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sabato 24 ottobre 2015

Ombre - 289

Fa senso il sorpasso di Exor su Eni, Enel e gli altri grandi gruppi nella graduatoria Mediobanca. La graduatoria è impropria perché Exor è una finanziaria e non un gruppo industriale. Tuttavia dà il senso di cosa si poteva costruire attorno alla Fiat, a opera di manager appena competenti. A fronte della gestione “familiare” fallimentare dell’Avvocato Agnelli. Che l’Italia, grande fabbricante di automobili, fino a tre milioni l’anno quarant’anni fa, ha ridotto a comparsa del settore.

Fa senso il Sannio sotto l’acqua, vendemmia, noccioleti e altre colture compromesse, e nemmeno un sottosegretario in vista. Non si può dire che la politica sia bugiarda.

Fa senso Crozza con la caricatura cattiva nel suo spettacolo, a Milano, del presidente della Campania De Luca. Applaudito tra glisghignazzi da un pubblico, pagato, milanese.

Prima di De Luca Crozza ha fatto per alcuni anni la caricatura cattiva del senatore Razzi, abruzzese. L’emigrante ignorante, il meridionale corrotto. Bonaria la caricatura di Bossi, Maroni e Salvini.

Sempre una corporazione, più arroccata che mai, ma isolata. I giornali che più ne sfruttano le debolezze hanno schierato oggi tutte le batterie, politiche, economiche, giuridiche, e redattori, inviati, corrispondenti, collaboratori, contro i giudici.

Se non è lui è il suo amico: dunque è colpevole. Il “Corriere della sera” ha indicato in un consigliere del Csm il referente della giudice palermitana Sagunto ora sotto indagine per cattiva gestione dei beni sequestrati ai mafiosi. Il consigliere protesta. Il giornale dice: sì, non era lui, ma era un suo collega di corrente sindacale.

La perfidia del computer, che spesso riscrive le nostre lettere, si è allargata agli atti giudiziari?  Al consigliere Csm erroneamente indicato come referente della giudice Sagunto il “Corriere della sera” replica: “Si tratta di un errore materiale, del tutto involontario”. È il computer, cioè, che digitando Pontecorvo ha scritto Forteleoni.

A Marino decaduto il Parco della Musica scopre che non aveva il potere di indire la gara per il nuovo amministratore delegato (l’ha vinta un esperto spagnolo di corride…). Prima no?

L’entourage vaticano del papa argentino denuncia un complotto per indebolire il papa stesso dicendolo malato. Ma a opera di chi? Chi ha invitato in Vaticano, in elicottero, col papa ad accoglierlo, il chirurgo Fukushima, stella di facebook, twitter e youtube? 

Mediaset ha i diritti della Champions League. Ma manda le sintesi delle partite della Juventus, la squadra accreditata di un terzo del tifo nazionale, dunque alcuni milioni si spettatori, all’una di notte. Invece che alla fine della partita, come le sere in cui non gioca la Juventus. Non vuole battere negli ascolti la Rai? Non vuole dispiacere a Berlusconi?
È vero ch il calcio italiano è governato da Berlusconi, attraverso Lotito e Tavecchio.

Questo Mr Bee di Berlusconi, messo in campo per dire che, forse, in parte, un po’, il Milan si vende, è una macchietta e forse è un filibustiere. Ma non se ne ride. Non smuove nemmeno i cronisti giudiziari, a Milano sempre solerti. E la Procura, tutti milanisti?

Rinviare il voto a Roma al 2017, per smaltire l’effetto Marino, è di destra o di sinistra?
Non hanno nulla da eccepire Pignatone e Mattarella,  i due siciliani che controllano la capitale.

E perché non la premeditazione? Nell’accanimento contro il pensionato di Vaprio d’Adda i giudici hanno mancato un colpo. Aveva già comprato la pistola, dunque oltre che di assassinio volontario deve rispondere della premeditazione.

È vero che l’uomo è un ex missino. Ma tutti i missini sono assassini? Dunque anche i giudici, che sono in gran numero nostalgici.

I giudici non vogliono che si spari ai ladri. Bene. Ma perché i ladri che sparano ai derubati se la cavano con poco. I giudici sono per il furto – chi ha paghi?

Il pensionato assassino di Vaprio d’Adda aveva già avuto due visite dei ladri ultimamente. Ma ne aveva denunciata solo una – informano i giudici con l’aria di dire che il derubato è un bugiardo. Come se gli italiani non sapessero quanto è inutile, faticoso, lento, noioso, fare una denuncia di furto – a meno che non lo richieda l’assicurazione.

La legge Severino è costituzionale. Ma non è necessario che sia rispettata. Se si tratta di soggetti napoletani, De Magistris, De Luca. La giustizia dei paglietti.

De Luca cioè no, sarà condannato: lui non è magistrato. Ma sempre in salsa napoletana.

Il “New Yorker”, rivista intellettuale, opina in lungo  e in largo che i tecnici Volkswagen non sapevano del trucco delle emissioni diesel inquinanti. Per ingrossare il numero dei tedeschi che “non sapevano”?

Fabio Panetta dice che se le banche italiane fossero state salvate come la Germania ha salvato le sue, ci sarebbero voluti 140 miliardi. Cifra paperoniana. Come non detto.

Panetta non è nessuno, è il vice direttore della Banca d’Italia.  Ma è uguale: come non detto.

L’unione bancaria non si può fare, così come non si possono ridurre le emissioni tossiche nella circolazione stradale perché la Germania non vuole. Ma tutto è in ordine in Germania - solo la Volkswagen si è comportata male, alcuni dirigenti della Volkswagen. Come non detto.

Magris processa la storia

Titolo procedurale, più forte nella formula tedesca da cui Magris è partito, per tanti delitti nazisti, Im Sinne der Anklage, unschuldig”, ai sensi dell’accusa non colpevole, per un atto d’accusa alla storia. Che emerge strada facendo. Attorno alla costituzione di un Museo Ares per Irene, della guerra per la pace. Che un collezionista di reperti di guerra ha lasciato da costituire, essendo morto prematuramente nell’incendio di uno dei padiglioni che ospitavano la collezione. Indagine, come Magris ci ha abituati a leggere, “Illazioni su una sciabole”, “Danubio”, “Microcosmi”, e non romanzo. Benché si passi di continuo dalla terza alla prima persona, come usa al cinema. Alla ricerca della verità, una ricerca. Con un non luogo a procedere anche per la storia – per la verità. L’amore ne supera la limitatezza, forse – se non finisce con il bacio di Rilke, che “distrugge l’incanto”.
Una storia di storie, una satura. Il romanzo del Museo si articola in due filoni: l’ordinamento della mostra, ogni reperto  una storia a sé, con una didascalia che è un racconto, e i diari del collezionista-fondatore, collaborazionista, che naturalmente si nega. In parallelo, fa da rete  la “Storia di Luisa”, che è l’architetto incaricato di ordinare il Museo, ebrea e mulatta. La sua storia è quella della madre Anna, scampata alla Risiera di San Sabba, il campo di sterminio triestino, dov’era finita denunciata benché si fosse ben cautelata, forse dall’ebreo Grini, che con la moglie ne aveva denunciato molti. Anna, che nello sfollamento in casa della vecchia balia croata  aveva appreso il croato, lavorerà come interprete di croato all’amministrazione alleata di Trieste, trovandosi a dover  frequentare anche il colonnello Ernst Lerch, “boia in capo alla Risiera”, a cui nessuno chiede conto di nulla, e anzi è ospite del maggiore Preston, che dirige l’amministrazione alleata. Anna ha concepito Luisa con un sergente nero della Us Army, poi perito in un incidente ad Aviano - causato da un velivolo difettoso della Zanussi, che aveva diritto d’uso della pista di Aviano.
Una dichiarazione d’amore per Trieste, in tutti i suoi angoli, e per il suo mare. E una cornucopia di storie singolari, personaggi, popoli, eventi, che il filologo curioso e paziente ha indagato, di ordinarietà straordinaria, cui Magris ci ha avvezzi.  I Bodoli del Quarnaro, gli Huzuli di Galizia, o la geografia impoverita dall’omologazione, e dallo stesso nazionalismo. L’arte della guerra: Sun Tzu, Vergerio, Montecuccoli, Clausewitz.  Il T-34, il carro armato  con cui Stalin sconfisse Hitler. Il podestà Enrico Paolo Salem, “il miglior sindaco della città”, la teneva pulita, “circonciso battezzato e fascista antemarcia”. Un omaggio del germanista a Praga, alla resistenza ceca, “Cactus Marcescens Hitler”. Due omaggi, anzi tre. Uno alla “tradizione furtiva e inventiva jiddish”, da studioso alle origini dell’ebraismo orientale, in “Un Chamacoco a Praga”, la storia dell’indio del Chaco Čerwuiš portato a Praga dal “grande botanista” Vojtěch  Frič insieme con i cactus per risparmiarlo alla guerra tra Paragay e Bolivia, che è invenzione di Karel Krejčí, animatore del “vagabondo teatro jiddish” in città. Raddoppiato con Červiček, avventuroso praghese nel Chaco durante la stessa guerra. Il buon “Soldato Schimek”, austriaco giustiziato dalla Wehrmacht perché “s’era rifiutato di sparare sulla popolazione civile polacca”. La liberazione di Trieste, di tutti contro tutti. Lo “s’ciaveto, l’antico rito glagolitico della Messa”. La storia di “Luisa de Navarrete”. Le responsabilità e complicità, da ultimo, della Risiera di San Sabba, il campo di sterminio forse più ingiurioso, aperto in città, a Trieste, che dopo la guerra si vollero cancellate – nazisti e fascisti servivano contro il comunismo.
I particolari sono precisi, anche se spesso solo allusi. La rappresentazione vuole essere del male. Dell’incertezza del giusto nella storia, che come si sa è fatta dal vincitore. Della vita quindi insensata. Di cui niente può venire a capo, nemmeno l’amore. Luisa, che seguiamo giovanile e immaginifica, vive con un compagno disfatto dalla sclerosi. La stessa Luisa è già “una scia di lumaca”, anche se non lo sa: “I suoi bei capelli ancora scuri nel vento… non sapevano che esisteva quel vento”. I pensieri sono subito tristi attorno al collezionista e all’architetto. Una perorazione a tratti anche in senso tecnico, un’arringa da pubblico ministero. Ma da pm sconfitto: il caleidoscopio è di accoramento costante, quasi una storia personale.
Ogni reperto che viene schedato è una storia: una persona, un fatto, per lo più ignobile, un ricordo. La scrittura è invece “suggestiva”, e veloce, anche se sovraccarica. Ispirata più che flaubertiana – la cifra che caratterizzava Magris. Ricercata, anzi preziosa. Di pensieri. “La morte non esiste, è solo un invertitore”, una macchina che rovescia la vita – come si “rovesciavano” i vestiti. L’amor-te. “La scrittura, pugnale acuminato che va dritto al cuore”. Di lirismi. Di parole (eone, barocco, invertitore, mulvaceo, glagolitico), nel quadro di una “riforma globale del vocabolario”, o Dud, Dizionario universale definitivo, cui il collezionista anche indulgeva. Inventore,  oltre che di parole, di “un sistema scientifico per nutrirsi soltanto d’aria” e altre diavolerie. Ma anche volubile – queste due piste sono dette e abbandonate.
Una summa anche dello scrittore-collezionista, dei suoi metodi di ricerca e scrittura, delle sue fobie e le sue predilezioni. Una storia non veritiera, come quella delle “Illazioni” sul generale-scrittore Piotr Krasnow, e tuttavia vera. L’orchestrazione narrativa “naturale” degli strumenti filologici. E le storie di vita che sfiancano come vagabondaggi erratici, inconcludenti. Da germanista, ma di più scrittore di frontiera – di più frontiere. Con Salvore anche qui, oggi Savudrije, e altri riferimenti minori del suo personale teatro. Di un io che necessariamente vaga se non è pieno di se stesso, fino alla follia di Hitler – l’io interiore che Lutero inventò, agostiniano integrale. Ma con la novità di una prosa “aumentata”.
Un quadro opulento, forse troppo. Come una tonnara piena, di cui all’autore ripugna la mattanza. Di testi vari affastellati.  Anche prose che negli anni è venuto scrivendo sui giornali. Il bacio di Rilke per esempio, esercitazione estiva sul “Corriere della sera” quattro o cinque anni fa – “il bacio distrugge l’incanto”. O la “Storia di Luisa de Navarrete”, lettura goduta e censita a suo tempo delle  “Lettres créoles” di Chamoiseau e Confiant. Lo scrittore come il musicista si riscrive, ma con misura.
Il “maniaco museologo” Magris nomina nel congedo, e sono due pagine che riconciliano: è il professor Diego di Henriquez, personaggio noto a Trieste. La sua storia è in realtà appassionante, quella della storia insensata: il collezionista furioso, che finisce contro l’oggetto della sua passione. Più di quella di Luisa, programmatica – politica - e fredda.
Claudio Magris, Non luogo a procedere, Garzanti, pp. 362 € 20

venerdì 23 ottobre 2015

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (263)

Giuseppe Leuzzi

Ci fu la “passione del Sud” per tutto l’Ottocento, e il primo Novecento fino alla guerra. Quando l’imperialismo era solido – l’imperialismo era nordico L’odio del Sud del secondo Novecento e di questo inizio di millennio nasce dall’insicurezza? Il Nord non si sente più tanto solido che ha bisogno di scaricare le sue paure al piano di sotto.

Campania, Calabria, le due regioni della “dieta mediterranea”, dove Ancel Kays, lo specialista delle malattie cardiovascolari, mise la dieta a punto, osservando usi e costumi alimentari locali, contro i problemi cardiaci, hanno il record dei bambini obesi. Li abboffano di merendine, altro che dieta mediterranea. È l’effetto dello sviluppo, della nuova ricchezza – oltre che della stupidità, naturalmente.

L’appiattimento del Sud
Non ci sarà lo sfruttamento (ma c’è: lavoro formato a buon mercato, mercato di sbocco captive, impossibilità di accumulo, trasferimento della capacità di accumulo o risparmio), ma c’è lo schiacciamento del Sud. Nel migliore dei casi un appiattimento, nell’indistinzione – Napoli e la Sardegna nella stessa nuvola grigia. Costante, implacabile. Da alcuni decenni acculato alla mafia. In precedenza allo spreco, l’intervento straordinario. In precedenza a un notabilato inerte, con briganti e profìttatori. In parte per auto schiacciamento. Il Sud resta appiattito in parte per pregiudizio, per superficialità, per ignoranza. In parte per colpa del Sud stesso. Non obiettiva, non tanto, soggettiva: l’autodeprecazione (odio-di-sé). Ma come riflesso dell’opera implacabile di appiattimento che è stata da subito una linea di forza dell’unità..
“Per gli italiani del Nord i romani sono già un po’ arabi”, nota Nico Naldini nel lungo saggio su Pier Paolo Pasolini, “Al nuovo lettore di Pasolini” - in P.P.Pasolini, “Un paese di temporali e fulmini”. E per lo stesso Pasolini, che Roma apprezza soprattutto perché può fare sesso senza fastidi: “Gli Arabi furono più generosi dei contadini friulani….” E per don Marchetti, il religioso patriota friulano, prima amico poi avversario di Pasolini, cui rimprovera scarso patriottismo, rovesciandone l’impegno in versi e in prosa, e nella sua Academiuta friulana: “Un pizzico di Montale, di Quasimodo, di Sinisgalli? Robaccia che ven da promontoris (che viene dall’Italia meridionale)”. Che vien dal mare? Non c’è il terrone, che è un’ingiuria, c’è l’ignoranza e la disattenzione.
Il Sud non è mai stato e non è un’unità. È mondi diversissimi. La Sardegna non ha nulla in comune col Salento. Neppure con Napoli, o la Sicilia. E non c’è maggiore estraneità – diversità, accumulo di linguaggi, psicologie, culture – che fra Napoli e Palermo. Ha mondi anche più “sviluppati” o progrediti del Nord. Non solo per la scuola idealistica napoletana. La Sicilia conosceva il liberalismo inglese ben prima di Gladstone. Napoli, la Sicilia avevano contatti con Parigi, con Londra per via massonica e per tante altre vie. Niente a che vedere col torpido centro Italia, e con lo stesso Piemonte. Tomasi di Lampedusa sapeva di letteratura francese e inglese più che di letteratura italiana. I suoi cugini Piccolo, per quanto isolati e impoveriti, pure. Perfino Sciascia fu riconosciuto a Parigi prima che a Milano.
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Il romanzo della Calabria
Curioso romanzo della Calabria Anna Banti ha scritto in “Noi credevamo”. Il cui protagonista, Domenico Lopresti, il nonno proprio della Banti, che di nome anagrafico faceva Lopresti, non è proprio un patito, o martire, della nostalgia. Una terra “dagli orizzonti sfasciati”, così la ricorda in tarda, avviando il ciclo dei ricordi. Cos’è l’orizzonte “sfasciato”? Sicuramente una brutta cosa. Domenico non è nemmeno calabrese, è di padre siciliano - un oscuro personaggio a metà massone a metà caposetta, che ha trovato a Pizzo una moglie giovane e l’agiatezza. Ma è “caparbio”, dopo essere stato di “tenacia avventurosa”, e di poche parole, al punto da fingersi muto per non doversi spendere con la famiglia, gli amici, i conoscenti.  E queste tre cose, la caparbietà, la tenacia, il mutismo, lo fanno sicuramente calabrese.
Tanto insight è sorprendente. Anna Banti si voleva calabrese, ma lo era solo per via del nome anagrafico. Nata a Firenze da padre torinese, seppure figlio del ribollente Domenico, e madre pratese, vi aveva sempre vissuto, sposa, ai trent’anni, di Roberto Longhi. Era calabrese al modo di Puškin, che si voleva “africano”. Si penserebbe come un esotismo, nella chiusa Firenze. Invece ci azzecca, in tutto. Partendo dal carattere generoso, e cioè impulsivo, del nonno, perciò votato alla sconfitta. E ha scritto un romanzo molto meridionale. Non un gattopardo, una cosa compiaciuta: un romanzo duro, amaro, delle illusioni perdute, tradite. Al suo personaggio risponde del resto, in aliquote ridotte, senza carcere né fughe, lei stessa. Vittima di ciò che ha fatto, per megalomania certo, ma con generosità. E con acume. A favore di letterati e artisti, con la rivista “Paragone” e la casa aperta. Come Répaci, il creatore e organizzatore del premio Viareggio, quando era un vero premio, anch’egli orgogliosamente calabrese. Cosa che alla Banti viene rimproverato dagli ingrati in aggiunta all’ingratitudine. Scrittrice tra l’altro di talento, per esempio per questo “Noi credevamo”..
“Della Calabria cosa è rimasto nel mio cuore?” Si chiede presto Domenico, e si risponde: “Appena qualche nome, qualche lampo di verde e di sole. Da circa mezzo secolo me ne sono divezzato e non ho mai coltivato la religione dei ricordi infantili e di adolescente”. Poi, dopo una pausa: “Ho ancora nel sangue il ribrezzo di quel che potevo diventare adagiandomi nel mio stato nativo”. Uno non facile, la favola dell’apatia è una favola. Perduto si dirà dall’“orgoglio” e dallo “spirito polemico: “Il mio carattere mi porta a trascendere da un ragione iniziale a un torto sostanziale”. Molto calabrese anche in questo, il cattivo uso della dialettica.
Il “vecchio brigante” di Nicastro, che solo parlava un dialetto stretto, e morirà subito dopo di debolezza,  inaccudito, Domenico distingue nel penitenziario di Procida (quello di Gladstone), “per una dignità risentita di tratti e di modi, da guerriero più che da delinquente”. È credente miscredente: “La storia calabrese brulica di delitti, compiuti da fanatici in nome di un diritto presunto o tenebroso”. Lirico: “Erano pur belli quei monti lontani, quelle vallate vaporanti di violetto tenero, quella natura senza storia”. Insofferente: “Se mi riconosco una patria, essa è piccola, fra due mari, una terra squallida, consolata da monti selvosi, ove la lingua è scura e dolente, e non la intende che chi ci è nato” – al termine di una delle tante critiche al’unità come si è fatta, per la quale lui ha sacrificato la giovinezza e la vita, libertario e repubblicano, nelle carceri borboniche.
Il suo nostos, il riferimento alla Calabria, è frequente ma non nostalgico – non ci sono calabresi che ritornano in Calabria, una delle terre di maggiore emigrazione. È l’amor de lohn, di lontano, dei trovatori provenzali, inattaccabile e inalterabile, rappreso. “Quando l’ho lasciata, nel 1862 (metà vita è passata da allora, n.d.r.),  sapevo che non ci sarei più vissuto, ma non ne ho sofferto. Essa è là, il mio amore per lei la contempla da lontano, eterna e intatta nel passare dei secoli che la sfiorano,  indifferenti al suo bene e al suo male: tanti ne vedrà senza batter ciglio, il privilegio dei disperati”.
Uno spaesamento sofferto già da ragazzo carbonaro, tornando da Taverna a Pizzo: “Stentavo a orizzontarmi: m’incantavo sui mandorli selvatici precocemente fioriti, sulle creste dei monti incredibilmente azzurre, sulle rapide della fiumara ingrossata”. Un amore per la terra non per la famiglia – contrariamente alla sociologia del familismo: la famiglia d’origine, fratelli, sorelle, dice  “crucciata e avida, ostinata nel rimpianto dei beni perduti”. A causa sua, del suo impegno patriottico – non senza ragione?

La mafia della pietà popolare
Processioni se ne fanno dappertutto. Specie di sera, con i lumi, le luminarie e i fuochi d’artificio. . A Montevergine, santuario mariano a 1.300 metri di altitudine sotto il monte Partenio,  fanno la processione anche  i femminiella (omosessuali, transessuali) napoletani, non in maschera né per gurru,  proprio come devozione. Solo in Calabria danno fastidio. Solo in una diocesi della Calabria. Può anche darsi che siano riti pagani e vadano rifiutate, ma che bisogno c’è di dirla mafiose? Da parte del vescovo. Perché, a ulteriori accertamenti, non è stato il maresciallo dei carabinieri di Oppido Mamertina a infeudare le processioni alla mafia ma il vescovo Milito. Perché?
Abolire le processioni, e ogni altro rituale, può anche essere una pratica di sano protestantesimo. “Sono pratiche pagane”, ha detto il vescovo di Oppido, e “corruttive” – si spende troppo, intendeva. Si potrebbero abolire insieme con le immagini, perché no? E anche con i santi, anche questa è una pratica dubbia. Ma bisogna saperlo.
E poi: abolire le processioni per lasciare ai preti mano libera nel sociale e nel terzo settore? Opera sicuramente benefica, ma quanta corruzione nel maneggiamento dei tanti, sempre pochi ma tantissimi, soldi pubblici, per l’assistenza ai bambini, ai ragazzi, ai vecchi, ai malati cronici, ai drogati, agli immigrati, ai poveri. Altro che processioni e spese suntuarie. I soldi dei fedeli possono essere mafiosi, e quelli dello Stato? O si salva solo la chiesa nel tutto è mafia che è il Sud?
Il sensus fidelium è per la chiesa un locus theologicus: la pietà popolare è il modo in cui il “popolo”, la gente comune, esprime nella sua cultura la sua fede. Alla riforma della chiesa il papa Franecsco chiama a collaborare la religiosità popolare, il “popolo fedele”: tra i dieci “luoghi teologici” che costituiscono le fonti della fede enumera nella “Evangelii Gaudium” anche la pietà popolare.
Il papa viene da una tradizione latinoamericana e argentina di ascolto della pietà popolare, nel presupposto che il popolo fiuta e interpreta il senso del religioso.
leuzzi@antiit.eu

Gramsci non era antisovietico

Mosca negoziò ripetutamente con Mussolini la liberazione di Gramsci, da subito dopo l’arresto. La liberazione era probabilmente concordata, a tappe, cominciando dal ricovero in clinica, al Quisisana di Roma. Ma l’interevento intempestivo e superficiale del partito Comunista d’Italia, bloccò l’operazione. Fabre documenta una trattativa ripetuta e insistente tra Mosca e Mussolini. E la leggerezza del Centro Estero del Pcd’I, che si attribuì l’uscita di Gramsci dal carcere, facendone un successo della propaganda antifascista all’estero: il passo ulteriore, la liberazione definitiva, fu così precluso. Se non fu cinismo: nel gruppo parigino del Pcd’I avevano voce alcuni nemici personali di Gramsci, in particolare Athos Lisa.
La parola fine, a questo punto, sul perché Gramsci non fu liberato, come anche a Mussolini conveniva. E l’inizio della sempre procrastinata revisione della natura e la funzione del Pci nella politica italiana, durante il fascismo e poi, con Togliatti e la Repubblica.
Fabre, storico non accademico ma acuto rimestatore di archivi (qui anche di quelli sovietici donati da Gorbaciov a Natta, il successore di Berlinguer alla guida del Pci, concernenti il primissimo intervento di Mosca a favore di Gramsci, attraverso il Vaticano), non trae le conseguenze dei suoi ritrovamenti. Ma ne pianta le fondamenta. Quindi è da rivedere il distacco, e anzi l’opposizione, di Gramsci alle politiche dell’Urss che finora ha fatto testo – fino a considerare l’arresto come una decisione di Mussolini dopo un via libera da Mosca. Con l’ostilità fra Gramsci e Mosca è da rivedere  la storia del Pci di Togliatti, che quella opposizione ha fatto balenare, senza documentarla né affermarla esplicitamente, giusto quanto è servito ad accreditare, una vita tutta italiana al comunismo.
Giorgio Fabre, Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato, Sellerio, pp. 529, ill. € 24

giovedì 22 ottobre 2015

Secondi pensieri - 236

zeulig

Culto – I luoghi di culto per chi non crede si moltiplicano, in Europa (Inghilterra, Francia, Belgio, Germania, Irlanda), negli Usa, in Africa, in Asia. Costruzioni anche imponenti, che richiedono un’organizzazione: per la raccolta dei fondi, la committenza, il mantenimento. Senza contare in Brasile e altrove in America Latina il revival dei culti stregoneschi – in proporzione inversa all’abbandono degli stessi in Africa. Con riti, anche formalizzati. È il desiderio di una messa? Di un culto di gruppo. Senza chiesa. Senza Dio?

Deserto – A fine 1973, sull’euforia del boom del greggio, triplicato di prezzo nella guerra del petrolio e la guerra del Kippur, i Nahyan di Abu Dhabi progettarono grattacieli e centri direzionali  per un’economia che non c’era, avendo confusamente percepito, da sedentarizzati recenti, che la fabbrica della ricchezza è la rendita urbana. Una idea poi reolicata in multipli nelle sabbie della penisola arabica, Dubai, Qatar, Arabia Saudita, Oman.
L’idea di una rendita sul deserto è perfino filosofica. Il deserto ha esaurito il tempo, è lo spazio senza tempo. Talvolta senza ricordi, che comunque ha abraso, qualsiasi traccia di costruzione o altre storie. Alimenta la religione, coi profeti e i santi, ma non ne ha colpa: è rasserenante, malgrado la mancanza di punti di riferimento: alla fine della giornata, nella quale non c’è nulla da fare, non c’è senso di colpa. E ora ha l’economia-non economia più ricca della terra.

Morte - L’“amor-te” è neologismo del protagonista occulto del nuovo romanzo di Magris, “Non luogo a procedere”. Che “la morte non esiste, spiegava, è solo un invertitore, una macchina che rovescia semplicemente la vita come un guanto, ma basta far scorrere il tempo in senso inverso e si recupera tutto”. Come nel “Libro dei morti” egiziano: “Ciò che è ricordato vive”.

Multipolarismo – È stato politico, poi anche culturale, e ora è teologico.
È la dottrina politica, o “ordine mondiale”, che Henry Kissinger ha proposto quarant’anni fa in un documento del suo Dipartimento di Stato, dopo la prima “guerra del petrolio” e la sua personale apertura a Pechino, nel cruciale 1973. Un concetto all’origine in effetti tedesco, che Kissinger potrebbe aver mediato da Romano Guardini alla sua prima opera, “La contraddizione”: il mondo consiste di molteplici polarità, di cui è impossibile la sintesi o sistematizzazione che Hegel voleva. La realtà è multipolare.
Il concetto è ora fatto proprio dalla chiesa cattolica, che vuole essa stessa adeguarsi a uno “scenario multipolare”: con le diverse culture e religioni, col pensiero tecnicoscientifico, con le culture anche più ostili – il fondamentalismo islamico, l’ateismo – e anche con diverse etiche.

L’elaborazione del concetto al dipartimento di Stato coronava l’esperienza di Kissinger consigliere di Nixon, dal 1968. Il dottor Kissinger, ancora consigliere segreto del presidente Nixon, perseguiva l’equilibrio delle forze, anche attraverso il mantenimento o la creazione di punti di forza all’interno dello schieramento avversario. È preferibile controllare il nemico dal di dentro, era suo principio. Meno furbo del “Gattopardo” (“Per il Re, certo, ma per quale Re? Se non ci siamo anche noi quelli ti combinano la repubblica”) e anzi onesto, cioè dichiarato, in saggi, libri, conferenze - il “dottor Kissinger” era “il Moralista” di Sordi, preciso, più che “il dottor Stranamore” di Kubrik e Peter Sellers. Ma sul presupposto che, se l’equilibrio è una strategia di pace, ci vogliono guerre per arrivarci.
Politicamente, il multipolarismo di Kissinger sostitutiva, anche se non formalmente, l’atlantismo - l’arroccamento dell’Occidente su se stesso – e prendeva atto del ruolo non più da protagonista dell’Europa. Il mondo era multipolare già in “1984”, il romanzo o distopia di Orwell, diviso in tre, Oceania, Eurasia, Asia Est – l’Oceania era la Nato. La storia si lega alla nemesi, insegnava il giovane Kissinger storico della Restaurazione, a una sorta di polizia mondiale. Il multipolarismo di Kissinger è in parte l’equilibrio delle potenze, della cui elaborazione ha fatto – e continua a fare – perno il congresso di Vienna di Metternich. Ma di più è quello di Carl Schmitt, delle proiezioni regionali di un centro unico.
L’impero Usa è tutto in Schmitt, su cui Kissinger teneva seminari nei primi anni Cinquanta, uscito appena il filosofo ex captivitate. Ignorandolo poi nella pubblicistica, anche nell’ultimo “Ordine mondiale”, dove preferisce il modello viennese, l’equilibrio delle potenze.

Il multipolarismo è diventato la dottrina del paese che ignora la geografia. Continentale e insulare. È il caso di un’idea che diventa politica e strategia. Elaborata e imposta solo con la forza delle idee.

Normalizzazione – Si fa ora attraverso la poesia. Attraverso il chiacchiericcio della rete, ma in particolare attraverso l’arte del verso: la poesia si può dire il veicolo della “normalizzazione”. Era un fatto intimo, che per definizione sfuggiva alla “normalizzazione dovuta alla logica razionale”, argomenta Peter Trawny nell’ultimo saggio, “Irrnisfuge: Heideggers Anarchie (fröliche Wissenschaft)”, su commissione dell’editrice francese Sylvie Crossman, che lo pubblica col titolo “La liberté d’errer, avec Heidegger”. Oggi invece il medium risolve la poesia in un fatto linguistico – “è per questo che ci sono oggi più poeti e poetesse che mai”. Parte della “normalizzazione”, di “un mondo che fa partecipare tutti e ognuno ai suoi disegni”.

Transgender – Segue, come per un gioco di bascula, all’unisex – non abolito purtroppo, con gravi sofferenze maschili. La moltiplicazione dei generi dopo l’unificazione. Con 23 generi legali in Australia e 56 proposti da facebook Usa.
Si potrebbe dirla una teoria neo gnostica, del dualismo fra corpo e anima. Così la propone Judith Butler nel recente “Fare e disfare il genere”: “Il sesso biologico esiste, eccome!”, ma necessita di “un linguaggio”, di “un quadro di comprensione”, di “ordini discorsivi”. Cioè dello spirito, di un’anima.
In questa forma è come se corresse alla sua fine, alla velocità cioè, e con l’illusorietà, della moda. Il firmamento Lgbt, lesbico, gay, bisessuale, transessuale, è già Lgbtq, con l’aggiunta del queer, l’indistinto, e anzi Lgbtqia, con l’aggiunta dell’intersessuale e dell’asessuato.
A fronte di questa neo gnosi, però, la chiesa cattolica riscopre il corpo che pervicacemente nega, almeno fino al Sinodo in corso. Evaporando (idealizzando) anche il rapporto di coppia. O della santità come annullamento dei sensi. La riscoperta del corpo è ciò che, al fondo, il papa Bergoglio ha chiesto al Sinodo. Fino al transgender “senza pregiudizi” di un saggio del cardinale Ravasi sull’ultima “Domenica” del “Sole 24 Ore”. Forse un po’ confuso (si sente affine a Judith Butler), il cardinale vuole integrare “il sesso biologico” col “genere socio-culturale”. Prendendo atto che l’essere umano ha natura corporea, oltre che sensibilità psichica, e entrambe vive e sviluppa in un rapporto interpersonale, promiscuo.

zeulig@antiit.eu 

Decamerone a Vigata - 2

Il seguito delle storie sollazzevoli di cui Camilleri è maestro, più forse che di Montalbano. Storie di corna perlopiù, o di vergini assatanate. Niente di che, un piccolo decamerone vigatese dove solo si pensa a quello, declinandolo sullo scherzo.
Scorretto anche, molto. Sia politicamente: l’“opposizione” mai non quaglia, anzi sempre viene messa nel sacco, qui anche da parrini e piscopi. Sia sessualmente: il femminismo è di vecchia maniera, da galantuomini al circolo, che ne pensano una più del diavolo – che pensano le donne più che diaboliche, avendone incrollabile paura sotto la necessaria ammirazione.
L’affabulazione viene meglio a Camilleri in dialetto, rispetto a quella su temi analoghi finora esercitata in lingua nei romanzetti di costume. Con un effetto doppio. Il rinvio indiretto, il dialetto risuonando come un arcaismo, al Tre-Quattrocento, quando la narrazione non aveva messo le mutande, e il toscano-volgare era ancora dialettale. E la costituzione, attorno all’aneddoto lubrico, di un piccolo mondo chiuso, di caratteri diversi e quindi interessanti benché di vite inutili.
Andrea Camilleri, Le vichinghe volanti e altre storie d’amore a Vigata, Sellerio, pp. 311 € 14

mercoledì 21 ottobre 2015

Il mondo com'è (235)

astolfo

Guerra – La fa chi si difende, argomenta Clausewitz, “Della guerra”, al libro VII, “Della difesa”, cap. 7. E alla fine del ragionamento non  è così bizzarro come sembra.
Si combatte meglio in difesa, aveva detto al libro IV, sulle “Forme della guerra”: “L’invincibilità sta nella difesa. La vulnerabilità sta nell’attacco. Se ti difendi sei più forte, se attacchi sei più debole”.
Al libro VI spiega il paradosso: “Finché l’attaccante non sa nulla dei piani dell’avversario, non ha motivo di agire, di applicare i suoi mezzi militari. Se li può portare dietro, cioè prendere possesso con le sue forze armate”, invece che con funzionari e proclami. Ma “spostare un apparato di guerra non è usarlo… Fin qui (l’attaccante) non ha commesso, propriamente parlando, un atto di guerra. Mentre il difensore che insieme mobilita il suo apparato bellico, e ordina di combattere, è il primo a esercitare un atto che realmente risponde al concetto di guerra”. L’invasione non è un atto di guerra?

Liberazione – Fu anche un teologia, sancita cinquant’anni fa in America Latina nel quadro della guerra fredda – ora fatta propria dalla Chiesa di Roma  col papa Francesco. Elaborata principalmente da Leonardo Boff, Camilo Torres, Gustavo Gutierrez, con Hélder Cámara, arcivescovo di Recife in Brasile,  e l’argentino Lucio Gera – uno dei maestri di papa Bergoglio. L’atto di nascita si pone nella conferenza tenutasi nel 1964 all’università teologica francescana di  Petropolis in Brasile, che riuniva la chiesa latinoamericana (Celam, consiglio episcopale latinoamericano). La consacrazione nella conferenza Celam di Medellìn in Colombia, nel 1968. Il termine teologia della liberazione sarà coniato dal peruviano Gutierrez nel 1973, col saggio dal titolo “Storia, politica e salvezza di una teologia della Liberazione”. La riflessione era cresciuta in opposizione alle dittature latinoamericane degli anni 1960, una deriva bonapartista patrocinata dagli Stati Uniti dopo l’avvento di Castro a Cuba e il tentativo fallito di rovesciarlo. A margine del Concilio Vaticano II. Durante il quale mons. Cámara promosse, con la gran parte dei vescovi e teologi latinoamericani presenti a Roma, il “Patto delle catacombe”: un impegno per i ceti sociali più emarginati.
Gera ne elaborerà in Argentina una forma non politicizzata, non connessa alla divisione dei mondi e alla guerra fredda. Come forma invece storica, tradizionale, della cultura popolare. Di recupero di essa e di piena assunzione nell’esercizio pastorale della religione.
In chiave più religiosa, la teologia della liberazione produsse il fenomeno ancora vivo delle comunità di base. Specialmente in America Latina: in Brasile se ne registrarono circa centomila. In chiave politica si illustrò in Nicaragua, dove le comunità cattoliche e molta parte del clero presero le armi contro la dittatura di Somoza. Due sacerdoti, Ernesto Cardenal e Miguel D’Escoto faranno parte del governo sandinista dopo il rovesciamento di Somoza. Cardenal se ne allontanerà nel 1994, non condividendo le misure autoritarie dell’allora, e tuttora, presidente Daniel Ortega. D’Escoto ha continuato l’impegno politico ed è stato spretato – ora ha scritto al papa la revoca della sospensione a divinis per poter “celebrare la comunione prima di morire”, e Francesco lo ha perdonato.

Pio XII – “Molto stimato in Germania”, lo dice il cardinale tedesco Kasper nel libro-intervista con Raffaele Luise, “Testimone della misericordia”. Si spiega che con papa Ratzinger la contestata causa di beatificazione abbia ripreso a marciare. In Germania ha anche servito da capro espiatorio nella questione della Colpa, col “Vicario” di Hochhuth.
Il dramma di Hochhuth, revanscista, in Italia fu assunto cinquant’anni fa a manifesto della sinistra anticlericale e comunista, Pio XII essendo nel frattempo passato nella schiera atlantista. Stalin dava al papa la colpa della guerra, e i comunisti ci credevano. Roger Vailland, lo scrittore del maquis, della Resistenza in Francia,  si fece a Roma nel ‘50 una vacanza per scrivere un libro sull’aggressione del papa alla pace, che il Partito in Francia gli aveva commissionato, su commissione del Cominform, l’organizzazione sovietica dei apriti comunisti nel mondo.
Papa Pacelli era tedescofono: era cresciuto con padre Lais, un prete sassone. E presto era stato  nunzio in Germania ovunque, in Baviera nella prima guerra, Baden, Prussia, Weimar. In una Germania reduce dalla guerra di religione imposta da Bismarck contro i cattolici. Ma un papa cui era apparsa la Madonna. Che nella prima enciclica chiese ai dittatori di “riportare lo Stato al servizio della società”. Dice: fece il concordato con Hitler. Ma ne era specialista: Serbia nel ‘14, Baviera ‘24, Prussia ‘29, Baden ‘32, Austria ‘32, Jugoslavia ‘35. Da segretario di Stato irrise Hitler in visita a Roma. Quando lo fecero papa, Hitler si arrabbiò, i suoi giornali lo scrissero. Pure Goebbels aveva commissionato un libro contro Pacelli, poi promosso porta a porta. Da segretario di Stato di Pio XI redasse l’enciclica antinazi Mit brennender Sorge, con angoscia cocente. E quando Hitler scese in Italia nel 1938, per fare “l’incontro della Storia” (Heidgger), lo fece ritirare a Castelgandolfo per non riceverlo, barrò i Musei vaticani e a Firenze Santa Croce, protestò contro le croci uncinate a Roma: è “fuori posto nel giorno della Santa Croce”, fece scrivere all’ “Osservatore Romano”, lo sventolio “di un’altra croce che non è la croce di Cristo”, una “profanazione”, contro cui il giornale invitava a “pregare, pregare, pregare”. In Baviera e Renania, quando si votava, Hitler non arrivò al quindici per cento, fu il Nord protestante a votarlo in massa: Ruhr, Prussia, Sassonia.
Pio XII temeva i comunisti, è vero: il 19 aprile ’19 fu preso in ostaggio dagli spartachisti nella legazione, pistola al petto. 
Hochhuth, amico e estimatore dello storico negazionista David Irving, poi scrisse un altro dramma, “Soldati”, in cui spiega che la colpa della guerra è di Churchill. Prima e durante – i bombardamenti a tappeto. Per lui l’Olocausto non c’è stato, e anche i campi sono inventati. Nel 1966, al tempo del “Vicario”, fu vezzeggiato pure da molti storici ebrei. E da Jaspers, il filosofo, che il problema della Colpa sentiva in modo acuto. Ha poi fatto lo sceneggiatore anche per registi impegnati, Andrzej Wajda e Costa-Gavras.

Riforma – Fu il fallimento di Lutero, Che voleva la riforma della chiesa e finì per creare una religione nazionale, anzi un modesto cesaropapismo, locale. Con la violòenza per di più.
Il cinquecentenario che si prepara non è per questo trionfalistico. Residua il vanto della cosiddetta “etica protestante”, che si rispecchia col “mercato”, col capitalismo.
Solo metà della metà non cattolica dei due miliardi duecento milioni di cristiani nel mondo è protestante. Anzi meno, 4-500 milioni, compresi gli anglicani - se i pentecostali sono 5-600 milioni, il cristianesimo dei poveri tra vudù e samba.

Roma – Ricorda e celebra le nefandezze. Non ne ha, comprese quelle del Vaticano, più di un’altra grande città, con molta storia, ma solo ricorda quelle: non ha un’altra storia, quelle  classiche comprese, di Arturo Graf e dei tanti tedeschi, Gregorovius in testa. È una città di bellezze uniche, naturali, storiche, artistiche, ed è la capitale della cristianità. Città per questo unica al mondo, potendo a questa funzione assommare quella di città più grande l’Italia, città capitale, turistica, commerciale, industriale, scientifica, burocratica, politica. Chiunque altro ci avrebbe costruito sopra potenza e splendori, Roma ci ambienta lo squallore. 
Anche della chiesa parla solo delle nefandezze. Non della miniera di intelligenze che accumula a Roma, teologi, filosofi, storici, latinisti, etc.. O della capacità di fare, soprattutto opere d’arte e del pensiero. Senza però essere una città perversa. È poco o niente sessuata, malgrado il gran parlare che ne fa – la “dolce vita” è un mito, ciò che non c’è. È perfino poco drogata, benché sia la città anche del cinema e dello spettacolo, il mondo che vi indulge. Non è nemmeno infelice, o triste – non drammatizza. Ma parla solo di porcate. Dei papi ora non più ma per secoli non c’è sordidezza clericale di cui non si sia compiaciuta. Come di ogni politico, dacché, è quasi un secolo e mezzo, è la capitale politica: non ce n’è no che non abbia sporcato – a parte, forse, DeGaseri (anche di Einaudi si parlava male).

Turchia – Ora che la Germania vuole la Turchia dentro l’Unione Europea e quindi la Turchia sarà in Europa (la Turchia sì, la Russia no), dopo averla rifiutata per anni e fino a dieci giorni fa, bisogna riconoscere che l’Europa era in antico “turca”. Per la guerra di Troia e per altre storie che si trascurano.
L’Italia indirettamente lo riconosceva già mezzo secolo fa, con l’Italia turrita nei francobollini al risparmio. Che si figurava con la corona di Artemide Efesia, la frigia Cibele, quella dei sacerdoti evirati, e di altre terribili amazzoni anatoliche, Sofia, Europa, Atena, Temis, Afrodite, Diana, la madre dell’Abisso - non del Grand Hotel di Lukàcs, che in realtà è di F. T.Marinetti, ma della gnosi -, Leto, Silene, Gaia, la Potnia Heren, madre di Euter, Demetra, Isis, Moira, Medea, Achamot. Di Euter, che ricorre nell’Iliade, 470, niente si sa: l’edizione Einaudi la dice, dopo uno sterminato catalogo di faticose elucubrazioni, “signora delle bestie”.

astolfo@antiit.eu

Costano caro le banche tedesche

“Le inefficienze nelle ordinarie procedure di gestione dei dissesti bancari… negli anni scorsi hanno costretto numerosi paesi, sia in Europa sia a livello globale, a destinare risorse pubbliche ingenti in favore di banche in difficoltà. Voglio sottolineare che l’Italia non è tra quei paesi, nonostante l’evoluzione assai sfavorevole della nostra economia negli anni scorsi. In base ai dati pubblicati sia dall’istituto di statistica europeo (Eurostat) sia dalla Bce , da noi gli interventi pubblici sul mercato del credito non hanno generato costi per lo Stato, ma un flusso, pur contenuto, di ricavi netti positivi sotto forma di interessi e commissioni. Al contrario, in molti paesi esteri gli interventi dello Stato a sostegno del sistema bancario hanno determinato per la finanza pubblica e per i cittadini oneri assai cospicui, pari al 5,0 per cento del pil in Spagna, al 5,5 nei Paesi Bassi, all’8,2 in Germania, a oltre il 22 in Grecia e in Irlanda. Il volume dei trasferimenti in favore delle banche è stato assai elevato anche negli Stati Uniti e nel Regno Unito. A titolo di esempio, è possibile calcolare che se in Italia fossero stati effettuati interventi in rapporto al Pil pari a quelli della Germania, l’onere a carico delle nostre finanze pubbliche sarebbe ammontato a 130 miliardi di euro”. Senza contare l’uso dei fondi europei, molto maggiore.
Ai deputati della Commissione Finanze, ai pochi che hanno ascoltato il vice-direttore generale della Banca d’Italia Fabio Panetta, al seminario sull’applicazione delle nuove normative in caso di crisi bancarie (per primi pagano azionisti e correntisti), le cifre non hanno fatto senso. Ma danno un’idea precisa di come si regola l’Europa.

Il capitalismo di Stato è francese

Il riordino delle partecipazioni statali, col salvataggio della Psa-Peugeot insieme con un gruppo cinese, l’incremento della quota in Renault, e alcune limature in altri gruppi, ha portato la francese Ape, Agence des Participations de l’État, alle seguenti quote (diamo quelle dei gruppi quotati in Borsa)
Eléctricité de France 84,5 per cento
Areva 80 per cento
Aéroports de Paris 51,7 per cento
Adp 50.6
Engieu(ex Gaz de France-Suez) 36,7 per cento
Thales 26,6 per cento
Safran 22,4 per cento
Nissan-Renault 19,7 per cento (dal 15 per cento)
Air France 17,58 per cento
Peugeot 14,1
Orange 13,4 per cento
Airbus 11 per cento
Dexia 5,7 per cento
I tredici gruppi quotati in Borsa capitalizzano 85-90 miliardi. In Totale, Ape gestisce partecipazioni in 80 gruppi, ij quattro settori: trasporti (ferrovie comprese), energia, industria manifatturiera, servizi (Poste comprese) e finanza  
Nell’Europa delle asimmetrie ciò è possibile – che non è consentito ad altri stati, per quote molto minori.

Recessione - 42

L’economia si riprende ma:
Trenta esercizi commerciali chiudono ogni giorno.

I “crediti deteriorati” delle banche sono aumentati a 350 miliardi, 200 dei quali “sofferenze”, irrecuperabili..

Crescono le sofferenze dei datori di lavoro con l’Inps, artigiani, commercianti, industriali, studi professionali: il doppio che nel 2014.

Nel campo giornalistico 330 editori sono morosi con i contributi sociali e sanitari. In aggiunta a quelli cessati o sospesi negli ultimi anni, 196. E a quelli falliti, 90. 

La ragazza che prende, part-time, le richieste di ricette e le prenotazioni dal medico di base è in congedo maternità. Per la sostituzione si presentano alcune laureate, e due giovani dottori.

Quando a Roma comandavano le donne

Marozia, Maria dei Conti (di Tuscolo), detta Mariozza, storpiato in “Marozia”, riuscì a imporre a Roma “ben tre papi, l’ultimo dei quali, Giovanni XI, era suo figlio bastardo, adulterino e sacrilego, frutto dei suoi amori con papa Sergio III”, amori di quando aveva tredici anni. Non è un romanzetto anticlericale, è una storia: siamo nel 900, il secolo che preparava l’anno Mille. Marozia morì presto, a 42 anni, ma visse abbastanza per convivere con “una ventina di papi e antipapi” nessuno dei quali secondo Di Capua ha lasciato buon nome.
Di Capua sottotitola il libriccino “La pornocrazia pontificia intorno all’anno Mille”. E di questo soprattutto tratta, più che di Marozia. La quale, a parte la cattiva fama presso i memorialisti (ecclesiastici) del secolo, ha lasciato poco di sé. Era il secolo della fine del mondo con l’anno Mille. Roma trapassava per una serie di papi inetti, o debosciati, o di cattiva salute, o tutt’e tre, qualcuno di carattere, nessuno di fede. E le donne comandavano, spudorate, folleggiando a letto. Teodora dei conti di Tuscolo, madre di Marozia, prima e peggio di lei. La “Dolceamore” del vescovo nemico Liutprando. Che da ultimo, amante cinquantenne del papa Giovanni X, lo passa alla figlia Marozia. La chiesa si governava così?
Bizzarro sfogo maschilista, contro le donne che vogliono comandare. Che però a un certo punto fa di Marozia e Berta di Lucca (Berta di Lotaringia, marchesa di Toscana) dei leader politici intelligenti e capaci. Mentre Giovanni X, il papa da letto madre-figlia che solo per questo Di Luna vuole eletto vicario di Cristo, di suo essendo umile procuratore del potente arcivescovo di Ravenna,  fu l’artefice della sconfitta dei mori sul Garigliano. Cioè della “più gloriosa impresa nazionale compiuta dagli Italiani nel X secolo” secondo Gregorovius. Insieme col marito di Marozia, Alberico di Spoleto, che comandava le truppe.  La chiesa non era la chiesa, eppure governava, l’Italia, l’Europa – che non erano meglio. Resta buia la storia dei secoli bui.
Giovanni Di Capua, Marozia, Scipioni, pp.96 € 3

martedì 20 ottobre 2015

Cancelliera d’Europa

Ha fatto le parti dei mugugni in Germania contro l’immigrazione illegale, anche se di necessità, isolando gli estremisti. E ora fa le parti dei mugugni europei e le indecisioni lavorando in Turchia a chiudere la via d’accesso più ampia – molto più della Libia. Non a chiuderla, a regolamentarla. Sulle guerre, anche nel Mediterraneo, non ci sente e non impegna in alcun modo la Germania, giusto un po’ d’aiuto umanitario - in Afghanistan gestisce l’eredità di Schröder, il suo predecessore socialista. Ma sulle altre questioni Angela Merkel si è messa decisamente al timone dell’Europa.
È una nuova stagione della “ragazza venuta dall’Est”, dopo tre cancellierati, un record  e una soddisfazione difficilmente migliorabili. In poche mosse si è disegnato un nuovo ruolo, di federatrice dell’Unione. Che in teoria è federata, ma non di fatto. Per ora solo sul versante politico-umanitario. Ma con qualche ripensamento già visibile sui temi della crescita economica: della deflazione e il ristagno da combattere più della rigidità di bilancio.
In Germania l’insofferenza contro l’immigrazione di massa è vasta, ma Angela Merkel ha saputo riannettersi l’opinione moderata, isolando gli estremisti. Sui doveri dell’accoglienza. E sui benefici  dell’immigrazione – entro limiti.
La Turchia aveva appena ridicolizzato come “una barzelletta” il piano europeo di accoglienza e suddivisione degli immigrati, Angela Merkel in poche ora a Istanbul ha arrangiato un nuovo approccio: più controlli (primo screening) più aiuti. In cambio, è stato detto, della pronta ammissione della Turchia alla Ue. No, la Germania era e resta contro. Non solo la Cdu, i cristiano-democratici di Angela Merkel, anche la Spd, i socialisti al governo con Merkel. Tanto più col semi-regime di Erdogan, che non ha rispetto nemmeno formale dei diritti civili e perfino umani. Angela Merkel ha attivato la “relazione privilegiata” che nel 2009 propose a Erdogan invece dell’ammissione. Erdogan la criticò, ma ora è questo che chiede. A cominciare dalla libertà d’ingresso dei turchi in Europa, con passaporto ma senza visto.
Si discute se la Germania esercita una egemonia non dichiarata in Europa, contro la lettera a e lo spirito dei trattati. La esercita, nella burocrazia di Bruxelles e negli organismi politici collegiali, in virtù del’asservimento volontario di una ventina circa di paesi membri. Ma nulla è di obiettabile alla capacità politica di Angela Merkel di progettare e dare soluzioni ai problemi che emergono: è solo capacità politica..


Letture - 232

letterautore

Albero – Mohammed Khadda, l’artista algerino del secondo Novecento che ha rigenerato in pittura la calligrafia araba, lo trova, in una delle sue “Rêveries”, “confidente privilegiato delle donne cabile”, al nord berbero del paese – oltre che soggetto privilegiato, di fine stilizzazione, della ceramica locale: “Ai suoi rami bassi fremono al vento amuleti, ex voto, nastri, esorcismi, perché si colmi una solitudine, si attenui un male o prenda fine l’esilio”. Per una sorta di potere magico a esso associato: “L’albero e la sua rappresentazione si specchiano, narcisi, in magia….”.

Gadda, “Diario di Caporetto”, prigioniero di guerra nella fortezza tedesca di Rastatt, affamato (raccoglieva i resti nella spazzatura) e depresso, a ventiquattro anni, si dice riconfortato dalla “vista d’un albero, nudo nell’inverno, contro alcune luci del tramonto”. Per tutta la vita aggiunge, gli alberi gli sono stati di conforto, come segni del passato, di un radicamento: “Sempre gli alberi mi commuovono, risvegliando le immagini del passato con grande potenza: hanno forza di suscitare idee e ricordi e stati d’animo per me quasi vicina a quella della musica. Da bambino li veneravo, li guardavo con amore; sempre fui loro amico”.

Alain Corbin, lo storico delle sensibilità, che all’albero ha dedicato una lunga ricerca, gli trova un’enormità di significati. A partire dal Duomo di Milano, l’idea architetturale gotica, che ad esso si ispira, del tempo come un bosco sacro. Perpetuazione di riti antichi, anzi dei primi riti religiosi sul continente, da Dodona e Delo al druidismo. Albero della Conoscenza nella Bibbia, sacro per molti millenni. La dendrolatria è la forma religiosa più antica, più delle religioni rivelate, biblismo compreso. In aspetto di palma, che sempre rinasce, di tasso, di olivo, di platano, di olmo, di cedro naturalmente del Libano.
L’idea più approssimata nel reale alla resurrezione e all’eterno. Metamorfico, metempsicotico, durevole. Mezzo di scrittura, anche, nella polpa e nella corteccia, dacché c’è storia – e anche oggi, malgrado la scrittura elettronica. Nonché scrittura esso stesso: testimone fisico e metafisico, degli eventi naturali e della stessa storia, come e forse più dei mammiferi.
Con numerose funzioni, si può aggiungere, pratiche: da frutto, da ombra, da decoro, frangivento, antimalarico. Ma più simboliche. L’albero della vita, della sapienza, dei cimiteri - il cipresso, il tasso o albero della morte - ma non della morte, di Giuda, delle ninfe e dei satiri, della divinazione. Alberi incantati, onirici, fantastici. Molto letterari, in poesia e in prosa: Alberi animati, alberi che sanguinano, specie in presenza del taglialegna, o furiosi e minacciosi, o introspettivi e muti. Confidenti e mentori, interlocutori morali.
Alberi anche come bellezza e come desiderio - “il suo essere in pieno desiderio” Valéry dice “certamente di natura femminile”, benché protrudente. O della solitudine socievole, nello stormire e nella quiete. O dell’alterità, dell’indifferenza. Ma più spesso proiezione degli stati d’animo. E ancora di più partecipe, sodale taciturno e solido.

Piantare un albero ha usato a lungo, e fino al secolo scorso, quasi come procreare – fare un figlio, scrivere un libro, erigere un monumento, meritare della patria. Per assicurarsi la memoria.
Analogamente vitalistica la funzione erotica. C’è un erotismo dell’albero che Corbin documenta con una serie sorprendente di riferimenti. In Proust in primo luogo. Ma più di tutti nell’Ariosto e il Tasso, anzi in tutto il Rinascimento, che del bosco fa “il luogo dell’erranza erotica”. Per non dire della “Genesi”, lo storico aggiunge ironico: Eva, “la peccatrice”, bella come il diavolo, la sua nudità, la lussuria, il tradimento, la menzogna, la discordia, il maleficio, la caduta, la disgrazia, tutto si lega all’albero, se infruttuoso.

Dialetto – Si tengono su, i raccontini di quest’ultima raccolta di Camilleri, “Le vichinghe volanti”, solo perché in dialetto? Trame esili, aneddoti scontati, personaggi di maniera, però di un gusto “diverso”. Per l’uso del dialetto, come se venissero impastati con un nuovo materiale, che da solo fa l’opera. Anche per la suggestione dei film su Rai Uno – Michele Riondino che intima “No’ ‘cangiate canali!”. È probabile – la vecchia serie di Montalbano, con Zingaretti, regista Sironi, ha creato un mondo.
È l’effetto del leghismo, del  regionalismo? Ma altre forme dialettali non attecchiscono, il napoletano per esempio, il tentativo di riproporre il romanesco.  È la Sicilia che si impone, che ha una consistenza irriducibile alle volgarizzazioni, al tutto mafia, a Crocetta, ai suoi giudici, ai suoi politicanti, ai suoi giornalisti.
La suggestione è anche, di rimando, al “Decamerone”, alla novellistica del Tre-Quattrocento. Quando anche il toscano-volgare era un po’ dialetto, una parlata locale tra le altre. Oltre che per il carattere sollazzevole delle storie.

Grande Guerra  - Era contro la stragrande maggioranza degli italiani, era a favore la stragrande maggioranza, forse la totalità, dei letterati, poeti e romanzieri in prima fila. C’è passato tutto il primo Novecento. Gabriele Pedullà ne fa la lista nella presentazione di De Roberto, “La paura” - e qualcuno manca, per esempio Gualtiero Tumiati:  Alvaro, Bacchelli, Bontempelli, Borgese, Cecchi, Comisso, D’Annunzio, Gadda, Govoni, Jahier, Lussu, Malaparte, Marinetti, Monelli, Montale, Palazzeschi, Mario Puccini, Rebora, Saba, Savinio, Sbarbaro, Serra, Soffici, Solmi, Stuparich, Tozzi, Ungaretti. Più quelli che avrebbero voluto ma furono riformati: Boine, Gozzano, Arturo Onofri, Papini. E quelli che lamentarono di non aver fatto in tempo per essere nati dopo il 1900 -  Pedullà cita Gallian e Brancati, che per questo poi sarà “patriota” con Mussolini. Più quelli che erano troppo vecchi per andare al fronte – D’Annunzio, classe 1863, ebbe bisogno di una speciale dispensa - ma vissero ugualmente la guerra con entusiasmo: Di Giacomo, Panzini, Pirandello e Svevo.  

Nazismo – “Il nazismo resta un mistero”, dice Paolo Maurensig, a Maurizio G. Mian su “Sette”. Cioè?

Thoreau – Un falso ambientalista, narcisista e insocievole. Abolizionista, questo sì, ma misoneista, misantropo, e un po’ razzista, anche contro gli irlandesi che morivano di fame, che gli capitò d’incontrare nel 1849. Kathryn Schulz ne fa sul “New Yorker” un ritratto desolante. Con un taglio da pamphlet, prevenuto, ma non senza verità, sia sul versante natura che su quello disobbedienza civile. “La sola ragione per cui ammiriamo “Walden” è che lo leggiamo in selezione”. Tutto il malloppo in effetti è indigeribile. Il primo capitolo, non persuasivo, sull’“Economia”, inneggia alle virtù dell’astinenza ma in senso morale, della purezza e non dell’anticonsumismo come viene attualmente letto - e per di più in effetti ispira poco, è sentenzioso e noioso. All’uscita e per molti anni non suscitò alcuna curiosità.
L’apostolo del ritorno alla natura era nella realtà “ossessionato di sé”. La stessa disobbedienza civile, suo trademark, riduce di fatto a “fare in qualsiasi momento ciò che ritengo giusto”.

L’incontro con Emerson, che anche lui aveva posto la residenza a Concord, ebbe un effetto positivo enorme su Thoreau, che però non si liberò dei suoi limiti – Emerson lo introdusse al trascendentalismo, lo incoraggiò a scrivere, lo impiegò come tuttofare e insegnante dei suoi figli, e gli affittò la terra in riva allo stagno dove Thoreau abiterà a lungo dal 1845 e scrivera “Walden”. Valetudinario e misantropo lo dice Stevenson nel 1880, quindici anni dopo la morte.

letterautore @antiit.eu 

Il Grande Gatsby va al Sud

Due “racconti del Sud”. Di vite giovanili sempre. Ma di ritmi lenti. Di aspettative che sono in realtà illusioni. I due leitmotiv di tutta la sua narrativa: la giovinezza carica di aspettative che poi falliranno. “Jelly bean” è il pappamolla, lo sfaccendato che s’immagina cose. Il “Cammello” è il meraviglioso che sempre s’intreccia con l’ordinario nella fantasia sovraeccitata – qui a New Orleans.
Due racconti dell’“Età del jazz”, ma malinconici – il jazz di Fitzgerald è il blues. Dialogati, nel modo che Hemingway medierà, più forse che da Gertrude Stein. Fitzgerald non veniva dal Sud, era del Minnesota, del New York, del New Jersey. Ma “attraverso mia moglie”, dice nelle brevi premesse ai racconti quando ne ordinò la raccolta, aveva penetrato quella realtà – Zelda era dell’Alabama.
Coi racconti si apre anche la strada alla “gioventù bruciata”. Fitzgerald cominciò a scriverne dopo il successo istantaneo del suo primo romanzo, “Di qua dal Paradiso”, per mettere a frutto sulle riviste che pagavano bene la fama raggiunta. Il “Cammello” dice di avere scritto a New Orleans stessa in quindici ore, per comprarsi un orologio che aveva visto, a 600 dollari. Che forse non è vero, ma era già nel personaggio – un autore che vuole essere un personaggio, come poi sarà per Hemingway e altri. Uno “sputtanamento” secondo Hemingway, che lo distoglieva dalla cura dei romanzi, a suo parere l’unico terreno su cui un autore deve impegnarsi – da qui un allontanamento tra i due, ma anche questo per fare personaggio?
Francis Scott Fitzgerald, Jelly Bean. La parte posteriore del cammello, Il Sole 24 Ore, pp. 79 € 0,50

lunedì 19 ottobre 2015

Problemi di base - 249

spock

Il papa non c’è, dice il papa, la chiesa sono gli altri: avremo un papa suicida?

I cardinali sono tarati, dice il papa, hanno almeno quindici malattie gravi. Tutti eccetto lui?

Perché il papa, che non vuole fare politica, vuole abbracciare i mozzateste dell’Is?

Col Qatar liberatore della Siria - come già della Libia?

Ci sono più diritti civili e politici nella penisola arabica che in Siria?

Ma se la Siria si trasferisce in Germania, chi andremo a liberare?

O la Siria la trasferiamo in Turchia, e la Turchia infine in Europa?

Con Erdogan in Europa il partito Popolare avrà la maggioranza eterna?

L’Europa è una “unione di diritto”, ma alcuni sono più diritti degli altri? (Soluzione: Francia e Germania)

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L’attrazione fisica dell’immanifesto

Lo spazio e il tempo sono mobili (Einstein). La realtà è interazione (Bohr, Heisenberg). La scienza è visionaria (Rovelli). E il presente è soggettivo (sparsi). Per il resto, tra Quanti, Gravità e Termodinamica siamo in attesa di una stele di Rosetta che ne combini le lingue e ci spieghi cos’è il calore, cioè il tempo. Per il resto, cioè per l’essenziale. “Se posso rubare le parole al mio editore (Roberto Calasso, n.d.r.)”, si schermisce Rovelli, fisico a Marsiglia, “«l’immanifesto è molto più vasto del manifesto»”.
Che cosa fa un best-seller si chiede la “Domenica” del “Sole 24 Ore”, la stessa che a Ferragosto di tre anni fa ebbe l’idea di far spiegare a Rovelli la bellezza della fisica in tre brevi articoli? Ne è nato infatti “il best-seller assoluto della saggistica da un anno”, scrive più sconcertato che orgoglioso Massarenti, subito in classifica ora a Londra appena tradotto nei Penguin. Tanto più che ai più è illeggibile. Anche qui “l’immanifesto è più vasto del manifesto”. Ma meglio così, no?
Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi, pp. 88 € 10

domenica 18 ottobre 2015

Ombre - 288

A una prima pagina audace del cardinale Ravasi, “Sesso e gender senza pregiudizi”, la “Domenica” del “Sole 24 Ore” fa seguire una pagina “Bordelli, laboratorio di modernità”, con riproduzione di illeggiadrite pensionanti. Nel mezzo un commento del direttore Massarenti: “Non possiamo non dirci socratici”. Cioè improsatori?
Di che stiano parlando nel “giornale della Confindustria”, bordello?

Come non detto in Egitto. Si vota per il partito unico, con un generale a capo, come per i passati sessant’anni dal colpo di Stato Neguib-Nasser nel 1954. Dopo un passaggio democratico sanguinoso,  Ma Obama ha creduto veramente che l’Egitto (l’Iraq, la Siria, l’Afghanistan, la Libia) si possa governare come l’Inghilterra, oppure gli Usa hanno fatto finta? Piccoli-grandi dracula.

Il capomafia di Ostia si fa un selfie con le star di “Suburra”, la serie tv su Mafia Capitale, Ostia compresa. Che manda in rete, orgoglioso. Un s quel, nemmeno il primo, al funerale stellato del padrino dei Casamonica. Come fare un business di Mafia Capitale – non si capisce da che parte sta la buffonata.

Il sociologo Diamanti calcola su “Repubblica” che dei cinque anni di gestione Atac sotto inchiesta, due  anni e mezzo di Alemanno e altrettanti di Marino, i primi siano più “pesanti”. Non per l’ammontare dei falsi appalti, che pesano più negli ani di Marino, ma per la “qualità”. Non ci sarà un insegnamento, fra i tanti, di Sociologia Dem, creato dallo stesso?

Monti rimprovera Renzi dall’alto della sua nuova carica a capo di un “gruppo di alto livello” della Ue per il controllo dei bilanci nazionali: “lI premier cerca consenso, il debito può attendere”. Cioè: non si cura del debito. Che tutti invece sanno che non è un problema per sé ma solo se non “sostenibile”, cioè se non aumenta il pil, per ripagarlo.
Non si può farne un rimprovero a Monti, che ha ridotto il pil e aumentato il debito – sarebbe inutile. Ma la Ue non potrebbe creare un “gruppo di alto livello” per formare i Grandi Economisti? La  formazione è uno pilastri europei.

Un fratello viene ammazzato, un altro ferito grave, in una faida di camorra in una pizza di Napoli. Nessuno avverte il 113 o il 118. Il fatto è presentato variamente, ma sempre nell’ottica della Napoli camorrista – omertà, paura, indifferenza, etc. Non nel’unico significato: che Napoli li vorrebbe tutti morti, spacciatori-spacciati.

Milano riscopre un’inchiesta di un anno e mezzo fa e decapita la giunta della Regione Lombardia, ora che parte la campagna per le elezioni a Milano a maggio. Un’inchiesta basata sulle dichiarazioni, non riscontrate, di un architetto che non se la passa più molto bene. Renzi li farà tutti cavalieri, alla Procura e in Tribunale? O senatori – ora che si vogliono eletti dal Consiglio regionale?

La giustizia a Milano è sempre politicizzata. Però non si sentono più applausi.

“Un gruppo di studenti”, scrive Renzo Piano sul “Sole 24 Ore” domenica, “mi ha scritto chiedendo una scuola diversa: «Ogni scuola dovrà essere un presidio di sostenibilità»”. Presidio? Sostenibilità? Diversa? Saranno studenti-lavoratori, in cerca di impiego sottopolitico.

“Chi sa dove si trova il Donbass?”, chiede Nikita Mikhalkov, il regista, a Paolo Valentino su “La lettura” l’altra domenica: “O la storia della Crimea? A chi sta a cuore il racconto dell’eroica difesa di Sebastopoli, cui partecipò Lev Tolstòj”? A cuore a nessuno, probabilmente, ma quanti sanno dov’è la Crimea?

All’Expo si fanno file di sette e otto ore – è visibile praticamente solo l’Azerbaigian, e poco altro. Ma nessun giornale ne parla, nessuna cronaca cittadina, nessun supplemento sull’Expo, nessuna tv mostra una panoramica. Dell’inutilità dell’informazione. 

Ma Giannino e Mucchetti, quando volevano l’Alfa Romeo gratis per la Vokswagen, l’Audi-VW in comodato avevano pulita oppure inquinava? È importante saperlo: Giannino no, è in bassa fortuna, ma Mucchetti, ora senatore intransigente Pd, potrebbe dover rimborsare i danni, di quando circolava in Euro 5 senza averne diritto.