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sabato 31 ottobre 2015

Problemi di base - 251

spock

Mattarella, Pignatone,  Prestipino, Tronca: ma è Roma o è Palermo?

Pignatone indaga Martino a tappe: c’è una scaletta, c’è un programma?

E un po’ d’associazione mafiosa no – in fondo Marino è tanto tempo a Palermo, anche lui?

Ma Marino è congedato per quello che non ha fatto o per quello che ha fatto: Atac, Ama, Opera, Parco della Musica, vigili, Tredicine, metro, appalti, mafia capitale… ?

Dopo Verdini, Marchini: ora quali altri aiutini?

E dopo Renzi, per esempio?

Che fine ha fatto Marianna Madia, non era ministro?

Scompaiono in tanti nel Pd: c’è il colera, c’è la peste?

spock@antiit.eu

Il libro nero della malattia immaginaria

Nella rivoluzione del 1789 il cittadino Muré, del club degli Artisti Dramamtici, voleva liberare l’ipocondria con l’aria compressa: “L’aria compressa porterà aria fresca nelle case e gli opifici, colerà il bronzo, polirà il rame, segherà la legna, luciderà gli stivali, rifarà i letti, molirà il caffè e spegnerà le candele: l’aria compressa ci farà per così dire padroni delle stagioni, dandoci a volontà e gratis il calorico e il frigorifico!” Ma con l’ipocondria c’è poco da ridere.
Qui un ipocondriaco “felice” forse posticcio e uno psicoanalista franco-svizzero concordano che l’ipocondria non è una malattia. Non è neanche isteria, dice Nueburger, è una forma di ansia. In questi termini va affrontata da terapeuti e ambiente – medici, familiari, amici:  non c’è “medicina” per una malattia immaginaria, solo comprensione.   
Un libro serio, un manuale di psicologia. Neuburger consiglia “trucchi e astuzie” per capire e gestire questa che considera una “forma di irrequietezza”. Da eroi del nostro tempo, si spinge a concedere, che è fatto di incertezza e inquietudine. Un manuale che però trascura il dato più importante dell’ipocondria: la cattiveria, l’aggressività.
L’ipocondria è una forma di egoismo totale, che si traduce nell’aggressione costante all’ambiente umano che la circonda. Tanto più se la circonda con affetto: è egoistica e brutale. Tale la dice Lucrezio nel “De rerum natura”: trascorrere l’esistenza nell’ansia del trapasso è follia, infliggere quest’ansia agli altri è egoistico e brutale. Non è una malattia perché l’ipocondriaco non ne soffre, anzi ne gode. È una specie di gabbia con gli aculei, con gli speroni: per far male più che per difendersi - poiché l’ipocondriaco non vuole difendersi, non vuole guarire.
La traduzione è opportunamente sottotitolata “Il libro nero dei malati immaginari”.
Gilles Dupin de Lacoste-Dr. Robert Neuburger, L’ipocondriaco, Castelvecchi, pp. 119 € 14,50

venerdì 30 ottobre 2015

A Sud del Sud - l'Italia vista dal Sud (264)

Giuseppe Leuzzi

Messina senz’acqua per cinque giorni. Una città di 2-300 mila abitanti. Silenzio.
Il Sannio allagato e riallargato. Giusto una foto, curiosa, di una macchina infilata in una grande buca aperta nella strada.

Nel Sannio gli allagamenti durano da un paio di settimane ormai. Ci sono stati pure dei morti. Niente, neppure un sottosegretario che vada a vedere.

Il fiato di Napoli su Milano
Il giudice Cantone, napoletano eminente, va a Milano e la dichiara “la capitale morale d’Italia”. Col bisogno, in aggiunta, di dichiarare infame Roma. Sobrio il sindaco di Milano, l’avvocato Pisapia, che conosce i suoi giudici, specie gli esuberanti partenopei che affollano gli uffici giudiziari della città. La cittadinanza onoraria Pisapia ha voluto donare a Cantone per svelenire l’aria in città, la stagione di scandali multimilionari che Milano da un paio d’anni vive, negli appalti pubblici e lasanità. Milano non è Napoli.
Questo giudice è stato nominato presidente dell’Autorità anticorruzione un anno e mezzo fa proprio come rimedio agli scandali multimilionari milanesi attorno all’Expo, e a quelli veneziani attorno al Mose. Impossibile che se li sia dimenticati, avrà voluto fare il napoletano a Milano – non c’è la malafemmina, ma chissà, non sarà Roma?
Non solo Roma, Cantone bacchetta anche gli altri giudici, al Csm e all’Anm. Ma di suo cosa fa? Quali corrotti ha scoperto in un anno e mezzo? Nessuno. Sfrutta la carica per “uscire” sui giornali. Teoricamente – solo teoricamente: giudice non morde giudice – dovrebbe essere incriminato lui per corruzione: per abuso di posizione e sperpero di denaro pubblico.

Il Sud a Mezzogiorno
“Nei popoli del Mezzogiorno, la passione mi riconcilia in qualche modo con la loro  crudeltà”, scrive in Russia il marchese de Custine, per vari motivi amante anche del Mezzogiorno d’Italia: “Ma la riserva calcolata, la freddezza degli uomini del Nord aggiunge una vernice d’ipocrisia al crimine”.

Al marchese, gay professo, che visse in Italia forse più che in Francia, del Sud piaceva pure la sporcizia. In rapporto sempre al Nord, la preferiva a quella del Nord: “Quelli del Mezzogiorno passano la loro vita all’aria, mezzi nudi o nel’acqua; quelli del Nord, quasi sempre rinchiusi, hanno un  sudiciume oleoso e profondo che mi sembra ripugnante”.

Mezzogiorno per Sud è francese? Traduce Midi, che è anche mezzogiorno, l’ora del pasto, ma il Petit Robert attesta in uso già nei secoli XII-XIII per designare uno dei quattro punti cardinali, come opposto al Nord.
È vero che in meteorologia Mezzogiorno è uno dei nomi del vento Ostro, il vento del Sud, caldo e umido – impropriamente confuso col libeccio o lo scirocco. Ma il Battaglia non dice a quando rimonta questa denominazione del vento del Sud – vento di Mezzogiorno. Comunque sia, il Sud è un vento.  

Nella esemplificazione di questo senso di Midi il Petit Robert porta una citazione di Suarès: “Il Nord vale forse di più per la morale. Ma il Midi vale meglio per la vita”. Probabilmente di André Suarès, che però era di Marsiglia.

Il complesso d’inferiorità
Pasolini scrisse quello che pensava, percorrendo i 4-500 km. di costa calabrese nel 1959 per  “Successo”, il mensile della classe dirigente di Arturo Tofanelli, inventore di periodici, della Calabria e più in generale del Sud. Il viaggio era un’idea probabilmente di Tofanelli. Caduta nel disinteresse, a parte la curiosità della cosa: 2.500 km. su una Millecento in quattro-cinque giorni. E per la polemica sollevata dalla reazione di Cutro, il cui sindaco si costrinse a querelarsi per diffamazione a mezzo stampa – la cosa poi svaporò (il sindaco democristiano, il ragionier Vincenzo Mancuso, fu contestato e infine bloccato dalla minoranza comunista in consiglio).
Di Cutro Pasolini aveva scritto: “Ecco, a un distendersi delle dune gialle in una specie di altopiano, Cutro. Lo vedo correndo in macchina: ma è il luogo che più mi impressiona di tutto il lungo viaggio. È, veramente, il paese dei banditi come si vede in certi film western. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi. Si sente, non so da cosa, che siamo fuori dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, a un altro livello. Nel sorriso dei giovani che tornano dal loro atroce lavoro, c’è un guizzo di troppa libertà, quasi di pazzia. Nel fervore che precede l’ora di cena l’omertà ha questa forma lieta: nel loro mondo si fa così. Ma intorno c'è una cornice di vuoto e di silenzio che fa paura”.
A un altro livello, in una bolgia – Pasolini allora voleva rifare Dante? Senza ragione, Cutro non è paese di delinquenza, solo la suggestione visiva. O solo quella onomatopeica: Pasolini non passò per Cutro, il paese dista dalla litoranea una dozzina di chilometri, troppi per il suo scappa e fuggi, forse fu il nome a suggerirgli la condanna feroce. Di sicuro contò il pregiudizio, sempre fortissimo nel poeta civile, che pure già sapeva tutto, del sorriso dei giovani, del lavoro atroce, del fervore all’ora di cena e dell’omertà. Un brutto reportage (“lo Ionio non è mare nostro, spaventa”, aveva scritto prima di Cutro: lo Ionio?) e una cattiva poesia, parole in libertà.
Un eccesso, uno svarione? Come il Pci si affrettava a spiegare. Oppure Pasolini poteva metterla sul faceto, scusarsi, dire che si trovava in un film, solo sulla sua Millecento, e aveva menzionato il paese per assonanza, senza malanimo, un nome come un altro. No.
Peppe Aquaro ricorda su “Sette” che per questo Pasolini fu osteggiato e non poté gareggiare ai grandi premi con “Una vita violenta”, che era appena uscito. La cosa non è vera perché il reportage chilometrico era probabilmente di giugno ed è stato pubblicato nei tre mesi successivi, mentre Strega e Viareggio erano già in corsa, se non assegnati. È vero invece che ebbe il premio Crotone, a ridosso della pubblicazione della parte Cutro del reportage di “Successo”, nel numero di settembre. Un premio minore ma assegnato da una giuria importante. Su indicazione del partito Comunista, in risarcimento del mancato Viareggio, gestito da Répaci. Lo scrittore calabrese presiedeva anche il premio Crotone, al quale aveva aggregato come giurati Gadda, Bassani, Ungaretti, Debenedetti, e Moravia.
Ci fu maretta in consiglio dopo il premio anche a Crotone, benché la città fosse caposaldo socialcomunista, la “Stalingrado del Sud”. Il 28 ottobre 1959, quando il consiglio comunale di Crotone doveva decidere se finanziare o meno il premio, Pasolini pubblicò su “Paese Sera” una sorta di palinodia. Che non lo era, era un’altra cosa. “Anzitutto a Cutro, sia ben chiaro, prima di ogni ulteriore considerazione, il quaranta per cento della popolazione è stata privata del diritto di voto perché condannata per furto: questo furto consiste poi nell’aver fatto legna nella tenuta del barone Luigi Barracco. Ora vorrei sapere che cos’altro è questa povera gente se non “bandita” dalla società italiana, che è dalla parte del barone e dei servi politici? E appunto per questo che non si può non amarla, non essere tutti dalla sua parte, non avversare con tutta la forza del cuore e della ragione chi vuole perpetuare questo stato di cose, ignorandole, mettendole a tacere, mistificandole”.
Il suo animo lo espresse invece per lettera al dottor Pasquale Nicolini, ufficiale sanitario di Paola, un medico molto impegnato sul sociale, che gli aveva scritto un mese prima. Accorato la sua lettera è pubblicata, con un ritratto del personaggio, da Roberto Losso sul “Quotidiano di Calabria” il 23 luglio 2012. Nicolini prospettava a Pasolini l’eccesso, la disattenzione, lo svarione. Magari un colpo di sono nel suo rapidissimo periplo – “al massimo si lasciò andare a qualche colpo di fioretto della sua colta ironia”, annota Losso della lettera di Nicolini.
Pasolini rispose a giro di posta, l’1 ottobre, ma non conciliante. Fece l’elenco dei furti subiti al Sud – ma non disse se a opera dei ragazzi, di vita e non (solo dice: “I miei ladri e i miei rapinatori… continuano ad essermi simpaticissimi”). Dopo un avvio disinvolto: “Gentile dottor Nicolini, devo dirle anzitutto: i banditi mi sono molto simpatici, ho sempre tenuto, fin da bambino, per i banditi contro i poliziotti e i benpensanti. Quindi, da parte mia, non c’era la minima intenzione di offendere i calabresi e Cutro. Comunque, non so tirare pietosi veli sulla realtà: e anche se i banditi li avessi odiati, non avrei potuto fare a meno di dire che Cutro è una zona pericolosa”. Per concludere: “Mi dispiace dell’equivoco: non si tiene mai abbastanza conto del vostro “complesso di inferiorità”, della vostra psicologia patologica (adesso non si offenda un’altra volta!), della vostra collettiva angesi, o mania di persecuzione”. Concede: “Tutto ciò è storicamente e socialmente giustificato”. Ma consiglia di “guardare in faccia la realtà”. Chiedendo a Nicolini di dare pubblicità alla sua risposta – Nicolini non lo fece.

leuzzi@antiit.eu

L'Italia dopo il centro-sinistra

Si riedita dopo quarant’anni, con due interventi, di Innocenzo Cipolletta, ex direttore generale della Confindustria, e di Ilvo Diamanti,  il saggio che Sylos Labini redasse nel quadro della reviviscenza terrorista della lotta di classe, nel mentre che il paese imboccava il compromesso storico da cui poi non è più uscito. Una disamina laica, da economista più che da sociologo, ma con la coscienza vigile alla società e alla politica che lo animava - uno degli ultimi studiosi intellettualmente onesti. In realtà un’analisi politica.
Il saggio fu scritto all’indomani dell’abbandono del centro-sinistra, di quello storico, l’incontro fra Dc e Psi, democristiani e socialisti. E nel pieno ancora della crisi del petrolio, la prima, quella del 1973, che per l’Italia determinò una crisi monetaria – le riserve in valuta della Banca d’Italia si assottigliarono fino a 500 miliardi di lire, 250 milioni di euro. Ma alla vigilia del ridicolo compromesso storico di Andreotti, a fronte del quale il centro-sinistra si distingue per essere stato ben riformatore, malgrado le redini strette di Aldo Moro. Con la riforma del diritto di famiglia, con la parità di genere, il divorzio, e anche l’aborto, la legislazione ambientale, il sistema sanitario nazionale, la scuola per tutti, etc. Aprendo vasti varchi alla mobilità sociale, anche indipendentemente dalle parrocchie – la mobilità sociale la chiesa ha sempre praticato, è qui la radice della sua tenuta politica, attraverso i Dc e non, comunque attraverso la parrocchia.
Sylosa Labini chiudeva in realtà un’epoca. Da allora la mobilità ha agito nel senso di un’omogeneizzazione di ceto, o della borghesia classe universale, piccola, media e grande, ugualmente interessata al risparmio, all’accumulo, all’investimento, e al consumo..
La riedizione si distingue per essere l’unica testimonianza disponibile del centro-sinistra, anche se critica. Che ci fu un centro-sinistra in Italia, di cui la memoria è stata rimossa, da una storiografia pusillanime.
Paolo Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Laterza, pp. XXIX + 182 € 14 

giovedì 29 ottobre 2015

Dc, non c’è altro partito all’infuori di me

C’è la Dc, nelle sue varie declinazioni nazionali, con varie denominazioni, anche non cristiane, e nessun altro partito politico in Europa. Le assise celebrate a Madrid, dove il partito Dc al potere è dato vincente alla vigilia di Natale, non è stata un vuota kermesse: ci sono i Popolari in Europa, e nessun altro. Destre e sinistre si dividono e si accapigliano in ordine sparso, e senza idee. Nemmeno una.
È l’altro aspetto della crisi dell’Europa: tutti, più o meno, sono scontenti, ma non ci sono forze politiche capaci di intercettare questi malumori. Non ce ne sono eccetto i i Popolari, Cristiano Democratici, Cristiano Sociali, la nostra Dc. Gli altri, fuochi estemporanei, opportunisti, populisti,  scendono nei favori dell’elettorato con la stesa febbre con cui sono saliti.
Si può dire l’idea di Europa legata alla Dc. I fondatori lo erano: De Gasperi, Adenauer, Schumann. Ma più pesa l capacità politica. Si celebra Angela Merkel, capace di rubare le idee anche a sinsitra, ora con gli immigrati, ma dimenticando che è la leader dei Dc europei.
Il Ppe, la Dc d’Europa ha la maggioranza nella Commissione, la maggioranza in Parlamento, e la maggior parte dei governi Ue da quasi quindici anni. Dodici su 28 capi di Stato o di governo. Tredici aggiungendo Renzi e\o Mattarella, che militano a sinistra ma sono ex popolari ex Dc.

Letture - 233

letterautore

Bellezza – Secondo Stendhal le donne di straordinaria bellezza fanno meno effetto il secondo giorno.

Colpa – Indagata e riconosciuta, in tutte le sue pieghe, anche le più esecrabili, dai tedeschi, dai governi, i diplomatici e gli studiosi se non dalla gente comune, riesce impervia ai germanisti. Magris, che in “Non luogo a procedere” rappresenta le nefandezze nella sua Trieste attorno e dentro il campo di sterminio a San Sabba, che la città tiene a nascondere, colpevolizza (assolve) tutti: “Chi non è innocente è colpevole, la zona grigia è un’invenzione di comodo”. E ironizza sulla formula assolutoria che dà il titolo al libro, che pure è onesta: “Im Sinne der Anklage, unschuldig” – ai sensi dell’accusa non colpevole.

Hughes – Il poeta laureato di cui non si parla più è la vera “storia” dietro quella che sempre si ripropone di Sylvia Plath, la moglie infelice. Non fu la sola, fu solo la prima. Dopo Sylvia si succise per lui Assia Wevill, la seconda moglie. Col gas, come Sylvia Plath. E con la figlia Shura, di quattro anni. Bella donna, di quarant’anni, ebrea emigrata dalla Russia. Assia era compagna e non moglie, Ted Hughes non aveva voluto sposarla, per rispetto a Sylvia Plath. Sylvia, che Hughes tradiva in casa con Assia, risparmiò invece i figli, di tre e un anno.
Si potrebbe dire un destino tragico. Ma Hughes, il poeta laureato, più di un dilemma pone all’epica, oltre che al femminismo, poiché queste morti terribili non sconvolgono il poeta, e forse neppure l’uomo. Assia si è uccisa per una concorrente, anch’essa in età, entrata nelle grazie di Hughes. Che però aveva già un’altra fidanzata giovane.
Hughes è l’Uomo di Ferro che ha inventato: si è poeti e grandi uomini con lo stomaco saldo. L’arcangelico Drago-Pipistrello che nell’”Uomo di Ferro” minaccia paesi e città del mondo, con una testa “quanto l’Italia”. Al momento del suicidio di Assia curava, e continuò a curare, lìuscita di tre nuove raccolte, e la difesa del salmone nei fiumi britannici. Le fidanzate saranno state una sua forma d’assicurazione contro le morti repentine.

Padre – “Sono diventato il figlio di mio padre”, ricorda Michel Onfray rievocando su “La letura” la morte del padre, “operaio agricolo” all’improvviso, in campagna, in sua presenza, loro due soli. Lo ricorda accanto a un’intervista in cui maltratta robustamente l’ipocrisia dei media, soprattutto a sinistra, e il liberismo, evocando De Gaulle, un Cincinnato. Ho avuto la fortuna, scrive nel ricordo del padre, di nascere tardi, quando lui andava per i quaranta: “Un dono. Si scopre infatti di avere un padre saggio, posato, calmo, sereno, privo di qualsiasi affettazione giovanile”, e del desiderio di compiacere.

Pasolini  - Voleva fare San Paolo, dopo aver fatto il Vangelo. È l’unico autore religioso del secondo Novecento, ne “L’usignuolo”, “In forma di rosa” e altrove, anzi di tutto il secolo. Non chiesastico. Ma anche questo non del tutto: si riporta il papa Bergoglio a Giovanni XXIII, ma si potrebbe meglio riportarlo a Pasolini, strada, borgate e omosessualità comprese.

Fu e rimane solo. Non un amico, uno della squadra di pallone, un compagno di viaggio, anche occasionale, purché non di marchette, non un discepolo. Benché socievole, di tutti i convegni, le manifestazioni, le iniziative, le tavolate, quasi un presenzialista. Non per carattere: non era solitario in gioventù, prima di Roma, fino quindi ai 28 anni.
Isolato anche dopo morto, malgrado le tante celebrazioni – libri a dozzine sulla “verità” della sua morte, e nuove riedizioni che non aggiungono nulla. Con poche eccezioni, due o tre, Naldini, e il suo traduttore francese, René de Ceccaty, che ne ha fatto anche antologie significative. Non un “sistematore”, o un esegeta folgorante, che pure meriterebbe, se non altro per la molteplicità delle espressioni: poeta, narratore, regista, drammaturgo, critico letterario, linguista, moralista, giornalista, pittore Sembra che non sia letto, sicuramente non amato.
“L’affollata solitudine di Pasolini” è il titolo centrato con cui il”Corriere della sera” presenta la testimonianza di De Ceccaty, uno dei suoi prefatori - tra i tanti, una diecina finora, schierati dal giornale in preparazione dell’uscita in edicola di tutti i suoi libri, solo De Ceccaty dice qualcosa di  sensato.
Da traduttore, dice, di tre libri di poesia di Pasolini che hanno avuto molti lettori, “mi sono accorto che i lettori giovani — quelli nati dopo la morte di Pasolini — lo capivano molto meglio, perché descriveva un mondo che loro conoscono. Ed è un mondo terribile”. Pasolini faceva molto il raffronto tra fascismo e capitalismo, semiassolvendo il primo. De Ceccaty è riservato su questo, ma, dice, “certamente era molto pessimista rispetto al capitalismo e aveva ragione, perché il capitalismo possiede la persona intimamente, mentre il fascismo all’italiana veniva vissuto con più distanza. Il fascismo all’inizio era un movimento operaio, non una dittatura sugli esseri. Il capitalismo invece è la distruzione dell’individuo”. De Ceccaty lo vuole, da poeta civile, più sociale che solitario: “Non so se fosse solo. Aveva probabilmente il sentimento della solitudine ma c’erano tanti amici attorno a lui. Il sentimento di solitudine per un creatore, per un genio come lui, è molto relativo. Pasolini, anche se si identificava molto con Rimbaud, non era Rimbaud. Era infatti molto più coinvolto nella vita sociale, era un poeta civile, non era un poeta isolato”. Ma lo era, da poeta civile:.

Pound – La sua si può dire “la guerra del sangue contro l’oro”, di cui in un discorso del podestà di Trieste Cesare Pagnini, ai primi del 1942, prefigurando la vittria: “Da questa guerra, oh camerati, la guerra del sangue contro l’oro, sorgerà la nuova Europa”. Sembra di essere oggi, anche se non c’è la guerra – c’è il mugugno.

Venere nera – Dopo le Madonne nere e l’Atena nera, la rivendicazione degli apporti semitici e africani alla cultura europea, ora la Venere nera. Non più al Lido di Parigi, da Joséphine Baker in qua, ma nella incisione “The Voyage of the Sable Venus from Angola to the West Indies” che il pittore inglese Thomas Slothard fece nel 1793. A corredo di una “History, civil and commercial, of the British Colonies in the West Indies” di Bryan Edwards. La Venere nera rappresentando alla maniera di Botticelli nella “Nascita”. Solo un po’ robusta di cosce, e non così vaporosa, l’incisione non ha la lievità dell’olio e del colore. L’incisione corredava  una poesia del 1765 di Isaac Teale, piantatore giamaicano, “The Sable Venus. An ode”. L’ode cantava il piacere dell’amore con le schiave, giacché bianco e nero, la Venere di Sabbia e la Venere di Botticelli, si confondono “la notte”: “Both are just alike, except the white,\ No difference, no – none at night”.
La Venere nera di sabbia è stata resuscitata da Robin Coste Lewis, professoressa all’università di California, al suo esordio con una raccolta di poesie, “Voyage of the Sable Venus”. Quella del titolo, lunga ottanta pagine, è composta dai riferimenti ufficiali (titoli, didascalie di mostre e musei, presentazioni, cataloghi, con note esplicative, riferimenti, commenti) a manufatti d’arte sulla donna, a partire dalla preistoria.

letterautore@antiit.eu

La scala sociale rovesciata della scuola

L’istruzione come diritto all’eguaglianza: l’eguaglianza delle opportunità. Silvia Calamandrei, figlia di Franco, nipote di Piero, riunisce con Tullio De Mauro vari testi di Calamandrei, l’animatore el Partito d’Azione, interventi parlamentari, articoli, discorsi, che alla Costituente perorò la scuola pubblica per tutti come veicolo di mobilità sociale. Come opportunità sia di ricambio, anche della classe dirigente, che di giustizia e pace sociale. La lezione della chiesa nei secoli adottata da un punto di vista laico.
De Mauro vuole questi testi, di cinquant’anni e più anni fa, attuali. Ma il più è stato fatto. Solo che la scuola si è amalgamata verso il basso, funziona da scala rovesciata: si cominciano i corsi alle università umanistiche con lezioni di alfabetizzazione, eccetto che per chi viene da famiglie abbienti.
Piero Calamandrei, Per la scuola,  Sellerio, pp. 144 € 10

mercoledì 28 ottobre 2015

Secondi pensieri - 237

zeulig

Amore – Magris, che si diverte a strapazzarlo in amor-te, lo dice anche, con Rilke, finito quando comincia. Quando si riconosce: “Gli amanti – lo vedi? – non sanno\ che un bacio distrugge l’incanto:\ che allora comincia l’inganno”. Mentre si penserebbe prosaicamente il contrario – Rilke praticò sempre l’amore, perlomeno ci scrisse poesie. Ma c’è un amore poetico, che si vuole lontano, procrastinato, represso, inturgidito dal desiderio. Come chi avesse sete e allontanasse il momento del bere, per idealizzare meglio l’acqua dissetante.  

L’Einfühlung di Husserl è pretenziosa, l’immedesimazione, entrare nella pelle di un altro, conoscere come l’altro conosce e giudica, roba da fantacinema. Ma “esse est percipi”, il vescovo Berkeley ha ben detto: non si è se non si è percepiti. Nel senso che il mondo e noi siamo nella mente degli altri, più che nella nostra. La bellezza sta negli occhi di chi guarda? Anche per questo bisogna volersi bene, si sa – la prima carità, o il primo amore, comincia da se stessi.

La coscienza di classe è la tomba dell’amore, si diceva. Anche la coscienza dei ruoli, del semplice io, tu e io. Specie nella disattenzione.

Volendo, tutto è già nel mito. Afrodite aveva due figli, oltre al noto Eros: uno, Himeros, era il desiderio di qualcuno vicino, l’altro, Pathos, il desiderio lontano. Ma non si ricordano mai bene i miti.

Destino – È mutevole. Ma innaturale? Il mondo di Newton era legge e destino, ora con Einstein è caos e potenza, ma sempre destino è.

Era il Nord una “comunità di destino” per  Alfred Rosenberg, dottore, professore e ministro ai lager di Hitler. Certi destini si costruiscono: è una finalità e non una determinazione (“era destinato”).

Fede – Va nutrita. È l’ufficio della preghiera in chiesa. Negli stadi, con gli inni, il tutti per uno e gli scongiuri. È il percorso di Boezio: finché seguiamo il destino il caso è impotente, ci guida la fiducia nella Provvidenza, se perdiamo la fede il caso ci disintegra. Ci fa perdere la partita.

Galileo – Nella sua campagna contro il fisicalismo delle scienze, Thomas Nagel ne fa ascendere i limiti al “modello seicentesco”, a Descartes e Galileo: “La nascita delle scienze fisiche moderne è stata resa possibile dalla messa a punto di un metodo che permetteva di esaminare il metodo fisico non in funzione del modo in cui esso appare ai nostri sensi – e cioè in funzione della percezione fisica (da parte) della specie umana – bensì in quanto segno oggettivo che esiste indipendentemente dalle nostre menti”. Che è invece metodo di straordinaria efficacia. Ciò che Nagel intende dire è che il “modello seicentesco”, poi meccanicistico, poi riduzionistico, esclude “l’apparenza soggettiva della realtà”. Il che non è vero, sicuramente non per Descartes (“penso, dunque sono”) , ma neppure per Galileo. La stessa citazione famosa che compendia Galileo amplia molto e non esclude nulla – la soggettività è confermata dalla scoperta stessa, di quello (il metodo) che annunzia: “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto”.

Genere – Il sesso come genere culturale si dissolve nel multigender, poco dopo dunque la partenza. Si regge come genere femminile, opposto al maschile – si reggeva?

Giovinezza – Si è giovani fino a quando? Henry James nell’abbozzo di autobiografia pone il suo personale termine ai ventisei anni – cioè quando decise di emigrare in Inghilterra. Ma con la premessa: “Non siamo mai davvero vecchi, perché non sappiamo rassegnarci a smettere d’essere giovani”. Le età dell’uomo non sono regolari come le stagioni. La giovinezza in definitiva varia come dice Henry James – solo sostituendo al “perché” il “se”: “Se non sappiamo rassegnarci”. Ma il termine ha variato molto nella storia e nelle diverse culture.
Nietzsche afferma che ognuno fa la filosofia caratteristica della sua età, l’età anagrafica. Una filosofia, quindi, della maturità e una di gioventù – e dell’infanzia? Ma l’età può non essere quella anagrafica, del numero degli anni. Il prezioso Cerruti-Rostagno, il vocabolario dei salesiani, calcolava sei età: infanzia fino ai sette anni, fanciullezza fino ai dodici, adolescenza fino ai diciotto, giovinezza fino ai trenta, virilità fino ai cinquanta, e oltre, improvvisamente, vecchiaia. La tendenza va a semplificare, con un’età di mezzo e una terza età, il resto come se fosse fuori del tempo.
“Una volta si era tassonomici. I venticinque anni erano richiesti per la maggiore età in Italia fino alla prima guerra, eccetto che per fare la guerra: chi si sposava di ventiquattro doveva esibire un paio di tutori. I turkmeni tuttora prolungherebbero l’adolescenza ai venticinque, dopo una infanzia stiracchiata fino ai dodici, e la gioventù ai trentasette. Possono così oziare la metà della vita, e l’altra metà godersela: la maturità è breve, dodici anni, fino ai quarantanove. Dopodiché diventano profetici per dodici anni, fino ai 61, ispirati fino ai 73 e saggi fino agli 85. Passati gli 85 possono morire. Anche i romani antichi avevano sette età, e se la prendevano comoda come i turkmeni, spostando l’età attiva verso i quaranta.
“È solo logico ribaltare il principio dell’eredità in morte o vecchiaia: dovrebbero essere i giovani a costruire il futuro, hanno il dovere d’imporsi” (Astolfo, “La gioia del giorno”, p. 179).

Mondo – È il luogo della libertà: la creazione, che per la scienza è assurda, ne vivifica ogni sequenza, esito, miracolo. Kant l’ha detto: “La ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il suo disegno”. Bisogna dunque ragionare molto. O non ragionare. Ma sempre “in base a dei principi”, altrimenti il mondo non risponde, segue il suo corso “naturale”. Il modo Aristotele già l’aveva detto, ovviamente: l’atto nasce dall’atto, la sapienza dalla sapienza, solo dal vivente nasce il vivente. Il modo della continuità: il nuovo nasce dal vecchio, su radici che lo condizionano.
Non ali Bacone ha messo alla scienza, curiosa, innovatrice, ma pesi ai piedi. In altro modo però che Aristotele, il quale, “stordito dall’inutile sottigliezza”, la natura lasciò “intatta e illibata”. La vita e il pensiero non avvengono nella natura, né nella filosofia, ma nella storia: la bussola, la stampa e la polvere da sparo “sono più importanti di ogni politica, ogni destino, ogni filosofia”. Che “la verità dell’essere e la verità del conoscere sono tutt’uno” è però nello stesso Bacone, e non c’è rimedio: pensare bisogna ma non basta, “bisogna estendere l’intelligenza e non chiuderla in un sistema”. 

Stato d’assedio - È l’esito dello Stato liberale, che è al fondo anarchico, e della stessa anarchia. Dello Stato minimo di Jefferson, di quello nullo di Thoreau (“il governo migliore è quello che non governa affatto”). In forma incruenta ma non per questo meno dispotica e anzi totalitaria. L’annientamento pretendendo dell’individuo e non la sua affermazione. Con in più la convinzione, il voto di supporto.

È la modernità nel senso della contemporaneità, dell’ora e qui. Senza contesto, senza storia. Senza  senso: l’obbedienza è richiesta avvertita ma muta e inefficace.
Nel senso della modernità è elaborazione di Jünger nel “Lavoratore”, da entomologo acuto del reale e sulla base della filosofia del diritto di Carl Schmitt - la pervasività, l’immodificabilità, il monopolio della forza (l’equivalente di quello che in Italia Mussolini chiamava “totalitarismo”). In questo senso, di rifiuto della tecnica e della tecnocrazia, molto elaborato poi da Heidegger, si poteva dire un concetto (rifiuto) reazionario. Ma la pervasività, l’immodificabilità, e anche a ben vedere la forza, sono del modo di essere contemporaneista, eventful. La critica riducendo a lustrino, o esercitazione fine a se stessa – liberamente inutile.

Torre – È luogo e simbolo di un periodico ritorno a se stessi, in solitudine, ai fini del riposo e della concentrazione. Montaigne vi si rifugiava giornalmente per scrivere, lontano dalla famiglia e  dalle noie dell’amministrazione domestica. Pasolini da ultimo a Chia per una pausa nei mille impegni. Von Rezzori a Donnici per ospitarvi gli amici in un luogo che sapeva incantato. Isabella “Lilli” Chidichimo ad Albidona, dove attorno alla torre, ora agriturismo, ha costruito un giardino fatato di ogni specie vegetale, dopo la morte del figlio Carlo Rivolta. Ma è anche, nel rosario per esempio, la fortezza: una manifestazione di forza più che un riparo.

zeulig@antiit.eu

L’identità sessuale restaurata

Molte pagine per dire che l’identità sessuale come “genere culturale”, dopo la moltiplicazione dei generi, ritorna alla casella base: “Il sesso biologico esiste, eccome!”. Era inevitabile, lindistinzione sessuale dovendo necessariamente sboccare nell’indistinzione - dall’unisex al genderless. 
Il genere culturale, più che essere, è un “fare” e “disfare”. Cioè chiacchierare?
Judith Butler, Fare e disfare il genere, Mimesis, pp. 374 € 24

martedì 27 ottobre 2015

Il mondo com'è (236)

astolfo

DestraIn Francia, Polonia, Inghilterra, e in vari paesi balcanici, fino a lambire l’Austria,.è lo schieramento politico e culturale dominante. Non più per il gioco di bascula tra sinistra e destra che le leggi elettorali tendono a favorire, ma con costanza, da tempo. Basata sul rinascente nazionalismo, nei confronti dell’Unione Europea, e contro la crisi economica e l’emergenza immigrazione. L’Italia fa eccezione, ma molta sinistra è su posizioni di destra.
In Francia lo schieramento d’opinione è imponente sul rifiuto dell’Europa. Degli intellettuali dopo il no popolare alla costituzione. Non c’è solo il Front National, il partito dei Le Pen, sempre in crescita di consensi. Le “Magazine Littéraire” elenca molti nomi illustri che, da sinistra, fanno una sorta di nuova destra, “lo strappo”, di illuministi anti-illuministi: Finkielkraut, Houellebecq, Todd, Badiou, Onfray, Sternhell, Gauchet - con Éric Zemmour, si può aggiungere, e da sinistra Debray, Bruckner, Latouche.

Anche negli anni Trenta, dopo il crac di Wall Street e con la Grande Depressione, l’Europa si spostò a destra: ben diciannove regimi erano fascisti o parafascisti, e negli altri le cose non erano chiare, in Francia, per esempio, in Belgio – eccetto che in Gran Bretagna. La differenza è ora che molte donne sono al potere, e che non ci sono più trascina popoli giornalisti e imbianchini ma cantanti, attori, comici.

Onfray, filosofo di sinistra, fondatore e animatore a Caen di una università popolare una quindicina d’anni fa, in risposta al successo elettorale di Le Pen in Normandia, ne fa l’anamnesi su “La lettura”. In risposta a Stefano Montefiori che, leggendo i suoi attacchi alla sinistra di governo e all’Europa liberale come fedeltà a un sentito popolare, gli chiede cos’è questo popolo, dettaglia: “Fedeltà a miei genitori, fedeltà alla mia compagna che insegnava in una scuola media di sottoprefettura, fedeltà a mio fratello che si occupa della manutenzione di una cava, fedeltà a mia nuora che lavora in una mensa, fedeltà ai senza voce, ai poveri dimenticati dalla classe politica al governo… Io ho questa doppia appartenenza: padre operaio agricolo, madre donna delle pulizie, e nascita, studi e vita in Normandia, tra villaggi e piccole città. Peraltro vivo ancora in Normandia”. Non un’eccezione, un altro mondo.

Gasdotti – Sono stati l’idea dell’Eni, dell’Italia. Con l’Urss dapprima, a ridosso dell’invasione della Cecoslovacchia nel 1968. Cinque anni dopo, a ridosso della guerra del petrolio, con l’Algeria, e qualche mese dopo con l’Urss di nuovo per il raddoppio. Una rete partita in ritardo per il veto americano, recepito in Italia dai governi Moro II e III. Sbloccata quando la prima esperienza di governo di Moro si concluse, a giugno del 1968.
Subito dopo l’Italia fu una gara. Il cancelliere tedesco Brandt mandò la Deutsche Bank in avanscoperta a Mosca, in cerca di forniture. La Francia cercò di riannodare il legame con l’Algeria. Perfino Bruxelles prese a progettare gasdotti:  l’Iran dello scià avrebbe venduto il gas all’Urss, che lo avrebbe rivenduto in Europa.
Gli Usa protestarono, anzi adottarono sanzioni: niente più turbine né pompe per l’Eni. Ma la General Electric, che le fabbricava, si congratulò molto. A fine 1968 il boicottaggio Usa cessò, con la vittoria di Nixon dopo il decennio democratico, di Kennedy e Johnson. Henry Kissinger, da consulente del neo presidente Usa, propose addirittura un gasdotto North Star, che collegasse il bacino dell’Urengoy col mare di Barents.

Guerra del petrolio – Fu “chiamata” indirettamente dagli Usa. Ma anche direttamente, se si considera che i proponenti della triplicazione dei prezzi del petrolio a ottobre del 1973 furono all’interno dell’Opec, l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, il governo saudita e lo scià di Persia, entrambi legatissimi a Washington. Già da un paio d’anni esponenti americani di vario genere, diplomatici, banchieri, economisti, incitavano gli arabi, che invece temevano un aumento dei prezzi, al rincaro.  Che avrebbe ricapitalizzato l’imponente industria americana di estrazione degli idrocarburi. Già il settimo Congresso Arabo del Petrolio, tenutosi al Kuwait dal 16 al 22 marzo 1970, aveva avuto a protagonista un diplomatico americano, James Akins. L’episodio è così narrato da Astolfo, “Non c’è anarchico felice”:
“Il petrolio è la manna nel deserto, il prezzo può raddoppiare e triplicare, l’Occidente non è amico dell’Oriente. Sorrisetti e mormorii fermano l’oratore: gli arabi si tolgono l’auricolare per confermarsi l’un l’altro di aver sentito bene, accordandosi per la celia. L’oratore si ripete, esibendo diagrammi e proiezioni, e i ruoli si rovesciano. Stella della Conferenza del petrolio arabo diventa un diplomatico americano di seconda fila, James Akins, che s’accredita per uomo di Kissinger neo segretario di Stato. Il più incredulo è Abdallah Tariki, lo sceicco che fu ministro del Petrolio in Arabia per breve tempo, essendo troppo nazionalista per le compagnie Usa. Mr Akins dice testuale: “Gli arabi dovranno fare un giorno la guerra agli occidentali”. Tariki subodora un tranello e lo grida al microfono:
- Fratelli, è uno scherzo o una congiura. Vogliono mettere fuori mercato il petrolio arabo troppo caro”.
Abdallah el-Tariki, sceicco già di fiducia del fondatore della dinastia saudita, era stato il primo ministro del Petrolio, nel 1960, proprio per l’Arabia Saudita, poi giubilato perché nazionalista.

Islam – Antagonizzando l’Europa, e l’Occidente (incluso quindi Israele e il mondo ebraico), si priva di una parte di sé, quella di cui fino a non molto tempo fa andava più orgoglioso. Viaggiando nel mondo islamico e arabo prima di Khomeini, la sensazione era comune di trovarsi non nel Terzo mondo, alieno, ma in un mondo comune, solo meno organizzato e più povero. Comuni i linguaggi e le aspirazioni. Senza il complesso del diverso. E senza basi per un revanscismo, malgrado il recente passato coloniale europeo. Molto avendo preso, anche controvoglia, ma molto avendo anche dato: filosofia, musica, poesia, lingua, cucina, alimenti e abitudini alimentari, mentalità. Questo ovunque: in Tunisia e Egitto ma anche in Algeria, e in Libia malgrado tutto, e naturalmente in Marocco, nella Siria “retroterra” del Libano cristiano, e di più in Iran.

Si tenevano convegni, ancora negli anni 1960, da una parte e dall’altra, sui comuni destini con l’Occidente. La cronaca di un convegno alla Fondazione Cini a Venezia nel 1955, organizzato dall’avvocato Carnelutti, sulle colpe del colonialismo e dell’Occidente, che Piovene ha voluto pubblicare successivamente come “Processo dell’islam alla civiltà occidentale”, registra invece analisi unitarie. Gli intellettuali islamici convenuti citano il “Corano” a memoria ma sono tutti integrati, occidentali. Tra il Sud e il Nord del Mediterraneo si vedevano solo punti di contatto. Le linee di frattura il decano del convegno,  lo storico tunisino Hassan Husni Abdul-Watab, spiegava con ingerenze esterne: “L’unità mediterranea è stata spezzata dall’invasione di elementi nordici. Provenienti da una natura non dolce ma ostile, erano meno disposti alla vita pacifica… Essi fecero del Mediterraneo il mare della guerra, dei navigli nemici, delle lotte per i mercati. Questi conflitti di carattere utilitario furono travestiti da conflitti ideologici. I signori feudali presentarono l’islam sotto la veste di Anticristo”. Dai “figli del sole” normanni in poi.

Leadership – Non c’è gioco di squadra senza. Si vede nello sport: nel ciclismo, nel calcio. Il ciclismo sembra sport eminentemente individuale, ma è gioco di squadra per un leader. La squadra di calcio senza leadership nei vari reparti non vince, non gioca nemmeno.

Medio Oriente – È “americano” dal 1956, dalla guerra per Suez, nella quale Eisenhower sostenne la nazionalizzazione e il colonnello Nasser, contro Israele, la Francia e la Gran Bretagna. Ma non per caso, lo “sbarco” era l’esito di un’attenzione lunga tutto il Novecento. Cominciata con l’assegnazione dopo la prima guerra a compagnie americane delle ricerche di petrolio nello Heggiaz, la regione al centro dell’attuale Arabia Saudita. Che guadagnò all’autoproclamatosi re dello Heggiaz, e poi dell’Arabia Saudita, Abdelaziz Bin Saud, il sostegno del governo americano.
Il petrolio fu trovato presto una diecina d’anni dopo, e l’attenzione negli Usa crebbe, consacrata nel 1943 dal rapporto De Grolyer al presidente Roosevelt sull’importanza del bacino petrolifero del Golfo Persico. Due anni dopo il presidente Roosevelt, viaggiando per il canale di Suez sull’incrociatore corazzato “Quincy”, ricevette l’ancora contestato re saudita, consacrandone il regime. 

Verona – Più che il Congresso di Vienna, che si chiuse quando ancora Waterloo non era stata vinta, fu quello di Verona, una settimana di ottobre del 1822, convocato sempre dal cancelliere austriaco Metternich, a sancire l’ordine reazionario in Europa. In reazione alla sfida liberale del 1820-1821. “Non erasi mai veduto in Europa un’egual fitta di corone e di intelligenze congiurate contro il diritto dei popoli. Le cose in quel congresso, pubblicamente trattate, furono: la tratta dei negri, la rivoluzione di Grecia, la rivoluzione di Spagna; ma in sostanza lo scopo era di afforzare i vincoli della Santa Alleanza, e di prendere arcani concerti contro tutti i futuri movimenti possibili”. Così ricordò l’evento lo scrittore Francesco Beltrame, primo Ottocento, di Conegliano.
La Santa Alleanza era stata creata a Parigi, dopo Waterloo, il 26 settembre 1815, da Austria, Russia e Prussia. Con l’adesione successiva di Francia, Piemonte, Paesi Bassi e Svezia. Verona sarà l’ultimo congresso dell’Alleanza, poiché tre anni dopo lo zar Alessandro I, suo animatore, morirà, e l’Austria di Metternich perde sensibilmente peso nella bilancia dei poteri europea. La scelta del congresso del 1922 Metternich lasciò alle altre cancellerie, proponendo una lista di città tutte italiana: Milano, Firenze, Venezia, Udine e Verona. Ci presero parte l’imperatore Francesco I d’Asburgo-Lorena con Metternich, lo zar Alessandro I col conte di Nesselrode, Chateaubriand per la Francia, il duca di Wellington per la Gran Bretagna, il duca di Hardenberg per la Prussia, il re di Sardegna Carlo Felice, il re delle Due Sicilie Ferdinando I, il granduca di Toscana Ferdinando III d’Asburgo-Lorena, e un inviato del Vaticano, monsignor Spina.

astolfo@antiit.eu

I giudici non amano la giustizia

Un titolo da resistente, rifugiato politico, martire sopravvissuto: non dev’essere buona l’aria nel mondo dei giudici. Tony mette a frutto 45 anni di esperienza in magistratura per delinearne  i punti deboli: “Protagonismo, giustizialismo, politicismo, lentezza, mancanza di indipendenza” – e la rapidità contro i nemici no, la vendetta? Punti che sono agli occhi di tutti, e sui quali i giudici non solo non fanno marcia indietro ma neanche chiedono più scusa: dalle irritualità della combriccola Borrelli a Milano passano tranquillamente alla illegalità, senza darsi pensiero – il processo Stato-mafia ne è pieno, quello Mafia capitale pure..
Tony ricorda alcuni casi di giustizia illegale. Lo Stato-Mafia, giustamente. Le 14 sentenze su e contro Sofri. Le irresolutezze sul “mostro di Firenze”, che fece venti o ventuno vittime. La lentezza è statistica: cinque anni in media per una causa penale, (per quella civile otto). Anche qui violando la legalità. La riforma del 1989 che eliminava il rito accusatorio i giudici l’hanno rovesciata – mandando in carcere tutti i socialisti, va aggiunto, i fautori della nuova legge. Il rito accusatorio hanno anzi aggravato con le intercettazioni a strascico, e la carcerazione ad libitum. Uno strapotere,.
La negazione della giustizia, dunque. Ma anche una casta, se mai ce n’è una in Italia: piena di privilegi e inattaccabile.
Ogni volta che un giudice parla delle condizioni della giustizia è per denunciarne la miserie. Tony dopo Bruno Tinti, “Toghe rotte”, il cronista giudiziario dell’“Espresso” Stefano Livadiotti, all’orecchio di molti giudici, “Magistrati, l’ultracasta”, e il povero Misiani, altro giudice rosso infangato a torto dalla Boccassini, che ci ha fatto su una carriera, mentre lui ci è morto, fuori dalla magistratura.
Piero Tony, con Claudio Cerasa, Io non posso tacere. Confessioni di un giudice di sinistra, Einaudi, pp. 128 € 16

lunedì 26 ottobre 2015

De profundis polacco per l’Europa

La Polonia che vota contro l’Ue è il paese che meglio ha beneficiato, probabilmente, della sua adesione all’Unione. Punta contro la Ue con un voto massiccio, partecipato, non di protesta. Ed è la Polonia che, rinfrancata dal mancato revanscismo tedesco nella Slesia e nella Galizia, punta tutte le sue paure sulla Russia. E anche un po’ di revanscismo, oltre le paure e il consueto gioco di bascula, per il Krecy che Stalin si annesse, ben 200 mila kmq. Nondimeno, benché cioè si senta esposta, dice no all’Europa. E dice no indirettamente, via Donald Tusk, alla Polonia “amerikana” – bocciando il partito di Tusk, che l’ha governata per otto anni dopo averla annessa alla Nato.
Ci sono costanti nella politica europea. Uno è il ritorno del nazionalismo, ricorrente da un paio di secoli, ora in Polonia dopo la Francia, che ha votato no alla Costituzione e ha un’opinione intellettuale antieuropea, e la Gran Bretagna. In aggiunta a quello balcanico sempre effervescente, dalla Croazia all’Ungheria e alla Romania.
La guerra e il sovietismo non hanno rigenerato probabilmente la Polonia di sempre, suscettibile e rissosa. Ma forse c’è di più, se ora si lancia all’avventura, pur dicendosi esposta all’orso russo. La Germania, verso cui adesso pendola, non ha denti, e forse nemmeno la rassicura, benché generosa sui confini e con gli immigrati – “l’idraulico polacco”.
È la crisi economica sta scompaginando assetti e logiche. E l’Europa per prima, che non ne è neppure cosciente. Solo perché la Germania da qualche anno ne è uscita?
goslave, la guerra alla Serbia, la Transnistria, la Georgia, l’Ucraina.
Sotto il vincolo della protezione nucleare – da qui la ri-creazione della minaccia russa – e di un inconcludente, suicida, impegno per la democrazia e la libertà, in assenza della comunità atlantica d’intenti. E anzi in conflitto d’interessi.

I disastrosi effetti Ucraina

Putin eletto a global player. L’Europa costretta a privarsi di un mercato di 150 milioni di persone. Nonché a contare la Russia come potenza non europea, e anzi antieuropea. L’Ucraina costretta a dividersi in due, e forse a perdere la metà. I missili di Putin a bersaglio dal Caspio,. 1.550 km. di precisione.
Tutto per la libertà dell’Ucraina dalla Russia che non la minacciava. In nessun senso. Una libertà che si incarna in Poroshenko, un piccolo Berlusconi. Dopo Yanukovich e Timoshenko – che garibaldina!
I futuribili sono risibili. Merkel contro Putin in un’edizione europea della guerra fredda. I missili di Hollande e Cameron contro quelli di Putin. La messa a dimora (campo di concentramento?) dei russi che hanno comprato casa a Londra, in Versilia e a Riccione. La Turchia europea subito per chiudere i Dardanelli alla flotta russa…
Tutto ciò non si può imputare a ignoranza o malaccortezza americana. Che sono semmai dell’Europa. Costante della politica americana è da quarant’anni la corto circuizione dell’Europa: la guerra del petrolio, le guerre jugoslave, la guerra alla Serbia, la Transnistria, la Georgia, l’Ucraina.

Sotto il vincolo della protezione nucleare – da qui la ri-creazione della minaccia russa – e di un inconcludente, suicida impegno per la democrazia e la libertà, in assenza della comunità atlantica d’intenti. E anzi in conflitto d’interessi.

Giovane a settant’anni

Fino a quando si è giovani? “Tutto dipende da che cosa s’intende per giovinezza”. È “un passaggio talmente delicato e mutevole da implicare un gran numero di sfumature”. I romani, si sa, si volevano giovani fino a tarda età. James, scrivendone ai settanta, fa l’antico romano: “Non siamo mai davvero vecchi, perché non sappiamo rassegnarci a smettere d’essere giovani: la giovinezza è un’armata che schiera l’intero battaglione delle facoltà e tutta la freschezza unita a illusioni e passioni”, etc. etc.
L’anno di passaggio James lo pone a quel giorno di marzo 1869 in cui sbarcò definitivamente in Inghilterra. Fece sua l’Europa, di cui in famiglia e negli studi aveva celebrato il culto. Anche con frequenti viaggi, che però non ricorda. Un’Europa – in realtà la decisione di lasciare l’imponente famiglia per vivere da solo - di cui aveva avuto due anticipazioni, in due distinti pellegrinaggi invernali nella neve del New England: in casa di una gentile signora che in tempi lontani era stata invitata a colazione in una casa patrizia londinese, e a colazione da W.H.Howels, uno scrittore dimenticato, che dice “insidioso ispiratore dei miei pensieri” (più intende, del padre Henry, anche lui, filosofo e teologo, del fratello William, delal sorela Alice, scrittrice anch’essa), invitato con Bayard Taylor, il poeta, altro dimenticato, e l’amico Arthur Sedgwick, circondati dalla “squisita moda veneziana” che l’anfitrione coltivava in ricordo del suo appena concluso incarico di console a Venezia.
È dallo sbarco a Liverpool che James si situa negli “anni di mezzo”, come fosse la scoperta dell’Inghilterra. A partire dal muffin – la proustiana madeleine in anteprima: “imburrato ricoperto, sempre ingenuamente bagnato con l’acqua bollente del tè”. Un ricordo di “immensa felicità”,  la felicità della scoperta di sé.
Londra dice “città poco ospitale e poco accogliente”: “Le idiosincrasie di Londra non sono mai state semplici insinuazioni; e inizialmente potevano lasciare a bocca aperta chi veniva da fuori”. Ma è accolto ovunque con affabilità. Di colazioni, e pranzi, sono piene queste pagine. Con meraviglia sua: tutti gli chiedono dell’America, perché non ne sanno nulla, e lui neppure. Tutti, cioè gente “del Temple, dell’Home Office, del Foreign Office, della House of Commons”. Qualche volta va anche in trattoria, ce n’era una a Piccadlly, dove ritrova “il piccolo vecchio mondo di Dickens”. È la Londra tardo-vittoriana, che è “essenzialmente onesta”.
James vi si aggira chaperonato da Mrs.Greville, “Ronnie” dal nome del marito Ronald, che il “Daily Mail” celebra come “The Society Hostess with the moistest”, “signora imponente, raffinata, molto miope e molto espansiva”. Il genere che preferisce, Mrs. Greville come Lady Waterford, la marchesa acquarellista pre-raffaellita (ma queste cose bisogna saperle in proprio), delle “«vecchie» bellezze”.
Il viaggio doveva continuare “con l’inimitabile Francia e con l’incomparabile Italia”. Ma l’Italia James trova alla National Gallery, con goduria e sorpresa, tra i Tiziano e i Veronese.
Scritto incompiuto (il seguito aveva pure una traccia: “Notes of a Son and a Brother”, sui rapporti con la notevole famiglia, sotto il titolo di lavorazione di un suo romanzo, “Gli anni di mezzo”) per morte intervenuta. Ornato, compiaciuto, prolisso. Per bene. Estremamente autocentrato, anche quando intrattiene di George Eliot, una ventina di pagine senza dirne nulla, o di Tennyson, una dozzina. Lo salva il guizzo iniziale di umanità.
Henry James,Autobiografia degli anni di mezzo, Il Sole 24 Ore, pp. 79 € 0,50

domenica 25 ottobre 2015

Problemi di base - 250

spock

La libertà è single?

E come si stabilisce la colpa e la ragione?

E la tolleranza, se non come indifferenza?

La libertà è “abissale” (Heidegger)?

L’abisso al Grand Hotel (Lukáks – ma il © è F.T.Marinetti)?

La liberta è anarchica, da ogni principio?

La libertà è fedeltà a un principio, della libertà?

La libertà è autoreferenziale, sia pure battagliata in difesa di altri?

Chi non pensa non è libero (Heidegger): e chi pensa?

spock@aniit.eu

Darwin si è dimenticato la coscienza

“Il mondo è un posto sorprendente, e l’idea che noi siamo in possesso degli strumenti di base necessari per comprenderlo non è più credibile oggi di quanto lo fosse ai tempi di Aristotele”. La premessa è una sfida. Ma il sottotitolo era già un bollettino di vittoria: “Perché la concezione neodarwiniana della natura è quasi certamente falsa”. La conclusione è che la coscienza è un ostacolo a una spiegazione naturalistica della vita: “L’esistenza della coscienza sembra implicare che la descrizione fisica dell’universo, nonostante la sua ricchezza e il suo potere esplicativo, sia solo parte della verità, e che l’ordine naturale sia molto meno austero di quanto lo sarebbe se la fisica e a chimica rendessero conto di tutto”.
Nagel, filosofo dei fenomeni mentali, prova a scardinare il “naturalismo riduzionistico”, sotto le specie fisiche e biologiche: “A me sembra che l’attuale ortodossia sull’ordine cosmico… sia il prodotto di assunzioni di fondo prive di fondamento, e che sfidi il senso comune”. Dopo aver parato preventivamente le critiche: “L’argomento che muove dal fallimento del riduzionismo psicofisico è un argomento filosofico, ma ritengo che ci siano ragioni empiriche indipendenti per essere scettici rispetto alla verità del riduzionismo in biologia”. Cioè nella bibbia darwiniana, dell’evoluzione naturale. L’approccio materialista dominante ha mancato di spiegare fenomeni quali il pensiero, il ragionamento, l’intenzionalità, la capacità valutativa. Lo stesso se si prende il discorso dall’altro capo: se la coscienza non si spiega con la fisica e la biologia che abbiamo, e se la mente è prodotto dell’evoluzione, “allora la biologia non può essere una scienza puramente fisica”.
Una riflessione “non ortodossa”, si dice lo stesso Nagel. Che, ateo e immanentista, è scontento della lettura meccanicistica, da Galileo a Darwin, del mondo e della stessa evoluzione. Houellebecq direbbe, poeta sconsiderato (nella traduzione di Fausta Garavini e Alba Donati): “Il sistema è organizzato\ per la riproduzione dell’identico.\ Il darwinismo avallato\ crea il banale autentico”.  È il problema dei “sistemi”, che inevitabilmente si chiudono, ma più quando si applicano al vivente.
Una riflessione introdotta qui bizzarramente da Michele Di Francesco con molti paletti riduttivi – riduzionistici. Tra essi una sterminata lista di filosofi – di filosofi della mente, non di scienziati - che hanno già avuto modo di criticare in pochi mesi il saggio. Ma procediamo con ordine.
Nagel, filosofo dei fenomeni mentali, sfida il “naturalismo riduzionista”. Per riduzionismo intendendosi l’assunto che ogni realtà scientifica ha l’evidenza dell’osservazione. Secondo il modello di ricerca scientifica che si è imposto nel Seicento, il modello meccanicistico, che le forme viventi “riduce” (spiega) a macchine, per quanto complesse, combinazioni di particelle materiali. Una riflessione “non ortodossa”, premette Nagel, che in effetti non ha nulla del pamphlettista: procede grave, sottile, indecisivo. Ma fermo sul “fallimento del riduzionismo psicofisico”. E sul suo limite evidente: “I grandi progressi nel campo delle scienze fisiche e biologiche sono stati resi possibili dall’esclusione della mente dal mondo fisico”. Conformando una “comprensione quantitativa”, di “leggi fisiche senza tempo e formulate matematicamente”. Questo non è più possibile, bisogna includerci la storia, dacché questa è stata inclusa per la cosmologia col Big Bang. Lo steso la mente vuole un suo Big Bang. All’interno delle scienze fisiche ma riconoscendone i limiti. Tanto più “quanto più scopriamo sulla complessità del codice genetico e sul suo controllo dei processi chimici della vita”.
Nagel, benché si professi profano, è in realtà scettico sulla casualità (fisica, biologica) delle mutazioni una volta che le prime forme di vita sono apparse. Soprattutto sulla “spiegazione riduzionistica delle origini della vita”. Contro il “consenso dell’opinione scientifica”, riconosce. Ma l’evidenza a disposizione non sradica razionalmente “l’incredulità dl senso comune”: “Nella storia della natura sono al lavoro anche principi di tipo diverso, principi sull’aumento dell’ordine che sono, per quanto riguarda la loro forma logica, teleologici piuttosto che meccanicistici”. L’“ordine” si propone di “aumentare” sull’assunto che “certe cose siano così degne di nota da dover essere spiegate come non casuali”. Ma sempre con l’esigenza (“ideale”) di  “scoprire un solo ordine naturale che unifichi tutto”. Ideale incompatibile non solo col dualismo cartesiano ma anche col teismo, di un “ordine naturale (opera) dell’intervento divino, il quale non fa parte dell’ordine naturale” – di cui però fa sue alcune obiezioni, che dice irrefutate.  
È “radicale la differenza tra soggettivo e oggettivo mentale”. Wittgenstein era sensibile all’“errore”, la sua riflessione nasce da questa faglia. Ma superarla con la grammatica del linguaggio mentale non basta. Il comportamentismo, e più il comportamentismo concettuale, di Ryle in riferimento a Wittgenstein, non risolve il dualismo mente-corpo: “Il comportamentismo trascura proprio lo stato mentale interno”. Le teorie dell’identità psicofisica proliferano, ma “trascurano proprio ciò che fu deliberatamente escluso dal mondo fisico da Cartesio e Galileo per formare il concetto moderno del fisico, ovvero le apparenze soggettive”. Quanto a se stesso, Nagel si limita a scoprire le fondamenta , l’argomento antiriduzionista dice finora solo negativo. Perché il compito è molto vasto: “Il materialismo richiede il riduzionismo; perciò il fallimento del riduzionismo richiede che si cerchi un’alternativa al materialismo”. Ma le obiezioni sono perfino ovvie: “La mente non è “il prodotto di un’aggiunta, un evento accidentale o un accessorio, ma … un aspetto fondamentale della natura”. Oppure: ”Il naturalismo evoluzionistico implica che non dovremmo prendere sul serio alcuna dele nostre convinzioni, compresa la visione scientifica del mondo da cui dipende lo stesso naturalismo evoluzionistico”.
La tesi di Nagel non è indifendibile. La coscienza “non è l’aggiunta di un pizzico di qualia alla vita organica, ma la comparsa di punti di vista soggettivi individuali, un tipo di  esistenza logicamente distinta da qualunque cosa sia descrivibile dalle sole scienze fisiche”. La coscienza resta inspiegata. Ma ciò non senza conseguenze sul sistema “riduzionistico”, meccanicistico, naturalistico, che governa l’evoluzione. Dal momento che il carattere cosciente degli organismi umani, occhi, orecchie, sistema nervoso, etc, “è uno dei loro aspetti più importanti, la spiegazione della comparsa di queste creature deve includere una spiegazione della comparsa della coscienza… Se essa va spiegata sotto ogni aspetto in termini naturalistici, tramite la comprensione della vita organica, è necessario cambiare qualcosa di fondamentale nella nostra concezione dell’ordine naturale che ha dato origine alla vita”. Senonché “il riduzionismo psicofisico è componente essenziale di un più ampio programma  naturalistico che non può sopravvivere senza di esso”, sia scientifico che metafisico… Un terremoto?
È anche una vindicatio della filosofia – altrimenti che ci sta a fare (ne saprebbero di più le formiche, anche le api). Con paletti solidi. Di filosofia analitica. Strana, poiché si parte da parole (realtà) inspiegate: natura, materia, mente, corpo. Ma il fatto è certo: dove e cosa è, in termini fisici, la coscienza – parola anch’essa evocativa più che definitiva,  ma ci capiamo. Siamo ancora non sappiamo che cosa. Fra la coscienza e la fiscalità è come fra l’uomo e l’orango, che sebbene siano per il 98 e qualcosa per cento sinili e uguali, sono però differenti – di “natura” differente. Tra i fenomeni mentali e la “natura” lo scarto è percentualmente irrisorio, diciamo pure millesimale, e tuttavia naturalmente irriducibile.
Thomas Nagel, Mente e cosmo, Raffaello Cortina, pp. 134 € 16