni fa, giorno per giorno:
“Con l’Abruzzo, la nuova carcerazione di Loris Zaffra a Milano, e le incriminazioni di Roma, i giudici si muovono chiaramente nella strategia del colpo di Stato. Un golpe moderno, anzi contemporaneo, che scaccia il segreto e la congiura, restringendole a un’intesa fra Procuratori della Repubblica, e forse neppure a quella, tutto deve apparire casuale. Un golpe anzi che accende i riflettori, per sfruttare l’effetto pubblicità, ma non per questo meno sedizioso.
“La strada tracciata da Agostino Cordova, difensore della categoria contro le intromettenze del partito Socialista e dei suoi ministri, si è rivelata una facile e utile autostrada per sbaragliare governo e parlamento. Dal “voto mafioso” si estende la colpevolezza della politica alla mancata vigilanza (in un incarico di partito, quindi privato, come quello di Zaffra, non pubblico), al clientelismo, a qualsiasi autonoma decisione di un organo di governo (Roma), anche se non c’è delitto né profumo di delitto. In Abruzzo, a Roma e nel caso Zaffra anche a Milano, i Procuratori hanno aspettato, ma, non vedendo maturare se non per casi singoli e minori i reati politici, hanno agito infine all’impazzata.
“Il golpe si giova del buon lavoro svolto da alcuni magistrati (Di Pietro, Papalia). E dell’affetto per i martiri Falcone e Borsellino. Presentandosi come la forza delle mani nette. Ma è gente che non ha mai colpito, nemmeno isolato, i ladri e i malfattori all’interno della sua categoria. E non ha fatto autocritica su Falcone e Borsellino, così pesantemente isolati dalla categoria e posti nel collimatore dei malintenzionati.
“Le nuove aggregazioni politiche, attorno a Mario Segni i moderati, a Martelli e Veltroni i riformisti, potranno chiudere il golpe e restituire l’Italia alla democrazia? No. Martelli lo sa già. Saprà Segni schiacciare la testa del serpente? Lo vorrà? È più probabile che non siano Segni e\o Martelli i beneficiari politici del golpe: i riferenti dei golpisti sono Bossi e Fini, i patroni politici della corporazione giudiziaria”.

Il mondo com'è (114)

astolfo

Destra-Sinistra - Il fascismo non fu di destra, torna periodicamente con Evola il tormentone: “Non siamo fascisti né antifascisti, l’antifascismo è nulla, il fascismo troppo poco”. I balilla, le adunate, le masse? Roba da Homo Sovieticus. Céline era del parere, perfido. E Pound ammirato: Mussolini e Stalin uniti nella lotta. O Lawrence d’Arabia. La destra è indocile. Anche Schopenhauer mai fu succube, non alla filosofia dominante, nella quale ambiva entrare. La barbarie è l’uguaglianza. Il popolo, che l’uguaglianza subisce, si difende con la furbizia.

Filioque – Una “e” divide la chiesa romana da quella bizantina. La controversia è nota, vecchia di oltre un millennio, insanabile a molti tentativi di conciliazione illustri, compresi i concili di Ferrara e Firenze. Se cioè lo Spirito Santo discenda la Padre e dal Figlio, come recita il “Credo” latino, oppure no. La controversia sulla e era stata preceduta da quella sul da tra Tertulliano e Marcione. Tertulliano aspro rimproverava a Marcione, e la contesa fu lunga: “Voi dite che Cristo è nato a mezzo di e non da una Vergine, e ancora, “in una matrice e non da una matrice”. La teologia è intollerante, anche se non sa di che cosa.

Islam – Nella battaglia sempre perdente dell’immagine e della modernità (diritti dei deboli, democrazia), l’islam punta ultimamente a distruggere uno dei suoi pilastri, fino al tardo Novecento ancora incontestato: la cultura. La storia. In Afghanistan, nel Corno d’Africa, in Algeria, nel Mali.
Il colonialismo non avrebbe saputo fare di più. È curiosamente l’argomento di Jean Michel Djian, professore di scienza politica a Parigi, che ha voluto produrre in controtendenza “La manuscrits de Tombouctou”, una testimonianza della “fantastica biblioteca” Hamma-Haidara della città maliana. Un capitale, afferma, che fu tenuto a lungo nascosto dagli interessi convergenti dei griots, i cantastorie guardiani della storia orale, molto forti socialmente nel Mali, e delle amministrazioni coloniali.
Djian aveva avviato il suo progetto all’indomani della famosa gaffe di Sarkozy a Dakar nel luglio del 2007: “L’uomo africano non è entrato a sufficienza nella storia”. E lo ha affrettato dopo l’occupazione il 2 aprile della “città dei 333 santi” da parte di uno dei tanti gruppi Ansar, difensori, della fede, dell’islam, della tradizione. Che subito dopo, il 30 giugno, distrussero, nel nome della fede e della tradizione, una quindicina di mausolei secolari di santi.

Italia – È vittima dell’Ottocento. Anche se illustrò il secolo con l’unica vera rivoluzione nazionale, sentita, combattuta, e riuscita. Suscitò il pregiudizio in una con l’affermarsi del nazionalismo nella storia europea, con l’ideologia dei primati. Che anche l’Italia adottò, ma senza convinzione. Mentre altrove essa è passata sopra a ogni velatura o dubbio. Già nel 1822 Beethoven sordo spiegava a Rossini che l’opera non fa per gli italiani – dopo averci tentato inutilmente, con tre ouverture per un’opera di cui fu incapace, “Leonora”, e un “Fidelio” che si rappresenta giusto perché è simpatico.
È vittima, nell’Ottocento, della Restaurazione. Che la tagliò fuori dall’Europa, con l’eccezione del Piemonte - anzi dei cavourriani o liberali, non la maggioranza, del Piemonte. Anche nel resto d’Europa c’era la Restaurazione, ma il seme della Rivoluzione non marciva. Si prosciugavano le paludi, s’irrigavano le colture, si scolarizzavano le masse, si costruivano strade e ferrovie, si creavano industrie, mentre in Italia bisognerà aspettare da cinquanta a cento anni. All’unità erano analfabeti due italiani su tre – all’estremo opposto, in Prussia e in Svezia, uno su cinque. Anche l’unità si fece nell’ignoranza, dei dialetti, delle culture e perfino della geologia, lo diceva Cattaneo. L’agro romano sarà risanato soltanto negli anni 1920-1930.

Si può anche dire l’Italia vittima di se stessa. Il pregiudizio si coagulò con la Restaurazione non per speciale malanimo d’oltralpe ma per un evidente lag, normativo, produttivo, culturale, che si creava nella penisola. Per effetto della politica retriva dei principi, ma anche per una singolare debolezza del suo ceto intellettuale. Acuta negli studi storici. E ancora di più nella storia ormai lunga della Repubblica. Le uniche storie della Repubblica sono di storici del Pci. Si contano gli studi, nei settant’anni della Repubblica, non contemporaneisti.
Ci sono più studi all’estero, specie nel mondo anglosassone, negli anni della Repubblica, su Machiavelli, Mazzini, lo stesso Garibaldi, il Risorgimento, la nascita del “Mezzogiorno”, che in Italia. Mazzini, per esempio, è scomparso totalmente. Di cui molto si è parlato a Harvard un anno fa, in una tre giorni di studi su Margaret Fuller, che fu a Roma corrispondente della “New York Herald Tribune”, e di Emerson, negli anni della Repubblica romana. Mazzini che in America si considera l’ispiratore del nazionalismo liberale. Così celebrato dal presidente iperdemocratico Wilson a Genova nel 1919: “Sull’altro lato dell’oceano abbiamo studiato la vita di Mazzini quasi con lo stesso orgoglio come se partecipassimo alla gloria della sua storia, e sono felicissimo di riconoscere che il suo spirito ci è stato trasmesso, a noi di una più tarda generazione, da entrambi i lati dell’oceano”.  

Mercato – Fallisce, sta fallendo da ormai sei anni, sui due suoi presupposti: l’equilibrio tra domanda e offerta, il ruolo equilibratore dei prezzi. Non c’è equilibrio, non c’è infatti riequilibrio da sei anni nei mercati finanziari, malgrado i tanti tentativi e l’impegno della politica più forte, per esempio negli Usa. Essi sono oligopolistici, dominati da minoranze, si può dire per natura, e fatalmente confluiscono in gruppi di potere. Né c’è incontro tra domanda e offerta di lavoro in base ai prezzi. La caduta dei salari nelle economie sviluppate, perfino dei salari nominali oltre che di quelli reali, non porta a più occupazione. Influisce infatti negativamente sulla congiuntura, e quindi sull’occupazione stessa, riducendo la domanda.

Nobel – Si può dire il premio al disordine economico, se non alla speculazione. Premia da troppi anni ormai economisti motivazionali – psicobiologi, sociologi, filosofi - e matematici legati all’industria finanziaria. Consulenti di modelli motivazionali o matematici che inevitabilmente conducono al fallimento, aziendale o di interi sistemi economici come è il caso dal 2007. A spese del mercato, cioè del risparmiatore. Scienziati che migliorano (affinano, arricchiscono) il gioco per il banco, a carico sempre e comunque del singolo giocatore. Solo un po’ meglio - più sofisticati - del vecchio truffatore che paga lauti interessi per poi scomparire col capitale. Non un modello econometrico, o un algoritmo, è stato approntato, forse nemmeno studiato, a protezione dei giocatori. Perdenti quindi a maggior ragione grazie ai Nobel.
Si può anche arguire che la scienza non è lineare, perlomeno non la scienza economica. Ammesso che l’economia sia una scienza, cosa, sotto i colpi dei Nobel, sempre più contestata.

astolfo@antiit.eu

Il sacro (il male) è impersonale

“L’essere umano non sfugge al collettivo se non elevandosi al di sopra del personale e penetrando nell’impersonale”. L’impersonale  è il perno attorno a cui Simone Weil potrebbe avere ordito un pensiero sistematico nell’esilio a Londra prima della morte, di cui questo è uno degli appunti. Con taglio deciso: aforistico, apodittico. Con ricaschi sorprendenti e convincenti sul male – la malvagità e la sofferenza. Era una dottrina sociale cui Simone Weil ambiva, che rilevasse la staffetta dal marxismo, dalla sua insufficienza. Per aver rimosso “la contraddizione tra il bene e la necessità, o quella equivalente tra la giustizia e la paura”, essenziale - con Platone - alla condizione umana.
L’impersonale qui Simone Weil elabora in antitesi al personalismo, la filosofia “cristiana” di E. Mounier alternativa negli anni 1930 al liberalismo e al comunismo: è l’essere sociale, impersonale, che ha accesso al sacro, cioè al bene, alla verità. “Il bene è l’unica fonte del sacro. Solo il bene e ciò che è relativo al bene è sacro” e “Tutto ciò che nell’uomo è impersonale è sacro, e nient’altro lo è”. Il dolore lo è, l’ingiustizia, e la sorpresa che essa genera. “Ciò che è sacro nella scienza è la verità. Ciò che è sacro nell’arte è la bellezza. La verità e la bellezza sono impersonali”. In altro modo: “Se un bambino si sbaglia nell’eseguire un’addizione, l’errore porta l’impronta della sua persona.  Se procede in maniera perfettamente corretta, la sua persona è assente dall’intera operazione. La perfezione impersonale”
Impersonale non è collettivo, “neppure nelle sue forme inferiori” (“un gruppo di esseri umani non è in grado di fare neanche un addizione”). Anzi, “l’errore che attribuisce alla collettività un carattere sacro è idolatria; in ogni epoca e in ogni paese è il crimine più diffuso”. Errore peggiore di questa idolatria è eliminate il senso del sacro. Con  un esempio sui due errori ancora più sorprendente, per una combattente da sempre, dal 1933 e ancora prima, del nazionalismo tedesco e del nazismo: “Dal punto di vista spirituale la lotta tra la Germania del 1940 e la Francia del 1940 era principalmente una lotta non tra barbarie e civiltà , non tra il male e il bene, bensì tra il primo errore e il secondo. La vittoria del primo non è sorprendente; il primo è di per sé più forte” – nel 1942.
Simone Weil, La persona e il sacro, Adelphi, pp. 78 € 7

mercoledì 17 ottobre 2012

Quanta follia nella letteratura

È il tema della stagione letteraria a Parigi: il sito del mensile registra alcune diecine di romanzi in uscita. Non c’è da meravigliarsi: il proprio del pazzo è di credersi saggio, o la follia è tra noi. Non da ora. Né che si sappia da ora. È il fondamento della ricerca di Foucault storico della follia nell’età classica: la psichiatria scientista dell’Ottocento, tentando il discorso razionale sulla follia, aveva cancellato il discorso della follia, di “tutte quelle parole senza linguaggio”. Che si sono ricomposte, con Artaud, Robert Walser, Campana, Merini, Genet a suo modo, Wolfson – come già si erano ricomposte con altri grandi pazzi episodici, Nerval, a suo modo Hōlderlin.
“La follia dell’uomo di lettere è anzitutto una follia della lettera e del libro”: è il tema del saggio di William Marx sul rischio per i lettori di professione, i bibliotecari e gli archivisti, i servitori della parola. Che rimane il vero tema della follia in letteratura, ancora da sviscerare. C’è da spiegarsi come lo schizofrenico, di cui è nota la facilità al disegno, trovi in alcuni casi – Merini, Campana, “Incom” (Saro Napoli) - la facilità della parola giusta. Qui si fanno i casi di Saussure, il linguista che “sentiva le voci”, del bibliotecario della “Rivolta degli angeli”, il romanzo di un secolo fa di Anatole France (recentemente tradotto, con prefazione di Saviano), di Rimbaud, o dell’“allucinazione deliberata”, di Wolfson, del presidente Schreber. Dei casi, non un’anamnesi, né una spiegazione.
Il dossier raggruppa anche alcuni personaggi: don Chisciotte, l’Idiota, pazzo in Cristo, Ercole, Aiace. Alcuni autori che ne fanno un tema: Genet, Volodine - ma la lista sarebbe lunga: Hoffmann, Nodier, De Quincey, Gogol, “Il diario di un pazzo”, Flaubert, Céline, Dostoevskij, Henry James, Herman Hesse…. E la follia come tema nella tragedia greca, l’illuminismo, il romanticismo, il  surrealismo.
Ce que la littérature sait de la folie, “Le Magazine Littéraire”, ottobre, pp. 98 € 6

La legge è degli sbirri


La tristezza dello Stato-mafia è vedere la mafia nella giustizia, la giustizia non altrimenti che mafiosa. Una indagine in cui non ci potrà essere verità, perché nata e svolta su proponimenti e modi mafiosi: insidiosa, perturbatrice, illegale.
Dunque tre Procure indagano sulla stessa ipotesi di reato, con tre diverse valutazioni degli stessi “testimoni” (tutti volontari) e tre diverse conclusioni: Firenze per il no, Palermo per il sì, Caltanissetta per il ni. Tre Procure dirette rispettivamente da un giudice finiano, da uno democratico, e da uno di centro. È un fatto. Anche non sorprendente: era iscritto nell’antimafia del ventennio, dopo la conquista del potere degli ex missini e degli ex comunisti a opera dei giudici, e la “privatizzazione” della giustizia.
La fine della Procura antimafia, che dopo vent’anni, vivo Falcone, ci avrebbe liberato della mafia invece di infettarcene, è anch’essa incontestabile, nei fatti. Protervamente trasformata in duecento o più Procure distrettuali antimafia, costose, dannose, dove si registrano, quando si fa, le carte per gli atti. Il tempo occupando su crimini dilettevoli e non rischiosi, il calcio, le escort, i pranzi dei deputati e delle loro amanti, le raccomandazioni, compreso l’inafferrabile voto di scambio, e quando serve, contro i nemici personali e politici, un “concorso esterno in associazione mafiosa”, oggi allargato dalla Cancellieri in “contiguità”. Scansando con attenzione le cosche. Con duecento altri posti di Procuratore capo, in aggiunta a quelli che già dobbiamo pagare, una carica che si vuole autorevole e per questo molto pagata, anche se non governa nulla e tutto il giorno non fa niente. Invece che una Fbi italiana, camera di compensazione delle informazioni e struttura agile d’intervento, un gabinetto di intrighi, duecento gabinetti. Quante sghignazzate e quanti “complotti” nelle Procura antimafia, mentre per le strade, a Napoli, in Sicilia, in Calabria, si spara, si incendia, si incassa il pizzo.
La corruzione della giustizia, di tutto l’apparato repressivo, è inimmaginabile tanto è diffusa, “costitutiva”. Volendo razionalizzare, è una cultura della “trappola”, da vecchi sbirri invece che da moderni agenti della legge. Che via un compiacente giornalismo, ha infettato l’opinione. È ora un morbo pervasivo, ed è tutta la storia della Seconda Repubblica. Travasato perfino nella letteratura, oltre che nei giornali. Nella propensione al giallo, la sola lettura degli italiani di questo ventennio: la voglia di”far fuori”, la legge dello sbirro. Ma come derivata della giustizia: sono i giudici che si vogliono e ci vogliono sbirri.
Uno pensa di parlare con un medico, un avvocato, uno stimato professionista, magari in politica, a piede libero e senza carichi pendenti, e zàcchete, se serve e quando serve, ecco una fotografia compromettente dei carabinieri. I mafiosi invece agiscono liberamente, verranno presi a fine carriera, dopo venti o trent’anni. Quando i conti sono irrintracciabili, quelli veri, ed è arrivata l’ora di passare la mano: non c’è fretta. 

martedì 16 ottobre 2012

L’amore è scomparso con la libertà

L’amore è “una delle indigenze dei nostri giorni”. Nei quali “non trova posto , accoglienza, nella mente, nonostante sia nell’anima del soggetto”. In questa specie di libertà che tutto annulla, il pieno e il vuoto: viviamo “il lato negativo della libertà”, e “la vita nella negazione è quella che si vive nell’assenza dell’amore”, scambiando le passioni per complessi. Un testo del 1982, quindi anteriore alla liberazione che ci attanaglia, e allora profetico. Certo, Zambrano non poteva prevedere che il Nobel andasse nel 2012 a uno “scienziato” che cinquant’anni prima aveva formulato l’algoritmo del matrimonio riuscito, ma ci vedeva chiaro, sapeva in che mondo di false realtà viveva - aveva questo dono, fin da quando profetizzò giovanissima nella guerra l’“agonia dell’Europa” cui ora assistiamo, non la guerra di Hitler, quella dell’atonia. Qui con la punta acuminata, di cui nessun segno si trascurerebbe. Come e perché si arriva alla negazione del divino. E conseguentemente  dell’amore. Per la razionalità a basso voltaggio che è tutta la nostra antropologia, “il credere che tutta la realtà, vita umana compresa, sia composta di fatti sottomessi a cause che chiamiamo ragioni, ritornando così al senso iniziale della «ratio» latina: dar conto”. Una ragioneria che “include dentro sé i fatti dell’amore,…svuotato nella sua essenza che tutto trascende”. Perché “l’amore trascende sempre, è l’agente di ogni trascendenza”. E “se non ci fosse inganno, non ci sarebbe trascendenza”.
È Platone, e di più. Un saggio breve, questi “Due frammenti sull’amore” (cui è aggiunta “Per una storia della pietà”, saggio del 1949), che si vorrebbe trascrivere a mo’ di critica parola per parola, non recando una parola di troppo, o una che non si debba condividere.
Maria Zambrano, Frammenti sull’amore, Mimesis, pp. 42 € 3,90

Ombre - 151

Sembra che i giornali, compresi i quirinalisti, non capiscano la gravità di quanto succede a Palermo attorno e contro Napolitano – oggi Bianconi si chiede sul “Corriere della sera” se la critica veemente di Napolitano si riferisce alla Procura di Palermo, oppure no… Questo non è possibile, lo capiscono anche le nonne sorde, e allora?

Che tre Procure indaghino sullo stesso delitto, che non  si trovino d’accordo sui testimoni, e che adottino tre soluzioni diverse, Firenze dice che il delitto non c’è, Palermo che c’è, e Caltanissetta nicchia, darebbe un’ottima commedia, alla Fo. Ma questa è un’altra Italia, Fo compreso.

Dunque Firenze, finiana, è contro il complotto Stato-Mafia. A Palermo Messineo, democrat, con i democrat ribelli Ingroia e Di Matteo, sono per il complotto. Caltanissetta, Pdl-Udc, dice di no e dice di sì. Sono una parte della Procura antimafia per la quale Falcone, che l’ha voluta, e Borsellino, che l’ha applicata, sono morti. Sono un ludibrio alla memoria che le fiaccolate, i labari, le lapidi e le sorelle non saprebbero cancellare.

Altre Procure antimafia si occupano di modelle, altre di escort, quella di Napoli si occupa da alcuni anni della Juventus. Il crimine è indivisibile, è proprio vero..

A quattro giorni dalla gara chiave Juventus-Napoli, quattro o cinque calciatori della Juventus correranno per novanta minuti. Il Napoli ci mette il portiere. Con scandalo di Napoli, del “Corriere dello Sport” e della “Gazzetta dello Sport”, secondo i quali la Juventus ci dovrebbe mettere pure il portiere. Giornalismo? Sportivo?

La resistenza siriana si gloria in rete col video di una lunga fila di soldati legati ad Aleppo che vengono uccisi da un barbuto. Mentre il ministro Terzi dice che dobbiamo liberare la Siria. Non dal barbuto. 

Al quinto giorno della ‘ndrangheta al comando della Lombardia, la Procura non ha più argomenti, e dà a Ferrarella le telefonate di calabresi che non c’entrano. Perché conoscono Formigoni o sono in politica? No, perché sono calabresi.

Ci vogliono tre anni per sbobinare le intercettazioni della ‘ndrangheta a Milano?, si chiedeva questo sito venerdì. Lunedì la risposta viene tramite Ferrarella. Da leggere (in fondo, dopo quattro colonne di futilità):

Si sa che le “manovre” – tagli e tasse – richiedono altre “manovre”, poiché deprimono l’attività economica e quindi le entrate. Il tipico circolo vizioso. Ma non si dice: c’è chi ci guadagna?
Ps. Lo hanno detto infine Alesina e Giavazzi sul “Corriere della sera” lunedì. Ma su questo il duo eccezionalmente non fa opinione.

Il “Corriere della sera” denuncia venerdì 5, in prima pagina, l’assessore calabrese Sarra che cumula anche la pensione d’invalidità. Sarra nega lo stesso giorno. Ma la sua smentita viene pubblicata, tra le lettere, giovedì 12. Il giorno in cui la Lombardia si vuole conquistata, paese per paese, dalla mafia calabrese. Con più spazio per la replica, peraltro, che per la smentita.

81 milioni, di euro, il costo di 14 braccialetti per detenuti, sono un record di corruzione. Ma le Procure tacciono, anche la Corte dei Conti. La ditta fornitrice è inattaccabile? O lo è l’Interno? 81 milioni sono più di tutti i fondi che i consiglieri regionali si sono attribuiti, nelle venti Regioni.

Fisco, abusi, appalti – 15


La Svizzera ha accordi con Gran Bretagna e Germania per tassare i depositi dei cittadini dei due paesi. Con aliquote importanti, dal 21 al 41 per cento in base alla durata dei depositi. Non li ha con Francia e Italia, che hanno capitali in fuga in Svizzera della stessa entità, se non superiori. La Francia per una questione di “sovranità” – tassa i patrimoni altrimenti. L’Italia per protesta: “Con la Svizzera, patria degli evasori, non parliamo”. Sembra una furbata, e lo è.

Telecom Italia tenta da una diecina di mesi, dopo un decennio di trascuratezza, di riconquistare clienti nel fisso. Distribuendo l’elenco abbonati, lo stesso, a infiniti call center. Che stolidamente chiamano – la chiamata va in automatico - una e due volte al giorno. Per offrire un pacchetto che non è concorrenziale. Telecom punta sulla dabbenaggine dell’utente?

Si digiti “Fiat 500 L La nostra prova su strada” su “Quattroruote” e si avrà una pagina di pubblicità della Mercedes usato. A protezione degli utenti? La pubblicità è invogliante, è vero.

La Motorizzazione Civile ha le targhe in circolazione. Con un software non costoso potrebbe appaiarle ai bolli e alle assicurazioni e colpire subito i trasgressori. A volte il crimine è facile da combattere.

Il rilevamento automatico dei bolli e delle assicurazioni ci eviterebbe la perdita di tempo dei controlli a raffica sulle strade. E il costo dei milioni di giornate lavoro delle pattuglie che si deliziano in questi controlli – “meglio che lavorare”.

L’affiancamento ai registri della Motorizzazione – altro software non caro – delle dichiarazioni dei redditi dei titolari sarebbe un metodo di accertamento dei redditi rapido ed efficace. Invece dei sorteggi, gli studi di settore eccetera. Tutti pagherebbero il dovuto e non ci sarebbe bisogno di una pletora di impiegati specialisti dell’“imperfezione formale” al 740.
Ma questo è troppo semplice. 

lunedì 15 ottobre 2012

È recessione con inflazione

La recessione con l’inflazione. È difficile, e quando la miscela è avvenuta è stata catastrofica, ma è la situazione italiana.
Sulla recessione, dura e duratura, non ci sono dubbi. Monti ha tentato d’indorarla, ma non ha avuto seguito. Non si parla invece dell’inflazione, che c’è. E non da ora. L’indice Istat la calcola al 3,2 per cento mentre si sa che è sicuramente il doppio e forse il triplo. L’indice si raffredda grazie ai beni durevoli e all’elettronica, i cui prezzi sono sotto pressione per effetto del crollo della domanda e dell’innovazione. Ma la spesa corrente, guardando agli indici Istat settoriali, per i trasporti e i prodotti energetici, gli alimentari e l’abbigliamento, ha incrementi di due e tre volte l’indice medio.
È una situazione di fatto, che ognuno percepisce. Ma – un codicillo si impone – nella disattenzione e quasi nel rifiuto. Monti addirittura sembra perseguirla di programma. Col  plauso, perfino, dei giornali. E nel silenzio degli economisti, che pure ben sanno quanto essa sia negativa e pericolosa – con l’eccezione dell’ufficio studi della Confindustria, una sola.

Veltroni redivivo

Dunque, Veltroni lascia la politica da Fazio. L’aveva già lasciata nel 2006 in Africa da Mandela. E nel 2009 dopo le batoste elettorali. Dunque, usa lasciare per rilanciarsi. Ora in cambio di una modesta rinuncia a un posto di onorevole – tanto più per averne maturato la pensione. L’attesa è, in questa riserva della Repubblica, per una chiamata a ministro, presidente Rai, ambasciatore Onu, presidente di Cinecittà, ogni cosa.
Paolo Conti sul “Corriere della sera” lo fa “da sempre legato alla figura di Pasolini”. Per il famoso buonismo, che invece non c’è - il “legame” invece può spiegare curiosamente Pasolini, il suo bisogno di sconcezze. Veltroni è, dell’ex Pci, quello che lascia un imprinting indelebile sulla Rai, non il meglio della Repubblica. Essendovisi distinto, nel 1996 e successivi, nella caccia al socialista. Al riparo della presidenza cache-sex di Enzo Siciliano. Non senza coerenza, nel suo famoso giro dei padri fondatori avendo evitato i socialisti in favore dei cattolici, anche anticomunisti. Dopo aver gestito, a partire dal 1988, la sezione Stampa del Pci, per la quale riuniva periodicamente capi-redattori e giornalisti di sicura fede per compilare liste di giornalisti inaffidabili.
Il buonismo non c’entra con Veltroni, è un’immagine da relazioni pubbliche, degli accorti consigliori che nei sette anni da sindaco gli crearono ogni giorno un’occasione per occupare gratis i giornali. La dote all’orfanella, McCartney al Colosseo, i Nobel al Campidoglio. E questa fu la sua sola azione di governo – a carico delle finanze comunali?

Non c’è ricchezza senza debito

L’ideologia tedesca è da qualche tempo quella del debito – era dell’inflazione, ora del debito. La paura del debito. I vincoli al debito.  A quello degli altri.
Il problema vero, fuori dell’orrida opinione pubblica tedesca, è la sostenibilità del debito, la capacità di ripagarlo. Che si semplifica nel rapporto debito\pil (prodotto interno lordo). La Germania, per esempio, ha una buona sostenibilità grazie all’economia solida. Anche se sarebbe a livello greco per l’ammontare del debito, e soprattutto dei trucchi per occultarlo. Tra essi, per esempio, i disavanzi e le perdite colossali delle banche regionali, le finanziarie della sottopolitica. Anche il Giappone ha un debito sostenibile, pur essendo il suo rapporto debito\pil vicino al 200 per cento. O gli Usa, con un rapporto analogo a quello italiano e in forte peggioramento. 
Solo l’Africa non ha debito. Non è un buon caso. L’“Economist” ha adottato un orologio del debito mondiale, sull’esempio di quello che a Times Square a New York segna implacabile la crescita istante per istante del debito Usa. E lo ha assortito di un atlante mondiale del debito: il planisfero adagiato sulla pagina è verde nella parte meridionale, eccetto le rosse Australia e Nuova Zelanda, e un po’ d’America tranquillo, e rosso in quella settentrionale, Cina compresa. 

È politico negli Usa l’intreccio politica-affari

Wall Street vince coi presidenti democratici, perde con quelli repubblicani. Barclays ha colorato politicamente l’indice azionario Usa dal 1929, e ha scoperto che il mercato si è apprezzato del 470 per cento sotto le presidenze democratiche (del 305 per cento in termini reali, scontati dell’inflazione), mentre ha perduto quasi il 110 per cento con la presidenze repubblicane. Comprese quelle mirate agli affari, come le due di Reagan e le due di Bush jr.
È un voto politico, quello presidenziale americano che si è già cominciato a svolgere. Anche se una bizzarra legge sul finanziamento delle campagne elettorali la direbbe soggetta al potere dei soldi e quindi agli affari. Non c’è in realtà un condizionamento degli affari sulla politica – un do ut des. C’è un orientamento. Si può dire – si potrebbe se non fosse reazionario – che anche gli affari in America sanno essere politici.
Ci sono pure in America i banchieri mandati al governo per aiutare le banche. Si sono visti nel 2007-2008 con Bush jr. e subito dopo con Obama. Ma devono farlo nel quadro di soluzioni politiche e non di favore, con beneficio cioè di tutta l’economia.

L’infinita sottigliezza degli affetti

“Il segreto della sopravvivenza è un’immaginazione difettosa. L’incapacità dei mortali a immaginare le cose come veramente sono è ciò che consente loro di vivere, giacché ogni momentaneo, inatteso balenio della sofferenza totalitaria nel mondo li annichilirebbe all’istante, come un soffio del più letale gas mefitico”. Gli dei hanno “stomaci più forti”: vedono tutto nella sua terribilità e non si spaventano. È il tema, ma è un’ipotesi e non un proposito: il racconto è del groviglio d’inaffettività dietro i legami forti, familiari e non, in forme lievi e sempre garbate, perfino sorridenti. Con una capacità affascinante di rendere palpabile l’impalpabile – involontario, incolpevole, ignoto.
Una scrittura ricercata, nella sintassi e nel vocabolario, che la traduzione di Irene Abigail Piccinini ha il dono di rendere meno irta, per un racconto ricercato.  E per il largo ricorso al mondo repentinamente scomparso della mitologia greca. Con un titolo originale indeterminato, “Infinities”, ma di un evento già deciso e scontato, un vecchio padre in coma, illustre e un po’ antipatico ma nulla più, fatto fibrillare per trecento pagine di non eventi. Azionati, e non, dal dio che li racconta: il narratore è un dio, Ermes, lo Psicopompo, il trickster, che può quindi infilarsi nei pensieri e i desideri, ma li manifesta e non li sovverte. E rende gradevole perfino la filosofia. Sull’amore, sulla morte, sui sentimenti in genere. L’amore, per esempio,  “è una di quel paio di cose che gli dei non possono sperimentale, l’altra essendo, ovviamente, la morte”, dice il dio narratore. L’amore, l’amore mortale, è un’invenzione degli uomini che gli dei invidiano perché avvicina alla morte. Per gli uomini sarebbe invece un’opera allo specchio, a due specchi, ognuno volendo vedersi idealizzato negli occhi dell’altro.
Questo non è vero, nell’un caso e nell’altro, ma Ermes si fa volere bene lo stesso. Come non è vero dell’empireo greco: l’amore nasce in Grecia, dopo una preistoria di divinità demoniache, in virtù di quell’Olimpo che, senza smettere di perseguitare l’umanità, le permette di cercarsi. E specialmente nell’amore, il segno della trascendenza – in Platone e non solo. Ermes questo lo sa, e quindi fa confusione. Con un curioso lapsus (che la traduttrice evita evitandone la traduzione) a p. 86, di un Liebestod che si trasforma in Gōtterdämmerung, e nell’errato ragionamento dell’Ermes Tuttofare dovrebbe essere invece una Todesliebe, l’amore della morte. Ma è anche vero che il Liebestod, la morte dell’amore, è sicuramente l’innesco del tramonto del divino, ottima filosofia…
Quando la narrazione va tutto va, si può aggiornare il detto. Magris, entusiasta lettore di “Infiniti”, si commuove molto a “una pagina memorabile”, che si chiede dove finisce il fiume e comincia il mare (“un’ossessione che mi è familiare”): Ma la attribuisce a Ermes, mentre è di Adam, uno dei due Adam del libro - come si confa a un fatto-cosa e non a una fantasia, sia pure divina. Nell’occasione Magris dice Ermes “una trovata non necessaria nell’atmosfera del libro”, mentre è vero che, senza, la lettura sarebbe una faticate, a due dimensioni. 
John Banville, Teoria degli infiniti, Guanda, PP 318 € 18

Letture - 114

letterautore


Età – I poeti si vogliono vecchi, saggi?, i romanzieri giovani, avventurosi? Montale  Ungaretti, Quasimodo, Saba, Luzi, per non dire i più vecchi del Novecento, Pascoli, D’Annunzio, o i più giovani, Zanzotto, Bertolucci, Pasolini, Merini, Raboni, sono stati giovani, giovani poeti, ma celebrati solo da vecchi. Il romanziere invece dev’essere giovane – la romanziera di più, giovanissima.

Evola - Non pentirsi, sostenne quest’altro fascista non fascista che è stato Evola, che la rivoluzione voleva contro il mondo. Che non è sbagliato, anzi è giusto, lo dice pure Spinoza al libro Terzo dell’Etica: si soffre inutilmente, e non si fa un favore agli altri. Si pentono gli amanti, e spergiurano e piangono, e i vecchi comunisti, per bere le proprie lacrime, un esercizio di consolazione, non di lealtà o verità.

Si trascura da tempo questo rivoltato - dopo un tentativo della sinistra quaranta o cinquant’anni fa, di annetterselo, non c’era materia. Che si ribattezzò Julius. Ingegnere mancato, pittore, socialista, teorico del sangue, alpinista di sesto grado superiore, “anarchico-indianista (mistico)” nei rapporti di polizia. Un dadà e un patriota, ma avverso a futurismo, reducismo, irredentismo, fascismo, filosofo non banale e maestro a molti, benché cattivissimo, specie con gli ebrei, i falsi Protocolli di Sion” autenticando veritieri, sulla schiena rotta sulla quale infine riposa. Si può capirlo, si avventurò a tradurre Spengler, bel coraggio, dopo cinquant’anni, e forte tempra: ci vuole stomaco per quelle 1.500 pagine, un traduttore ci andrà come per zattera sull’oceano. Martire quindi o Marcuse della destra, lettura di mezza Europa negli anni del consenso. Benché attento a limitare i danni: antimussoliniano dopo essere stato col duce a Salò, antihitleriano quando il Reich fallì. L’intellettuale impegnato sempre si disimpegna.
Barone come Giacinto Scelsi, siciliano e di Buddha, ma sulfureo: Barone Nero. Teorico delle culture irriducibili, e della negrizzazione degli Usa, l’apartheid pretendendo pure nelle praterie, se non la deportazione degli ex schiavi. L’accettazione dei “valori di libertà della Resistenza” da parte dei neo fascisti, e la critica delle leggi di Mussolini contro gli ebrei disse “non simpatico cedimento”. Razzista radicale, non per quarti o decimi di sangue, benché antimaterialista, a tre livelli, nel corpo, l’anima e lo spirito, e quindi antisemita. Ma senza esserlo stato quand’era gradito. Col vizio dunque dell’anticonformismo. E dello spreco: quanta dottrina asservita ai falliti, a difesa della tradizione, con le mitiche costruzioni dei miti, degli “aria” iperborei, anzi polari, e indoeuropei, e la rincorsa agli imprendibili “anari”, i miti sfuggono da tutte le parti, per darsi infine la “calma superiorità dell’anima aria”. La razza esiste, è un riflesso condizionato che si può perdere ma non lo perdono gli altri: c’è sempre un noi e gli altri. Quale razza e quale sangue però non si può dire, è difficile essere bianchi nella stessa Europa, Evola lo provò di persona in Germania e Scandinavia. Monumento sarà dell’intelligenza stupida, o viceversa. Senza contare che gli “aria” dell’India originari sono neri, perlomeno scuri.
Imperialista si voleva “integrale”. Con un limite, dice Yourcenar: “Il barone Julius Evola, che nulla ignorava della grande tradizione tantrica tibetana, non s’è mai dotato dell’arma segreta dei lama, il pugnale-per-uccidere-l’Io”. Nefasto come ogni miracolato, quale egli si ritenne per essere sfuggito al bombardamento di Vienna che lo lasciò paralitico  il barone ha insegnato l’Oriente alla Yourcenar, che dev’essere stata una bella ragazza, a Roma la concupivano in tanti.  Era per Massimo Scaligero, che pure gli fu amico, “il cattivo maestro di corso Vittorio”, alla Chiesa Nuova. Dove rieducava i ragazzi difficili tra imprendibili Graal, ghibellino in terra santa, riconciliando le sparse origini cristiane - giudaiche, iraniche, elleniche - coi fratoni celtici, e i cavalieri medievali con celata e corazza che vedevano la Madonna. E dove, se guardava fuori dalla finestra, sarà soffocato dalla collera, al sesso finito laico in spasmo breve. Massimo Scaligero non perdonava a Evola di predicare l’odio, per legarsi i ragazzi: “il parapoeta” lo chiamava, bel nome, dovrebbe essere in Tucidide, il contraffattore – anche Massimo ha pagato il suo tributo al razzismo, La razza di Roma, a proprie spese presso un tipografo di Tivoli, nell’anno bruttissimo 1939, ma sapeva dell’errore, benché blando.

Infanzia – È una vita complessa multiforme, agilissima, rapidissima. Al confronto i ricordi-ritratti d’infanzia che proliferano dopo Proust sanno di oleografico, molto inferiori al modello. Che non è remoto, ognuno può fare la differenza. È la letteratura che ha messi limitati? È l’età adulta, che procede per cliché?

Italiano – L’ultimo disco di Cecilia Bartoli, un impegnativo lavoro di ricerca e riproposizione di un compositore  italiano dimenticato, Agostino Steffani, è guarnito di un ricco libretto illustrato. In inglese, tedesco e francese. L’italiano non c’è.

Matrimonio – È ridiventato tema di narrazione, ma dal punto di vista del single. Che è quello del bambino freudiano, del buco della serratura: il single si meraviglia di cosa possa accadere nella camera da letto degli sposi. Non molto tempo fa la camera da letto degli sposi era al centro della storia familiare emiliana (A.Bertolucci, Avati). Ora è oggetto di sospetto, se non di cattiveria. Di curiosità oscena. È una forma del disprezzo dell’altro – della diffidenza - che affligge il single, per quanto soggetto privilegiato della pubblicistica e della pubblicità?

Moravia – È il narratore per eccellenza del Novecento, benché trascurato. Nelle tematiche delle narrazioni, negli sviluppi, e anche, malgrado tutto, nella lingua, è sua la koiné dell’ancora lungo dopoguerra. È uno dei pochi narratori che si possono rileggere, sui rapporti familiari, sociali, di classe, e anche nelle poche prove d’invenzione.
Dominatore in vita dell’ambiente letterario, e insieme sua vittima.  Per colpa sua, essendosi sempre circondato di gente mediocre (Pasolini non ne ha scritto)? Non ha cultori, non il critico psicopompo, che lo “fa” e lo impone nella repubblica delle lettere. Che pure si riteneva (lui riteneva) dominasse. Quando venne a “Repubblica” a farsi intervistare per i 75 anni e sbagliò giorno, l’intervistatore non c’era, Rosellina Balbi si limitò a dirgli: “Guardi che non è oggi”, e se ne andò in tipografia, lasciandolo confuso, sembrava un bambino incerto – Scalfari, passando, si limitò a riderne.
Era, socievolissimo, un solitario. Diffidente, sospettoso anche, ma soprattutto poco interessato al contatto umano, dell’ambiente e di fuori ambiente. Incontrava gente ogni sera, ma per essere ammirato, dei tanti incontri anche “importanti” non la lasciato note, ritratti, indiscrezioni.

Viaggio – “I poeti viaggiano ma l’avventura del viaggio non li possiede”, dice Michaux in “Passaggi”. Escludendone Cendrars, viaggiator vero, nel senso che si sposta fisicamente. E i tanti che hanno viaggiato alla maniera di Cendrars, per viaggiare: Nerval, lo stesso Michaux, forse Omero. I poeti raminghi, come l’artigiano, del Medio Evo? E Dante? Petrarca? Boccaccio? Anche molti grandi sedentari avrebbero voluto viaggiare, per esempio Baudelaire dell’“Invito al viaggio”. Andrebbe detto al contrario: i poeti non viaggiano (non si adattano, non hanno le risorse, non sono ricettivi) ma l’avventura del viaggio li possiede. Coi tempi loro, questo è il punto, mentre un viaggio vero, con lo spostamento, si impone. Marguerite Yourcenar, grande viaggiatrice nei racconti, non ha memorie felici di viaggi per nave o in aereo.

Michaux, di cui resteranno almeno due dei suoi libri di viaggio, “Un barbaro in Asia” e “Ecuador”, vuole i suoi viaggi pretestuosi: “I miei paesi immaginari: per me delle specie di Stati-tampone, per non soffrire la realtà”. Per esempio in Brasile per non incontrare i brasiliani: i magi (del “Paese della magia”!, n.d.r.) furono iniziati l’indomani del mio arrivo a Rio de Janeiro, separandomi così bene dai brasiliani, coi quali non trovavo il contatto (la loro intelligenza caffeinata, tutta riflessi, mai riflessioni), che potrei quasi dire, malgrado il tempo passato laggiù, che non ne ho mai incontrati”. Dove la parentesi è però tutta un viaggio – contestabile. E la pretesa è dunque falsa di non aver incontrato un brasiliano. Il viaggio si presta alla libera bugia. 

letterautore@antiit.eu

domenica 14 ottobre 2012

La scrittrice che ebbe sempre vent’anni

Katherine Mansfield è due capolavori, i suoi racconti e la sua vita. Neé Beauchamp, in Nuova Zelanda, e vissuta a Londra, di cui mise in subbuglio i salotti sovvertendo il vittorianesimo, percorse gli anni 1910 onnivora di corsa, per morire subito dopo a 34 anni. “Con mezzo polmone”, assicura il vedovo John Middleton Murry - che fu il secondo marito, il primo matrimonio era durato un giorno. Virginia Woolf nei “Diari” ne stigmatizza “l’aria da bambola giapponese”. Ma Katherine era una che per una notte d’amore con Francis Carco durante la guerra (con Carco…) fece un viaggio da Londra a Parigi e poi al fronte, e ritorno.
La giovinezza unisce entrambi i capolavori: Katherine Mansfield è la scrittrice che ebbe sempre vent’anni, inventiva, avventata, sventata. Gli “Appunti” (“Scrapbook”) 1914-1922, con pagine dell’anno 1905 e successivi, pubblicati postumi da Middleton Murry nel 1927, sono una fonte zampillante di cose viste – la “ventenne” aborriva dalle confessioni. Soprattutto vivaci riescono gli abbozzi narrativi. E una domanda impongono: come si conciliano le tante letture spiritualistiche, qui annotate, mediocri, lutulente (Katherine finirà a ripulire i porcili da Gurdjieff), con le nitide narrazioni. Emilio Cecchi, nel saggio che accompagnò la prima traduzione di E. Morante e Feltrinelli non ripropone, fa di Katherine, a una seconda lettura, un caso di “americanismo”, di creatività ingenua – criterio assurdo, riflesso del “cazzone americano”.
Gli “Appunti” sono un libro fortunato, che esce contemporaneamente in tre edizioni, dopo averne esaurite un paio negli anni 1950 e 1970. Le prime due utilizzano la traduzione che Elsa Morante aveva affrontato prima ancora dei racconti, sfollata nel 1943 a Fondi con Moravia. L’edizione Robin ha invece una scelta e una traduzione diversa, a cura di Sonia Ciampoli. L’edizione SE è arricchita da una nota biografica di Franca Cavagnoli, e da una folta sezione di foto d’epoca.
Katherine Mansfield, Quaderno di appunti, Feltrinelli, pp. 220 € 9
Quaderno d’appunti, SE, pp. 204 ill., € 16
Diari, Robin, pp. 259 € 16

Secondi pensieri - 119

zeulig

Amore – Non se ne parla perché non c’è più materia? Impigliati in un découpage diverso, quello americano, che stordisce l’Europa col suo tran-tran tradizionale - tanto più per essere totalitario. Dell’amore legato al sesso, della famiglia avulsa e frammentata, del partneriato invece del matrimonio, della procreazione a sé stante, dall’amore e anche dal sesso, della libertà di scelta come incostanza – salvo riprendere ogni tre anni lo stesso mobilio e lo stesso partner.
Nell’amore come in ogni altra passione consolidata, la politica, la rettitudine, il lavoro ben fatto, è come se l’abbattimento del Muro avesse lasciato l’Europa nuda e disponibile.

Antipolitica – S’intende l’insoddisfazione verso la politica, la disaffezione, e perfino la lotta contro. Ma in questa chiave è una forma della politica. Questo è in Italia evidente nei movimenti più antipolitici, quello di Di Pietro, del comico Grillo, e della giustizia politica – il “partito” dei giudici. È invece, propriamente, un aspetto della più generale concezione della politica come guerra civile, di tutti contro tutti. Che fu delle ideologie escatologiche e permane sotto forma di invidia sociale.

Borghesia – Si distingue per l’autocritica: la borghesia è essenzialmente la critica di se stessa – come ceto sociale, aspirazioni, intenti. Per l’autocritica cioè come maniera d’essere, mai antitetica e spesso connivente.
In astratto si può concepire una critica alternativa, eversiva. Ma così non è nei fenomeni sociali, e per questo ogni rivoluzione antiborghese - comunista oppure fascista - ha fallito. Prima che per il munizionamento borghese, per la sottile insidia che l’autocritica introduce nell’eversione. È una chioccia, inattaccabile.

Deserto – È il luogo delle tre religioni del Dio unico, ebraismo, cristianesimo, islam. Un vuoto da riempire. Di paura.
O allora riempito dal Dio tuttofare. Si penserebbe questo vuoto pieno di annullamento, sacrificio, contemplazione. E invece ha generato ammasso, compiacimento, ricchezza – la ricchezza come segno della grazia divina. Di avidità acquisitiva – competitiva, imperialista.

Invidia – Vizio sempre capitale, seppure trascurato – non filosofico? Sotto forma di gelosia tra gli amanti, è diffuso e crescente nelle forme sociali. Il malessere per la fortuna degli altri. Alimentato da una concezione della politica come guerra civile, di tutti contro tutti.

Si viveva al Sud, e si vive, nel dispetto del mondo. Degli altri come della natura (malattia, alluvioni, terremoti, siccità). Nella negazione, o mascheramento, della propria fortuna, qualora dovesse accadere, nello scongiuro costante su ogni evento o moment o di felicità, che come si sa è incostante e presto finirà. Lo scrittore calabrese Domenico Zappone ne dà una vivida rappresentazione in un racconto etnografico sulla festa della Madonna a Roghudi, un borgo della Calabria grecanica, alla fine degli anni 1950 (ora nella raccolta “Il pane della Sibilla”, a cura di Santino Salerno): “Sì. Bisogna guardarsi da tutto e far le cose di nascosto, non destare nel prossimo gelosie, invidie, rancori, eccetera…. Perché, anche se la gente non lo sa, a volte può nuocere. Nuoce e non lo sa. Spesso anche i parenti nuocciono”. Perché “il diavolo si nasconde a ogni angolo”.
È la paura degli antichi , l’invidia degli dei. Di cui evidentemente nel Sud greco, seppure non più ellenofono, la persistenza è forte: è invidioso (cattivo) il prossimo, di più ancora il mondo. La morte, la malattia, la disgrazia, il disastro naturale, la guerra, il fuoco, l’acqua, la natura sta in agguato: con la natura è una lotta insidiosa e senza tregua.

Pensiero – Traborda e subito finisce – si perde, si chiude. È sempre la minima parte di ciò che è.
Benché abbia imperi sterminati aperti all’occupazione. È limitato per costituzione o per imperizia? È la stessa cosa. Fuori della perfezione c’è imperizia.

Religione – Lo scrittore Domenico Zappone monta ne “Il pane della Sibilla” un forsennato – poco filologico, e lui lo sa – popolamento di eroi e divinità che pellegrini e devoti farebbero dell’Aspromonte, la “Montagna”. È segno di animismo perdurante, ed è confuso, manifestazione di un ritardo (confusione) culturale. Ma è vero anche al contrario: pur essendo filologicamente zero, anzi negativo, il popolamento riflette un perdurante animismo. Anche nei laici professi.
Nella stessa raccolta di Zappone, l’ultima sezione, “Fede, mito e costume”, attesta con alcuni racconti-testimonianze la fede come identificazione (immedesimazione in un altro) e liberazione.  E lo scongiuro come attivo occultamento, dell’uomo in guerra con una sorte sempre maligna.

Secolarizzazione – Paganesimo senza dei. E con l’angoscia.

Vocabolario – È la prova che l’uomo è altro, nel mondo. E in via di sviluppo (scrittura). Il vocabolario del Rigutini-Fanfani è irrimediabilmente invecchiato rispetto al Devoto-Oli. E il Devoto-Oli è invecchiato all’improvviso in questi ultimi vent’anni, di globalizzazione linguistica e informatizzazione.
Ma in che rapporto si pone l’evoluzione del linguaggio con l’evoluzione dell’essere – del mondo? Di poca, se non  nulla incidenza. Niente di questa epoca informatica può essere capito e spiegato con gli strumenti critici consolidati. Si può dire il linguaggio una prova e anzi un balbettio, sommesso e sostituibile, che innova per scostamenti lievi – più di tutto è radicato, nella lallazione.
Il poeta Michaux vi trova “scintille del mondo, di fuori e di dentro”, e “la moltitudine di essere uomo, la vita dalle infinite impressioni e voler essere”. Ma di latenze, “l’infinito borbottio dei possibili”.

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