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venerdì 20 marzo 2009

Un secolo di critici senza autori

spock 

Il caso letterario della critica letteraria in questi anni Duemila, che stanno ormai per entrare nel secondo decale, riguarda dunque Asor Rosa, un altro critico, peraltro dell’Ottocento. Di questo caso non si può farne colpa ai critici, è Einaudi che ripropone Asor Rosa in ben tre volumi, con un titolo di fantasia, “Storia europea della letteratura italiana”. Nella quale peraltro mancano gli scrittori italiani più europei, a parte Pirandello: Papini, Malaparte, Silone, Marinetti e compagni, Alvaro - che vi ricorre in mezza pagina come “popolare e provinciale”, mentre Malaparte è solo nazionalista e fascista. Oltre ai critici, tutti notevolissimi, con l’eccezione di De Sanctis. Ma per il resto è paradigmatico - dello spettegüless, che altro? Mentre gli editori concorrenti pubblicano come nuovo Harold Bloom, di trent’anni fa, e ancora i grandi novecentisti, Steiner, Citati, Magris, Pedullà, Garboli. Il fatto è che il secolo che si voleva tanto breve non si è ancora concluso: il Novecento è invadente. O solo persistente, in mancanza di meglio, eco di echi, nostalgia. E si è chiuso tra le maledizioni: vent’anni fa, nel 1992, Asor Rosa decretava la fine della letteratura italiana. Nel 1993 Walter Pedullà decretava la fine dell’ironia – di chi? Un decimo del nuovo millennio è così passato e non se ne vede traccia, neppure in traduzione. Anche se non si è mai letto tanto come in questi giorni. E roba letteraria, non usa e getta, o almeno presentata con sfoggio di critica. Se non è proprio questo il problema. Di notevole resterà in questa prima parte del millennio la creazione del blockbuster. Non un libro di autore ma un fatto di genere, del tutto industriale. Non speciale, ma impilato come i cubetti del lego, e venduto subito, in due settimane, a milioni. Anche se lo schema è trito (blockbuster, spiega Wikipedia, è termine usato dal 1975 per i film a immediato grande successo, quale fu in quell'anno "lo Squalo"), e tutto basato sul marketing: l’arruolamento di un critico, la prevendita in massa alle catene librarie, gli echi di stampa, l’appiglio della cronaca. E il presupposto che nessuno legga il libro - se qualcuno, avendolo letto, lo critica, si fa capire che è invidioso, o rincoglionito. Vita intensa dei libri: la poetica del blockbuster Non è una cattiva novità. L'editore studia il mercato, inventa la clientela, impone il prodotto – si fanno investimenti nella promozione dei libri che a volte eguagliano quelle dei film. Le librerie sono affollate come i supermercati. I libri si vendono a milioni - anche se non è possibile, non è vero, che tutti abbiamo a casa Faletti, Ammanniti, Brown, Saviano, e un Camilleri al mese. Il mass market non è male, uno, neppure se critico, non saprebbe dolersene. Se non che, come si sa, ogni volta la cattiva moneta scaccia la buona. I libri vanno di fretta. Muoiono quindici giorni dopo essere nati, devono avere vita intensa, e dunque si anticipano, si illustrano, con foto anche arrapanti e comunque d’autore, si magnificano, si estraggono, si classificano, anche in cinque e sei modi diversi, occupando tutte le piazze Internet del momento, con chat, forum, premesse e promesse strabilianti, lungamente si intervistano gli autori, se ne celebrano le feste, le fiere, i festival, le rassegne e i premi, e si danno per letti. Il genere intervista è specialmente esilarante, di solito scritta da appositi uffici, in genere a sconosciuti, che non hanno nulla da dire, se non parlare di se stessi, della nonna, del papà, del gatto, e quasi sempre brutti, malgrado le pose lusinghiere e i tagli di luce, né spiritosi o ispiranti, per libri che non verranno letti, dell’Irlanda o del New Hampshire, su una pagina intera e perfino due pagine di giornale, anche più di una volta a settimana, un confessore inorridirebbe. Tutto vi è eccezionale, ma in questo senso: tradurre, stampare e vendere, in un caso anche tremila pagine, in milioni di copie, subito, prima che se ne accorgano, l'impegno dev’essere enorme. Cui la critica non si sottrae. L’ultimo romanzo Garzanti, quello di Andrea Vitali, ha avuto in cadenza prima dell’uscita una serie di recensioni mozzafiato: «Giù il cappello! È il miglior Vitali della nostra vita», Antonio D'Orrico, con link pdf; «I romanzi di Vitali sembrano scritti per un lettore che cede al solo ed esclusivo piacere della lettura», Antonio Gnoli, «la Repubblica»; «Andrea Vitali, giostraio esimio di robe, animali, atmosfere», Bruno Quaranta, «ttL – La Stampa». Roba da Guinness dei primati, o da storia della letteratura? Questi promo, infatti, sono utilizzati usualmente, Vitali non c’entra, in forma di pubblicità ma anche di recensione. E la recensione, spiega Massimo Onofri che ne è il teorico (da ultimo in “Recensire. Istruzioni per l’uso”, Donzelli, pp. 152, € 15), “rivela, in profondità, la verità dell'atto critico in quanto tale”. Il mercato librario è insomma la critica. Che si può dire anche così: non c’è il Libro, e non c’è l’Autore, ma c’è la critica. La morte dell’autore Com’è allora che la critica non c’è, o si lamenta? Berardinelli, scrivendo male sul “Sole 24 Ore” di Asor Rosa e della sua “Storia europea”, ricorda che “De Sanctis aveva (e stimava) Foscolo, Manzoni, Mazzini, Leopardi, Hegel, Byron”. Niente di simile per il De Sanctis di oggi, che quindi non ci può essere. Bisogna andare indietro di sessant’anni per avere un Pasolini poeta felibrista scoperto, mentre l’Italia perdeva rovinosamente la guerra, da Contini. Di cinquanta per avere Pasolini romanziere scoperto da De Robertis. E del resto sono già quarant’anni che Barthes scrisse il piccolo saggio “La morte dell’Autore”, su cui si fonda – si fondava già prima che Barthes lo dicesse – la semiologia. Come dire che possiamo considerare Eco morto, se non Barthes stesso, grande autore. Muoiono in tanti dopo Nietzsche e Dio. L’autore, il romanzo più volte, e la letteratura, che la scrittura sostituisce, cioè la critica. Ma di che? Nonché il testo, lo stile, una storia, un personaggio, che incida e si ricordi, non c’è l’autore. Non c’è insomma materia per i contemporaneisti, ecco che. Se non, ancora, il Novecento. Quando già un decimo del nuovo secolo è trascorso senza traccia. Senza contare che il Novecento s’è fermato al 1980 o poco più – al primo Tondelli, all’ultimo Tabucchi prima che entrasse nella clandestinità antiberlusconiana. Ci sono molti libri finalmente nei giornali, anche nei supplementi pubblicitari, ma non ci sono autori o libri per i critici. La morte dell’autore, annunciata da Barthes, Foucault e altri cloni, si realizza per partenogenesi, il morto si moltiplica. Per frammentazione: come un vaso di coccio, l’autore è andato in frantumi, e in ogni coccio pretende di ritrovarsi. Mentre ce ne vorrebbe uno, ce ne vorrebbero un paio, che raccordassero la critica con il mercato, la letteratura con i reality. Un arcangelo che innamori di sé la madre, e se la faccia, banghizzi (banging) il figlio, sodomizzi il padre, peraltro cancerizzato terminale, squarti la figlia… Che è storia nota, il vecchio”Teorema” che Pasolini non ardì scrivere, se non sottotraccia al film. Bisognerebbe osare. Ma, certo, sapendo che non c’è autore senza il suo critico, c’è da chiedersi: e se non ci fossero critici? Si rischia di oltraggiare il nulla. La critica soprammobile Nelle pagine culturali dei giornali, tutte ora molto leggibili, dopo quasi mezzo secolo di “storie dell’antico Egitto”, l’eterno cocktail di fantasia, esoterismo, religione, storia, seguita alla crisi della Terza Pagina, non c’è peraltro posto per la recensione critica. Di cui forse per questo Onofri, uno dei “giovani” critici in cerca d’autore, fa la teoria e l’esemplificazione, una sorta di epicedio. Presentazioni, anticipazioni, estratti, interviste, testimonianze fanno il libro, la critica è quasi assente, e se è presente è d’uso, confinata allo strillo, la frase fulminante, con valore esornativo, come un bel soprammobile. Si dice: i giornali devono venire incontro ai lettori, sono lo specchio di ciò che avviene. Per ciò che avviene intendendosi pure le parole. Con il sottinteso, essendo gli editori che fanno le parole, che se un editore avesse dieci autori, o anche uno solo, che si segnalasse per le parole che scrive, quale letterato, i giornali ne parlerebbero. Ma un editore questo autore non solo non ce l’ha, non lo può avere, cioè non lo vuole. L’editore vuole tirature minime di ventimila copie, più le traduzioni obbligate (i diritti di un best-seller comportano altre traduzioni, quelli di un blockbuster pacchetti di diritti) e si occupa di marketing: buone confezioni, buone presentazioni, anticipazioni, promo, e un uso anche ingegnoso degli incentivi alle vendite (concorsi a premi, sconti a termine, buoni sconto, vendite in blocco). Il critico può farne parte, per prefazioni, anticipazioni, presentazioni, con premi e regali, non manca il rispetto anche in questa editoria: il best-seller si adrona ancora del dittico ditirambico di un critico - viene dopo la presentazione ai librai e una settimana prima dell’uscita del libro. Ma niente di memorabile, degli ultimi venti anni, anche trenta, niente resta. “Il nuovo, in letteratura, è dietro di noi”, dice Ficara tranquillo: è il Novecento, arato. Il tema si può esporre così: Garboli nel 1969 elogia Soldati e Maigret, e critica Pasolini dantista, Ficara quarant’anni dopo se ne fa meraviglia. Non si sa, cioè, se con l’autore non è scomparso anche il critico – l’autore è il suo critico, come si sa. La letteratura non avendo più posto nel mercato, il mercato?, argomenta Onofri, “i critici, che preoccupano e interessano sempre meno i potenti di turno, sono forse più liberi, non hanno più niente da perdere”. La felicità è dunque nella tebaide. Inviandosi magari insulti e anatemi da una grotta all’altra. Forse il Duemila non si può scrivere. Non per la morte della letteratura, che essendo viva altrove è ben viva ovunque, ma per la mancanza di pezze d’appoggio, nell’affarismo di poca sostanza che ha invaso l’esistenza, e della società dei belli-e-buoni più che delle masse e del popolo populista. Ma ci può essere un secolo non secolo? O non è questo materia di critica? In Francia, direbbe Berardinelli, quando con Bonaparte finirono le residue illusioni, vennero Stendhal, Balzac eccetera. Nel 2008 si è ripubblicato “Il Canone” di Bloom, mentre Steiner, Citati, Magris, Pedullà hanno raccolto le letture di una vita e il loro Novecento, e perfino le scritture non scritte. Tutti libri sul piacere del testo, con la critica della critica in filigrana. Mentre la giovane critica si attarda, senza oggetto, sulle metodologie e sugli altri critici – per il gusto dominante dello Streit, la polemica. Vivace certo, giornalistica. Ma che cos’è il gusto dominante, di chi, chi domina e perché? Non si può dire che la professione sia sparita, o sia finita in un gulag o al giardino zologico, i critici sono sempre numerosi e militanti, anzi, anch’essi, non sono mai stati tanti e tanto agguerriti, ma confinati alle accademie, dove parlano di Calvino, e si parlano tra di loro, dottamente. Anche se non in modo diretto, per echi e rimandi: Cordelli parla di Ficara, che parla di Berardinelli, che parla di Cesare Garboli. E questo è il modello Internet, il brusio di Internet, i critici giovani sono aggiornati. Ma, poi, il pattern del mercato librario, o della critica che dir si voglia, è palese e modesto: nessuna scoperta, nessuna proposta, nessuna vera lettura se non obbligata. Niente antologie, preferenze, scelte, decisioni, non c’è più l’autonomia del critico – il critico autonomo, che orienta le scelte, invece di recepirle. L’ambizione del critico è il posto all’università, sempre per il Novecento, e una rubrica giornalistica – la finestra. E i giornali lavorano con gli editori, che forniscono storie e personaggi già fatti (letti, biografati, fotografati, intervistati). Il massimo, come si dice a Roma, è il critico che si accapiglia con un autore, o viceversa, magari sullo stesso giornale di cui entrambi siano vedettes, insomma il reality della letteratura - ancora si ricorda il celebre Streit su “Repubblica” tra Baricco e Citati, autore e (non)critico, la baruffa tra le prime donne del giornale. La critica mercato Questa critica che è mercato sembra una limitazione ma è un’opportunità. Come no? Come i terremoti, lo tsunami, la peste, e ogni altra tabula rasa. Per non dire che consente ottima ermeneutica gramsciana, là dove, in “Letteratura e vita nazionale”, il quesito è posto: “Forse si potrebbe provare che la grande massa della paccottiglia letteraria è dovuta ai burocrati”, aziendali? Dopo l’autore, un Barthes di oggi potrebbe agevolmente censire la morte del critico. Dei tre novecentisti emeriti che hanno segnato il 2008 con le loro raccolte, due, Citati e Magris, coltivano ancora il protagonismo, l’Autore, Pedullà le riviste, “L’Illumista” e “Il Caffè letterario” dopo “Il cavallo di Troia”, anche se senza gruppi di sostegno e senza poetiche. I giovani critici non coltivano niente, se non le reciproche diatribe. Che fanno “pubblicazione” per contemporaneistica. La quale è, anch’essa, in via di sparizione – è materia d’esame fondamentale ma senza peso specifico. Il “Washington Post” del resto non ha chiuso il supplemento libri – continuerà, ma solo su Internet? E il concorrente “New York Times”, nel darne maligno la notizia, non ha commentato: “Un altro segno del fatto che la critica letteraria sta perdendo terreno”? Si sa come vanno le cose, quello che succede oggi in America è il nostro futuro. E dunque sta per diventare la letteratura un cimitero, tutti morti. Le ombre già si vedono, tra l’aria che ci manca per l’ozono o il riscaldamento globale e il sole sporco. Agguerriti, colti, occhiuti, una generazione o due di giovani critici di quaranta e cinquant’anni vaga nel vuoto pneumatico. Non in cerca d’autore, non c’è più il critico lettore di libri. Che comunque devono finire in quindici giorni. Resta un dubbio: se è vero che la critica letteraria l’ha inventata Aristofane, perché i critici non ritornano, in questa vacanza obbligata, all’origine? L’immortalità della letteratura è creazione recente, di Petrarca, anche se per questo ha avuto molteplice figliolanza. Senza contare che anche l’immortalità deperisce e muore. Non ci sono autori, ma nemmeno, a ben guardare, poetiche – il postmodenismo non vuole dire nulla. Ci sarebbero da catalogare l’editoria del best-seller, le librerie supermercato, i libri venduti a milioni, e i corsi di scrittura, che si vendono anche in edicola, a dispense e con dvd. Ma l’ottica dei nuovi critici è rimasta bloccata su quella dei maestri, come in un brutto sogno. Oppure: la novità non è il mercato, è un'altra. Un altro mondo Ci sono sempre stati gli autori di romanzi. Dei cormanzi che si leggono per passatempo, come le parole crociate. Che anno venduto moltissomo. Tutto in poche settimane. Anche perché erano autori da due e anche da tre romanzi l'anno: Guido Milanesi, Mario Mariani, Willy Diase altri, olotre i tanti in traduzione. Senza scandalo. Oggi sono molti di più perché si legge molto di più. La novità non è questa, è che oggi questi scrittori di romanzo sono tutto. Occupano le pagine della cultura, fanno serate ai Fori Imperiali, con band e fuochi d'artificio, vanno da Fazio, e sono le vedettes dei festival letterari, e dei premi. Cioè, nemmeno questa è una grande novità, in fondo ci sono stati i littori. La novità è che i critici non si ribellano, anzi solo di questo di occupano, anche loro. Oggi è curioso, ma ci fu un’epoca, cinquant’anni, quarant’anni fa, in cui il letterato era un ricercatore, senza scandalo, insaziato di esperimenti e scoperte, in Francia, in Germania, negli Usa, in Gran Bretagna, e perfino nell’Unione Sovietica e in Italia, in riviste, mostre, happening, manifestazioni pubbliche e libri, alla ricerca di nuovi moduli, linguaggi, significati. Si innovava ancora di più al cinema, arte popolare per eccellenza, se qualcuno si ricorda ancora i film di Godard, e i primi di Truffaut e Bertolucci. E non sembrano tempi remoti, sono proprio un altro mondo. 
Giorgio Ficara, Stile Novecento, Marsilio, pp 242, € 20 Filippo La Porta, Giuseppe Leonelli, Dizionario della critica militante. Letteratura e mondo contemporaneo, Bompiani, pp. 268, € 11 Massimo Onofri, Recensire. Istruzioni per l’uso, Donzelli, pp. 152, € 15 

La favola del potere nel televisore

Un ghirigoro, dal nulla al nulla. Senza filologia, né storia. Né c’è la scienza del potere, se non il Gramsci confuso di “ogni Stato è una dittatura”. E il vago risentimento del potere che sempre sta nell’ombra, l’anarchia a tutti comoda e che però della democrazia fa un’oligarchia.
C’è molto Cesare, ma è quello “tedesco”, che coniuga destra e sinistra, del periodo guglielmino e ancora di Weimar, che Canfora chiama il “fascismo democratico”. Un Cesare di maniera, un totem, uno dei santi ispiratori del Kulturkampf più vero, che è l’ideologia dei primati, in cui anche il socialismo si assoggettava alla grandezza della Germania. Ma non c’è Foucault, e nemmeno Andreotti, né l’Avvocato Agnelli. Non ci sono i Bottomore, Russell, Mosca, Pareto, Jünger, Schmitt, Machiavelli c’entra per caso. Il destra-sinistra che ha affascinato a lungo i tedeschi, e Canfora già dal tempo in cui propose il Gentile de “La sentenza” e “Il comunista senza partito” Arthur Rosenberg, grandi narrazioni, è qui nella esposizione dell’antichista Eduard Meyer, conservatore, teorico ammirato del “bonapartismo di sinistra” in Lenin.
Galantuomini e snob
Un libro di divagazioni, frettolosamente montato, ormai anche Canfora è a un libro al mese, o due, nel quale l’antichista dissipa pure le sue doti di narratore, oltre che di filologo. Per l’ossessione, evidente, di Berlusconi, che non citato buca in più posti – nel cittadino “suddito-consumatore-arrampicatore frustrato”, e nel televisore (“ormai la parola pubblica è morta, sostituita da un potentissimo elettrodomestico. Chi lo possiede, per dirla con De Gasperi, vince le elezioni”). L’ossessione coltivata, blanda cioè e non veramente ossessiva, che è per molti una sorta di trincea, benché lustra e anzi con design d’architetto, per i tanti che si pensano veterocomunisti, specie diffusa tra i vecchi galantuomini, intellellettuali, meridionali – un po’ oblomoviani, certo, salveminiani. Canfora sa benissimo, per dire, poiché lo sanno tutti, che Berlusconi è invece un pessimo comunicatore, legnoso, ripetitivo, inconcludente, monotono, uno che non “buca lo schermo”, ma si parla allo specchio e mai entra in comunicazione (feeling) col pubblico, e che se le elezioni si vincessero con i talk show lui le perderebbe. Ma sì è uomo dei καιροί – Canfora, che il καιρός evoca, il momento buono, l’opportunità, per farne merito a Stalin, si lascia sfuggire questo καιρός, e cioè che Berlusconi è l’uomo dei καιροί, non se ne è perso uno. Che volgarmente si direbbe “ha culo”, ma è anche dote politica, saper afferrare il momento giusto, le opportunità, i treni - se una definizione si può dare di Berlusconi, è: “l’uomo delle opportunità”.
Pensare i berlusconiani frustrati, uno invidia tanta certezza. Non è la sola. Il libro si chiude con un sublime Hobsbawm, testimone involontario dell’indigenza politica di alcune generazioni intellettuali – con cui Canfora supersnob finge d’identificarsi, suprema ironia: “L’unica cosa assolutamente certa”, fa dire a Hobsbawm, è che l’impero americano “sarà transitorio come tutti gli altri imperi”. Da stropicciarsi gli occhi.
Luciano Canfora, La natura del potere, Laterza, pp. 99, € 14

Soldati libero narratore, tra Douglas e Chatwin

Soldati è sempre vittima di se stesso, giacché si continua a “vendere” per il personaggio, che egli ha voluto essere e fu. Mentre è scrittore robusto, anche in queste improvvisate corrispondenze dal “fronte”, al seguito delle salmerie. Dei muli, per intendersi. Epigono italico da manuale, anche se non dichiarato, del narratore-viaggiatore alla Norman Douglas (i cui nipotini britannici sono Chatwin, per intendersi, e Leigh Fermor), uno sempre indaffarato nell'ozio, apparentemente distratto, e come lo scozzese anticonformista - si diceva una volta: libero. Il miglior Douglas, sempre apparentemente in superficie, al fatto, e acuminato, fulmineo, mai banale. Tribale, col senso vivo cioè delle differenze anche se non leghista (razzista, superiore) e anzi cosmopolita, che fa vivere: il napoletano, il siciliano, lo scozzese che non è l'inglese. Con l'abilità dell'innestatore, il virtuoso della talea, in senso musicale, della sorpresa, della novità non forzata. Da "America primo amore", il primo viaggio "inglese", o scozzese, un vizio non più abbandondato.
Un "viaggiatore" che sa raccontare le minuzie e anche l'inanimato, una sfumatura di colore, un sapore, un neo in un viso, e pure gli eventi banali, la conversazione da treno, l'incontro occasionale in piazza, sa, se lo vuole, trasformare in un mondo leggibile. Un narratore: questo revival sarà la scoperta di un autore, a mano a mano che il centralismo democratico s’indebolisce con le sue durissime censure - una letteratura solo un po' meno bacchettona, anche se per il nobile fine rivoluzionario, ne avrebbe fatto una bandiera ricavandone un tesoro.
Soldati argomenta che l’Italia avrebbe fatto bene ad attaccare i tedeschi invece di capitolare. Tesi arrischiata, perché Soldati la basa sulla volontà degli italiani di combattere. Eppure è convincente, con i suoi aneddoti di eroismo ordinario. Anzi, più volentieri si legge per l’appendice, ricostruita da Emiliano Morreale con i testi non pubblicati dall’“Avanti!” e “l’Unità”, cui erano indirizzati, anche se più argomentati che narrativi. Sull’altro fronte, pattugliano Bologna “quattrocento donne, emigrate da Firenze, armate di tutto punto, vestite di nero, in pantaloni”.
Mario Soldati, Corrispondenti di guerra, Sellerio, pp. 123, € 10

Il mondo com'è (15)

astolfo

Comunicazione - Latita straordinariamente nella molteplicità delle immagini e dei messaggi, così ampiamente diffusi tra le masse attraverso i tre canali del cellulare, del computer e della tv satellite-cavo, con le loro innumerevoli estensioni. L’information technology nasce con la forte connotazione del bisogno dell’inutile. Mai marketing è stato così aggressivo, e la qualità del prodotto deperibile, con durata di pochi anni o mesi - a costi di manutenzione, in esclusiva, che impongono la sostituzione.
Nelle società industrializzate (ricche) e nelle altre: s’impone un’economia che non è gestione della penuria, ma moltiplicazione dei bisogni. In forma di sudditanza: l’evoluzione tecnologica copre in realtà un marketing spietato. C’è un monopolio dei consumi in quanto compulsione incontrollabile, totalitario anche se non giuridicamente rilevante. Che elimina la possibilità di capire e calcolare: la moltiplicazione dei modelli, delle tariffe e dei gadget riduce il potenziale logico alla radice.

Giustizia – In Italia è politica proprio perché è autonoma, cioè irresponsabile: la parificazione del procuratore al giudice la rende costituzionalmente politica. Il procuratore della Repubblica è il capo della polizia inquirente, e come tale ha poteri inquisitivi pieni. Ma è anche irresponsabile, e perfino legibus solutus, dal momento che il Consiglio superiore della magistratura, l’unico suo giudice in fatto di rispetto della legalità, è evoluto in sindacato e collegio di difesa – per cause certo altisonanti: l’autonomia, la giustizia eccetera.
I procuratori lo sanno, poiché lo dicono nelle loro rivendicazioni – che non sono di efficienza ma di potere. Lo mostrano nella pratica, nella quale la prevenzione e la sanzione del crimine occupano un tempo e un’attenzione minimi, l’attività è normalmente presa dalla politica - nel caso migliore, perché ci sono anche gli affarucci, le invidie, le vendette, le carriere,
L’inefficienza deriva in massima parte dal carattere politico della giustizia: dal privilegio e l’irresponsabilità, che ha come solo criterio di merito la carriera.
I procuratori essendo negli stessi ruoli dei giudici, anche la magistratura giudicante è infetta da questo delirio d’onnipotenza, senza saggezza né equità.
È un sistema chiuso. Non una casta, giacché ci sono i concorsi, ma una mafia. Il carattere mafioso è dato dal sistema interno di giustizia, che procede non per meriti e demeriti ma per cordate e gruppi di potere, con vendette e compensazioni.

Media – Sono la verità, perché fanno la politica – il linguaggio, la psicologia, la giustizia, la vita in comune. Creatori infaticabili e rapidi di miti - la razionalità della parola scritta è solo uno di essi. Ma di miti e verità che si sanno, si sentono, falsi, stonati, calcolati, miseramente basati sul gioco delle influenze o servili. Per la parte migliore tendenti alla autocelebrazione.
È la verità e la mitologia della pubblicità. Non devastante, ma demoralizzante. Tanto più quanto riesce ad allargarsi.
La realtà contemporanea (il crollo del comunismo, il neo cristianesimo americano, le guerre della e alla Jugoslavia, il khomeinismo, il jazirismo) è l’effetto dei media. In senso proprio: avviene su propulsione e nelle forme che i media dettano, per le loro esigenze di linguaggio e di mercato. È per questo che stona: stona tanta democrazia nell’Est Europa, è oltraggiosa la devozione islamica, perfino blasfema.

Opinione pubblica - È la valvola del potere. Già dai tempi del suffragio elettorale, ancorché limitato. È centrale in regime elettorale presidenziale, plebiscitario.
Obama ha vinto le elezioni contro H.Clinton con la comunicazione, specie nei new media. Utilizzando al meglio i new media si è guadagnato l’attenzione dei giovani, che gli hanno vinto importanti caucuses, decisivi per spostare i voti statali, nelle primarie. Obama è un risarcimento, di una storia infame di cui l’America vuole sgravarsi. Ma non è più di una rockstar, cui si sia dato lo scettro di comando. Non è il primo, Carter, Reagan, Clinton sono stati in vario effetti dello stardom.

Si pubblicano telefonate di questo a quello, e indiscrezioni varie, di abusi, sessuali e non, licenze e inganni, in cui non è più il governo (il potere, il regime) che attraverso i suoi servizi segreti droga l’informazione. Ma non è certo la libertà di stampa: il vizio è sempre quello delle veline di stampo fascista. Molti scandali politici venivano alimentati dal fascismo attraverso i giornali, ai quali il regime forniva in esclusiva le notizie e i materiali che gli servivano.
La Repubblica naturalmente non è il fascismo, c’è la costituzione e c’è il mercato. Ma l’abitudine è rimasta: le prerogative costituzionali dei magistrati e il mercato convergono nel commercio delle notizie. Commercio non necessariamente a vile scopo di lucro, i magistrati non sono tombaroli - non sono ladri, a loro basta un semplice barbaglio di carriera, sociale e politica se non di mestiere.
È il fascismo contemporaneo, ha ragione chi lo dice: l’ingiustizia che arriva via opinione pubblica.
In America scopertamente, l’opinione pubblica è propaganda. È corriva ai poteri, sia pure dell’opposizione, e non critica – intelligente, libera, veritiera. In Europa il potere è quello giudiziario, l’ingiustizia dei magistrati. Che vogliono essere accusatori e anche giudici. Nel nome dell’autonomia. L’autonomia del potere giudiziario da che cosa? Dall’obbligo di verità e giustizia, il potere giudiziario in quanto tale è più che tutelato. Gli apparati, del resto, le eccellenze, gli ermellini, gli anni giudiziari, e la rissosità denotano anche esteriormente la mancata defascistizzazione di questo potere.
L’ordinamento americano, che lascia la repressione alla polizia, ai giudici chiedendo la funzione di giudicare, riacquista al contrario per questo in democrazia: la forza della legge è l’unico cardine della democrazia in America, ma quanto solido. La giustizia vuol’essere equanime, ma soprattutto ponderata, non ostile. Deve ristabilire le condizioni, non affermare un potere.

Norman Mailer aveva coniato i factoïds, che non esistono prima della pubblicazione. Da riferire non alla creazione letteraria, ma alla pretesa giornalistica ….

Politicamente corretto - È ipocrita, e violento, ma inestirpabile: è l’ipocrisia puritana che si rifà legge, naturalmente razzista.
Violento. Nega gli esseri – gli uomini nei confronti delle donne e viceversa, gli esseri umani nei confronti degli animali, le professioni, le aspirazioni, la società, che anzitutto è articolazione. E ognuno fissa nel proprio ruolo, nel mentre che nega la diversità. In forme anche atroci, come l’outing per gli omosessuali, l’obbligo di dichiararsi – personaggi complessi e ricchi riducendo al fallo, il desiderio di un fallo, l’ossessione, un Pasolini testa di cazzo per essere chiari, un Oscar Wilde, un Anthony Blunt.
Ipocrita. Per la non tanto sottile sottigliezza di affermare negando: un nero che non si può dire – pensarsi – nero, un down down. Con la semplificazione della storia, che è a senso unico, quella propria: c’è un solo schiavismo, un solo hitlerismo, un solo stalinismo, un solo generale Custer, e a una sola dimensione.
Razzista. È il protestante - anche un battista, non solo il presbiteriano – che smerda il cattolico, il viceversa non è ammesso, il settentrionale il meridionale, il nordamericano il sudamericano.
È lo stesso ipocrita perbenismo che ha portato alla crisi e la governa. Col consenso informato che è puro esproprio. Con la privacy invadente che è autorizzazione a intrudere. Con l’ineffabile disonestà dei prezzi “a partire da”, detti per giunta verità dei prezzi. E delle prestazioni “fino a” – la batteria del pc che dura “fino a” dieci ore, cioè anche pochi minuti.

astolfo@antiit.eu

martedì 17 marzo 2009

La revoluciòn alla Casa Bianca

La revoluciòn contagia gli yanques? Barack Obama scatena le folle contro i supermanager e Michelle vara l’orto di crisi nel giardino presidenziale: un tocco, anzi due, di Terzo mondo alla Casa Bianca, anche se l’orto, si assicura, sarà biologico, Hugo Chavez si morderà le mani dall’invidia. Col plauso ammirato dei media in Italia, il solo paese avanzato, finora, dove il Terzo mondo fa proseliti.
La crisi è sempre più larga e più profonda, e gli orti di crisi saranno dunque necessari, anche fuori dal Terzo mondo. Ma perché il governo americano, che ha messo 170 miliardi di dollari nel primo gruppo assicurativo, Aig, non si è assicurato e non vuole assicurarsi alcun potere sulle decisioni di Aig, compresi i supercompensi ai manager? Questo è il nocciolo della questione, ma di questo non si può parlare. Bisognerebbe spiegare perché e come i miliardi pubblici sono spesi per le grandi compagnie private. E perché, per esempio, una cinquantina dei miliardi pubblici a Aig sono stati intascati dalle solite banche, che vendono le polizze Aig, Goldman Sachs, Merrill Lynch e Bank of America. Forse perché il capo di gabinetto del ministro del Tesoro è, era, il lobbista di Goldman Sachs, Mark Patterson? Scatenare le folle contro le ville dei supermanager è più semplice.
“Dall’inizio della crisi ad oggi la mano dello Stato si è mossa in salvataggio di più di 400 banche e finanziarie Usa”, scrive il ministro Tremonti sul “Corriere della sera”, in singolare accostamento all’apertura trionfale dello stesso giornale sul presidente Obama giustiziere. E non solo delle banche, continua Tremonti, ma anche “in salvataggio” di assicurazioni, case automobilistiche, mutui della famiglie, e ora dei fondi pensione. Senza darsi nessun potere di controllo, bisogna aggiungere. Il peggio della crisi è che si spendono soldi pubblici per riempire buchi privati e privatissimi. Di cui si finge di non sapere la natura.

Porte aperte

Un giorno di primavera di questo anno di crisi 2009, che a Roma è sempre solare e lieta, fate richiesta di copia di un atto alla XVIma circoscrizione a Roma, quella della Repubblica Romana di Mazzini e Garibaldi, che avrebbe potuto essere la vera rivoluzione italiana e non fu per l’invidia francese, popolare e democratica, il vero Risorgimento, un atto pubblico qualsiasi, e avrete, protocollata, con oggetto e tutto, la seguente risposta prestampata: “Si comunica che, nell’istanza prodotta dal Sig. X non viene compiutamente dimostrato l’interesse concreto, diretto ed attuale, né viene evidenziata la situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento richiesto. Pertanto – non risultando idonea la motivazione addotta – lo scrivente Ufficio non può dar seguito all’istanza di cui all’oggetto”. F.to: Il Dirigente Architetto E.C.
Una riposta prestampata, frutto di consolidata giurisperizia, ineccepibile. Evocatrice anche: la prosa dell’architetto E.C, sigla di fantasia, risuscita come fosse oggi la prima volta che la Repubblica tentò di farsi pubblica, e sono già dodici anni, la realtà talvolta è immutabile. Anche se dodici anni, o sono già quindici, di porte aperte nella Pubblica Amministrazione, che per questo ha creato forniti uffici di rapporti con il pubblico, e di saracinesche calate dalla Pubblica Amministrazione contro le porte aperte, che per questo ha promosso e ottenuto dai rigorosi giudici amministrativi le complesse formulazioni dell’architetto E.C., sono da ritenere un pieno impiego del tempo da parte della stessa, che ingiustamente dunque il ministro Brunetta accusa di nonfarnientismo.
È un giovedì, il giorno che il ministro Treu ha decretato dei ministeri aperti per i cittadini. Di prima mattina, un giorno che la frescura promette di scacciare l’afa di luglio. L’ingresso del ministero a via Pagano è pulito e sgombro, pronto per le visite. Si lascia via XX Settembre, col traffico ininterrotto, le puzze, i rumori, e la pace subentra immediata, col decoro delle istituzioni. Le poche persone che entrano salgono al quarto piano. Dove si trova l’ufficio per i rapporti con i cittadini. Tenuto da due funzionari che sono già al loro posto, nella stessa stanza ampia, a due grandi scrivanie ordinate, senza i soliti ingombri di scartoffie, vuote.
L’orario di apertura è dalle nove, e bisogna attendere. Si attende in piedi, leggendo le bacheche, scambiando sorrisi con gli altri visitatori che invece vanno, tutti con una valigetta rigida, per le loro pratiche negli altri uffici al piano, non soggetti a orario se non quello di lavoro, il corri-doio trasformando in open space ben milanese, d’accenti e operosità. Alle nove in punto i due funzionari ascoltano la richiesta e, senza consultarsi, all’unisono chiedono: “Lei è sindacalista?” Perché, spiegano, un dipendente non può avere l’atto richiesto: “La dichiarazione dello stato di crisi è pubblica", l’atto richiesto è una dichiarazione di crisi aziendale, “ma possono averne copia i rappresentanti dell’azienda e i sindacalisti”.
I due, sempre all’unisono, non oppongono però resistenza: “Quali sindacalisti? Anche uno confederale, sì”. Renato della Cgil, che si occupa della stampa, sicuramente si presterà. Ma Renato non risponde. Sarà presto, conviene ritentare, aspettando nel corridoio vuoto. Solo animato dai primi visitatori che escono dalle stanze, sorridenti, e scambiano saluti, mentre altri subentrano, a incastro perfetto, tutti simili, con la ventiquattrore.
Quando il compagno Renato non risponde alla seconda o terza chiamata, l’idea viene di chiedere in segreteria. Renato c’è, ma è in riunione. Fino a quando la segretaria non sa: “Non sarà breve. Chiama fra un’ora. Fra mezzora, se vuoi”. Insomma, è più che altro una sensazione sgradevole, come quando in mare un cirro lontano porta burrasca. L’idea di recuperare qualcuno della rappresentanza sindacale aziendale contribuisce anch’essa al nervosismo: sono tutti aziendalisti. Uno di quelli che entrano ed escono con la valigetta fa la sua parte, un rosso, che la butta in braccio al suo compagno e urla sarcastico: “È leggerina, neh!”, cercando con l’occhio complicità alla sua involuta insinuazione.
I due funzionari dell’ufficio rapporti con i cittadini stanno sempre ai loro posti, immobili, muti. Sulle loro teste leonine due ritratti danno carattere ieratico alla scena: da una parte il presidente moralista, col suo piglio monacale, non si sa cioè se più semplice o più furbo, dall’altra il presidente del consiglio, che per distrazione, e per l’apprensione crescente, rimanda per un attimo al cantante Drupi, del resto suo anagramma, senza naturalmente la capigliatura cavallina. Un tentativo di fare conversazione per ingannare l’attesa, essendo l’unico visitatore, cade: i funzionari rimangono composti, con gli occhi bassi. Finché la decisione di porre urgenza sulla segreteria alla Cgil s’impone e riesce, Renato viene al telefono.
Renato è rassicurante, ci penserà lui, “ma non subito, in tarda mattinata”. Consiglia di aspettare al ministero: “Appena ho un minuto scappo: da qui sono due minuti”. E insomma, la cosa si risolve. Se non che, fra una cosa e l’altra, sono già le undici, e la targhetta alla porta dell’ufficio rapporti con i cittadini è precisa: l’orario è fino alle 12,30. Lo scoramento quindi rigurgita. Tanto più che, alla richiesta alla romana di conferma dell’orario, “allora c’è tempo solo fino alle 12,30?”, uno dei due precisa: “L’orario di lavoro è fino alle 14, fino alle 12,30 quello di sportello”. Che non si sa se è un limite o una possibilità.
Si dice in questi casi che ci si sente come un animale in gabbia. Ma chissà cosa sente un animale in gabbia. Mentre il rovello insorge di cercare una via d’uscita nella segreteria del buon ministro, che in fondo è un compagno pure lui, seppure del partito del presidente del consiglio, e ha un addetto stampa amico. È farsi violenza, non è un’esagerazione, e l’indecisione vince. Il riserbo impone di non disturbare la segreteria oberata dai tanti stati di crisi che il buon ministro avalla – Treu in tedesco è leale, uno che sta alla parola. In Italia, come si sa, l’articolo 18 proibisce i licenziamenti. Con lo stato di crisi invece si può licenziare liberamente, non c’è neanche la giusta causa, la difficoltà di trovare una giustificazione. Per cui gli stati di crisi si moltiplicano.
La tentazione della raccomandazione vince infine con la stanchezza, poiché si aspetta in piedi, il corridoio è lindo e vuoto. C’è lo spettacolo di chi entra e chi esce, per chiedere lo stato di crisi, o sollecitarne l’iter. Ora a buon ritmo, segno che i funzionari sono diligenti e operosi. Ma la stanchezza prevale, e con essa la tentazione della raccomandazione. Anche per darsi fiducia: con l’addetto stampa del ministro abbiamo condiviso la “creazione” politica del ministro stesso, con articoli e interviste, quale giuslavorista eminente.
Non si tratta peraltro proprio di una raccomandazione. E comunque non si può fare. L’addetto stampa non c’è, non viene, ma il capo della segretaria è svelto e chiaro: “Sollecitare è inutile, hanno deciso che può avere le carte solo chi può dimostrare un interesse diretto. Può dimostrarlo legalmente. Hanno fatto una causa per questo, una vertenza di lavoro, il sindacato li ha assistiti. Possiamo solo autorizzarne lo straordinario di sportello fino alle 14. C’è un’indennità di sportello, sa?” E ha disposto l’autorizzazione allo straordinario.
L’ultima attesa è stata nervosa. I due funzionari erano sempre al loro posto, le facce sempre di marmo, non fosse stato per gli occhi, in qualche modo mobili, sarebbero stati busti policromi dell’Archeologico di Napoli, erano di moda nel secondo Ottocento, ma dopo le 12,30 ogni minuto si è fatto contare. È passata così l’una. Un’altra chiamata, dal corridoio ormai deserto, non ha avuto esito: Renato non ha risposto, né la segreteria. Finché alle 13,25 Renato è uscito dall’ascensore. Sempre gioviale e un po’ affannato, “ci ammazziamo di riunioni”.
La sua vista ha infine animato i due funzionari, sembrava lo aspettassero. Non gli hanno chiesto un’identificazione. Hanno compulsato insieme l’indice degli stati di crisi. Uno dei due ha reperito in una stanza a fianco la “Gazzetta Ufficiale” che ne aveva dato pubblicazione, rendendolo esecutivo. L’altro ha fatto la fotocopia. Ha acceso la macchina delle fotocopie. Che ha imposto un’altra attesa di una diecina di minuti, il tempo di una sigaretta nervosa, ma con la certezza infine che il documento era ottenuto.
Sono poche righe di testo, su una facciata. Il decreto effettivamente dichiara la casa editrice in stato di crisi per ramo d’azienda. Riconosce cioè la crisi senza accertarla, consentendole di licenziare mille poligrafici e cento giornalisti. È un decreto di due articoli, e non sembra contestabile. Renato concorda: “Li fanno bene, sono studiati da grandi giuristi”. Né d’altra parte c’erano illusioni da coltivare. Solo che, essendo disoccupati, uno ha il problema la mattina di trovarsi un’occupazione del tempo.
La morale è: tutto questo non sembra, ma è giusto. La prima lezione del professor Giannini all’università, Massimo Severo, era: “Il diritto amministrativo è la scienza che consente ai dipendenti pubblici di non lavorare.”. L’architetto E.C, che, nel tempo libero, si presta a dirigere l’ufficio tecnico della XVIma circoscrizione, di Garibaldi, della Repubblica romana eccetera, con la sua prosa al ciclostile, sapientemente redatta nella sua concisione per ogni occasione possibile di non fare, bisogna riconoscere che è studioso accorto.

Letture - 6

Borges – Raboni (o Giudici?) sostiene che Borges “non esiste”, non avendo scritto un solo racconto degno di nota, o una poesia. Una storia molto borgesiana.

Brecht – Bisogna intendersi su Brecht, che primo e unico ha trovato per il popolo le immagini che ne vivificano la causa. Quelle immagini che solitamente la poesia riserva ai tiranni e ai padroni, mentre la causa del popolo al più s’imbottiva di retorica. Ma era un lestofante: si appropriava di ogni intelligenza, delle mogli e le fidanzate, dei collaboratori, dei conoscenti, non credeva al Partito che esecrava nel mentre che lo osannava, non credeva a niente, e accumulava i soldi in Svizzera per quando sarebbe stata fatta la guerra alla barbarie sovietica.

Dumas - Un antropologo. Intelligente.

Gadda – È, come Borges, fuori della letteratura. Che impersona, scrivendola, ma non la esercita. Letterato, come Borges, tutto d’un pezzo, e nient’altro che tale. Ma scrive a distanza. L’unico, con Borges, modernissimo - Proust, Joyce, Beckett, gli autori classici della contemporaneità, sono ancora romantici.
Per l’alterità che ne caratterizza l’opera di fronte alla loro vita. Nell’epoca in cui della letteratura si sono perdute le tracce – cultura di massa, del giornalismo, dell’intrattenimento, dell’evento, dei consumi, e della società civile o autoimpegnata (mancano ancora le biografie di tipo americano, sempre robustamente manuali: taglialegna, pugile eccetera).

Giallo - Il pattern è indubbiamente quello della tragedia classica, da ultimo Crono e Urano, il rapporto antropofago padri-figli, nella terza rata della trologia di Larsson: si buttano ami in tutte le direzioni, moltiplicando le situazioni estreme e inverosimili – il delitto come atto è subito finito, si vivacizza per la ricostruzione, i contorni, l’efferatezza. Quando la vicenda è ingarbugliata al massimo, o entra in stallo, si fa intervenire il deus ex machina.

La prosa dei gialli è sempre fluviale, irridente, autoirridente, vacua, piatta. Col sapore di un viaggio in macchina, che in Italia è sempre un caleidoscopio di immagini, e una sensazione generale di euforia, ma senza tracce. Da Conan Doyle e Arsenio Lupin a Agata Christie, oppure oggi a Vazquez Montalbàn, Camilleri, Larsson. O, quella di Maigret, tirata via - non quella di Simenon, proprio quella di Maigret. Ma se ne fanno buoni film, spessi, durevoli, con personaggi “veri”, quasi sempre sorprendenti: lo stesso Maigret, il melenso Poirot, Sherlock Holmes inafferrabile - anche Barnaby, Jack Frost e Morse, per la superiore tradizione britannica del film televisivo (prestata all’Italia per “La baronessa di Carini” e altri sceneggiati d’epoca).
Da romanzi spessi, quelli di Chandler o di Hammett, o di Margaret Millar, invece, film mediocri, inutili, noiosi.

Hölderlin – Ammutolisce (si toglie la parola, si fa afasico) quando scopre che la sua lingua è morta. Che la filosofia e la mistica, basate sulla filologia, sono inespressive – non portano alla novità ma all’arabesco. Chiude allora il sogno divino e resta fanciullo.
Il suo silenzio è quello dell’intellettualismo – della deumaninzzazione – dell’università tedesca, che fu la sua grande esperienza di vita, con Hegel e Schelling. Della gioventù (passioni, languori, incertezze, scoperte) trasformata in saccenteria e spinta sul binario morto della filologia (morto è il binario quando la filologia vuole essere tutto – la genealogia di Nietzsche: filosofia, poesia, vita)

Italiano – La sua poesia è intellettuale (Dante, Petrarca, Boccaccio…). Anche la giocosa o burlesca (Boiardo, Ariosto…), o disperata (Cecco...). Anche la pittura lo è, sotto l’apparente facilità. E l’arte tutta in genere. Non ha Omero o Shakespeare, che saltano o mediano la riflessione, dando l’illusione d’immedesimarsi con la vita – e convenientemente mancano d’identità personale.

Machiavelli – Soggiace al singolare fuoco di sbarramento, concentrato e incrociato, da “destra” e da “sinistra”, cui fu sottoposto nella secondo metà del Cinquecento e nel Seicento. Accusato d’immoralità e di ogni ignominia dai fautori dello Stato confessionale, i gesuiti e i protestanti. Gli accusatori si atteggiano da allora a difensori del bene contro lo Stato tirannico. Non senza ragione, ma con quel vizio d’origine colpiscono con Machiavelli ogni idea di libertà, ossia di autonomia del politico. Sono integralisti che fanno leva sul moralismo per bloccare la funzione politica che sempre più si faceva autonoma - con Machiavelli da subito al massimo grado – e sola può dare delle risposte democratiche, legate cioè ai bisogni del popolo. Machiaveli che ha il suo patrono in Tito Livio, storico di grande cultura e modestia, fautore della virtù e fustigatore dei vizi, competente, misurato.

Malaparte – Ha un motivo tutto suo, la fisicità. Dei corpi, le bestime, la natura. Non intellettualistica: si vede dal penchant omoerotico, che certamente non era una posa, almeno questo, non nel fascismo.

Mann, Thomas – In Italia è letto molto seriosamente, mentre dà il sospetto di un’enorme architettura ironica. Com’è letto in Germania, come suona in tedesco?

Manzoni – Viene risciacquato col pessimismo cristiano. Ma il suo era ottimismo cristiano: povero ma consolatorio, sulla inea del vogliamoci bene, o della carità che lava le sofferenze. Una concezione arcaica del male – da sacrestia però e non epica. Il romanzo ne è segnato, e la poesia – la schiava della “Pentecoste” non ha nulla da invidiare al figlio della libera: “Non sa che il regno è misero,\solo il Signor solleva?”
Il Manzoni privatamente ipocondriaco e egoista, proprio come un prete.

Nietzsche – Nella lettura di Edipo, Prometeo eccetera, palesemente non sa cos’è la femminilità – maternità – nel Mediterraneo. Va per stereotipi, da giovane tedesco, seppure non filisteo.

Omero – il puro talento narrativo. In plot spesso scontati (Odisseo e le donne), triviali (Polifemo),
ripetitivi (battaglie e duelli). Per il culto della forma – per l’impassibilità, nei confronti di dei e umani, Achei e Troiani, eroi e umili, gioie e sciagure.

Traduzione - È impossibile, da Dante a Croce. Ma ogni opera d’arte è traduzione – è interpretazione: la musica, il teatro, una poesia, o anche la visione di un quadro, una statua, un palazzo, un giardino.

domenica 15 marzo 2009

Da dove arrivano i tanti soldi dell'Inter

È un calcio impunito che si celebra, non dissimile da una mafia vincente anche se senza morti. Con una cupola, tutta milanese, di cui la punta sono i Moratti. Dopo avere sacrificato il capro espiatorio Moggi, complici i padroni della Juventus, che alcune NN.DD. in Tribunale a Napoli si apprestano a condannare. Tra il furbissimo allenatore portoghese Mourinho e la Milano dell’informazione servilissima – applaude a comando, come in televisione, questa ancora non s’era vista, e siccome l’Inter gioca sempre “male” e “malissimo”, si supera con la fatale domanda: che sarebbe se giocasse anche bene?
Ma non c’è da sottilizzare. Gli arbitri favoriscono l’Inter senza ritegno, con la Sampdoria, con la Fiorentina, col Siena, con la Roma, ogni volta che è necessario. L’allenatore dell’Inter che accusa gli arbitri di avere favorito Juventus, Milan e Roma andrebbe squalificato, ma la “giustizia sportiva” soprassiede. Mourinho del resto non si nasconde, che disprezza e accusa i suoi stessi giornalisti felloni, i suoi giocatori, la sua società (“mi ha dato una squadra vecchia”), gli altri allenatori, le altre squadre: è il giusto gallo in questo pollaio di vergini indecorose – il calcio non è una mafia, troppa organizzazione, è un puttanaio. La “Gazzetta dello Sport” ha fatto in sette mesi 134 paginate su Mourinho (il “Corriere della sera” 38). In un numero è arrivata a un servizio-intervista di tre pagine.
Ma c’è un fatto in tanto troiaio, nel quale è tutta Milano. È che Mourinho, dopo aver portato l’Inter a giocare male e a perdere tutti gli impegni, ha scaricato metà squadra. Riducendo di un terzo abbondante il patrimonio della società (l’avviamento dei giocatori scaricati è praticamente azzerato, con forti minusvalenze). Nel mentre che la obbliga a spese impossibili per ricostituire i ranghi. Ma senza indispettire la società. Moratti e Mourinho sono dunque complici. Ma non di qualcosa di ragionevole, né visibile, quindi di qualcosa di oscuro.
A Milano non si può, ma dove la mafia è dichiarata a questo punto si è legittimati a pensare: chi tiene per le palle chi? E se Mourinho non fosse Mourinho, a pensare, non senza fondamento, che è pagato in nero, offshore, su fondi sospetti. Già ora del resto, prima dello smantellamento, l’Inter ha un buco di 180 milioni, che Moratti promette di pagare, cioèdi buttare via. E dove prende tanti soldi? Nessun petroliere ha mai avuto questa disponibilità. La Saras deve avere una ricetta fortunata. Anche se non segreta, poiché ha una storia nota. E la Procura di Milano, la regina della questione morale, l’ha ripulita di qualsiasi sospetto.

Ombre - 15

È lusinghiero, Asor Rosa, con Scalfari nella sua “Storia europea della letteratura italiana”. Scalfari è lusinghiero con Asor Rosa sull’“Espresso”. E chiede al Sole 24 Ore di cancellare la collaborazione di Berardinelli, che ha criticato Asor Rosa. La valanga è specialmente rovinosa se la montagna è alta, più brutale e letale.

C’è in Arizona uno sceriffo pazzo, un ottantenne che fa sfilare gli immigrati illegali in tutù rosa – se si è ben capito. Si merita una mezza illustratissima pagina dal “Corriere della sera” come “lo sceriffo da Avellino”. Perché suo padre, un centinaio di anni fa, era emigrato in America dall’avellinese - o era suo nonno, non si sa bene.

Il giorno prima sono state arrestate a Milano diciassette persone che organizzano il lavoro clandestino. Li tirano fuori dai Cpt, li organizzano in cooperative di servizi, per pagarli tre euro l’ora, con la promessa della protezione legale e di futuri guadagni, per subappalti che si fanno pagare due e tre volte tanto, cooperative che sciolgono ogni pochi mesi per evitare rivendicazioni, o al lavoro in campagna o in fabbrica con una taglia fino al 50 per cento della busta paga. Una storia di caporalato, di connivenza del sindacato e del movimento cooperativo, bianco e rosso, e del senso vero della Lega, della legalizzazione che essa non consente del lavoro.
È la storia anche, possibile se non probabile, di un’organizzazione internazionale dell’immigrazione illegale, molto copiosa, tenendo l’attenzione focalizzata sugli sbarchi spettacolari e le spiagge della morte, prima Brindisi, poi Crotone, e ora Lampedusa. In altro ambito si sarebbe parlato con dovizia di cupola e di testa del serpente. Ma il “Corriere” confina la vicenda in poche svogliate righe, sotto il titolo «“Spiagge piene di cadaveri”. I dialoghi degli scafisti». La parola Lombardia ricorre in ultimo: “In Lombardia c’è quella che viene ritenuta la base logistica, dove si provvede a ricevere i clandestini, a fornirli di documenti contraffatti e di (a?) avviarli al lavoro grazie a cooperative compiacenti”. Totale la protezione degli arrestati.

A Palermo Massimo Ciancimino, figlio di Vito, il sindaco della mafia, minaccia di coinvolgere nella sua non onorevole eredità personaggi politici berlusconiani, tra essi l’integerrimo Carlo Vizzini. Il figlio non è innocente, anzi si sa che era in contatto con Provenzano, il capo della mafia lattante da lungo tempo, secondo le istruzioni lasciate dal padre al loro avvocato. Ma “Repubblica” lo patrocina.

Il papa scrive una lettera emozionante. Parla di sé in prima persona, come un intellettuale qualsiasi, si scusa di non avere consultato “l’internet”, spiega diligente cos’è una scomunica, e in che modo si commina e si abbuona, discute se era giusto o meno riconciliare i lefebvriani. Discute se stesso, insomma. La lettera è anche scritta bene, una lettura interessante per chiunque. Ma non per i giornali italiani, che fanno il conto di chi nella curia è con o contro il papa. Solo Galli della Loggia la legge, essendo uno storico che sa il valore del Vaticano a Roma, un’eccezione insomma. Gli stessi giornali diffondono l’ultima “rivelazione” dello “Spiegel”, il settimanale tedesco: il papa è un fascista.

Il giornalista Mourinho, travestito da allenatore di calcio, va in conferenza stampa, un giorno qualsiasi della settimana, a freddo cioè e dice che tutti i giornalisti sono disonesti. Ma solo intellettualmente. È sicuro? È possibile: lui prende dall’Inter undici milioni, la società non può essere altrettanto generosa coi trenta-quaranta giornalisti che gli fanno da claque rumorosa, ai suoi reality.

Fanno questi giornalisti parte anch’essi del quarto settore, del volontariato? È probabile: quando Mourinho, per lo sbarco in Italia, si preparò in italiano le quattro parole famose, “non sono un pirla”, i quaranta risero sguaiati, e applaudirono.

Mourinho accusa, tra gli altri, la Juventus di vincere favorita dagli arbitri. La Juventus, che si pretende signora del calcio, chiede che Moratti smentisca il suo allenatore. Moratti ghigna: Mourinho sono io. Sembra di sognare, puro Settecento. I gentiluomini juventini in parrucca incipriata, con la erre blesa e un voce di naso. Moratti libertino. Mourinho servo furbo, o servo padrone. Quello che è l’anima nera del padrone - anche all’epoca il servo era il servo di un padrone, ma l’Ancien Régime presumeva che il servo di un padrone fosse buono per definizione, anche il bandito dichiarato.

Crollano le Borse mondiali, le assicurazioni, le banche, e l’Italia è scossa da Mourinho. Non si parla d’altro.