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sabato 25 giugno 2022

L'aborto va regolato

Toni apocalittici sui media – “shock in America”, “shock mondiale”, “l’aborto non è più un diritto” -  per la sentenza della Corte Suprema americana che prende atto della mancanza di una legge federale in tema di aborto e demanda la questione alla legislazione dei singoli Stati della federazione. Ma questo è nel diritto americano: la federazione  si regge sul principio  dell’autonomia degli Stati membri, e della legislazione federale in via subordinata e per specifiche attività – difesa, sicurezza, medicare (per i bisognosi). La sentenza è lunga 147 pagine, e lo spiega.
La Corte è stata avventatamente adita contro lo stato del Mississippi, che ha stabilito un limite di quindici settimane di gravidanza per avere diritto all’aborto, invece della pratica dell’aborto libero, perfino “perinatale”, subito dopo la nascita, invalsa da cinquant’anni – da una sentenza della stessa Corte su di un caso specifico che ha funzionato da precedente, Roe vs.Wade -, e non ha potuto che dare ragione al Mississippi: non c’è una regolamentazione federale dell’aborto. Né si può fare riferimento alla costituzione, che protegge la libertà, le libertà: principio universalmente accolto e praticato è che la libertà è intoccabile finché non lede i diritti (libertà) altrui. E nel caso dell’aborto non si può non tenere conto del feto, a un certo punto, dell’essere vivente già formato. Il “dramma dei genitori con figlie minori” si risolve con la pillola del giorno dopo, anche se va presa con parsimonia. E c’è anche l’aborto. Ma non a danno di altri. L’aborto libero, fino al “perinatale”, cioè all’infanticidio, non è un fatto di libertà ma di licenza.
I lettori del sito hanno avuto la possibilità di documentarsi:
http://www.antiit.com/2022/05/cronache-dellaltro-mondo-abortive-186.html
http://www.antiit.com/2022/05/il-mondo-come-446.html
 
In America la decisione della Corte entra nella divisione sempre più aspra tra destra e sinistra, una sorta di guerra civile dell’opinione, dopo la radicalizzazione introdotta da Trump e dalla “woke culture”, ma non c’è un’abolizione dell’aborto assistito e competente, anche negli Stati più di destra, solo una regolamentazione. Nello specifico, fatta la tara di destra e sinistra estreme e radicalizzate, non si finisce di esaurire i danni dell’eugenetica. L’aborto libero sarà pure un diritto, ma è quello della clava, non di libertà.

Un complotto assolve

Un aureo libretto, apprezzato all’uscita, nel 1993, e poi scomparso. Sulla mania del complotto, che, spiega lo storico toscano, domina la storia dell’Italia – Zeffiro Ciuffoletti non è un nome poetico, è un vispo novantenne. La storia del regno, e anche      quella della Repubblica: dall’attentato a Togliatti a Capaci e alla Milano delle tangenti (Ciuffoletti ha scritto perché convinto, malgrado le propensioni politiche, che Mani Pulite non fosse un complotto). Passando per Piazza Fontana e via Fani.

Fuori polemica, non è vero che l’Italia sia la patria dei complotti. Quella semmai è l’America, ne scopre uno al giorno, o poco ci manca. Ma anche la Francia, anche la Germania: probabilmente il complotto va con la democrazia, Canfora ne racconta tanti dell’Atene del secolo d’oro, di Pericle e successori. E non è vero, è evidente, che Mani Pulite fosse “pulita”. Ma è vero che ogni sistema autoritario si propaganda denunciando cospirazioni. Così come ogni sistema politico morente: le rivoluzioni sono un complotto, etc..

La psicosi del complotto è più vera – forte, difusa - in chiave psicologica: il complesso di persecuzione, a opera di ignoti, per cause ignote, magari solo rimosse. Ciuffioletti richiama l’abate Barruel e la polemica gesuita, di un cattolicesimo sotto atacco. I Protocolli dei Savi Anziani di Sion, un’invenzione molto ben concepita e tempestiva – buona per Hitler e per Stalin. Al confronto, la mania italiana è solo giornalistica, di un giornalismo che si vuole di denuncia ma è solo pettegolo – tutti siamo colpevoli di qualcosa.

Zeffiro Ciuffoletti, Retorica del complotto


venerdì 24 giugno 2022

Ama de casa

Lisi ha la bellezza creola languida, stanca dell’esperienza più che degli anni. La vita in due continenti può essere faticosa. È in viaggio da Lima, dove è cresciuta con una ama de casa, una serva che la famiglia accudisce. La quale ha fatto sirvina cui, avendone una figlia. La figlia è cresciuta in casa come una figlia, ha fatto le scuole, e veniva preparata a un lavoro da segretaria. Ma ha fatto sirvina cui con un venditore ambulante di una barriada, nella quale è scomparsa. Sirvina cui è il matrimonio incaico, senza obblighi per il padre. Anche la madre si è messa con un uomo. In casa le è subentrata una chucha, ragazza della selva, una selvaggia.

Il dollaro scalzato – o la trappola del dollaro

Se e quanto a lungo il dollaro rimarrà dominante? Con tutto ciò che comporta di benefici per l’economia e la potenza politica americana? “Il sistema monetario internazionale può essere alla soglia di un cambiamento significativo, per una combinazione di forze economiche, geopolitiche e tecnologiche. Ma è una questione aperta se queste forze butteranno il dollaro giù dal suo piedistallo come moneta internazionale dominante”.

Il professor Prasad, maestro di Economia Internazionale alla Cornell, e alla Brookings Institution, americano di origine indiana, non è di logica baconiana, per cui un cosa non è un’altra:  “indianamente “ dice che può essere l’una cosa e l’altra. Ma il problema si pone, oggi come cinquant’anni fa – il dollaro era in fase acuta di crisi. Allora furono inventati i Diritti Speciali di Prelievo, un asset teorico, una nozione di riferimento. Oggi invece non è in gioco una invenzione burocratica, di manager di banche centrali, ma un insieme di forze, economiche e politiche. Che Prasad elenca.

Il dollaro è dominante. Poco meno del 60 per cento delle riserve in valuta delle banche centrali del mondo è in dollari – i “fondi ombrello”. Tutti i contratti commerciali di materie prime sono denominati e pagati in dollari. Il dollaro è in uso per denominare e regolare la maggior parte delle transazioni finanziarie internazionali. Ma il peso dell’economia americana nella produzione mondiale è in calo: era il 30 per cento del pil globale nel 2000, è ora il 25 per cento. E “l’emergere delle monete digitali, sia private che ufficiali, sta scuotendo la finanza interna (americana, n.d.r.) e internazionale”. Ci fanno ricorso anche molti Stati, e almeno quatttro banche centrali le sperimentano: Cina, Hong Kong, Thailandia e Emirati.

La digitalizzazione monetaria è preferita perchè rende le transazioni immediate e annulla i rischi di cambio. Costa anche meno – specie per le rimesse degli emigranti, una parte sempre più cospicua del mondo. E presto renderà possibile il commercio inter-Stati senza ricorrere al dollaro - “Cina e India, per esempio, presto non avranno più bisogno di scambiare le loro monete in dollari per commerciare senza costi eccessivi: potendo scambiare renminbi e rupie direttamente costerà anche meno”. Insomma, “la posizione del dollaro come «moneta veicolo» declinerà”.

Ma. Ma non bisogna sopravvalutare il ricorso delle banche centrali alle valute digitali. Non quello della banca centrale della Cina, che sta sperimentando un renmnbi digitale. Questo, se anche funzionasse, non vuol dire che il resto del mondo, specie in Asia, si acconcerà al renminbi. E poi, non digitalizza anche l’America, privati e banca centrale? E così via. Di ma in ma, si arriva alla conclusione che il dollaro è ancora forte, e che sarà difficile scalzarlo. Non sarebbe neanche nell’interesse del resto del mondo. E questa è la “trappola del dollaro”. Gli investitori stranieri, comprese le banche centrali, posseggono 8 mila miliardi di debito pubblico americano. Il debito finanziario degli Stati Uniti col resto del mondo è di 53 mila miliardi. Se il dollaro perde valore, questo non costa nulla agli Stati Uniti, ma ai detentori del debito sì. Cina inclusa. Gli invesutori americani, al conttario, detengono in investimenti all’estero circa 35 mila miliardi di dollari: un apprezzamento delle valute straniere nei confornti del dollaro significherebbe che i loro investimenti si apprezzano se convertiti in dolari. La conclusione è che “il dollaro potrebbe scivolare, ma continuerà a governare”.

Il giorno dopo la pubblicazione del saggio sul trimestrale del Fondo Monetario Internazionale, la Cina ha riunito a Pechino i Brics, Brasile, Russia, India e Sud Africa, con la proposta concreta, senza veli diplomatici, di scalzare il dollaro dall’egemonia commerciale e finanziaria. E in genere la Cina funziona così, baconiana: dice una cosa e poi la fa – non improvvisa per la propaganda, un enunciato è un programma, studiato e adottato.

Il paniere di valute di riferimento che il presidente cinese Xi ha prospettato ai suoi interlocutori sembra un calco dei Diritti Speciali di Prelievo, un basket delle valute dei Brics. Se funzionasse tra Cina e Russia, come si è cominciato a provare per il petrolio, forse uscirà dalla teoria.

Eswar Prasad,  Enduring Preminence, “Imf Financial and Development Magazine”, free online

 

giovedì 23 giugno 2022

Xi rimette in gioco la Russia

Il governo cinese ci ripensa e passa dal benign neglect, la disattenzione, per quanto favorevole, verso la bellicosa Russia, a un appoggio indirettamente attivo. Per ora solo politico, ma dichiarato: la proposta di una Global security Initiative, opposta alla Nato americana, e di una moneta di conto alternativa al dollaro. È bastata l’annunciata partecipazione del Giappone e della Corea del Sud al vertice Nato di fine giugno a Madrid, che ha in agenda un allargamento all’Indo-Pacifico, per cambiare in pochi giorni l’atteggiamento del presidente Xi: dai commenti pochi, e poco sbilanciati per la Russia, sulla guerra, a un piano addirittura alternativo al dollaro e all’egemonia Usa, compartecipato con la Russia.
Le dichiarazioni filorusse sui giornali cinesi si sono intensificate, e scopertamente di appoggio alla guerra. Ieri il vertice improvvisato con gli altri quattro grandi paesi Brics: Brasile, Russia, India, Sud Africa. Utile se non altro allo sdoganamento diplomatico di Putin, che per la prima volta partecipa a un summit internazionale dopo la guerra, belligerante contro l’“Occidente”, sulla falsariga degli ex “non-allineati”. E a mettere in piazza un programma, seppure ancora sotto forma di ragionamento, per soppiantare la leadership del dollaro nella finanza internazionale. Con una fiducia riaffermata sulla globalizzazione - che ha fatto la Cina grande – contro i dazi americani e europei. Il tutto entro un progetto di pace, dal nome accattivante di Global Security Initiative, alternativo a quello “aggressivo” dell’amministrazione americana, sotto la copertura Nato. Con una polemica diretta contro gli Stati Uniti, seppure non citandoli, e un occhio ancora di riguardo verso l’Europa – il presidente Xi sarà ancora personalmente sotto l’impressione favorevole avuta dal governo Conte per esempio in Italia, nel suo viaggio europeo, e dagli accordi speciali che furono firmati a Pechino.
L’India, che è parte autorevole del Quad, l’alleanza a quattro dell’Indo-Pacifico promossa dagli Stati Uniti, con Australia e Giappone, mantiene il dialogo anche con Pechino. In realtà è e resterà neutrale, ma così si assicura di sapere in anticipo cosa bolle in pentola. Perché qualcosa bolle, non ci sarà un ritorno come prima.
 

La guerra non tocca la Russia - 2

Non si sa nulla della Russia in guerra. Del Parlamento, delle popolazioni, nelle città, nel territorio sterminato. Dei media. Degli oppositori di Putin, o della guerra. Dei fautori. Ci sono molti corrispondenti e inviati a Mosca, ma nessuna notizia. Eppure i russi sono chiacchieroni: s’incontrano in Romagna, in Versilia, in vacanza, e sono sempre i soliti, stravaganti, eccessivi, e chiacchieroni.
Si vive a Mosca, che anche perché le perdite sono minori, in uomini? In materiali non si contano, non nella guerra moderna – che fa tanto bene all’economia: più distruzioni più produzione.

Ma la questione energia è una cosa seria

Si va all’allarme energia, per l’estate e poi per l’inverno, alla possibile mancanza del gas, non abbastanza per i consumi, nonché all’aumento spropositato dei prezzi, della benzina e del gas, come all’avventura: per moltiplicare i margini e gli utili delle imprese del settore. Anche a protezione dei cittadino, ma nella maniera meno giustificabile e più costosa, addossando i sovrapprezzi praticati dalle compagnie allo Stato. Niente deve disturbare il business, il mercato, la cui ideologia fa il paio in Italia proprio con Draghi, il presidente del consiglio in carica.
Non si sottrae all’impressione il ministro della Transizione Ecologica, lo scienziato Cingolani. Che palesemente mena il torrone. Molti rigassificatori, per sostituire il gas russo con quello americano, più caro ma pazienza, insomma molto business, cioè molti soldi, ma non una vera politica: del risparmio, della riduzione dei costi, dell’autosufficienza energetica, nei limiti del possibile.
Molti rigassificatori per esempio in Toscana, per rovinarne le coste, che pure sono pregiate. Uno prospiciente, a Panigaglia, uno galleggiante, una piattaforma gigante, al largo di Livorno, uno galleggiante di dimensioni pantagrueliche, 300 metri per 40, che si vuole ormeggiare nel porto di Piombino, davanti alla città e davanti all’Elba. Impianti non solo enormi, ma comunque inquinanti, anche provvisti delle migliori tecnologie, dell’aria e dell’acqua. Senza contare il rischio di avere un impianto di rigassificazione in città.
Il ministro del futuro Cingolani non prospetta niente, solo un futuro di affari. Come se non ci fosse un problema di prezzi e di quantità, di gas e prodotti petroliferi. Prospetta centrali nucleari pulite, di terza o quarta generazione, come se fossero per domani, mentre – ammesso che siano possibili in Italia, stante il referendum antinucleare, e ammesso che la nuova tecnologia sia effettivamente pulita, cioè non produca scorie – richiederà almeno quindici anni, fra impianti pilota e centrali di produzione, per entrare in funzione. Roba da non credere.
Non si parla di altro, solo business, cioè oggi rigassificatori per il gas americano. Centrali idroelettriche? Zero, la più parte sono dismesse. La geotermia, che per esempio in Toscana assicura un terzo dell’energia consumata, tra Amiata e Monti Metalliferi, e potrebbe raddoppiare girando la chiavetta, non ha investimenti da decenni. Nell’Alto Adriatico grandi riserve sottomarine di gas vengono lasciate allo sfruttamento croato, perché l’Italia, a valle del Po, teme la sussidenza se il gas viene pompato. Se il gas viene pompato dalla Crazia – i giacimenti sono comuni - la sussidenza non c’è? No, ci sono piccoli interessi politici di piccoli sindaci, che si fanno forti dell’ideologia verde, e cavalcano la tigre   - la sussidenza non c’entra, contano i voti, che non sono di scambio i verdi non essendo naturalmente siciliani, e nemmeno calabresi. 
 

Cronache dell’altro mondo giudiziarie – 192

Nella commissione della Casa dei rappresentanti che rievoca i fatti del 6 gennaio 2021, l’invasione del Campidoglio, non sono stati ammessi deputati repubblicani. Solo democratici, e due Repubblicani nemici di Trump – di cui uno, Liz Cheney, è figlia di Dick Cheney, il vice-presidente delle presidenze Bush jr., capofila della destra ultraconservatrice americana (l’ala neocon), nonché oltranzista in politica estera, sostenitore dell’“1 per cento” (“Se esiste un per cento di probabilità che qualcosa costituisca una minaccia, gli Stati Uniti sono tenuti a reagire come se la minaccia fosse certa al cento per cento”) e promotore della guerra all’Iraq su presupposti falsi. Il presidente del gruppo Repubblicano alla Camera ne aveva candidati cinque, ma nessuno dei cinque è stato ammesso dalla speaker democratica della Camera, la presidente, Nancy Pelosi. La quale di suo ha nominato i due repubblicani dichiarati anti-Trump.
Lo sfidante democratico all’ultima elezione a governatore in Florida nel 2018, l’afroamericano Andrew Gillum, quarantenne, è rinviato a giudizio con 21 imputazioni. Per appropriazione indebita dei fondi elettorali e altre delitti, commessi tra il 2016 e il 2019. L’accusa è sostenuta dal ministro federale della Giustizia, democratico. Segno che Gillum l’ha fatta grossa. Due anni fa, nel pieno dell’isolamento da covid, Gillum era stato trovato in albergo in compagnia di due uomini, uno dei quali escort di professione, nudo e in overdose.
Una simulazione sulle stragi di civili negli ultimi cinque ani, dodici, con 221 vittime, spiega che con l’accordo bi-partisan raggiunto una settimana fa al Senato sulle vendite di armi, una metà delle vittime si poteva probabilmente salvare.

Camilleri maccheronico

Sei racconti di Montabano dispersi. Quattro in varie antologie Sellerio, “Capodanno in giallo”, “Ferragosto in giallo”, “Un anno in giallo”, “Una giornata in giallo”. Uno, “Il figlio del sindaco”, in edizione fuori commercio riservata ai clienti del fu Unicredit Private Banking. Il più impegnativo, a cui Camilleri molto teneva, che lo ha ripubblicato in vari luoghi, è stato scritto per la rivista di quartiere cui lo scrittore era affezionato, “Il nasone di Prati”: racconta di Montalbano comandato a Roma, vuole rifare Hitchcock, ed è il più debole dei sei: un po’ di voyeurismo e nessuna sorpresa, fiacco anche nel ritmo, si ha costantemente l’impressione di trovarsi in un film peplum, di quelli americani sugli antichi romani con l’orologio al polso.
Un Montalbano fumatore. Zitellone più del necessario. Per niente bravo (astuto, coraggioso, appassionato), solo fortunato. Solo, senza comprimari. Con una nota molto lusinghiera di Salvatore Silvano Nigro. Ma un’insalata senza l’aceto, insapore, di aneddoti anche deboli-
I racconti si leggono per la lingua, il linguaggio. Che non è il dialetto siciliano. E questa è la chiave del “mistero Camilleri”, del suo fascino. Anche quello di Verga è un siciliano “scritto”, d’autore. Ma ne ha le cadenze, e ne riflette la psicologia – le lingue hanno una psicologia. Quello di Montalbano è, s’immagina, quello di Camilleri che dialoga con se stesso, dentro e fuori Porto Empedocle, dove alla fine avrà vissuto solo una ventina dei suoi 94 anni, anche se saporosi. Una lingua personale, un po’ maccheronica, come quella di Folengo. Sarà interessante vedere se resiste nel tempo.     
Andrea Camilleri,
La coscienza di Montalbano, Sellerio, pp. 257 € 14
 

mercoledì 22 giugno 2022

La guerra non fa male alla Russia

Arrivano russi malgrado tutto, per lavoro, dai parenti, in vacanza, e non sembrano preoccupati. Sì, qualcosa è rincarato, ma non molto. Che la Russia, paese del resto continentale per eccellenza, sia entrato nell’ottica americana delle guerre da remoto, l’Ucraina come il Golfo, la Serbia, l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia, la Siria, per restare alle ultime guerre americane?
Oggi 22 giugno il cambio euro-dollaro segna 0,95. Un anno fa si aggirava su 1,20. Poiché le materie prime, compresi il petrolio e il gas, si quotano e si pagano in dollari, c’è un aggravio per l’eurozona del 20 per cento per il solo effetto del cambio.
Il cambio dell’euro sul dollaro ha segnato un lento cedimento fino a marzo, poi ha avuto un brusco calo.
Si può anche notare che il rublo, per converso, si è apprezzato nel corso della guerra contro l’Ucraina. A marzo, all’avvio dell’“Operazione Speciale”, ha subito una svalutazione di oltre il 50 per cento, da 77 rubli per dollaro a 114. Poi ha avuto un’altrettanto brusca rivalutazione, a livelli migliori che pre-guerra, e ora naviga a quota 56.
Si adottano le sanzioni economiche contro un paese per isolarlo e per indebolirlo economicamente. Ma questo secondo effetto può non essere rilevante: lo studio voluminoso e classico di Paul Samuelson, Nobel 1970, “Economics”, rilevava nel 1948 che mai l’economia è stata così ricca e in crescita negli Stati Uniti come per lo sforzo di produzione bellico.

Ombre - 621

La tassa sul biliardino e sul ping-pong, all’oratorio e in spiaggia, se ne potrebbe ridere, e invece no: dice tutta la miseria dello Stato. Che non è più governato da un Tremonti qualsiasi ma da Draghi, che è tutti noi, la testa e il cuore della nazione.
Come ci si arriva? Si dice per la “crisi fiscale dello Stato”, ma si dice da cinquant’anni, quasi.
 
Il capo della Vigilanza alla Bce, la banca centrale europea, Enria, è preoccupato come sempre, ma dà via libera alle banche di pagare il dividendo, se c’è. Non ci deve pensare la banca, che sa i suoi conti?
Il blocco che Enria ora toglie ha colpito in Italia solo Unicredit, probabilmente senza danno per la banca, ma è un singolare modo, a Francoforte della Bce come a Bruxelles della Commissione, di “dirigere” gli affari. Non limitarsi alle cornici legali, ma entrare nel merito, fare le cose.
 
Si minaccia la siccità nella valle padana. Dove un progetto di diga sul fiume Enza è “fermo da 162 anni: potrebbe assicurare l’acqua alla produzione del Parmigiano-Reggiano”. Un progetto del 1860: “Nel 1988 i primi lavori, bloccati per salvare le lontre”. Non c’è salvezza.
 
“Odessa è sempre stata una città russa. Come Putin ha detto, l’Ucraina è stata data via dalla dirigenza comunista”: parla chiaro con Francesco Bechis su formiche.net, sito atlantista, Sergey Karaganov, fondatore del Valdai Club, consigliere di Putin per la politica estera. Il Valdai è un forum rispettato di politica internazionale.
 
Karaganov dice anche un’altra verità: “Purtroppo del diritto internazionale è rimasto poco in piedi negli ultimi vent’anni. Abbiamo assistito ala distruzione della Jugoslavia da parte della Nato, all’invasione dell’Iraq, ai bombardamenti in Libia”.
 
“Allarme  Superbonus. Il credito è finito, imprese a rischio. Trentamila aziende sono vicine al fallimento”. Ma anche se fossero tremila, anche solo trecento, come si fa a fare una legge che poi non si applica – si applica boicottandola, la cosa peggiore (sono otto mesi che la Guardia di Finanza ha scovato falsi appalti per 5 miliardi, o 5 mila). Dal reddito di cittadinanza al Superbonus tanta politica da dilettanti, nell’ipotesi migliore.
 
“Assist dell’ex comico a Conte”. Adesso, dopo la scissione di Di Maio, la cosa è comica di suo. Ma si può essere ex comico?
Ma, poi, Grillo – è di Grillo che si parla – cos’altro è se non un comico? Questa è la sola verità, inutile fingere che i 5 Stelle siano un movimento, o una rigenerazione: è un parco giochi, a  tema, niente si ricorda di quanto hanno fatto dove hanno amministrato, a Torino, a Roma, nella stessa Parma, la loro prima piazza.
 
L’India aumenta le importazioni di petrolio dalla Russia, il suo secondo fornitore, ed esporta i prodotti petroliferi in Europa, favorita anche dai prezzi elevati. È l’effetto “triangolazione” delle sanzioni – una distorsione dei mercati, che non punisce il colpevole (la Russia) ma gli stessi sanzionatori.

Terzo importatore di petrolio russo, dopo Cina e India, risultano gli Emirati Arabi. Che sono di suo grandi esportatori. Le sanzioni hanno solo aggravato il caro-petrolio.

L’Unione Europea che fa causa alla Gran Bretagna, causa civile per danni, per poter commerciare liberamente con l’Irlanda del Nord, non si sa se è più da ridere o da piangere. Mentre siamo in guerra, con la Russia nientedimeno.

È più da  ridere o da piangere un primo ministro inglese che resta al suo posto, e prende anche decisioni importanti, come armare l’Ucraina, cioè entrare in guerra, contro l’opposizione, come è normale, ma anche contro i due terzi del suo partito? È democrazia, la democrazia più antica del mondo?   

Clinton, come ho messo la Russia alle corde

Un saggio tempestivissimo, e molto ben scritto, da specialista di cose internazionali, sulla rivista democrat tra le più bellicose. Tralasciando l’essenziale.
Clinton, il presidente di dopo il crollo del Muro, ha spinto la Russia sulla via della libertà, della democrazia e della cooperazione, sugli armamenti e su ogni altro aspetto, l’ha finanziata perfino, facendone il suo primo impegno presidenziale – “ho incontrato Yeltsin 18 volte e Putin cinque, due volte quando era primo ministro di Yeltsin e tre negli oltre dieci mesi in cui le nostre presidenza si sovrapposero”. Ha aperto alla cooperazione due settori importanti: “il terrorismo etnico, religioso, tribale, e la proliferazione di armamenti nucleari, chimici, e biologici”. Ha introdotto Mosca in molte organizzazioni occidentali, anche se da osservatore, quali il G 7 e la stessa Nato. E tra chi sosteneva l’allargamento della Nato fin sotto il Cremlino, immemore della crisi cubana, e chi lo criticava, cita i due maggiori critici, George Kennan, l’ex diplomatico all’origine della politica di containment dell’Urss di Stalin, e un Mike Mandelbaum, “un’autorità sulla Russia” – a favore cita Madeleine Albright, la sua segretaria di Stato, appena deceduta (il saggio è anche un omaggio a Albright), e vari nomi che non dicono nulla, se non per il suono russo. Poi, candido, dice anche: sotto la mia presidenza entrarono nella Nato Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, “contro l’opposizione russa”, sotto i miei successori altri undici paesi dell’ex Patto di Varsavia sovietico, “contro l’opposizione russa”. Ma tralascia l’essenziale della sua presidenza: la dissoluzione della Jugoslavia con la guerra finale alla Serbia, e la “guerra” alla Fortress Europa, l’Unione Europea che andava verso l’adozione dell’euro.
Di questo è difficile parlare, tuttora: è una linea politica americana, o bi-partisan come è d’uso dire, di non consentire un’Europa indipendente, ed è un tema enorme, ben più grave che l’Operazione Speciale di Putin contro l’Ucraina, anche se non fa vittime, non per ora. Ma come dimenticare la dissoluzione della Jugoslavia, armata e finanziata da Clinton, fino alla Guerra alla Serbia. Una guerra aerea, la più micidiale contro i civili, e la meno onorevole militarmente. Con bombe all’uranio impoverito, che hanno continuato a fare vittime anche a distanza di anni – per esempio tra il personale militare italiano di bonifica. Tre mesi di bombardamenti, quotidiani, per lo più da basi italiane, dal 28 febbraio all’11 giugno1999.
Putin certo non è giustificabile, e ha superato i tre mesi di bombardamenti. Ma la Serbia, cui wikipedia concede tremila morti civili, compresi una settantina di bambini, è grande 88 mila kmq, l’Ucraina 600 mila – un po’ di cinismo ci vuole. Clinton distrusse la Serbia per dare l’indipendenza al Kossovo, richiesta da una organizzazione che gli stessi Stati Unti definivano terroristica, l’UÇK, creata da un mafioso, Ibrahim Thaci? Oppure per dare una lezione a Mosca?   
Bill Clinton, I Tried to Put Russia on Another Path
, “The Atlantic”, 7 aprile 2022, free online

martedì 21 giugno 2022

Il mondo com'è (449)

astolfo


Wiliam Jennings Bryan – È stato il socialista più eminente in America, pacifista, ammazzabanche, tre volte candidato presidenziale, re dell’opinione pubblica se non del voto presidenziale.
Nel 1925 il maestro Scopes fu condannato a Dayton, nel Tennessee, per avere insegnato a scuola l’evoluzionismo. Il nemico del maestro Scopes (che comunque vinse in appello) era William Jennings Bryan, uno dei pochi americani socialisti e pacifisti. Era contro l’evoluzione perché era contro l’imperante darwinismo sociale, allora e oggi imperante in America, quello dei ricchi e poveri per destino, dei signori della guerra, e della sopravvivenza del più capace, impiantato da Spencer sulla selezione naturale, il fatto che “la giustizia appartiene ai forti”.
Leggendo nel 1905 “L’origine dell’uomo” Bryan notò che Darwin può “indebolire la causa della democrazia e rafforzare l’orgoglio di classe e il potere dei ricchi”. La ragione lo stesso Darwin la spiega, che si disse “cappellano del diavolo”, volendo catalogare i misfatti della natura, cappellano di tutti quelli per cui Dio non esiste perché c’è il diavolo, c’è il male.
Great Commoner, William Jennings Bryan era l’Uomo della Strada, per il quale la filosofia politica è semplice: combattere i privilegi. Nativo di Salem nel Massachusetts, il posto delle streghe, fu giovanissimo il primo o secondo deputato democratico di Chicago. Sarà il candidato democratico, populista e progressista alle presidenziali di fine Ottocento, 1896 e 1900 - sconfitto da William McKinley, il presidente più sconosciuto degli Stati Uniti. E sarà sconfitto ancora alle presidenziali del 1908 - ma il vincitore William H. Taft realizzò le riforme da lui proposte. Alle elezioni successive, nel 1912, candidò con successo Woodrow Wilson, che lo nominò segretario di Stato. In questo ruolo Bryan portò Wilson ad adottare le riforme per la Libertà Nuova. Benché perdente, insomma, realizzò il suo programma. Ai lavoratori propose, in un “patto dei produttori”, la giustizia economica, la tassazione progressiva, il controllo della circolazione monetaria, il controllo dei monopoli.
Solo perdette la battaglia per l’argento libero, Free Silver, sconfitto dal Nord-Est industriale, il suo mondo, e dalle banche, che imposero l’oro e il gold standard per limitare il circolante e tenere stabili i prezzi e il valore della moneta. Fu la seconda conquista o occupazione del Sud in pochi anni. Contro l’oro era l’America rurale, a Ovest e al Sud, favorevole alla lievitazione dei prezzi per alleviare i debiti, che non poteva onorare per i crolli ripetuti dei prezzi agricoli e minerari nelle crisi del 1873 e del 1893.
Un Greenback Party, per la libera stampa dei dollari, si costituì dopo il Panico del ‘73. Il Panico del ‘93 rilanciò il Free Silver e Bryan, per un rigore monetario allentato e il parziale ritorno della monetazione all’argento. La ripresa economica e maggiori forniture d’oro alleviarono i debiti e indebolirono il Free Silver. Dopo la Depressione - Bryan non c’era più – F.D.Roosevelt tornerà all’argento, facendone acquistare al Tesoro ingenti quantità, ma l’uso nel conio fu minimo, e i depositi sono stati venduti nel 1970.
Bryan proponeva il suo progetto socialista in un quadro liberale, contro l’“invadenza” di tutto ciò che era “federale”, il governo di Washington e perfino la Corte Suprema. Analogamente in politica estera: Bryan perdette le elezioni nel 1900 facendo campagna contro l’imperialismo, anche se era stato due anni prima volontario contro la Spagna, col grado di colonnello. E da segretario di Stato lavorerà per il controllo sui Caraibi, dando materia al futuro capolavoro di Dos Passos, “U.S.A”, o l’imperialismo delle banane. Nel quadro di un piano di difesa del Canale di Panama e dell’America Latina dall’eimperialismo europeo. Col Trattato Bryan-Chamorro del 1914 riservò agli Usa il diritto a intervenire anche in Nicaragua, come già a Panama, a protezione del futuro secondo canale. Delineò l’Osa, l’Organizzazione degli stati americani che nascerà nel 1948, portando una trentina di paesi a firmare trattati per il negoziato obbligatorio preventivo in caso di crisi, invece della guerra immediata, come usava. Ma lasciò il governo alla dichiarazione di guerra contro la Germania per l’affondamento del “Lusitania”: era neutralista.
Dopo la Grande Guerra Bryan si trasferì in Florida, che godeva del primo boom, e vi s’arricchì con gli immobili, nel tempo libero scrivendo di religione. Guidò il proibizionismo e fece votare il Diciottesimo emendamento, ma difese le suffragette nella campagna per il Diciannovesimo. Contestò con successo la Lega delle Nazioni del suo protetto Wilson, e la dichiarazione di guerra avrebbe voluto soggetta a referendum. Morì il 26 luglio 1925 a Dayton, Tennessee, dov’era stato testimone influente per l’accusa al processo Scopes - morì cinque giorni dopo la condanna del maestro. Avendo legato il suo nome alla campagna per l’interpretazione letterale delle Scritture: la guerra egli imputava all’empietà dell’evoluzionismo.

Celti – In polacco l’Italia è Włochy – italiano włoch, italiana włoszka. E nessuna delle etimologie suggerite, piuttosto di fantasia, regge: da un ipotetico Jan Włoch fondatore di un villaggio italico ai parrucchieri che la regina Bona Sforza portò con sé in Polonia, chiamati spregiativamente włosi, capelli o capelluti. Più verosimile è la derivazione dai Volsci, il popolo italico in Terra di Lavoro, con propaggini molisane. Della cui fine non molto si sa: i Romani per domarli non li avrebbero trapiantati, come fecero con i Sanniti nelle Apuane, e gli Apuani nel Sannio, ma li avrebbero respinti a nord, disgregati e nomadi o vagabondi, in terra gallo-celtica.
Volsci del resto verrebbe da una radice in sanscrito che significa “straniero”. Che comunque denomina popolazioni di origine e tradizione celtica – dei galli che diventano gallesi, e welsch. O viceversa: è Volsci un altro nome per celti, come si ritroverà anche in Valacchia, nel greco Vlachos, gli antichi rom, e nel tedesco walh- e nello slavo vlah o val- (vol-).
Curiosamente, Voltaire in vecchiaia, quando ormai disperava dei francesi, prese a chiamarli, invece che galli, welches, che il francese pronunzia welsh.  
 
Carlo Andrea Pozzo di Borgo – Fu il corso grande nemico del corso Nepoleone. Nato italiano nella Corsica ancora genovese, nel 1764, fu il più costante avversario della rivoluzione francese, fin dall’inizio, e dei Buonaparte, sia in Corsica sia in Francia dopo l’ascesa di Napoleone, e a Londra, a Vienna e a San Pietroburgo. E la persona che lo stesso Napoleone risentiva come il suo più pericoloso nemico.
Fece i primi studi al convento di Vico, presso Ajaccio, dei missionari oblati di Maria Immacolata. Poi a Pisa, dove fu compagno di studi di Giuseppe Buonaparte, il fratello maggiore di Napoleone che sarà re di Napoli e re di Spagna, e si laureò in diritto con un professor Tosi. All’epoca i Buonaparte, imparentati alla lontana con i Pozzo di Borgo, cugini di quinto grado, condividevano con questi il sostegno a Pasquale Paoli, all’indipendentismo. Inizialmente: dopo il fallimento e l’esilio di Paoli, il capo famiglia dei Buonaparte, Carlo Maria, si schierò con Parigi, i Pozzo di Borgo no. Con la rivoluzione a Parigi, i Pozzo di Borgo riesaminarono la questione. Carlo Andrea nel 1791, fu delegato all’Assemblea rivoluzionaria a Parigi. Dove sedette nei banchi dei moderati, votando contro le leggi eversive del clero. Ma presto provvide a tornare in Corsica, già nell’agosto del 1792, dopo l’arresto e l’esecuzione di Luigi XVI, la proclamazione della Repubblica, e la prima Comune di Parigi.
Tornato in Corsica, divenne il braccio destro dell’indipendentista Paoli, rientrato dall’esilio. E fu da questi nominato nel luglio 1792 capo del governo – Paoli si voleva capo delle forze armate, Luogotenente Generale, con Napoleone tenente colonnello, a capo di reggimento di volontari corsi. Quando la Repubblica francese attaccò la Sardegna dei Savoia, Paoli organizzò due spedizioni di appoggio, una a Cagliari e una alla Maddalena. Entrambe sfortunate. Della seconda faceva parte anche Napoleone, al comando dell’artiglieria, che dopo l’insuccesso denunciò Paoli a Parigi.
Paoli passò allora con gli inglesi, protetto dalla flotta inglese, adottò la lingua italiana e una costituzione, e proclamò l’indipendenza: un regno di Corsica, che durò dal giugno 1784 all’ottobre 1796, re Giorgio III d’Inghilterra, I di Corsica, presidente del Consiglio di Stato Pozzo di Borgo. Dopo la denuncia di Paoli, la casa dei Buonaparte a Ajaccio era stata saccheggiata, e Napoleone con tutta la famiglia si trasferì dapprima a Bastia e poi a Tolone, dove già era in attività Luciano. Pozzo di Borgo faceva votare dal Parlamento la confisca dei beni dei Buonaparte.
Il regno indipendente ebbe vita breve. Gli inglesi non si fidavano di Paoli, che confinarono, dapprima a Monticello poi in Inghilterra. Nel giugno 1976 Napoleone da Livorno, dove aveva concentrato i fuoriusciti, organizzò lo sbarco nell’isola, senza trovarvi resistenza. Pozzo di Borgo si rifugiò a Roma, e poi a Londra, sotto la protezione del conte Gilbert Eliott, che era stato il governatore inglese dell’isola per conto di Giorgio III. Da Londra passò a Vienna, sempre al seguito del conte Elliott, divenuto duca di Minto, in missione presso l’imperatore austriaco. Da Vienna passò nel 1804 al servizio di Alessandro I. Di cui divenne il diplomatico di fiducia, artefice dell’alleanza austro-russa che l’anno dopo, il 2 dicembre 1805, finì nella sconfitta di Austerlitz. Venne quindi incaricato di missione con gli Anglo-Napoletani, e subito dopo, sempre nel 1806, col comando militare prussiano.
L’anno successivo, inviato a Istanbul dopo la dichiarazione di guerra del sultano alla Russia il 7 dicembre 1806, su pressione di un altro corso, Horace Sébastiani, ambasciatore di Francia, fu sorpreso dalla notizia della pace di Tilsit, in conseguenza della sconfitta russa di Friedland, con la quale lo zar aderiva a un accordo con Napoleone in chiave anti-britannica. Non passò un anno e Pozzo di Borgo fu allontanato da Alessandro I: la “guerra” privata tra le due grandi famiglie corse proseguiva.
Anche Vienna gli divenne inospitale: Metternich in persona comunicò a Pozzo di Borgo una richiesta di estradizione ricevuta da parte di Napoleone, che lo metteva in imbarazzo. Pozzo di Borgo riparò allora a Londra. Riemergerà nel 1812, richiamato in fretta dallo zar. Al quale assicurò in Svezia l’alleanza di Bernadotte, e per conto del quale rivitalizzò i legami corsi, familiari e di amicizia. Finirà con l’ingresso di Alessandro I a Parigi. Che Napoleone attribuirà a Pozzo di Borgo, nel “Memoriale di Sant’Elena” di Las Cases: fu lui a consigliare allo zar la marcia su Parigi, anche se Napoleone avrebbe potuto attaccarne la retroguardia – “Fu Pozzo di Borgo a decidere il destino della Francia, della civiltà europea, ed i destini dell’intero mondo: aveva guadagnato una grande influenza sul gabinetto russo”. I destini dell’Europa decisi da due corsi.
A Parigi nel 1814 Pozzo di Borgo fu nominato commissario del governo provvisorio. Nei Cento Giorni fu in Belgio, presso Luigi XVIII, rappresentante di Alessandro I. A Waterloo si salvò per caso da una carica dei corazzieri francesi. Alla restaurazione fu collaboratore di promo piano di Luigi XVIII, e poi di Carlo X. Al passaggio della monarchia francese agli Orléans di Luigi Filippo riprese i legami con San Pietroburgo, inducendo lo zar Nicola I a riconoscere la nuova monarchia. Fu poi per alcuni anni ambasciatore russo a Londra. Fino ai 75, nel 1839, quando si ritirò a Parigi. Dove visse fino al 1842, vent’anni dopo la morte del grande nemico Napoleone.        

astolfo@antiit.eu

L’infelicità di essere madre

Dodici racconti “dal vero”, di e attorno alla cronaca (Cogne apre e chiude, con dedica a Anna Maria Franzoni: le storie sono in realtà dieci, incorniciate dall’infanticidio in val d’Aosta), con un’escursione esotica a Godarat nel 1237, su genitorialità fuori norma. Non in linea cioè col vero senso della procreazione, che è di dare vita. Di donne per lo più. Con tre storie di uomini. E una, la più poetica o meno truce, che si vuole di Ouro Preto in Brasile, nel 1936, con un narratore al maschile che si rivela portavoce di un io femminile.
Una mantide campeggia in copertina, ma sono racconti del rifiuto della vita, propria e altrui. Per inadeguatezza si dice, ma insomma per confusione mentale. Specie quando la madre rifiuta la figlia, per una forma di gelosia.
Un assunto originale, per un punto di vista forse solo necessario. Della donna che è naturalmente madre, ma rifiuta questa condizione. È strano semmai che arrivi in ritardo, in epoca di decostruzioni. Che dopo Tremestieri però – e Valfurva, e la stessa Cogne, che trova Petri solidale, e altri che le cronache trascurano (le guerre madre-figlia sono il caso più ricorrente dei servizi sociali in ambito urbano) – sa di raccapriccio. Funziona non contro la maternità in ambito patriarcale, ma contro le madri dei racconti, per quanto vittime: in nessun punto della storia, nemmeno nel maschilismo più bieco, la maternità è una imposizione, una tortura inevitabile.  
Romana Petri, Mostruosa maternità, Perrone, pp. 200 € 16

lunedì 20 giugno 2022

Secondi pensieri - 486

zeulig


Guerre di religione – Si fanno a causa delle Scritture, è l’opinione corrente. Le fanno quelle religioni che sono legate a una Scrittura, a una maniera esclusiva di essere religiosi: ebraismo, cristianesimo, islam. Non per esempio, si dice, le religioni orientali: induismo, buddismo, confucianesimo, taoismo si differenziano in dottrina, ma le differenze dottrinali non sono in essi così decisive (esclusive) come nelle tre religioni del Libro.
Questo è vero e non lo è: l’induismo è militante, anche più delle tre religioni rivelate. La guerra è concetto e istituzione più ampia, che assume anche connotazioni religiose. Connessa con l’aggressività, che caratterizza il mondo animale, in funzione protettiva ma anche distruttiva – è il problema delle guerre di liberazione: fino a che punto?
 
Ipotesi – È il motore (meccanismo) della scoperta scientifica. La volontà, la voglia, di prospettare ipotesi, dalla più banale alla più astrusa, è anche umana e solo umana, prima che “scientifica”: la curiosità.
Inverare le ipotesi è la base della razionalità: la ragione è curiosa.
È il proprio dell’uomo, la natura non fa ipotesi – non perfette, non scegliendo: fa – è - esperienza.
La ragione ipotetica Einstein vuole animata da “intuizione”, e “simpatia”: arrivare alle “leggi elementari universali” si può solo per deduzione – “non c’è un sentiero logico per queste leggi: solo l’intuizione, basata sulla simpatetica comprensione dell’esperienza, può arrivarci”. 
 
Leggere - È ricreare, una funzione più attiva che passiva? Sicuramente sì per le letture non di svago. Anche di romanzi, soprattutto di poesia: la poesia richiede una consonanza, in qualche forma. Soprattutto per i “grandi classici”, quelli che dicono qualcosa a molti. Come notava Gentile, “L’esperienza pura e la realtà storica”, a Pisa nel 1914: “La ‘Divina Commedia’, nella cui lettura ci esaltiamo, non è quella scritta sette secoli fa, ma quella che scriviamo noi leggendola”. Lo stesso si può supporre anche dell’autore, di Dante, se e quando si rileggeva – anche se non si riscriveva, non sappiamo, non conoscendosi per fortuna le varianti.
 
Militanza – È la forza della debolezza. Dei fondamentalisti oggi come dei movimenti lgbtqia+. Un tempo dei gesuiti: nati e cresciuti nella militanza, quando la chiesa era debole dopo la Riforma, quando la chiesa diventò potente in alleanza con i troni rimossi su iniziativa degli stessi regnanti. O del sindacalismo – il movimento dei lavoratori.
Una militanza bene improntata deve cioè disinnescarsi quando ha vinto.
 
Minoranza – Ha diritto a proteggersi, che a volte implica un diritto di aggressione – di violenza. Ma non oltre il punto dell’uguaglianza. La minoranza nell’età dei diritti tende invece a privilegiarsi, in una sorta di integralismo – io e il mondo, e nient’altro. Che è alla radice della conflittualità etica, tribale, che si risolleva negli Stati Uniti e in Europa.
“Diritti e non privilegi” è l’indegna delle manifestazioni urbane lgbtqia+. Che però sono manifestazioni celebrative e non rivendicative. Una festa, ma anche una imposizione della diversità, della minoranza. Una incongruità.
 
Storia – “La memoria umana non è una somma: è un caos di vaghe possibilità”, Borges. È una somma di possibilità – una costruzione, alquanto studiata, di elementi anche disparati per un insieme significante.
Si costruiscono possibilità, in effetti. Anche rimemorandole.
Se tutto è caos l’uomo (la memoria) è parte del caos. Ma con la funzione del muratore, analitica, ordinativa.
 
Tecnologia – È mentale. Esercizio filosofico prima che pratico. Esercizio mentale come la filosofia di Heiudegger che la rifiuta e la danna. Non solo i procedimenti ma anche la conoscenza dei materiali e del loro possibile uso. L’uranio, il litio, il cobalto esistono in natura da “sempre”, ma vi hanno una funzione da poco e da pochissimo, si possono dire materiali inerti, in rapporto agli usi che oggi se ne possono fare, al loro potenziale, che invece va scoperto, e manipolato – e a un potenziale piuttosto che a un altro, per lo stesso materiale “naturale”.
 
Le macchine sono primariamente un fenomeno mentale. Nelle finalità e, di più, nelle funzioni, nei particolari. Ogni macchina che funzioni è una “costruzione ingegnosa”. Lo stesso per i materiali, per la loro combinazione e per gli usi che se ne possono fare: dai minerali di ferro il ferro, dal ferro l’acciaio, i tanti acciai, e i loro “inifiniti” possibili usi. Il motore a combustione interna dell’ing. Otto, dopo quello di Barsanti e Matteucci, di uso corrente, è di una complessità che non ha nulla di naturale - i cilindri, i pistoni, il carburatore, le candele, le punterie... – se non i materiali, di per sé inerti, di cui le sue parti sono composte ai fini di un progetto.
Perché si è volato a un certo punto e non prima – si è volato inseguendo un sogno molto antico, di sempre? I combustibili che mandano l’uomo in orbita e sulle stelle esistevano da sempre, ma non se ne sapevano le qualità, le possibili qualità, soprattutto non in combinazione fra di loro, esplosivi, additivi, protettivi, etc.. 
 
Tribù – A lungo desueta negli studi ma non nella pratica, la forma sociale tribale riemerge nel luogo che se ne pensava più distante poiché inventa e gestisce il progresso tecnico, negli Stati Uniti, tra il fondamentalismo nero, quello femminista, quello transessualismo, e quello maschilista,  bianco – con insorgenze di ripiego, asiatico, latino, southern, indiano o nativo. In America i filoni culturali “comunitario” prima e poi “identitario” sono passati da una rivalutazione dei concetti a paratie stagno, in un quadro di fondamentalismo (esclusivismo). La riaffermazione dell’identità vi si fa in vista di un confronto. Tra gruppi che si vogliono esclusivi e impositivi, per criteri storici, biologici, e\o sessuali. Che è un ritorno alle origini (un ritorno amplificato, alla presunta biologia assommandosi il presunto sesso), alla prima società. Che in uno spazio ristretto, benché in una società di molti milioni, in regime di contratto sociale minimo (residuale a fronte dell’individualismo costituzionalizzato), porta alla frammentazione.
 
Era e resta forte in alcune aree arabe beduine, in Libia e in Iraq, con estensioni in Siria. In altre aree arabe, l’Algeria e il Marocco dei deserti, è invece in regresso – ricordata, più che tenuta in vit,a solo per motivi letterari, della nostalgia (Yasmina Khadra e altri).
È protettiva, come la famiglia, come le origini, ma anche dissolutiva.
 
Viaggio – “Viaggiare è meglio che arrivare” - distrae, riposa, rinnova. La notazione di Stevenson lega il viaggio alla speranza, e forse non è sempre il caso, ma all’attesa sì: ci si muove per un motivo, e questo genera un’aspettativa, un’attesa. Che è la sostanza del tempo: il viaggio è uno dei generatori del tempo – non nel senso della creazione, ma dell’alimentazione. Per il sedentario il tempo è limitato – si accorcia.   

zeulig@antiit.eu

Il “barone” americano di Calvino

In occasione di una mostra a Torino dedicata allo scultore italo-americano Salvatore Scarpitta, la rievocazione di un aneddoto che lo stesso Scarpitta ha più volte raccontato, anche nelle sue memorie. Che a undici anni, nel 1940, temendo l’ira del padre per qualche sua piccola magagna, si era appollaiato su un albero del pepe in giardino. E richiesto da un vicino giornalista che ci faceva lassù, disse: “Voglio battere il record della permanenza su un albero”, che era di 156 giorni. E sull’albero del pepe in giardino visse, sostenuto dai familiari e dalla curiosità di mezza America, per 602 ore, 25 settimane. Nel 1950, a suo dire, trovandosi a Roma, da Menghi a via Flaminia, che allora sfamava la metà dei letterati e artisti di Roma, la metà che non si sfamava da Cesaretto in via della Croce, avrebbe raccontato l’aneddoto anche a Calvino. Che sette anni dopo pubblicava “Il Barone rampante”.
Un aneddoto accettato per vero. Calvino aveva già in fieri “Il visconte dimezzato”, che pubblicherà qualche mese dopo l’incontro. E al “Barone” darà consistenza storica, una vita appesa all’albero in un periodo in cui l’Europa cambiava pelle, con la Rivoluzione francese, Napoleone, il Congresso di Vienna e la Restaurazione – ispirandosi peraltro a un suo grande amico, Libereso Guglielmi, botanico. E naturalmente la narrazione è di altro tenore che l’aneddoto – l’impuntatura e il record.
Rocco Moliterni, “Il vero Barone Rampante sono io”, “La Stampa”, 18 Ottobre 2012, free online 

domenica 19 giugno 2022

Problemi di base materni - 703

spock
 
Perché le madri ossessionano le figlie?
 
Anche le madre non casalinghe?
 
La figlia sì, il figlio no?
 
La madre ossessiona la figlia, il padre no: c’è in qualche bibbia?
 
Il padre non ossessiona i figli, e nemmeno le figlie?
 
“Mostruosa maternità”, racconta Romana Petri: come sarebbe a dire?
 
Dopo tanto femminismo, le donne sono sempre così diverse – le madri?

spock@antiit.eu

Quindici anni fa, la verità su Putin e la Russia

Caduta l’Urss, con tutta la rivoluzione, non abbiamo più russisti, slavisti, e non sappiamo nulla o quasi della Russia con cui siamo in guerra – da leggere c’è solo Anna Politkovskaja, che purtroppo è testimome e vittima del “sistema”, ma non lo spiega. Un esame eauriente ce l’avevamo però in anticipo, in questo saggio di Zaslavzky, lo storico, sociologo e narratore russo che negli anni di Breznev aveva scelto l’Italia (anche se pertropo tempo nel campo profughi di Ostia…), e di Gudkov, anche lui sociologo, accademico a Mosca, tuttora in attività, apprezzato, pubblicato dodici anni fa e ancora in libreria. Di una capacità critica, oggi, spaventosa – tanto più che il saggio del Mulino è la ripresa, solo aggiornata all’attualità, di un corso tenuto sei anni prima alla Luiss, dove Zaslavky insegnava. .
Questo se ne poteva scrivere su antiit.com il 28 maggio 2011:
“La Russia è un paese in transizione, è la tesi del libro di Gudkov e Zaslavsky, e questo si riverbera sul loro stesso libro, una riedizione della prima edizione preparata sei anni fa per la Luiss, l’università romana (col titolo “La Russia post-comunista”): Medvedev non è Putin, e la sua presidenza ha fatto fare alla Russia qualche passo in direzione dello Stato di diritto e della modernizzazione – o occidentalizzazione. Sono questi due dei tre punti deboli che Gudkov e Zaslavsky lamentano. E tuttavia l’impianto di fondo del loro studio di resta vero: non soltanto Putin, la Russia resta ancora molto poco desovietizzata.
“L’altro punto debole ne fa una società e un’economia ferme più che in transizione, per la mancata liberalizzazione dell’economia e il mancato impianto di un processo auto sostenuto di sviluppo della stessa economia. La Russia continua a prosperare perché continua il boom delle materie prime, soprattutto delle materie prime minerarie, di cui essa è grande produttrice e esportatrice. Ma con un impianto sociale, normativo e produttivo obsoleto e inefficiente. In una col gruppo dirigente, che Putin ha ricostituito attorno a due dei tre vecchi pilastri del potere politico, le forze armate e i servizi segreti – il terzo era il Partito onnipotente.
“Medvedev è peraltro in concorrenza con Putin anche nei vecchi fondi di potere. È suo il piano di riarmo di metà marzo. Per un utilizzo della capacità militare anche in funzione di polizia (l’esercito deve riorganizzarsi per poter combattere “tre guerre locali o regionali simultaneamente”). Oltre che negli equilibri mondiali, anche se ora con un occhio alla Cina. Un piano decennale da 700 miliardi di dollari, il doppio della spesa degli anni zero”.
E il giorno successivo, in occasione della commemorazione di Zaslavsly:
Non soltanto Putin, la Russia tutta è poco desovietizzata. Lev Gudkov ne ha offerto una vivida traccia al convegno romano in memoria del suo coautore, deceduto a Roma tre anni fa, “Victor Zaslavsky, testimone del suo tempo”, 27-28 maggio 2011 (organizzato da “Ventunesimo secolo” nel suo decennale, la rivista fondata da Zaslavsky con Gaetano Quagliariello). In un intervento intitolato “Giocare a fare Stalin”, Gudkov ha offerto una serie di prove del fascino praticamente incorrotto del dittatore nella Russia democratica. Non tra i neo comunisti, minoritari: nel grosso dell’opinione e delle forze politiche. E non per caso. “Putin è stato il primo tra i politici eminenti della Russia a fare un brindisi a Stalin come «organizzatore della nostra vittoria nella Grande Guerra Patriottica»”. Avveniva l’8 maggio del 1999 alla festa per il giuramento dei Cadetti del Cremlino, gli ufficiali destinati alla protezione delle personalità di Stato.
“Putin non è il solo nostalgico. “Non è casuale che all’interno della chiesa ortodossa russa non si esauriscano le discussioni sull’opportunità della canonizzazione ecclesiastica di Stalin”. Più in generale, il passato sovietico, o di Grande Potenza, della Russia è elemento fondamentale della legittimità del regime putiniano, della restaurazione dell’onore perduto. E ritorna attraverso la scuola di massa, con una storiografia immediatamente corretta, nelle università di provincia, “portatrici del’ideologia di un rancoroso nazionalismo russo”, e alla televisione di Stato. “Il Cremlino ha adottato la strategia della rimozione della storia, della sterilizzazione del passato”.
“La “nuovissima storia della Russia” vuole “l’oblio comprensivo”, all’insegna di una “storiografia ottimista” che aiuti a superare il senso di colpa collettiva. In sintesi, nota Gudkov, è un ritorno alla posizione del Partito dopo il XX.mo Congresso nel 1956, quando Krusciov denunciò i crimini di Stalin: “Stalin è responsabile delle repressioni illegali ma solo con questi mezzi era possibile creare una grande superpotenza come l’Urss”.
“Alla televisione negli ultimi anni vanno in onda “interminabili serial sui segreti della vita del Cremlino, sugli intrighi e i complotti della stretta cerchia del dittatore, sui suoi tormenti interiori e sulle sue «ricerche religiose» (per esempio “Stalin Live”, andato in onda nel 2007, 2008, 2009 e 2010), e talkshow tipo “Il nome della Russia”, nel quale Stalin è “rappresentato come simbolo insigne della grandezza della Russia, sinonimo di gloria nazionale”. Una delle più grandi case editrice, la Eksmo, si è specializzata nella storia popolare a carattere revisionista su tutti gi aspetti più perversi della storia di Stalin, con “diecine di libri apologetici”.
“L’effetto è già sensibile sull’opinione pubblica. Che ora si dice prevalentemente indifferente rispetto al problema (soprattutto fra i giovani, il 69 per cento): la percentuale degli indifferenti è cresciuta nel decennio dal 12 al 44 per cento. Quanto alla persona di Stalin, se è diminuito il numero di chi ne dava una valutazione positiva, dal 38 al 31 per cento, di più è diminuito il numero di chi lo condannava, dal 43 al 24 per cento. Mentre sul ruolo complessivo dello stalinismo in Russia “nonostante le repressioni” c’è ora una maggioranza dei consensi, tra il 51 e il 53 per cento del campione”.
Non siamo stati informati, ma si sapeva già tutto.
Lev Gudkov-Victor Zaslavsky,
La Russia da Gorbaciov a Putin, Il Mulino, pp.208 € 16