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sabato 1 maggio 2010

Non resta che l’America

Il dollaro è più padrone che mai dei mercati monetari, non c’è più la sterlina, e l’euro non si sa cosa è. Le tre agenzie di rating americane sono ridicolmente superficiali ma sovrane, privatissime ma sovrane, americanissime ma sovrane. Come le banche, poche residue ma monumentali, mentre le quelle britanniche sono cassate. Come la City: non resta che Wall Street. E gli hedge funds: che non sono monumentali come le banche, non hanno grattacieli né diecine di migliaia di staff, ma sono altrettanto solidamente americani, e attivissimi, determinati, decisivi – sono fondi il cui oggetto sociale è la speculazione, la quale non è come si suol dire una scommessa, i fondi non sono spettatori a una partita o a una corsa, sono attori, essi stessi atleti e purosangue, che non vogliono e non possono perdere.
Esaurito il fuoco di paglia “la crisi è finita”, si comincia ora a discernere: la crisi è finita per la finanza americana. Non per i risparmiatori, per i banchieri, Wall Street è ai livelli di prima della crisi, e anche migliori. O, se non si vede, si comincia a capire, si “sa”, che tutti i discorsi sulla fine della egemonia americana erano falsi – in buona misura artefatti: conviene dirsi a volte perdenti. Dopo la crisi non c’è che l’America. L’Europa, messa all’angolo con la crisi del petrolio quarant’anni fa, in ripersa da un decennio con l’euro e la Supergermania, è di nuovo nell’angolo. Senza nessuna mossa ostile da parte americana, per l’ordine delle cose: gli Stati uniti hanno un processo decisionale molto più rapido e costruttivo che non lo sbrindellato indecisionismo, di tutti contro tutti, europeo. Che corrisponde certo a un sentimento nazionale e politico del tutto diverso, anche se si continua ad amalgamarlo nella categoria dell’Occidente, non per nulla gli Usa non sono stati fascisti, né comunisti – o allora si tratta di due Occidenti diversi, prima ancora che antagonisti.
Gli Stati Uniti continuano a governare il mondo, come ormai da venti anni, con la Cina. Un duumvirato sensa faglie e senza precedenti nella storia, che non potrà durare. La previsione è facile, tutto finisce, ma la comunione di interessi, per quanto eccezionale, è sempre stabile. Ed è stata creata dagli stessi Stati Uniti, con acume, con perseveranza, a partire da Kissinger nel 1973, e poi da Bush senior.

Non più speciale la relazione Londra-Usa

Si può dire che la relazione speciale della gran Bretagna con gli Stati Uniti non c’è più perché non interessa agli Stati Uniti – non più che con qualsiasi altro paese “willing”, di buona volontà. Ma non sarebbe una novità. La novità della campagna elettorale è che la Gran Bretagna non è in grado di mettere più niente nella “relazione speciale”: non il nucleare, che non interessa, non la finanza, nazionalizzata con la crisi, e neppure l’appoggio logistico e militare nell’Arco della crisi asiatico. Questo appoggio, in Afghanistan, in Iraq, in Pakistan, la Gran Bretagna non se lo può più permettere, e gli Stati Uniti comunque non l’apprezzano, né sul campo né sul piano dell’intelligence e dei rapporti politici. Hanno più peso e capacità decisionale, hanno sperimentato in Iraq e in Afghanistan, senza i britannici.
Da tempo, e più ancora con l’amministrazione Obama, è svanito peraltro l’interesse americano ad avere Londra come cavallo di troia nell’Unione europea. Una volta circoscritta l’Ue a potenza regionale, entro i suoi propri confini, l’interesse di Washington è semmai di vederla funzionare. Di poterla avere come partner affidabile in Asia e sui mercati finanziari. Di questo c’è netta la percezione nella campagna elettorale: seppure come deriva, una sorta di marea ineluttabile, c’è solo l’Europa all’orizzonte. Il leader conservatore Cameron ha preso solenne impegno e non portare la sterlina dentro l’euro, ma l’argomento non fa presa, anche perché l’autonomia è solo nominale e contabilistica.

Bossi è molto meno forte del 1996

Di nuovo c’è in realtà solo il patrocinio della Milano che conta, la Curia, le banche, l’editoria, alle Lega di Bossi. In funzione di buona amministratrice, di partito del Nord, e di fronte antipolitico. Un rapporto simbiotico questo sì, veramente nuovo, che ha messo Bossi nella mani della Milano che conta: voleva qualche posto nelle fondazioni bancarie, non glielo hanno dato, e lui non ci è più tornato su. Bossi ha vinto le elezioni regionali, ma non fa più paura, anche perché è molto meno forte in voti.
Riguardando a freddo i risultati, la sorpresa delle elezioni regionali è insomma la sorpresa, benevola, della Milano che conta. Quanto al preteso risultato straordinario in voti, la Lega è tornata, non con la stessa forza, al risultato delle politiche del 1996. Già allora aveva superato l’attuale Pdl, già allora aveva “sfondato” sotto l’Appennino. Dopo avere eletto nel 1993 a sindaco di Milano Marfco Formentini, personalità non per altro conosciuta, preeferito dalla città a Nando Dalla Chiesa, il figlio del generale, con ben il 40 per cento dei suffragi alla lista Lega. Allora la Lega aveva voti e percentuali molto superiori a quelle dell’ultimo scrutinio.
L’analisi dei flussi elettorali dice che la Lega ha incrementato i voti rispetto al 2005 del 3,3 per cento. Che non è poco ma non è un risultato eccezionale. Dice anche un 2 per cento lo ha preso al Pdl. Ma per metà questo deflusso il Pdl lo ha compensato con voti in arrivo dal Pd. La Lega ha tenuto soprattutto perché non c’è stato astensionismo nelle sue file, non nelle ultime elezioni - mentre non sono andati a votare, in aggiunta agli astenuti del 2005, un altro 2,5 per cento di elettori Pd, un 1,3 di elettori Pdl, e un 1 per cento di elettori dei gruppi di sinistra. Ma questa mobilitazione non ha compensato il precedente crollo dei suffragi leghisti: Bossi viene da un lungo inverno, quello successivo alla sua esperienza di ruota di scorta anti-Berlusconi – cui ora si vuole devotamente fedele.
Alle politiche del 1996 la Lega aveva raccolto quasi 3,5 milioni di voti. A marzo ne ha avuti 2,7, il 21 per cento in meno. Nel 1996 aveva superato nel Veneto i voti di Forza Italia e An sommate: 928 mila contro 914 mila. E aveva avuto la sorpresa “sfondare” in Emilia-Romagna, con 216 mila suffragi e in Toscana – qui con poche migliaia di voti, ma visibili, concentrati in poche situazioni locali.

Sempre in salita la strada per Alvaro

Remo Ceserani aveva tentato ventitré anni fa con questa minuscola raccolta la ripresa di Corrado Alvaro. Morta poi sul nascere per un qualche motivo. Che non è però la qualità dei racconti. Sempre leggibili – benché abbozzi in realtà di racconti, tutti “troncati” sulla misura inflessibile dell’elzeviro, due colonne dell’allora terza pagina dei quotidiani. Che lo confermano lo scrittore “più colto e informato” dei suoi anni, come lo dice il curatore.
Sono racconti incentrati sulla “scoperta” della donna, continua, sorpresa (giusto la costante alvariana secondo Gianfranco Contini: “Che cosa è un uomo, e un meridionale, di fronte alla donna”). E più ancora sull’ottica Nord-Sud, sulla “differenza” del meridionale. “Il viaggio in Italia” è la scoperta del Sud. Il successivo, “Il canto più bello”, è la vita al Nord, al risveglio della primavera. Il più bello, il meglio scritto, è quello che inscena le differenze Nord-Sud senza acrimonia e anzi naturalezza, “Le strade fatte a vent’anni”, fanti nella grande guerra, tra Aquileia e Sacile nel 1915.
In uno di questi abbozzi, “Nasce un villaggio”, c’è tra i tanti meridionali di Alvaro anche un settentrionale, “un tipo di settentrionale piccolo e gramo”. L’odio-di-sé-meridionale, che qui ritorna nel racconto “Mezzogiorno”, l’unico concluso, è insomma temperato da un residuo di orgoglio. Perché è al fondo un disadattamento: con se stessi e con il resto – il Nord: che nasce dalla delusione, dall’identificazione impossibile con il Nord, in quel quadro unitario che il Nord ha imposto senza crederci. Una sorta di cammino sempre in salita, che continua nella posterità, dove, nota Cesarani, “in mancanza di istituti specializzati e fondazioni”, non è possibile “una edizione delle opere cronologicamente ordinata, attenta alle revisioni interne, corredata da apparati critici”.
Corrado Alvaro, La signora dell’isola

mercoledì 28 aprile 2010

Il ninja Fini tra le gambe di Bersani

Fini ha alzato a Bersani una palla da non credere: l’inaffidabilità della maggioranza, all’indomani della sua quinta vittoria elettorale consecutiva in due anni. “La fiducia degli elettori tradita”, “scene da basso impero”, eccetera, gli slogan erano facili, e anche gli strumenti: mozioni contro il presidente della Camera capopopolo e capo fazione, con corredo di giurisperiti e esperti, rilancio delle accuse di Fini a Berlusconi di mafia, delle accuse di Fini a Bertolaso, eccetera. Un'occasione storica per il partito Democratico, e una fortuna. Invece Bersani stende un tappetino a Fini. Un altro due per cento.
A questo punto bisogna prenderne atto: non è che l’ex Pci ha paura di vincere. È che, prima che vincere, vuole avere un partito di tappetini: diciotto partitini del due per cento, a corona del suo quindici per cento, questa è la sua idea di maggioranza. O forse Bersani non sa chi è Fini. Che già una volta tentò di fare le scarpe a Berlusconi: con Mariotto Segni, il perditutto. A meno che, come suggeriscono i suoi nuovi guerriglieri, Fini non sia una quinta colonna. Una sorta di ninja invisibile buttato tra le gambe di Bersani, per far esplodere le sue contraddizioni – questo non lo dicono, non ancora, ma dei veri vietcong non potranno fare a meno di questo linguaggio.

Obama cacciatore cacciato

Ha mangiato subito la foglia, il presidente degli Stati Uniti, ed è tornato on the road. A parlare alla “gente” sulla “main street”, sul corso. Nel cuore del paese, fuori dalle metropoli sofisticate e dai talk show che si titillano l’ombelico. Alla maniera di Berlusconi, ma certo con più grazia. E con lo stesso risultato: sottolineare tutto ciò che ha da dire. Che ha già detto, quando ha paragonato i banchieri ai gangster, ma che secondo i rispettabili media gli avrebbe alienato le simpatie della “gente”.
Un presidente degli Stati Uniti non è un Berlusconi: ha un potere e una solidità istituzionale immensi. Per questo fa una certa impressione vederlo affannato a spiegarsi e cercare il consenso. Ma dopo aver dimostrato che ha fegato, col sistema sanitario e il confronto col cinismo finanziari, dimostra nella sua campagna a basso livello di sapere come funziona il sistema dei mass media. Che ha giocato a suo favore nella campagna elettorale, facendone un cacciatore spietato di voti, ma ora ne ha fatto una preda. Sempre indirizzato, se non controllato, dagli stessi gattopardi: i media e il mercato sono tutt’uno, sono il dominio della comunicazione, e la comunicazione va sempre capo ai fondi e alle banche, direttamente, con la gestione dell’informazione, e indirettamente, come inserzionisti e finanziatori.

martedì 27 aprile 2010

Econostalgia di cinquant’anni fa

“A livello della base socio-economica” lo scriveva anche Eco nel 1964. Per un repertorio che è vivo solo come reperto d’epoca, benché sempre riproposto in edizione economica, per largo pubblico: i mass media, la televisione, il kitsch, i fumetti, le canzonette, e il midcult, “l’uso falso della cifra alta” (l’uso alto della cifra falsa?). Pieno di classificazioni perente: dieci ragioni per la cultura di massa, quindici contro, quasi fosse una partita di tennis e la cultura di massa non “spostasse”, che ci ha resi schiavi, senza campi di lavoro né penitenziari. O la liquidazione del romanzo giallo, che quarant'anni dopo avrà invaso stabilmente le librerie, da parte di uno che analizza in dettaglio i fumetti e la fantascienza, "ormai decaduto a "maniera" della violenza e del sesso". Ma è sempre Eco, col sorriso che illeggiadrisce, il solido fondo scolastico, la contemporaneità, la capacità di leggere Superman con Husserl, grande avventura, la mediazione culturale immediata, dagli Usa, la Germania, la Russia, la Francia, l’Inghilterra. Impensabile oggi, anche se non eccezionale cinquant’anni fa: nessuno concepisce o scrive un’opera del genere, nessuno la pubblicherebbe.
Eco si diverte. “Il Gattopardo” dice “onesto prodotto d’intrattenimento”, non diverso da Guido da Verona – se questa non è già una trappola della semiologia livellatrice. L'abate Suger è il persuasore occulto di Madison Avenue. Nembo Kid è Orlando, Sigfrido e Peter Pan, ed è pure vero. Superman è Parsifal, giovane, bello e forte ma virginale. E ha già l'avatar, gli endoxa, autorevoli e svagati, e ogni altro riferimento di questa nostra età dell'acquario - o è già passata? Anche se al gioco si perde qualche colpo. Nella semiologia di “Steve Canyon” – Steve è un eroe da fumetto – manca un doppio significato importante, alla settima inquadratura: “Il nome del segretario” di Copper Calhoun, la potentissima dark lady, Mr Dayzee, “suggerisce il nome di una «margherita» (daisy)”, scrive Eco. No, suggerisce una checca, una tante – che abisso si aprirebbe, vero?
Eco è sempre realista: spara a colpo fermo sulla “incapacità dei mass media di esprimere ciò che non sia già ovvio o acquisito”, non temendo di sfidare i futuri Santori. E liquidato "Il Gattopardo" in tre parole, si perde in inutilissimi saggi sui fumetti: Steve Canyon, Li'l Abner, Batman, Superman detto Nembo Kid, lo stesso simpatico Charlie Brown. Invidiabile, ma niente resta in più della simpatia.
Nell’autopresentazione anonima, molto umbertechiana, di questa edizione del 1977, l’autore si diverte a prendere in giro i suoi critici. A Citati, che nel 1964 lamentava al solito l’invadenza della cultura di massa, film, canzoni, fumetti: “Il brano”, commenta l’anonimo Eco perfido nel 1977, “benché si volesse profetico, era in realtà cronachistico”, già nel 1964 i poeti scrivevano canzoni e facevano film. Ma non dal 1964, dai tempi di Omero. Facciamo tutti prosa senza saperlo? La Kulturkritik è sempre a rischio kitsch.
Nel 1962, mentre è in viaggio di nozze, Eco partecipa a Grosseto a un simposio sulla tv nel quale è “contestato a sinistra da Armando plebe, e dall’Altrove Assoluto di Achille Campanile”. Campanile ogni tanto perdeva la bussola, che aveva scritto un “Trattato delle barzellette”, di 600 pagine. Mentre Eco le barzellette le sa raccontare, qui ne fa spesso uso. Ma l’Altrove Assoluto è vendicativo, e dove può sbriciola. “Apocalittici e integrati” sarebbero i “critici popolari della cultura popolare”. Popolari nel senso che vengono dal Tiburtino III, o scrivono per il Tiburtino III? O per la cattedra, e i lettori dell’“Espresso” intelligenti?
Umberto Eco, Apocalittici e integrati

Ombre - 48

L’Italia è al terzo posto fra i partner della Cina, scopre “Affari e Finanza” di “Repubblica. È anche al secondo con la Russia, ed è un buon terzo, se non la metà, della Germania. Ma è sempre il “malato d’Europa” per la stessa “Repubblica” e per gli altri grandi giornali che fanno l’opinione, compresi quelli degli industriali, “Il Sole” e “La Stampa”. È una forma di scongiuro? È una forma di resistenza, ma a chi? È una furbata.

La Roma calcio potrebbe vincere il campionato se l'altra squadra romana, la Lazio, battesse l'Inter. Ma la Lazio preferirebbe perdere, anche a rischio di andare in serie B, i tifosi della Lazio: tutto pur di non fareun favore ai tifosi avversi. Anche per questo Roma non è Milano.

Non c’è dubbio che il campionato della Roma è stato migliore di quello dell’Inter: lineare (senza favori), meglio giocato, con un monte ingaggi dieci volte minore. Ma c’è un sospiro di sollievo alla “Domenica sportiva” e lunedì nei giornali al risorpasso dell’Inter. Potenza di Milano sui giornalisti. Ma frastornati sono anche i giornali romani e romanisti: l’egemonia e la sudditanza sono fatti che si interiorizzano.
Già due anni fa la Roma sfidò l’Inter, senza favori, con un bellissimo gioco, e perse il campionato all’ultima giornata. Ma non fa parte di nessuna leggenda.

Uno dei punti forti del godibilissimo “Le amanti del vulcano” di Marcello Sorgi, che è insieme romanzo e storia ferrea, documentata, politica e di costume, è Rossellini. Di come fosse molto fascista, poi molto comunista, quindi molto democristiano. Sorgi però se lo lascia sfuggire, chiude il regista nel ridicolo moralismo dell’Italia tragica e ridicola (“Ridicolmente tragica. Tragicamente ridicola”).
E se Rossellini non avesse avuto altro scampo? L’Italia, l’Italiano, purtroppo ha avuto, ha, politici e politiche che non meritano nessun impegno. Giusto quel poco che serve per sfangarla – cioè per lavorare: passare la giornata, costruire qualcosa.
Senza colpa: sono i politici e le politiche che le opinioni pubbliche, oggi le banche, impongono.

Il cardinale Martini, patriarca dei cardinali, quindi saggio, dal monte degli Ulivi dove si è ritirato a Gerusalemme, segue sul “Corriere della sera” l’attualità della chiesa, cioè oggi la pedofilia e il celibato. Ha sempre avuto il pallino del giornalista.
Questa domenica ricorda che alcune denunce di abusi sono state inventate, per estorcere denaro. Sa anche che “la maggioranza dei casi di pedofilia e di abusi sessuali si compie nell’ambito della famiglia, cioè là dove sono i primi educatori del fanciullo” E “personalmente” s’indigna che “una società che ha abbattuto ogni diga verso la sessualità” faccia la vergine offesa contro cento o dieci preti. Ma non ci vede complotto. La secolarizzazione certo non è un complotto, non uno demo-pluto-giudeo-massonico. E tuttavia lo è.

L’inflessibile giudice spagnolo Garzón passava le vacanze a New York come conferenziere. Pagandosi cioè come conferenziere. Sulla giustizia mondiale. All’università pagata dal Banco di Santander. È la giustizia mondiale bancaria? In Spagna forse.
Banco di Santander che negli Usa sarebbe fallito, pieno com’è di mutui insoluti e insolvibili.
E non ha pagato il giudice inflessibile, gli ha offerto le giuste vacanze.

Fini sarà il re incontrastato questa settimana di tutti i talk show, da Annunziata a Vespa. Facendo il generale Giap, come fa dire ai suoi, il guerrigliero contro la sua la maggioranza – ma quello non era Lin Piao? Poi magari se lo dimenticano di nuovo, e non sarebbe un danno, ma non è questo il punto. Il punto è:
immaginarsi il presidente della Camera Napolitano ogni giorno a sproloquiare per ore in tv. Dicendo di sé tutto il bene possibile, naturalmente, e degli altri merda.

Non ci saprebbe emozionare alla sfida dialettica tra Fini e Berlusconi in teatro. Col presidente della Camera che, con tutta la dignità dell’incarico, insinua le peggiori porcate del suo partito e s’insignisce della carica per diritto divino: “Vieni tu a togliermi la presidenza!”, urla sinceramente sconvolto al suo santo padre. Uno ha presente i suoi predecessori, Napolitano, Iotti, Ingrao, Pertini, Leone, di un’altra epoca, è vero, ma anche Violante e Casini, che non complottavano per far cadere i governi, non con i procuratori, non in confidenza, e non diventavano capifazione.
Fini è sempre stato un capopartito intollerante. Ha cacciato Storace e Santanché, voleva caciare Alemanno. E anche la Polverini la guarda ora con sospetto, in attesa di suicidarla. Non è stato nient’altro. Che ci trova la sinistra di attraente.

Balotelli doveva andare in Nazionale, far squalificare il campo della Juventus, indurre Mourinho a lasciare l’Inter, essendo più o meno Maradona redivivo, un po’ più alto, e nero certo. Per deferenza verso il padrone Moratti, un gran signore. Poi Balotelli ha avuto un gesto d’ira contro i tifosi ingiusti, il giorno del trionfo dell’Inter sul Barcellona. E allora pollice verso: paginate di grandi quotidiani, teorici sportivi, teorici psicologi, teorici di mercato, e moralistici: contro Moratti, un così gran signore?

lunedì 26 aprile 2010

La giustizia all’estero come salvacondotto

Si è manifestato in Spagna a favore del giudice Garzón, il giudice specializzato in giustizia politica all’estero, contro Pinochet, Berlusconi, e altri criminali internazionali, inquisito per corruzione. Una manifestazione coordinata, in 26 città, con Almodovar e Almudena Grandes – molto imbruttita. C’è dunque un’organizzazione nazionale che protegge il giudice. Che in un certo senso eroe nazionale lo è.
Il giudice magari non è un corrotto, non ha preso soldi dal Banco Santander. Ma ha accompagnato il Santander e il Bilbao, l’altro grande banco spagnolo, nella conquista dell’America Latina quindici anni fa. E ha veicolato il ritorno della Spagna nel subcontinente, prima interlocutrice di personaggi come Castro, Morales e Chavez. Nel mentre che la Spagna si riempiva di narcos colombiani, con i loro corrispondenti camorristi. C’è un ritorno politico, in questa giustizia internazionale a opera di giudici nazionali.
C’è una diplomazia della giustizia internazionale, non da oggi: quanti bei tribunali aveva Amsterdam un secolo fa, quando non bastavano a Multatuli i romanzi in serie per descrivere l’orrido colonialismo olandese in Indonesia. È il caso della Svizzera, che ha messo dentro tutti i libici di cui aveva notizia, perché uno di loro aveva maltrattato il domestico pakistano – il primo pakistano, com’è noto, molestato in Svizzera. Dopo avere arrestato tremendamente Polanski per una condanna americana, vecchia di trent’anni prima. Serviva l’arresto per oscurare gli attacchi ai conti svizzeri dei buoni contribuenti americani ed europei? Ovviamente no. È il caso dell’Austria e il Belgio, che ogni tanto si risvegliano con vicende di violenze lunghe venti e trent’anni, trascurate. Ma sono inflessibili contro gli storici inglesi, se discutono l’Olocausto, o contro Sharon, se fa la guerra a Hamas.

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (57)

Giuseppe Leuzzi

La Sicilia produce ottime arance. Che non vende. Israele ci fa mangiare il pompelmo, a caro prezzo, che è incommestibile e dannoso.

La povertà dell'abbondanza
Si esce dall’autostrada a Rosarno o Gioia Tauro per entrare nell’opulenza: agrumeti rigogliosi, oliveti giganti per diecine e centinaia di chilometri, orti, serre, il porto più grande del Mediterraneo. Nella polvere, i detriti, i rifiuti. Nella sporcizia, il disordine e un senso soverchiante d’indigenza. Non è povertà, la povertà è decorosa. I soldi ci sono, nelle automobili, i grandi magazzini, il motorino con telefonino per i pupi. Non è violenza: la rivolta contro gli immigrati è – indigente anch’esso – un botta e risposta politico. È una forma di trascuratezza figlia dell’abbondanza.
Il problema del Sud è lo spreco. È l’abbondanza delle risorse, non la mancanza. Specie nel Sud tirrenico, da Salerno a Reggio Calabria, che è un susseguirsi di ricchezze senza fondo, di campagna, mare, montagna. Sull’ambiente ereditato dai vituperati Borboni e baroni, pieno di chiese, palazzi, piazze. Con una natura ferace, di grano, vino, agrumi, olio, ortaggi, in Terra di lavoro, nel Cilento, le pianure di Castrovillari, Lamezia, Gioia Tauro. Il problema dello sviluppo è qui: come l’abbondanza non si è trasformata in ricchezza.

Milano
Di Manzoni la grandezza è spagnola, dice Anna Maria Ortese in un’intervista nel 1974, quando ancora non aveva accumulato il risentimento contro la capitale lombarda (intervista ora in “Corpo celeste”, p. 99): “Getta contro la storia e la sua grandezza la fine polvere della percezione tempo: nulla è vero, tutto passa, tutto cade, tutto muta. Una verità già raggiunta , con altra violenza o nudità, dal pensiero spagnolo (penso al De Quevedo dei Sonetti: “Ehi, della vita nessuno risponde?”).

Milano, come si sa, non è leghista, Bossi è figlio dello Spirito Santo – un caso eccezionale, un parto senza madre. Anche se ne ha avuto a sindaco un’escrescenza, non se ne ricorda.
A volte. Altre volte, è il caso dopo i due successi alle elezioni, se ne dice invece figlia. Elevando Bossi a erede di Francesco Giuseppe e Maria Teresa.

Il supplemento illustrato del “Corriere della sera” scopre infine dopo Pasqua che a Milano c’è un uso smodato di cocaina. Dopo qualche anno che il fatto è statistico negli annali internazionali.
Ne parla senza scandalo, quasi fosse un altro primato morale di Milano. Va a Milano metà della droga (cocaina, hashish, eroina) smerciata in Italia.

Per quattro secoli i lombardi sono stati scalpellini e usurai. Prestavano denaro da Cahors a Brno. Ancora nel Seicento erano attivi, seppure ghettizzati, come gli ebrei, nelle capitali del denaro, a Londra e Amsterdam.

Ci sono molti lombardi ancora in Sicilia, e in Calabria, e nei toponimi. Ci sono stati molti lombardi a Sud all’inizio dell’arte romanica, come maestranze, ma anche dopo.

Casanova ragazzo fu educato dal vescovo di Martirano in Calabria. Martirano Lombardo.

Ne ha combinate molte John Henry Woodcok, Procuratore della Repubblica a Potenza, impaziente con la sua Norton d’epoca di tornare a casa a Napoli. Ma quando ha intercettato il malaffare del grattacielo della Regione a Milano, zàcchete, i giudici milanesi gli invalidano tutte le intercettazioni. Non un giudice solo, si sono messi in due. Poi dice che non c’è giustizia.
La giustizia è anzi doppia. Le intercettazioni a Woodcock i giudici milanesi gliele hanno invalidate subito. Ora lo fanno sapere per dimostrare che non c’è bisogno di nessun decreto contro le intercettazioni abusive. Quando sono abusive (su Milano) i giudici (di Milano) tempestivamente lo dichiarano.
La giustizia a Milano la fanno soltanto i giudici di Milano. Magari napoletani come il centauro Woodcock, ma di Milano.

Napoli
La mazzetta era a Napoli l’onorario dell’avvocato.

L’efficienza del mercato napoletano
Domenica Rea in “Breve storia del contrabbando” (un elzeviro incluso nella raccolta “Gesù, fate luce”) documenta come i napoletani ricchi e poveri, abili e disabili, fortunati e sfortunati, riuscirono a creare un mercato nell’Italia divisa dalla guerra, nel 1943 e nel 1944, anche attraverso la linea gotica: “Su Napoli pioveva denaro”. Un mercato che poi svanì nella normalità: “Con la pace venne la Sconfitta”.
È senza dubbio efficientissimo il mercato dell’illegalità. Il romanzo di Astolfo “Vorrei andarmene, ma non so dove”, di imminente pubblicazione, ne dà uno spaccato alla p.39:
“All’entrata il crimine economico va nel senso comune; è l’impresa dei nullatenenti, nel senso che la posta che si scommette è un po’ di carcere. Ma è all’uscita che si caratterizza, per il raddoppio continuo della posta che non può non finire in catastrofe. Che non è l’atto gratuito famoso degli animi sensibili di fine Ottocento, è l’accumulo gratuito: una filosofia e non un gesto di libertà. Con la dissipazione di altre energie: la copia immediata della moda, la mimetizzazione, la capacità sempre rinnovata di essere un passo avanti al fisco, all’Inps, ai carabinieri. Lo studio di Napoli più della Sicilia porta a questo. In Sicilia è urgente il bisogno di apparire, cui pure il mafioso soggiace: di dimostrare che si è – Vittorini se lo fa dire da Calvino: “Ha l’istinto delle scelte vitali, dei tanti siciliani diventati milanesi con entusiasmo”. Mentre Napoli va nel senso opposto, di cancellarsi. Il camorrista in sé non è niente, è spagnolo e significa litigioso. È diverso volerlo essere, non per carattere ma per scelta, industriarsi di esserlo.
“Incomparabile è l’organizzazione del mercato parallelo, di beni copiati o rubati, altrettanto dettagliato, se non di più, del mercato legale. Con filosofie manageriali flessibili: integrazione verticale, orizzontale, a stel-la, per contiguità, monopolismo. E una rete d’incroci, marciapiedi, ponti, spiagge, uffici, stazioni, sottopassaggi, per un esercito di ambulanti clandestini, senza identità o senza licenza, che sono tanto più difficili da occultare in quanto il magazzino si portano dietro in sacchi e borsoni. Un mercato senza deposito e senza rese è il sogno di ogni mercante, ma tutto è più arduo e gravoso nel mercato illegale. È una fatica cui si sottostà non tanto per il guadagno, che è sempre poco, benché esentasse, quanto per il bisogno di creare e distruggere in umbra, anche la propria vita.
“Il fatto è assodato, e bisogna rifletterci. È la riprova o una smentita della dottrina liberista della società, che la democrazia e la ricchezza vede incrementarsi nello scambio? Ci sono dei residui: se il capitalista è il rivoluzionario, il rivoluzionario sarebbe un mafioso, e ciò non è possibile, crollano un paio di secoli e molta storia. Per quanto, la scomparsa di Napoli è anch’essa una forma di clandestinità, compatta, costante, decisa, e quindi di resistenza. La stessa organizzazione del crimine, la riservatezza, la struttura cellulare, i linguaggi criptici, le parole d’ordine, ricalca l’impianto della guerra partigiana. Analoga e fino alla morte è la reciproca lealtà tra gli affiliati. Analogo è il bisogno ricorrente di eventi eroicizzanti, la sfida, l’imboscata, l’amore delle guaglione, il silenzio sotto tortura. Un semiologo avrebbe problemi a non finire in una cosca piuttosto che in un fronte di liberazione. La differenza sta nella legge, ma è tenue: qualsiasi giudice lo sa, ministro della legge. È un capitalismo che, anch’esso, si nega. E anzi si ammanta del bisogno. Di disoccupazione e soprusi. Un capitalismo anticapitalista, che capitalizza cioè pure sulle ragioni dell’anticapitalismo. Da qui il nimbo di resistenza che corona la latitanza”.

leuzzi@antiit.eu

domenica 25 aprile 2010

Ipazia non c’è nel suo film

Un polpettone. Di pagani che sgozzano i cristiani, i cristiani gli ebrei, gli ebrei i cristiani, i cristiani i cristiani. Che non si nasconde: si vuole del genere kolossal anni 1950, quando fu inventato il cinemascope, anche se non ha le maggiorate, Sofia Loren, Elizabeth Taylor - ha una Rachel Weisz che è in tutto, in nordico, Penelope Cruz, e Penelope è la diva per eccellenza in Spagna. Il solito tutto che è niente. Non è storia, non è filosofia, non è anticlericale, e non è un kolossal, solo Hollywood li sa fare.
Un film di masse. Senza cura filologica quindi: i cristiani vi odiano le donne, bruciano i libri e distruggono le biblioteche, uccidono Ipazia come miscredente, la condannano come strega, eccetera, mentre invece i cristiani liberavano le donne e hanno conservato i libri, li studiavano perfino, Ipazia era una tranquilla filosofa e matematica, e le streghe arriveranno dal Nord qualche secolo dopo. C’è anche un prefetto romano che porta in barca Ipazia, come qualsiasi riccone l’amante sullo yacht il week-end. E poi piagnucola come un bambino. I cristiani sono talebani, neri, barbuti, tagliagole.
La disonestà è dei critici. Che ci hanno fatto agognare il polpettone come un boccone prelibato negato dalla censura. Mandandoci a vedere un film su Ipazia che non c’è. Su un conflitto religioso tra cristiani di cui il film non dice nulla. Anche il senso di colpa vi è a disagio: il film è stato girato nel 2008, oggi ci vorrebbe un po’ di pedofilia.
Alejandro Amenàbar, Agorà

I due capitalismi di Babette

Il racconto avvincente e, di più, il film, straordinariamente plastico, danno fisicità ai due capitalismi, oggi si direbbe due stili di vita: quello del risparmio e del timore di Dio e quello del piacere e dello scialo. Entrambi in grado di procurare prosperità e indigenza, certezza e insicurezza, e di avvicinare a una vita che si dà il suo scopo, uno scopo. È sui due approcci antitetici che il racconto è costruito, ma è sulla fisicità, delle persone e della cose, la spettralità e la magnificenza, che prende corpo, soprattutto nelle immagini, differenziando e scolpendo i caratteri. Che sono due mondi: il nordico e il meridionale, il germanico e il latino, il protestante e il cattolico, il riserbo (anche un bacio casto è uno spreco) e la dépense.
Karen Blixen, Il pranzo di Babette (Babette’s Feast)