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mercoledì 21 gennaio 2009

Berlusconi perde quota, con Alitalia

Quello che non hanno potuto ottomila, o novemila, giudici, Prodi, D’Alema, Rutelli, Veltroni, e i magnaccioni televisivi, lo potrebbe Alitalia. Il passaggio di Alitalia alla “razza padana” fa perdere Berlusconi, e non di poco. Gia dalle elezioni europee. Sembra incredibile, eppure l’allarme è diffuso. E il malumore. I sondaggi non lo rilevano, ma le antenne periferiche di Bossi e Fini, e della stessa (ex) Forza Italia, sì. E del resto il caso non scandalizza gli opinionisti: l’opinione pubblica si forma per percezioni di senso più che per le cose, e i momenti, anche grandi, iniziano smottamenti, poco impercettibili. Il calo di popolarità di Berlusconi, che i sondaggi rilevano ma non collegano ad Alitalia, potrebbe essere lo smottamento premonitore.
La privatizzazione di Alitalia così come voluta da Berlusconi ha lasciato insoddisfatti tutti gli operatori del settore aereo, a Milano e a Roma, di Alitalia e di Air One, di Adr e della Sea, e dell’indotto, molto dubbiosi che non si potesse fare meglio. E inferociti gli azionisti, i cui titoli sono stati cassati, dopo averne impedito d’autorità la negoziazione. Sono alcune centinaia di migliaia di elettori. La convinzione sarebbe peraltro generale che Berlusconi ha voluto solo ingraziarsi la “razza padana”, gli speculatori che hanno già depredato Telecom.
Il problema “che fine fanno le azioni Alitalia” non è d’altra parte semplice, o minore, come è sembrato al commissario di Alitalia Fantozzi e al suo ministro Tremonti. Associazioni si vanno formando di piccoli azionisti che potrebbero rinfocolare i malumori. L’intento, per ora confuso, di queste associazioni è di chiamare in causa il governo e la Consob. Su quali basi e con quali scopi è stato deciso d’impedire agli azionisti di negoziare i loro titoli? Questo il quesito cui si tenta di trovare riscontro nei codici per un ricorso giudiziario. Sin dal 5 giugno, come uno dei primi atti del nuovo governo, anche se la decisione formalmente è della Consob. Il presupposto è un’intesa a monte tra il governo e la cordata Colaninno per liquidare senza corrispettivo i risparmiatori.

Un millennio senza autori

Dopo i settantenni i quarantenni. Anche Cortellessa, principe della generazione, raccoglie il suo Novecento – “una prima serie”. I suoi autori sono gli stessi, i poeti, Montale, Fortini, Zanzotto, Giuliani, Sanguineti, e i narratori, Savinio, Landolfi, Gadda, Calvino, Manganelli, Celati. Con la solita trascuratezza: sempre è il Novecento che socraticamente vediamo esagerato, nelle politiche di programma e i piani quinquennali, dal Futurismo al Politecnico, ai Novissimi e al Guppo 63, e prosaicamente attendato al lavoro della terra, Manzoni magnificando e Verga, che sono l’essenza anche del bernabeismo o raismo e della Dc, le diane della Repubblica, ma orfano dei nonni Pirandello (Bontempelli, Svevo, Montale, Landolfi, Quasimodo, Sciascia) e D’Annunzio (Gadda, Alvaro, Luzi, Pasolini, Calvino) nella prima parte, degli americani liberatori dall’altra, rimasta sterile, dai Gettoni nati morti alla scuole Holden di scrittura, a dispense.
Con una novità, però. Seppure senza radici, Cortellessa guarda i suoi autori con un suo specchio particolare, quali “autori critici”. Molti critici del Novecento sono grandi scrittori, in tutte le lingue e le letterature, da Benjamin a Sklovskij, Barthes, Debenedetti (e Citati, Magris, Pedullà), e molti scrittori sono anche critici. Lo sono sempre stati, si può dire, ma nel Novecento, il secolo delle poetiche e dei fabbri (alla Pound), in modo speciale. Cortellessa ne indaga, attraverso le loro confessioni, gli stilemi, i calchi, i rimandi, l’esercizio critico, sui quali essi si sono a loro volta formati. Da qui il concetto di libro segreto. Che è un po’ quello di D’annunzio, il cassetto, l’opificio, il laboratorio, ma è anche diverso: questo di Cortellessa analizza come gli scrittori del Novecento si sono posti riguardo alle loro radici e ai maestri, più o meno riconosciuti. Un esercizio che spera evidentemente proficuo.
Il Novecento è insomma una miniera inesauribile. Ma proietta sui giovani critici, ancorché autori, un’ombra: di che stiamo parlando? Non c’è materia per i contemporaneisti. Se non, appunto, ancora il Novecento. Quando già un decimo del nuovo secolo è trascorso senza traccia. E gli autori del 2008 sono i settantenni (sempre Magris, Citati, Pedullà). Senza contare che il Novecento s’è fermato al 1980 o poco più – al primo Tondelli, all’ultimo Tabucchi prima che entrasse nella clandestinità antiberlsuconiana.
La giovane critica ferma al Novecento
Muoiono in tanti dopo Nietzsche e Dio. L’autore, il romanzo più volte, e la letteratura, che la scrittura sostituisce, cioè la critica. Ma di che? Nonché il testo, lo stile, una storia, un personaggio, che incida e si ricordi, non c’è l’autore. Ci sono molti libri finalmente nei giornali, anche nei supplementi pubblicitari, ma non ci sono autori o libri per i critici. Che la contemporaneità ritrovano nel Novecento. Forse il Duemila non si può quindi scrivere. Ma ci può essere un secolo non secolo? O non è questo materia di critica?
Bisogna essere indulgenti. I critici si parlano tra di loro, si becchettano, e per questo sono irritanti – parlano di metodo, di metodo del metodo, e di non metodo. Ma visti da fuori sono uccelli in gabbia, diversi, anche speciali, o macachi, roba da zoo, specie in estinzione o in ibernazione da proteggere. Perché non hanno più materia. Hanno ancora una funzione, posti all’università e nei giornali, ma non i libri. Il libro, che infine ha conquistato spazio nei giornali, fa ora a meno dei critici. Gli editori vogliono tirature minime di ventimila copie, più le traduzioni obbligate (i diritti dei best-seller comportano pacchetti di diritti) e si occupano di marketing: buone confezioni, buone presentazioni, anticipazioni, promo, e un uso anche ingegnoso degli incentivi alle vendite (concorsi a premi, sconti a termine, buoni sconto, vendite in blocco). Il critico può farne parte, per prefazioni, anticipazioni, presentazioni, con premi e regali.
Non manca il rispetto ance in questa editoria per il critico: ogni best-seller è preceduto da un dittico ditirambico di un critico - viene dopo la presentazione ai librai e una settimana prima dell’uscita del libro. Ma niente di memorabile, degli ultimi venti anni, anche trenta, niente resta. Non c’è niente da scrivere di Camilleri e Saviano, i più venduti di ogni tempo, e anche di Baricco. Perfino zero, a parte il Montalbano del cinema, nel genere giallo dominante, né in Italia né fuori: non un Chandler, un Hammett, una Millar, neppure uno Scerbanenco. Il libro segreto dei critici è ora il libro degli altri critici. Che, per quanto ben scritto, non è consolazione.
Andrea Cortellessa, Libri segreti. Autori critici del Novecento italiano, Le Lettere, pp.460, € 38

martedì 20 gennaio 2009

Obama potrebbe

Il candidato più improbabile, eletto con voto minoritario, è il presidente degli Stati uniti che esordisce con più entusiasmo e più speranze, e questo potrebbe aiutare alcune soluzioni. La realtà è difficile, il peggio della crisi non è passato e le guerre aperte sono quasi perdute. In Afghanistan e in Iraq, con contorno di Iran, Pakistan, Palestina e terrorismo islamico. Ma, come il neo presidente ha detto, l’America ha conosciuto momenti più difficili: alle crisi bisogna solo dare soluzioni. Nel suo caso l'ottimismo potrebbe pagare. E in un ceto senso anche l'inevitabile multiculturalismo.
Il peggio della crisi sono i derivati in agguato, la montagna di operazioni che potrebbero tradursi in debito insostenibile. L’outsider Obama è il presidente migliore per un taglio netto col mondo opaco della finanza (la bad bank di Tremonti). Ma potrebbe farcela entro l’anno. Il crollo di Wall Street il giorno del suo insediamento è beneaugurate. Obama sarà sicuramente il presidente che sconfigge la crisi, poiché ha quattro anni davanti a sé.
In Iraq la pacificazione è ancora possibile, alla sola condizione che ci sia una iniziativa politica. Per la quale non mancano a Obama forti alleati, l’Arabia Saudita e l’Egitto. Ma la chiave più importante dovrebbe essere la Palestina, dove la pace attesa da sessanta anni è solo tardiva. Obama porterà Israele a un negoziato serio di pace: non può evitarlo dopo la guerra di Gaza, e dopo le elezioni potrebbe volerlo lo stesso governo israeliano. Un accordo in Palestina disinnescherebbe molti veleni. L’oltranzismo in Iran e Pakistan ne uscirebbe fortemente ridimensionato.
Obama potrebbe soprattutto, a differenza di Bush, uscire dalla logica errata e improduttiva della geopolitica. E questo proprio in virtù del multiculturalismo che inevitabilmente ne caratterizzrà la presidenza, e di indeblimento del ruolo relativo degli Stati Uniti ("non c'è nessun centro"). Non c’è nessuna ragione, per l’America e per l’Occidente, per controllare direttamente l’Arco della Crisi, da Beirut a Islamabad. Il petrolio non ha nessun valore se non è esportato, e così il gas. Il ruolo marginalissimo dei paesi produttori nel mercato del petrolio degli anni di Bush ne è conferma. Ci sono tre Asie, e questa la meno importante per l’economia globale.

La Fiat torna mondiale

Marchionne aveva dunque ragioni ottime per stare fuori Torino e fuori azienda: l'acquisto della Chrysler è certamente di capitale importanza come ha detto. Dopo il risanamento di Fiat Auto, Marchionne può fare un secondo miracolo.
Pochi dubbi che l’accordo si perfezioni, alcune sue novità vanno sottolineate:
1) Fiat conferma la sua proiezione mondiale. In Brasile. In India con i Tata. E soprattutto, ora, negli Stati Uniti, il mercato più grande e più ricco. A cinque anni da quando vendeva Fiat Auto alla General Motors, si presenta acquirente e salvatore a Detroit.
2) Non è la rana che voleva farsi re: quando l’Avvocato Agnelli rilevò Valletta al comando, la Fiat era il quarto costruttore automobilistico mondiale, dopo le tre grandi Usa.
3) Fiat ha una lunga, e la più proficua, esperienza del mercato americano, con Cnh, la parte del gruppo che non è Fiat Auto.
4) La scelta internazionale è una scelta di puro mercato. La Fiat conferma il nuovo corso slegato dal ruolo di azienda nazionale, e dal tradizionale ruolo politico. Dopo quasi mezzo secolo di gestione eminentemente politica, con un manager che era soprattutto un mediatore politico, Cesare Romiti.
5) Fiat si muove in controtendenza rispetto a quello che si presenta come il nuovo assetto economico mondiale, che vede i governi condizionare i mercati, fino a dichiararsi non interessata alle misure che il governo e Bruxelles potranno prendere.
6) Chrysler è una sorta di Alitalia, un’azienda praticamente fallita. Ma questo è dopo la lunga agonia un asset: la ristrutturazione che è fallita a manager pure di qualità, e alla Mercedes, può a questo punto riuscire.
7) Si tratta della unione di due debolezze, il fondo Cerberus che ha rilevato il titolo per mera speculazione e un gruppo automobilistico che non ha nessuna esperienza del mercato Usa. Ma parte con realismo: introdurre negli Usa i modelli a basso consumo e basse emissioni che danno accesso ai colossali aiuti finanziari già varati dal Congresso.
8) Chrysler ha marchi, modelli, e organizzazione commerciale. Le sinergie sono potenzialmente strabilianti.
9) Con Chrysler dopo la cura Mercedes Fiat può entrare nei segmenti di gamma alta, più remunerativi.
10) John Elkann è stato parte dell’accordo, da tempo praticamente stabile a New York. Marchionne non è solo, la proprietà non è fatua né sprovveduta.

Un altro Sud, texano e felice

Un libro che è la felicità dell’essere. E per le foto più che per il testo. Di un Sud che Lomax, l’etmomusicologo che nel 1954 ne registrò per la prima e ultima volta i canti popolari, vive e non “scopre”. Che ne sarebbe stato della “questione meridionale” se gli interlocutori fossero stati tanti Lomax, non necessariamente texani come lui?.
Con un saggio che spiega tutto di Goffredo Plastino, etnomusicologo italiano, allievo di Carpitella (di cui non nasconde la relazione ambigua con Lomax), in cattedra... a Newcastle.
Alan Lomax, L’anno più felice della mia vita, Saggiatore, pp.240, € 29

Pippi Calzelunghe, pulp

Nel secondo volume della trilogia del Millennio si arriva a pagina 260 senza novità. E questa è già una chiave: il lettore di gialli è masochista. Peggio ancora al clou delle settecento a passa pagine: il pezzo forte è infatti essere stato sparato all’anca, alla schiena e “due centimetri sopra l’occhio destro”, nonché sepolto sotto mezzo metro di terra, e riuscire ad accoppare lo sparatore a colpi di ascia, dopo aver messo fuori combattimento la Cosa, un gigante di due metri per due che non sente il dolore. Il giallo dunque dev’essere inverosimile, sempre alla Sherlock Holmes, e un po’ cazzabubblo.
Attorno a una Pippi Calzelunghe più incasinata e casinista, all’epoca dei piercing, gli sballi, gli stupri in famiglia e il lesbismo, le pistole elettriche.
Il terzo volume non sposta, non un’impressione durevole, un personaggio, una situazione, un posto, un volto, Larsson non è Dickens. Un affollamento dei peggiori detriti di nessun effetto, a parte la noia. Preceduto al solito dal furbo omaggio alle donne, che sono quelle che comprano i romanzi.
Le malversazioni alla Cepol, la polizia europea, diretta dall’ex capo della polizia di Stoccolma, Ulf Göransson, sembrano dire realistico il trittico. Ma la sua è una storia d’ogni luogo, la Svezia vi è fondale opaco, a parte la promiscuità sessuale. Specie d’inverno: non c’è ghiaccio né buio. La trilogia del Millennio è l’ubiqua cronaca aggressiva, alla “Gomorra”, droga, abusi, sui figli, i minori, le donne, gli immigrati, della realtà che supera l’invenzione, e il colore è la pirateria informatica. Sempre corretto, è insipido: i diritti umani non si prestano all’affabulazione? E' il fumetto, il pulp alla Tarantino. Ma tutto inferiore, malgrado tutto, ai killer veri, quali si ascoltano nelle intercettazioni ambientali dei carabinieri.
Un decimo del millennio è ormai passato ma non se ne vede traccia, neppure in traduzione.
Di notevole resterà in questa speciale trilogia del Millennio la creazione del best-seller. Non scadenzato, non di autore, alla Sherlock Holmes o alla Montalbano, ma seriale, impilato come i cubetti del lego, e venduto subito, in due settimane, a milioni. Anche se lo schema è trito: l’arruolamento di un critico (Fofi, Pacchiano), le prevendita in massa alle catene librarie, gli echi di stampa, l’appiglio della cronaca. E il presupposto che nessuno legga il libro - se qualcuno lo legge, Fruttero, si fa capire che è rincoglionito. Tutto allora eccezionale, ma in questo senso: tradurre, stampare e vendere tremila pagine, in milioni di copie, subito, prima che se ne accorgano, questi sono primati.
Stieg Larsson, La ragazza che giocava con il fuoco, Marsilio, pp. 754, € 21,50
La regina dei castelli di carta, Marsilio, pp. 857, €21,50

La Calabria, tenacia e indolenza

La Calabria è un eden, se solo si lavorasse con ingegno e applicazione. Ripubblicato come curiosità locale, questa “Nota storica sulla Calabria” acquisisce, grazie a una superba introduzione di Saverio Napolitano, diritto di attualità per questa semplice verità, seppure all’apparenza semplicistica: non c’è nessun motivo, non c’era allora, benché l’autore vi fosse in guerra coi briganti, perché la Calabria restasse due secoli dopo la regione più povera, e per molti aspetti più arretrata, dell’Europa occidentale.
De Rivarol, nipote del pamphlettista, partecipò alla guerra del 1809 contro gli inglesi e i loro alleati calabresi, “massisti” e briganti, e ne scrisse a caldo, nel 1817. “La Calabria, un tempo patria delle arti, dove i sapienti della Grecia avevano le loro scuole e che era abitata dal popolo più colto d’Europa, è oggi l’asilo dell’ignoranza e della superstizione”: figlio cadetto di un maresciallo, il venticinquenne ufficialetto era un uomo colto nell’accozzaglia napoleonica, portato quindi a focalizzare certi aspetti nella storia di un popolo. Ma senza retorica, come Napolitano sottolinea, e anzi con tratto quasi scientista. Nelle poche pagine della sua “Nota” presenta un quadro ancora vivo, c’è una sottile dotazione di psicologia sociale in questo militare di second’ordine. Non era del resto l’unico, l’occhio coevo del più famoso Courier testimonia la felice impronta dell’illuminismo sulla cultura francese del primo Ottocento.
Napolitano mette a fuoco l’assenza di pregiudizio, pur nel quadro del “pittoresco-brigantesco” di genere, tra i militari e gli storici del Decennio franco-murattiano. La “Nota” è parte della larga pubblicistica sulle guerre napoleoniche, sia di parte francese che inglese – sono straniere le fonti sulla Calabria del secondo Settecento e del primo Ottocento. Tutta virata sul pittoresco. Ma mai “meridionalistica” – prevenuta, ostile, sanzionatrice. De Rivarol rileva dei calabresi l’indolenza, insieme con la tenacia, quasi un contemporaneo della disillusione in corso. Dotati di spiritualità e capacità dialettica, e ciò per il clima caldo e l’aria ossigenata delle montagne, i calabresi diventano sottili e diffidenti come per natura, sintetizza Napoletano, e quindi finiscono adulatori e falsi.
La “Nota” si legge anche per i particolari. Ci sono i Bruzi, gli schiavi lucani ribelli di Strabone, nomadi, bilingui (greco e osco), sostenitori di Annibale. E le origini dei normanni. C’è Seminara, dove il D’Aubigny vince nel 1495, ed è sconfitto nel 1503 - Seminara, che pii riceverà Carlo V, è la prova fisica della decomposizione moderna e contemporanea della regione. C’è la Repubblica Partenopea, “la Repubblica paradossale che si chiamò Partenopea, spregevole parodia della nostra anarchia”. Ci sono le donne dei briganti, più terribili dei mariti. Manca la carta dettagliata di cui si parla, disegnata dallo Zannoni, che sarebbe stata utile.
Auguste de Rivarol, Nota storica sulla Calabria, Rubbettino, pp.96, €7,90

lunedì 19 gennaio 2009

L'ambasciatore e l'affare Kakà

L’affare Kakà non è isolato. C’è di più che una semplice transazione calcistica, nell’offerta dello sceicco Mansur Al Nahyan. C’è un quadro diplomatico attorno alla cessione del fuoriclasse, e una ragnatela di affari ben più consistenti in attesa di consolidarsi. Di cui i segnali sono molti e univoci. La decisione di Berluconi di privarsi di Kakà, a pochi mesi dal rifiuto deciso opposto ad Abramovich (dopo avergli imposto un Ferragosto sardo col cantante Apicella…), che anche lui non si poneva limiti di spesa. La lunga vacanza del Milan a Dubai. La visita improvvisa e senza scopo di Fini domenica nell’emirato. L’intesa attività di Franco Dionisi, che è stato per due anni ambasciatore a Abu Dhabi. Che è probabilmente il perno della rete.
Nella logica negoziale degli emiri degli ex Trucial States, Kakà appare d’altronde il pegno che la parte araba paga per avere in cambio un vero buon affare. In questa logica le parti insomma si rovesciano: non è Berlusconi che si ingrazia Mansur Al Nahyan, vendendogli Kakà, ma l’inverso. Gli arabi del Golfo praticano nel negozio la logica onesta del baratto: ci dev’essere un utile per entrambe le parti. Inoltre, non avendo forza contrattuale militare né politica, praticano soprattutto la lealtà. Con rispetto per i paesi europei ai quali si sono legati, e per l’Italia non meno che per la Germania o la Gran Bretagna. Non si fanno sgarbi, ma accordi condivisi.
Tutto questo si sa e si dice alla Farnesina. Cosa abbia in mente Mansur invece non si sa, o non si dice. Ma gli emirologi hanno pochi dubbi: vuole poter entrare in buone industrie. Con la piccola quota della Ferrari ci ha preso gusto: il 5 per cento della casa automobilistica gli ha infatti propiziato dalla Fifa un inedito Gran Premio degli Emirati, che ripaga in abbondanza l’investimento. Per altre iniziative l’Eni è citazione d’obbligo, ma forse Saipem è più interessante. E l’elettronica, si dice anche, sebbene sia un settore delicato, confinando con la difesa e gli armamenti: Finmeccanica e Galileo.
Dionisi è un diplomatico particolare. Attivo in politica, molto attivo nella Figc, la federazione gioco calcio, l’Ufficio Indagini e alla Commissione per la riforma, specialista del Medio Oriente, dopo essere stato a lungo a Beirut, e della diplomazia degli affari, il poco più che quarantenne ambasciatore è stato a Palazzo Ghigi col precedente governo Berlusconi, coordinatore del G8 di Genova. Legato a Berlusconi e poi a Fini, vice-presidente del consiglio e ministro degli Esteri. Da giovane è stato consulente dell’editore del gruppo AdnKronos, Pippo Marra, della cui amicizia si fregia nel curriculum ufficiale. La partita di Kakà non è isolata, questo è certo.

Oro nero e poesia negli Emirati

Il sangue si raggela in camera, dove il ministro s’introduce col seguito – il ministro è poeta, quindi senza pudore. È la reazione che si dice di raggelamento, la paura dell’imprevisto. Anche se il ministro non interrompe un’intimità, l’albergo è l’Imperial, vero k. und k., königlich u. kaiserlich, regio e pure imperiale, le camere sanno di cacanica muffa, per stucchi e tendaggi, pur preziosi e rinnovati. Né la città è scena sbagliata, dacché Spengler l’ha espulsa dal Deutschtum relegandola alla latinità – “Vienna è una creazione dello spirito spagnolo”. Ultima sede dell’impero, scelta a capitale dai paesi del petrolio, per radicare la loro natura di nuovi arrivati nei grandi affari.
Il ministro è bianco e grigio, i colori dell’aria, in tinta con le losanghe dell’albergo, di marmo freddo. Ha l’occhio vivido, muove il rosario a velocità ultrasonica e dalla porta va diretto sul letto. Si tira su il saio, gesto osceno che gli arabi fanno forse di necessità, piegandolo sull’inguine. E parla ispirato, a nessuno in particolare, ma il suo arabo che nessuno capisce suona minaccioso. La poesia è onorata nel suo polveroso paese, che appena ieri era uno dei Trucial States, staterelli della tregua “Estremamente popolare” dice la “Britannica”, del genere nabati, un’ode che s’improvvisa, l’emiro vuole farla alla televisione. Il segretario tira fuori da una cartella dei fogli fotocopiati e spillati e li porge: sono poesie, tradotte in inglese, a conferma che il ministro è poeta. Non si sa se offrire il whisky, se è opportuno. La conversazione langue, malgrado i tentativi di portarla sulla poesia araba, di cui nessuno peraltro sa nulla - il ministro si annette tranquillo Omar Khayyam.
Tace pure Pasquale, che ha voluto l’incontro, e ora guarda da sott’insù beffardo. Sarà la sua vendetta, per essere stato estromesso definitivamente dall’Ente – è a Vienna alla conferenza dell’Opec in qualità di broker indipendente, mediatore d’affari. Un tentativo di conversazione sulle strategie dell’Opec è caduto nel nulla. Finché un secondo stiracchiato tentativo, un accenno ai piani di sviluppo degli Emirati, non viene interrotto brusco dal ministro, col quale, tirato imperiosamente per il braccio, un convegno a due si stabilisce infine nel bagno. Dagli ampi saloni alla camera e al bagno, sembra di entrare telescopicamente in un incubo che si chiude soffocante, a imbuto, senza uscita. Ma un ghigno presto scioglie tutto, in bagno il ministro è rapido. E chiaro. Noi cerchiamo petrolio, lui ha petrolio, vuole per sé il sette per cento. Sul suo sette per cento, che oggi è un dollaro a barile, lascia per noi dieci cents, il dieci per cento del sette per cento:
- In contanti, in conto fiduciario, in valori, anything anywhere. - L’ha detto, è contento di sé, la visita termina altrettanto bruscamente.
E non si può rifiutare, il petrolio è poco, il petrolio è caro. Ma noi chi? La storia a volte avviene prima ancora di essere congegnata, i suoi nodi sono marinari, solidi e solubili, basta tirare un capo per sgrovigliarli. Ma non è finita, un lungo silenzio è seguito. Si potrebbe fare della filosofia, sul mondo che si ribalta, sulla penuria che è solo corruzione e denaro, sulla mission sovrastata dal business, ma chi dubita che gli affari siano mai stati fatti in altro modo? E allora a che si deve il turbamento? A Pasquale, che ha armato la trappola? Ma il suo allontanamento è solo l’esito dell’inutilità del negoziatore, o stratega: non ci sono più progetti, investimenti, aiuti, sviluppo, ci sono provvigioni. È l’incertezza dell’affare fatto? Da chi? E con chi? E come, in un bagno? Non c’è neppure stata la stretta di mano dei contadini al mercato, negli Emirati sono educati all’inglese, a distanza. La reazione è di panico per il noto difetto biologico, la resistenza innata al commercio.
Cessato l’impulso, è subentrata un’ambivalenza, nel sentirsi in mano, in contanti, in lingotti, in conto fiduciario, quel dieci per cento del sette per cento, tra la sensazione di volare e quella di affogare. Non sapendo al momento, né tuttora, che cifra faccia, magari è irrisoria, ma è gratuita, non implica sforzo, sacrificio, costanza, e porta stima perfino, e gratitudine, dei consumatori, dei cittadini. Anche un solo centesimo di dollaro al barile, moltiplicato per tutti i barili di una superpetroliera, dovrebbe fare una discreta somma, ma non è il guadagno che toglie il fiato. Hanno carica lussuriosa gli affari, pulsa non soltanto nel cuore ma sulla vista, il tatto, l’udito, perfino in bocca. Pulsa sgomenti se non si è avidi.
(L’aneddoto è estratto da Astolfo, Vorrei andarmene ma non so dove, romanzo in via di pubblicazione)

Il calcio orrido dei soldi

Non si fa, eccezionalmente, dietrologia dietro la cessione di Kakà. E questo può piacere al lettore. Ma purtroppo non se ne fa per la sudditanza estrema dei giornalisti sportivi ai potenti – quando infieriscono su Moggi è perché Moggi è brutto e malvestito, non sa neanche parlare, e conta meno di un ufficiale dei carabinieri. La chiave è l’ossequio, la prosternazione, l’adorazione, all’idea della squadra tutte stelle. Perché è l’idea di squadra dei potenti.
Non a una squadra, questa o quella, tutte stelle, che abbia deliziato i tifosi, i nostri cronisti sono prosternati. Questa squadra non c’è. Ma all’idea dell’opulenza, che più soldi si mettono e più il calcio è bello, dei palloni sgonfiati del Chelsea e Real Madrid. E di nessun altro, perché questa idea di calcio opulento ha avuto due soli applicazioni, il Chelsea del boiardo russo Abramovich, ricco delle miniere di Stato, e il Real Madrid degli inverosimili immobiliaristi spagnoli – in qualsiasi altro ordinamento, anche in Botswana, solo po’ meno spaccone cioè, sarebbero tutti in galera. O meglio ne ha avuti quattro, poiché l’Inter dei Moratti ha questa ambizione, l’accozzaglia più assurda da una diecina d’anni di superingaggi, e indigesta, e l’ultimo Milan, Milano non può essere di meno, in spacconeria, a nessuno.
Queste squadre non vincono, e non divertono. Neppure i miliardari. Se i miliardari le costruiscono è per le loro strategie finanziarie e fiscali, perché li fanno in qualche modo guadagnare. Che c’entra il calcio? Può fare piacere che ci siano dei soldi nello sport, ma che c’entrano con l’atletismo, la classe, il brio? Nel calcio poi, che è sport di squadra – il cui bello è essere gioco di squadra. Il calcio i soldi lo hanno soffocato più che promosso, e si vede in Inghilterra, Spagna e Italia. Al confronto con il cacio africano, o sudamericano, o francese, olandese, così pieni di talenti sempre nuovi.
I risultati del calcio ricco sono debiti e strafottenza. Non c’è nemmeno la soddisfazione dei soldi, non per i calciatori che ne sarebbero protagonisti: di fronte al capriccio di boiardi e petrolieri si vedono ovunque giocatori ingrigiti e spenti, troppi anche finiti male, Vieri, Ronaldo, Adriano. Squadre che “vincono” quando gli altri sono fuori gara. O, in Italia, con i De Marco e i Rosetti. L’allenatore “vincente” dell’Inter, Mancini, non lo cerca nessuno. Di una Inter che ha distrutto, letteralmente, un ottima buona nazionale, per nessun motivo se non la instabilità del padrone: Toldo, Pasquale, Grosso, Cannavaro, Materazzi, Pirlo, Cristiano Zanetti, Morfeo, Semioli, Vieri, Corradi, allenatore Lippi.