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sabato 6 ottobre 2018

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (377)

Giuseppe Leuzzi


La curva della Juventus viene regolarmente squalificata quando a Torino gioca il Napoli, per insulti razzisti, ai napoletani e agli africani che giocano nel Napoli. Una curva dove s’immaginano numerosi i tifosi juventini immigrati a Torino dal Sud, o i loro figli.

Si vede da qualche anno su Rai Uno e al cinema una Napoli tutta lindura e ricchezza - “Pizzofalcone”, “Non dirlo al mio capo”, perfino “Gomorra”, Ozpetek, Costanzo... Ricchezza, eleganza, ordine, efficienza,  parcheggio facile. Si gira con i fondi della Regione Campania? Perché la cronaca è di violenza. Non solo tra camorristi e spacciatori. Si assalta il centravanti Milik – dopo Higuain – a mano armata, mentre è in compagnia della fidanzata, la notte della “storica” vittoria del Napoli sul Liverpool.

Un ragazzo è stato ucciso in agosto a Diamante, all’uscita dalla discoteca, a coltellate, da coetanei. Un caso frequente a Roma, effetto della birra e delle droghe, ma anomalo nella cittadina calabrese, dove ha fatto e fa scalpore. Anche perché degli aggressori, più di uno, uno solo è stato individuato – forse. La notte era affollata, ma non ci sono testimoni. Non per omertà – Diamante in estate è dei turisti, napoletani o di altre provenienze. Il sito francoabruzzo.it, che ha preso a cuore il caso, diffonde da settimane il messaggio: “Tanti hanno assistito alla sequenza di gesti folli di quella notte di sangue, preferendo però il ruolo di spettatori mascherati dietro un cellulare, per riprendere le macabre scene”, piuttosto che intervenire o chiamare i Carabinieri.
Tutto arriva al Sud nel suo aspetto peggiore, anche il divertimento. 

Basilico a Milano
Si posta a Milano il “meraviglioso oro d’autunno”, coloristico, coltri di foglie dorate sul fondo giallo-verde dei tram. Non c’era occhio per questo sessant’anni fa. “Da noi, nel Sud, non vi è casa, per quanto tana orribile sia (e ve ne sono anche di una semplicità e purezza meravigliose, greche), che non abbia alla finestra la sua piantina, rosa o garofano, geranio, gelsomino, e, se non altro, almeno l’arguto e casalingo rosmarino, la ruta o il basilico”. Cosi sentiva il bisogno di scrivere nel 1950 Anna Maria Ortese, a disagio a Milano, dove si era trasferita da due anni per lavoro – curava la posta de “l’Unità” edizione milanese, “La posta di Anna Maria”. A Milano questo non c’era e le mancava. Non c’era di fatto e neanche se ne parlava: “Fa una dolorosa impressione a chi venga dal Sud, e comunque da luoghi dove gli uomini spesso s’identificano con le pietre, le montagne, i fiori, non sentire mai, dico mai, parlare delle cose che erano prima che sorgessero queste grandi città  da esse nascessero questi uomini: voglio dire il sole, le piante, gli animali”.
Lo scriveva per pubblicazioni milanesi: il testo (ora in “Le Piccole Persone”) fu pubblicato da “Risorgimento”, 30 marzo 1950, e da “Milano-Sera”, 12-13 aprile 1950. Ma senza suscitare echi. L’unità avrà fatto bene a Milano, insieme con l’immigrazione dal Sud un secolo dopo: la città ha scoperto l’insalata, oltre ai fiori al davanzale. Prima non c’era sensibilità, lamentava Ortese: “Certamente, anche qui cresceranno queste piante”, scriveva dei fiori in vaso, “insieme ad altre più importanti o graziose, però non se ne parla, non ve n’è cenno nelle parole degli uomini e delle donne; e dubito fortemente che, nelle loro menti, esse non abbiano una parte piuttosto priva d’interesse; inferiore sempre a quella che avrebbe un comodo mobile o una perfetta ghiacciaia, un forno elettrico”.
I milanesi, e le milanesi, Ortese inseguiva anche in vacanza. E con loro gli “innumerevoli” che “se ne aggiungono ogni anno dalle molte province d’Italia”, per “adoperare (in vacanza) l’inutile che hanno raggiunto”: “In montagna, al mare, sui laghi o in altri bellissimi luoghi dove corrono, essi non si spogliano affatto di quel loro lucido e quasi impermeabile costume cittadino; non è che vadano a meravigliarsi nella luce dei venti, delle acque, delle morbide nevi. Si rifugiano in alberghi «perfettamente attrezzati»”, etc. etc.

Il mercato mafioso è all’obitorio
Pasquale Di Filippo, mafioso pentito, da ormai 23 anni, si querela contro la Rai per essersi trovato,  sotto un fermo immagine dello sceneggiato “Il cacciatore”, in una didascalia che lo dice autore di “oltre venti omicidi”, torturatore, uno dei sequestratori del piccolo Di Matteo, sciolto nell’acido. Tutte falsità, assicura Di Filippo a a Salvo Palazzolo, su “la Repubblica”, professandosi colpevole “solo” di quattro omicidi.
Ma l’errore degli sceneggiatori non è di Alfonso Sabella, il giudice che “Il cacciatore” illustra – il titolo del serial è derivato dal libro di Sabella dieci anni fa, “Cacciatore di mafiosi”? Sabella non ha il milione che Di Filippo vuole come risarcimento?.

Di Filippo racconta a Palazzolo di un altro killer filosofo, che confessava quaranta omicidi. Il celebre pentito Spatuzza ne ha confessati cento. Tutti di mafiosi. A parte il centinaio di vittime eccellenti della stagione delle stragi di Riina, contro i giudici, i giornalisti, i carabinieri e i poliziotti non collusi, e qualche sacerdote, don Puglisi, la mafia è un mercato del crimine, in cui ogni banda fronteggia anzitutto bande concorrenti. Le vittime le attacca sul piano economico, rari gli assassinii. Un mondo asfittico, di cui non è impossibile fare pulizia, e non sarebbe neanche difficile.

La mafia istituzionale
A Roma la raccolta differenziata avviata nel 2014 ha funzionato, sui cassonetti, in strada: umido, indifferenziata, carta, vetro, plastica. Affidata per concorso alla 29 giugno, la cooperativa di ex carcerati creata dalla sinistra del Pci (Chiara Ingrao, Luigi Mancni e altri) di cui era da tempo animatore Buzzi, egli stesso ex carcerato. Condannato Buzzi per mafia, la 29 giugno non viene pagata dall’Ama, la municipalizzata di Roma per la nettezza urbana. La 29 giugno come tanti imprenditori privati, per esempio la grande impresa di costruzioni Astaldi, che non vengono pagate dal committente “Stato”, e vanno al fallimento. Dov’è la mafia?

La raccolta differenziata di Roma viene affidata alle quattro organizzazioni che Buzzi ha battuto nel 2014. Le stesse che lo hanno denunciato e fatto condannare per mafia. Mentre creavano e diffondevano foto di maiali in strada, e topi nei cassonetti. Sui media compiacenti. Le quali non raccolgono niente, se non episodicamente, oggi una strada, domani un prodotto. Cassonetti della carta e dei cartoni non sono stati svuotati per tre mesi. L’indifferenziata si svuota a settimane alterne.  Senza che nessuna foto o reportage sui cassonetti traboccanti di sporcizia venga più sui media. Dov’è la mafia?

Astaldi non è la sola impresa fallita per le inadempienze del committente pubblico. Soprattutto fra le piccole imprese, quelle che lavoravano alle opere pubbliche da tempo hanno dovuto in larga parte chiudere l’attività o riqualificarsi, perché non più in grado di lavorare. Il governo Renzi ha annunciato la liquidazione delle pendenze, due e tre anni di arretrati, ma a nessun effetto, si vede. Chiude l’attività chi non ha pagato il pizzo – non quello giusto? Continua chi paga, magari proteggendosi con denunce di mafia.

La Lombardia era povera

“Il mio cattolicesimo sociale, la cascina e i contadini analfabeti” è il titolo di una pagina di Paolo Bricco con Giuseppe Guzzetti, presidente della Fondazione Cariplo, sul “Sole 24 Ore” domenica. Sommario: “Vivevamo come nell’Albero degli Zoccoli. Le radici della lotta alla povertà della Fondazione Cariplo sono in questo mondo manzoniano”.

Guzzetti è del 1934, quindi parla del dopoguerra. Di questo dopoguerra. Esponente politico Dc, della corrente di Base, presidente della Regione Lombardia per due mandati, 1979-1987, senatore per due mandati, 1987-1992. Presiede la Fondazione della ex Cassa di Risparmio delle Province Lombarde, poi confluita in Intesa, che da sola, nella lunga gestione di Giordano Dell’Amore, altro vecchio Dc, economista, in un quarto di secolo, dal 1955, finanziò e irrobustì ben 350 mila imprese. Un radicamento che la Fondazione continua: “Ci fidiamo di chi propone idee, non senza verifiche e controlli rigorosi sui progetti. Alla Fondazione spetta saper fare delle scelte. Più di 30 mila progetti, un impegno di oltre 3 miliardi. Un gran lavoro”.
Non ci sono misteri nei miracoli, non in quelli economici: giusto intelligenza e applicazione. Negli stessi anni il Sud ha perso quanto reddito? E quanto patrimonio, in capitali e in conoscenze? Pur essendo molto più favorito dalla natura della Lombardia profonda, che è semipaludosa e continentale, chiusa.
“A Saronno”, ricorda Guzzetti dell’infanzia, “c’erano il santuario della Madonna, i mercati delle stoffe e il boario. Il mediatore avvicinava i prezzi e le mani di chi vendeva e di chi comprava. Quando riusciva a far sovrapporre le mani dei due, l’accordo era siglato. Il codice d’onore era fondato sulla parola data. Io vengo da lì”. E alla Fondazione non cancella e non abbatte, costruisce sul costruito. A Bricco prospettando come nuova, nel progetto Housing Sociale, la cascina: “Le grandi cascine della Pianura Padana. In ognuna decine di famiglie. Le stalle. I portici per i carri. L’osteria. Qualche volta la chiesa”. Modernità non è distruggere.
“La vita era come nell’Albero degli Zoccoli di Olmi. Da bambino ho visto i preti difendere i contadini analfabeti”. I preti hanno un ruolo in Lombardia – analogo a quello che i socialisti e i comunisti hanno avuto in Emilia-Romagna: “I preti inventarono le mutue sanitarie, le cooperative di consumo per far credito ai contadini tra un raccolto e l’altro e anche la cooperativa della vacca morta. La mucca era importantissima, per un contadino. Forniva il latte, il burro, i vitelli. Se una mucca moriva, era un dramma. Se era commestibile la cooperativa organizzava la sua vendita. Ogni famiglia si impegnava ad acquistare una porzione, impacchettata in carta gialla. La pelle era venduta. Il ricavato era per vivere e per comprare una nuova mucca”.
Guzzetti spiega il miracolo con la Provvidenza: “La Provvidenza, dottor Bricco. La c’è la Provvidenza! Di manzoniana memoria”. Ma più che il prete, o il commissario politico, conta saperci fare.

leuzzi@antiit.eu

L'antropologia della droga


Aria fritta, ieri e oggi. Giusto per “liberare” il trip in Messico, fra le droghe tradizionali – siamo negli anni 1960. Popolare, ieri e oggi, se si ristampa in grandi numeri. Perfino nobilitata accademicamente: la riedizione si avvale di una prefazione di Walter Goldschmidt, dell’avallo cioè di uno degli antropologi americani più in vista del secondo Novecento – e allora qualche domanda bisognerebbe porsi sull’antropologia.
Castaneda, a lungo senza volto e senza identità, è un scrittore peruviano. Con una laurea in filosofia presa negli Usa, prossimo ai 40 anni, dopo cioè il successo come scrittore. Debuttò felicemente proprio con questo libro, nel 1968, e da allora il mistero sulla sua persona fece parte del suo successo. Castaneda è stato un fenomeno editoriale, costruito per essere tale dopo questo “Don Juan” –
La civiltà tolteca misterica di cui sarà teorico scoprì, a sua detta, nel 1960, studente ventisettenne dell’università di California a Los Angeles, incontrando in Arizona uno stregone messicano, don Juan, di etnia yaquì. Don Juan lo inizia ai misteri dell’antica stregoneria messicana, e agli stati di coscienza alterati che varie sostanze allucinogene dell’altopiano inducono.
La ricetta di don Juan è semplice: niente esiste se non ha un cuore. Castaneda sarà l’aedo del cuore. Avendone uno, si arriva alla verità, col “mescalito” (peyote), o anche coi funghi allucinogeni, la datura, o altre sostanze.
Dopo il successo di questo primo libro, un altro paio sono seguiti con lo stesso personaggio, poi Castaneda ha autorevolmente professato in proprio.
Il tutto è riducibile agli “studi” in quegli anni sugli effetti dei funghi e le erbe con proprietà psicotiche. Patrocinati dall’industria farmaceutica svizzera, dalla Ciba e, di più, dalla Sandoz. Che patrocinò e finanziò i funghi e gli sciamani di Castaneda, nonché il poeta Michaux, e il chimico Albert Hofmann per gli assaggi che faceva con Jünger. Al fine di creare sostanze per la mutazione delle coscienze sul modello di Eleusi, dove il fluido iniziatico si estraeva dalla segale cornuta. Ne era nata l’Lsd.
Provare la droga era negli anni 1960-70 un revival dell’“esperienza” europea un secolo prima, di Baudelaire, Nerval, il maledettismo. Nel quadro di un revival più ampio, di invenzione della tradizione. Ci avevano provato nel frattempo, per curiosità, Benjamin e Aldous Huxley. E per consumo privato, o modica quantità, per passatempo, o per “fare esperienza”, innumeri scrittori, da D’Annunzio fino a Elsa Morante – alla quale si devono due poesie nel nome dell’Lsd, “La sera domenicale”, “La smania dello scandalo” (edite sotto il titolo “Il mondo salvato dai ragazzini”).
Castaneda si reinventa lo sciamanesimo. Gli “Insegnamenti di don Juan” ha anche il titolo “A scuola dallo stregone. Una via Yaquì alla conoscenza”: un percorso di iniziazione allo “sciamanesimo mesoamericano”. Una ripresa, dopo trent’anni, della “nuova via della conoscenza-percezione” di Aldous Huxley. Di nessun fondamento etnologico. Già nel 1968 un tentativo di accreditare per viva una tradizione non da poco perenta. E  tuttavia pietra miliare degli “studi” dello stesso sciamanesimo.
Carlos Castaneda, Gli insegnamenti di don Juan, Bur, pp. 273 € 10

venerdì 5 ottobre 2018

Perché il 2018 non è il 2011


Governo nuovo, nuovissimo, come senza radici. Antieuropeo e antieuro, almeno di programma. Di politici non sperimentati, nessuno di loro ha mai avuto una responsabilità di governo,  nemmeno al Comune del paese, e avventurosi. Su pilastri, alla Presidenza e all’Economia, di “tecnici” ignoti, scelti a caso, vergini, nonché alla politica come esercizio del potere, alla stessa chiacchiera politica. A fronte dei governi di Berlusconi e Tremonti, alla terza esperienza, e di Monti e Passera. Due governi milanesi, quindi affidabili per definizione. Perfettamente allineati su Bruxelles e su Francoforte. Ma i “mercati” allora impazzivano, oggi no. Si difendono, smobilitando una parte dei Bot, ma non attaccano.
C’è una ragione. Nel 2011 era sotto attacco l’euro. Già indebolito dalle banche del Centro Nord, per il cui salvataggio la Ue aveva impegnato mezzo miliardo. Dal fallimento evitato in extremis dell’Irlanda. Dal fallimento pendente della Grecia. Per la politica del “troppo poco troppo tardi” della Germania. Si attaccava l’Italia come quella in grado di far saltare l’euro. Col supporto, fosse panico o stupidità, del ministro delle Finanze tedesco Schaüble e del presidente della Bundesbank Weidmann.

Problemi di base sofistici - 449

spock


Credimi, sono un bugiardo?

Credimi, non credere mai a niente?

Fidati, non fidarti?

È normale rifiutare la normalità?

Quanto è diritto il diritto?

Farsela sotto?

E dove altro?

spock@antiit.eu

Quanto Pasolini era in Ortese

L’esordio è esilarante: una cosmogonia completa, persuasiva, buona per ogni fede e ogni miscredenza, in poche righe: “A cosa corrisponde per me la parola «natura»? A una forza e a un respiro grandiosi, a un vento senza origine, a un ritmo senza riposo, come quello del mare, a una corrente fantastica, incomprensibile,  di cui a ciascuno di noi non è dato scorgere che un punto, quello dove si affaccia, per subito sparire, il suo «io», o qualcosa di ugualmente inesplicabile”.
Sul fondamento di una gnoseologia inappellabile. “La Terra, e l’Universo, e  le loro leggi segretissime e comportamenti di ogni genere, NON CONOSCONO L’UOMO, e l’uomo – davanti a queste cose – è solo”. Negli spazi cosmici, poi, la terra, questo gioiellino, non è neppure sognata, non esiste, per quest’altra ragione: che non vi sono occhiali, nell’universo, capaci di vederlo – l’uomo”. Da qui la deiezione degli animali e degli esseri inanimati: l’uomo si è fatto inumano nell’inumano universo.
Una proposizione del mondo, e degli uomini nel mondo, vertiginosa. Non a caso si è conquistata una pagina di “Tuttolibri, il numero del12 febbraio 1984, punto focale di una rassegna di scrittori sul rapporto con la natura.
Le Piccole Persone sono gli animali. La raccolta è una sorta di edizione critica, col recupero di alcuni (pochi) testi già pubblicati, e altri più numerosi del lascito che si presumono inediti, sui temi dell’ecologia, che Ortese ha anticipato di decenni. Della compassione universale, estesa agli animali e alle cose, e della protezione. Testi tutti nuovi rispetto alle due maggiori bibliografie esistenti di Anna Maria Ortese, quella curate da Luca Clerici e quella di Giuseppe Iannaccone.
Angela Borghesi, che ha compilato il volume sulle carte della scritrice all’Archivio di Stato di Napoli, la completa con note ai singoli testi, e con un saggio, “Dio nelle ciliege”, recuperato da “la realtà del Dio che abita nelle ciliege” (“Io credo in questo”, p. 42), che situa Ortese caratterialmente e stilisticamente (con un incongruo accostamento a Mahler, al Maher di Bernstein - molto resta da scoprire ancora di Ortese). Centrato sull’animalismo della scrittrice, esemplato su una lettera da lei indirizzata a Ceronetti l’8 febbraio 1983. Ma la sensibilità è preesistente, già degli anni 1940. Da sensitiva del dolore universale, e più degli animaletti indifesi, formiche, farfalle, lucertole, pipistrelli, il sorcio in bocca al gatto, da sempre. In un articolo per “Il Mattino”, l’8 novembre 1950, già scriveva: “Io ero al corrente, come pochi individui, del terrore che anima quelle deboli creature allorché vengono catturate”.
Heideggeriana senza saperlo, cioè più profondamente  - “autenticamente” nel gergo del Mago (Boghesi ne sottolinea il rapporto con Simone Weil, in una prospettiva sororale, unitamente con Elsa Morante, della “pésanteur” riletta accortamente come “forza di gravità”, in un breve scritto intitolato “Libertà”): “L’universo degli oggetti si è costituito come – da principio dichiaratamente – universo spirituale”. Per la rivoluzione industriale, “chiaramente una catastrofe”, che ha oscurato “la luce dei miti”, quel poco che “«illuminavano»” ieri, “nelle età cosiddette d’oro”.
Visionaria a volte, di linguaggio biblico, ma argomentata. A volte la natura già deprecata diventa bella-e-buona per sé, anche il pastore tedesco Ray che a Capocotta ha sbranato il bambino che custodiva. Ma ragionevole, ecologista non anti-umanista, le invettive alternando alle “reverenze”: “L’animale-uomo ha compiuto  cose che la natura che lo ha partorito ignora e subisce”. E “nessuno degli animali che conosciamo ha affermato il principio della pietà, come l’animale–uomo. La natura conosce soltanto il principio dell’amore in quanto partecipazione di un godimento, e di fronte al dolore ritorna indietro. Ma per l’uomo non esistono limiti, e anche il dolore e la morte egli ha superato con la pietà e la speranza”.  
Al terzo “pezzo” della raccolta, “Uomini e cose” (“Corriere di Napoli, 3-4 settembre 1951) , Ortese sale ancora di un gradino. Concludendo a un’altra evoluzione, intelligente, comunque consapevole, per lo “spirito” che anima l’uomo. Per l’intelligenza della evoluzione stessa. Non c’è altro essere nemmeno lontanamente altrettanto inventivo, costruttivo. “Su una speranza ignota a qualsiasi altro essere vivente”. E non è tutto. “Luoghi e cose” sono “una possibilità”, “in cui la ragione meccanica non abbia più parte, così come tutte le lampade diventano invisibili, anche se nessuna mano le spegne, all’apparire meraviglioso del giorno”.  
Una scrittrice pasoliniana, con gli stessi slanci e furori. Senza lo scandalo. E con capacità autocritica: “Il mio carattere è cattivo, non è buono, non è tenero, e subito, quando incontro presunzione e vigliaccheria che entrano come padroni nel territorio dell’innocenza e della debolezza, vorrei prendere le armi, vorrei prendere una scimitarra, e far cadere delle teste infette”. Ma ugualmente inerme – “”ma mi trasformerei in uno di loro”, i presuntuosi, “e dunque, via il desiderio”. delle armi. E con la stessa capacità critica e profetica. Emarginata probabilmente perché non “in linea” con la “cultura” della Prima Repubblica.
Un altro pezzo del secondo Novecento che riemerge consistente, dopo il crollo della Grande Bonaccia co(mi)nformista. Il Bel Paese che ha perso la facoltà di ammirare potrebbe essere stato scritto adesso. Un testo “storico” sulla non-identità dell’italiano, scritto per il “Corriere della sera” il 19 maggio 1970, in anteprima di vent’anni sul leghismo, avrebbe potuto firmarlo Pasolini - e questo è inquietante.

Anna Maria Ortese, Le Piccole Persone, Adelphi, pp. 271 € 14

giovedì 4 ottobre 2018

Secondi pensieri - 362

zeulig


Confine – “Antica ipnosi bianca” lo dice Giorgio Manganelli, “Viaggio in Africa”, “i confini per cui si muore”. Ma di fatto è stato ovunque sempre un limite invalicabile, di clan o tribù, di famiglia, di persona, un cerchio protettore. Il concetto sussidiario che “la mobilità nomade vanifica la rigidità dei confini” vale solo per le terrae nullius, gli spazi  aperti che sono del primo occupante, e non stabilmente.

Evoluzione – Quella dell’uomo è l’intelligenza dell’evoluzione stessa. Che diventa sua creazione. Sebbene in un mondo che lui non ha creato.
È la creatività. A opera, si sarebbe detto un tempo, dello spirito – dello slancio vitale, del prometeismo. Di uno scarto, una diversa capacità, dell’uomo nella natura, uguale a se stessa – poco evolutiva, sebbene imprevedibile. Non c’è altro essere nemmeno lontanamente altrettanto inventivo, costruttivo. Evolutivo, pur restando lo stesso.

Futuro – Non c’è in alcune lingue. Nel greco per esempio, sostituito dall’aoristo, “tempo indefinito”, cioè il tempo continuo. Quindi non nei dialetti meridionali radicati nel greco più che nel latino. Non c’è “nelle lingue africane del ceppo bantù” (Frobenius), cioè dell’Africa nera.  e non come orizzonte ristretto agli impegni personali, alle cose da fare, utilitaristico.
Il futuro s’impone con la storia. Non in quanto culto della memoria ma in quanto prospettivista o situazionista. Giorgio Manganelli ne ha la percezione in “Viaggio in Africa”, 1970, pp.46-47: “La categoria del futuro come spazio temporale da organizzare pare estranea ai linguaggi che esprimono un modo di essere ciclico, in cui un segmento del tempo non si diversifica qualitativamente  da un altro segmento seguente successivo. Forse fino a qualche decennio or sono, tempo ciclico e tempo continuato potevano sovrapporsi e convivere; ma oggi in qualunque modo, lungo qualunque tavola di lavori ci si orienti, la storia è in primo luogo elaborazione, progettazione del futuro”.

Galileo – La lettera a Benedetto Castelli ritrovata alla biblioteca della Royal Society di Londra da Salvatore Ricciardo, con i ripensamenti e le cancellature, che si porta a prova dell’abiura di Galileo per evitare la condanna della Chiesa, è un tentativo di conciliare verità e fede. Normale per un credente. Non dovuta dallo scienziato, se non come presa d’atto del problema, se è un credente. .  Non un segno d’ipocrisia o di debolezza.
La denuncia di questa lettera, invece, da parte del domenicano Niccolò Lorini, assomma in sintesi le colpe della giustizia quando nuove dal risentimento. Che è quella dei denunciatori di professione: i fanatici, oppure i falliti – ora nella categoria “pentiti”. La lettera di Galileo è più o meno la stessa del denunciante. Ma sono due entità opposte, di un credente e di un mestatore.
Nel giudizio dello stesso papa Urbano VIII Barberini se non del cardinale san Roberto Bellarmino, la differenza è fatta. Galileo “sa”, e sa anche che ciò che sa si deve conciliare con le Scritture, ma non sa come, e non potrebbe saperlo. La “cosa certa” dello scienziato non è definibile in un quadro teologico. Per lo scienziato certamente il quadro teologico resta indefinito e anche nebuloso, senza colpa. In questo campo si rimette all’Autorità.

Intuito – È una ragione “superiore”, sebbene animalesca, istintuale. Corroborata da elementi vari: esperienza, più o meno inconscia, sensibilità, nervi, training, ambiente…  Che però non ne fanno un esito certo prevedibile, al contrario: è una combinazione casuale di elementi dati, materiali.  

Ipocrisia – Da peccato mortale – tradimento, prepotenza, menzogna - passa a veniale: bugia ma a fin di bene, riservatezza, prudenza. A proposito di Galileo – dello scienziato di fronte alla religione o alla teologia. E nel commercio umano in generale: la comunicazione di una notizia che può ferire, una riserva in attesa degli eventi, una sospensione del giudizio in attesa di elementi certi, una forma di cortesia.

Perversione – Si arguisce dello – si riduce allo – stimolo o piacere sessuale, onanistico o di coppia. Fino alla mutilazione e al soffocamento. Ora liberamente, in rete o sui media. E come manifestazione di libertà, obliterando nozione e concetto di aberrazione e follia. La naturalità essendo stata dismessa: il sesso non è più naturale, l’alimentazione non lo è, non c’è fisiologia, non c’è metabolismo, e anche la natura è “comportamentale” – mutevole, adattabile, manovrabile. E non - non più - come eccesso, ma come normalità. Un circolo vizioso, dal rifiuto della normalità alla normalità del rifiuto.
La normalità dell’eccesso è una contraddizione, ma si vuole la regola. Una contraddizione doppia, in quanto accomuna gli opposti e in quanto riafferma la regola che nega.

Progresso – Non è una freccia, ma il motore dello sviluppo è unidirezionale. A più valvole o pistoni ma in un solo senso. Organizza ferreo. Annulla (domina) anche il tempo. E omogeneizza le condizioni di vita, per tutti e ognuno. Macchina incontestabile, indiscutibile. Un bulldozer calcificante: polverizza e aggrega. Dalla sua avendo l’assenza di alternativa, il contrario di progresso essendo il regresso, ipotesi sciocca.
È anche la forza che anima il passato. Come rovina o come reperto archeologico. E anzi il passato  salda al (recupera nel) futuro. Recupera tutto, è solo il presente che salta. La vita alimentando di aspettativa e memoria. Per mantenerla inquieta – l’inquietudine è l’anima del progresso.

zeulig@antiit.eu

Quanto fascismo nell'antifascismo


Il titolo è di un articolo del luglio 1974 sul “Corriere della sera”, di critica della disattenzione in cui si avvolgeva uno sciopero della fame di Pannella lungo ormai di settanta giorni. Per una congiura del silenzio imposta dal Pci, scriveva Pasolini, e dalla D c insieme col Vaticano, attraverso le loro articolazioni nei media. All’indomani del successo al referendum del 12-13 maggio sul divorzio, Pannella aveva ingaggiato battaglia contro gli aborti clandestini. Ma nessuno gli dava udienza, né in Parlamento né al Quirinale, e anche i media tacevano.
Il fascismo perdurante è uno dei temi che ossessionavano Pasolini. Ma pochi interventi denunciavano la censura politica, molto forte a sinistra, oltre che in ambito cattolico. Fascismo era per Pasolini il neo capitalismo, come allora si diceva, la futura società dei consumi.
È contro il capitalismo che Pasolini invocava un vero antifascismo, nuovo, adeguato a tempi, invece che quello, assolutorio, di maniera. Gli antifascisti diceva fascisti se corrivi al neo capitalismo.
Pier Paolo Pasolini, Il fascismo degli antifascisti, Garzanti, pp. 96 € 4,90

mercoledì 3 ottobre 2018

La legge non è uguale per noi

I “matrimoni” combinati da Lucano a Riace possono rientrare nella tradizione della disobbedienza civile – l’altro reato che gli si contesta, la “distrazione di fondi”, è stato liquidato dal gip come “diffuso malcostume”, quindi non incidente. Apparentabile nel caso all’obiezione di coscienza: io ritengo che un immigrato, per quanto abusivo, abbia diritto al soggiorno, e agisco di conseguenza.
Un gesto alla Pannella, purtroppo con la stessa disinvoltura - Lucano voleva “sposare” anche due lesbiche, non lo ha fatto quando ha saputo che non serviva allo statuto di rifugiata. Ma viene fatto valere come un “diritto”: un diritto di infrangere la legge. I giudici di Locri diventano razzisti, il crimine di Lucano si dice sia la solidarietà, i fondi per l’accoglienza si possono dirottare, eccetera.
È la concezione straordinaria, e pericolosa, di una sinistra-non-sinistra in Italia, prevalente nei media. Alimentata da facili entusiasmi. Tutti all’insegna del “noi siamo migliori”. Di un elitismo di basso conio e di bassa lega, che però infetta la relazione politica. Gli stessi osannano i giudici di Agrigento che accusano Salvini di sequestro di persona e di una nave militare. Di una nave militare italiana.

Letture - 360

letterautore


Antifascismo – Inetto – se il fascismo è riemerso, è “vivo e combatte insieme a noi” - perché viziato da un monolitismo fascistoide? È possibile: fa senso rileggere oggi il vecchio ritratto di Montale abbozzato da Nascimbeni, “Eugenio Montale”. Il biografo deve spiegare per tre lunghe pagine, nel 1969, che il poeta non fu fascista. Senza poter dire la verità: che lo si voleva fascista perché persisteva a non prendere la “tessera” giusta. Montale che preferì perdere il posto, direttore del Gabinetto Vieusseux di Firenze, piuttosto che prendere la tessera. E per dieci anni visse di poco, collaborazioni poco pagate e traduzioni affannose.
Questo antifascismo sarebbe durato ancora vent’anni, fin alla caduta del Muro. Ma lo stesso Montale lo aveva denunciato subito, recensendo Corrado Alvaro, “L’Italia rinunzia?”, a maggio del 1945 (la recensione fu poi raccolta in “Auto da fé”). Chiedendosi polemico: “Venivano dal popolo Gobetti e Rosselli, cioè le figure più italianamente ispirate della lunga vigilia antifascista? Erano composte di borghesi le folle che si recavano, in stato di perpetuo delirio coatto, dinanzi allo storico balcone di palazzo Venezia?”.

Calvino – Non rifiutò il “Dottor Živago” nel 1956, come viene detto: ebbe segnalazione vaga di “un romanzo” scritto dal poeta Pasternak da parte di un giovanissimo studente di filosofia a Milano, Vittorio Strada, slavista dilettante, che ne aveva trovato un accenno in una rivista di Mosca all’Associazione Italia-Urss, e non si attivò per saperne di più. Sergio D’Angelo, il giornalista italiano di “Radio Mosca”, portò il manoscritto direttamente a Feltrinelli. Nello stesso 1957 che avrebbe visto la pubblicazione del romanzo, Calvino curava con Ripellino la traduzione di un antologia poetica di Pasternak. E a fine novembre puntava nella promozione dell’antologia con i librai proprio sulla pubblicizzata imminente uscita del romanzo.
Scriverà un saggio su Pasternak apprezzando il romanzo. Ma ancora a novembre del 1958, un anno dopo l’uscita del romanzo da Feltrinelli, ne contestava la pubblicazione in Occidente. Con gli stessi argomenti del Pci, da cui era uscito due anni prima, dopo invasione dell’Ungheria. Un dvd della Feltrinelli, compilato nel 2007 per i cinquant’anni della pubblicazione del romanzo, ripesca un dibattito tv in cui Pasternak e il romanzo venivano criticati, anche da Calvino, con gli argomenti di Mosca e del Pci. Il primo è una puntata dell’“Approdo”, la trasmissione condotta da Gianni Granzotto e Paolo Milano. Tema: “Il caso di uno scrittore davanti alla ragion di Stato”. Silone, Ripellino e Pratolini condannano la censura, in una con la dittatura sovietica. Calvino no: .
“La violenza a Pasternak in questo momento viene tanto dall’Occidente quanto dai suoi connazionali”, argomenta. E “il premio Nobel a Pasternak, attribuitogli con evidenti intenzioni politiche, ha avuto come primo risultato quello di risvegliare le tendenze peggiori della società culturale del suo paese”. Come dire: la colpa è dell’Accademia svedese. “L’insegnamento più prezioso di Pasternak”, conclude, “è il dignitoso riserbo dell’artista di fronte a tutto quanto abbia sapore di ufficialità, e noi lo stiamo già tradendo, noi che stiamo parlando di lui in questa trasmissione”.
Sulla stessa linea un altro fuoriuscito dal Pci, Carlo Muscetta: “Živago? Una noiosa opera di propaganda...”.

Europa – L’Europeo, viaggiando in Africa, Manganelli vedeva, già nel 1971, prigioniero: “All’E uropeo non è concesso in nessun momento di sottrarsi al capillare imperio della legge, dei regolamenti, ordini e divieti; sempre più debolmente potrà schermirsi dalle dissuasioni e persuasioni commerciali e ideologiche”. Peggio: “Poiché sa scrivere gli viene imposta una vita assistita e socialmente garantita  da certificati, documenti, dichiarazioni”. Con più vincoli subliminali se è un letterato: “A seconda del suo grado di solitudine e di frequentazione con la parola scritta gli si offrono i vari conforti dei diari, delle lettere, dei telegrammi, infine dei moduli già approntati e forniti i formule alternative”.
L’Europa è cemento e rovine. Si direbbe un Manganelli reazionario, o in colera – reazionario perché in collera. Ma sa perché: l’Europa è città: “Una città è fatta di case e di strade; tenacemente si stende a obliterare ogni traccia di ‘terra’; questa, sia pianeta, sia humus, sta sotto, nascosta come un’arcaica vergogna dell’Europa, o simbolicamente sepolta. Questa compattezza, questa sistematica occupazione dell’edificio, colpisce il viaggiatore come sintomo tipico e affascinante dell’Europa. Col tempo, gli edifici derelitti intristiscono e decadono, per risorgere poi come Rovine”. Da cui germoglia la Storia, il culto della memoria: “Anche gli scritti, residuati di molte vite, cambiano consistenza e colore: diventano Documenti, si affidano al silenzio di bacheche e archivi. Così, con Ruderi e Documenti, nasce la storia come la intende l’Europa”.
È l’esito di una concezione peculiare del tempo, tutta europea: “Il presente vive come organizzazione e custodia del passato” e “esigua piattaforma su cui di fonda l’invenzione del futuro”. È un tempo senza tempo. Vista nel tempo, nel suo tempo, il continente-città non può lasciarsi vivere casualmente; deve progettarsi, razionalizzarsi, pianificarsi”. Un pachiderma. Non immune ai refoli: “Come un animale poderoso e specializzato, un mutamento d’ambiente non previsto uò paralizzarlo e ucciderlo”. Non ha anticorpi,  “l’artificiale esistenza cittadina può proteggersi sol grazie a una continua rielaborazione dei dati della propria artificialità”. È un monolite calcificato. “La città ignora le stagioni se non come definizioni economiche. È scomparso il ciclo eterno del tempo, e ne ha preso il posto la vessatoria regolamentazione degli orari. La necessità economica sostituisce l’obbedienza cosmica. La città persegue ed elabora il futuro; non soltanto il proprio avvenire ma la categoria mentale, l’ideologia, l’emotività fantasiosa del tempo non ancora esistente”. Come una fuga in continuo.

Inferno – Era l’opposto di superno. Nulla di terribile, prima di Dante.

Pound – Usava un timbro a ceralacca, col suo viso. Montale lo ricorda tra le cose perdute nell’alluvione di Firenze, in uno degli “Xenia”, II, 14: “Il timbro a ceralacca con  la barba di Ezra”.

Primato – Il “quindicinale di cultura fascista” di Bottai, condiretto da Giorgio Vecchietti, ebbe dal marzo 1940, dall’uscita, fino al 25 luglio 1943, come collaboratori: Montale, Pavese, Gadda, Bilenchi, Tobino,Ungaretti, Cardarelli, Quasimodo, Luzi, Sinisgalli, Betocchi, Sereni, Benedetti, Bernari, Dessì, e Giaime Pintor.
Della generazione successiva molti partecipavano – e vincevano – ai Littoriali per studenti, quasi tutto il secondo Novecento.

Totti – C’erano le code a Roma, alle cinque librerie Mondadori, all’apertura straordinaria di notte il giorno dell’uscita del libro di Totti, “Un capitano”, tra mezzanotte e le due di giovedì. Una trovata promozionale riuscita, che ha saputo leggere il tifo romanista – anche se era stata già utilizzata per le ultime uscite di Harry Potter”. Aperte alla stesse ora anche le librerie Mondadori di Albano, Aprilia, Frosinone, Ladispoli, Rieti, Tivoli e Viterbo. Il tifo come fede: dà consistenza, e coraggio.

letterautore@antiit.eu

Pasternak sfugge

L’enigma Pasternak. Compresi gli innamoramenti, anche se poi confluiranno in Lara, la donna che innamora. Battista ripercorre, per fortuna in breve, l’aneddotica nota del poeta, diventato famoso e immortale col romanzo.
Resta sempre da scoprire il continente Pasternak, attraente oltre ogni dire ma inesplorato. L’unico grande poeta dell’epoca sovietica passato indenne tra le purghe. Anzi, mai perseguito per dissidenza - benché aggravato dall’origine ebraica. Neanche quando mandò all’estero il “Dottor  Živago”, la più radicale e popolare critica del regime – in Siberia sarà mandata lei, “Lara”, dopo morto Pasternak. Uomo volage, che scriverà la più appassionante storia d’amore del Novecento. Un poeta e un uomo di cui è difficile configurare un senso di colpa: non ne ha lasciato traccia, nemmeno postuma, e sì che ne avrebbe avuto motivo.
Pierluigi Battista, Il senso di colpa del dottor Živago, La Nave di Teseo, pp. 94 € 8

martedì 2 ottobre 2018

Tutti evasori per Grillo

Lo Stato bancomat. Grillo si divertirà, è una bella trovata. Un colpo senza dubbio aristofanesco, che però inabissa l’Italia. Nell’evasione fiscale. 
Con la pensione sociale a 780 euro nessun prestatore d’opera vorrà più fatturare. Meccanici, elettrauto, carrozzieri, idraulici, elettricisti, pittori, muratori, eccetera, che già facevano a meno della fattura, ora potranno farlo sgravati da ogni peso per l’avvenire. L’economia sommersa, che è ora il 13 per cento del pil (ma l’Istat è buono), a fine 2019 sarà del doppio, e anche di più.
L’evasione fiscale in Italia è, più che dei ricconi in Svizzera, buoni per i media, quella dei prestatori d’opera autonomi. L’evasione è  l’evasione dell’Iva. Non se ne parla perché non c’è da colorarci su, ma il fisco lo sa. E ognuno di noi, felice di non aggiungere l’Iva al 20 - o è il 22 - per cento alla parcella tagliagola del carrozziere.
Però, avere lo Stato provvido bancomat senza avergli mai pagato un centesimo di tasse, a questo Aristofane non era arrivato. 


Il rovescio di Tabucchi

Si parte da vita e scrittura, d’obbligo all’epoca del selfie, per quanto poco romanzesco – è una “Conversazione sulla scrittura”. E, naturalmente, da Pessoa, di cui Tabucchi è l’impersonatore. Per fortuna non sdoppiato, o triplicato, come amava farsi Pessoa, e dal genio anglo-portoghese anzi non sommerso. Ma non altrettanto disimpegnato, anzi partecipe, da ultimo febbrile, in lotta col presente.
Poi vengono Rilke, “il future entra in noi”. Lo specchio, ma che sia taoista, “lo sguardo ritornato”. Per concludere, sempre all’inizio: “L’autobiografia come genere letterario del resto non mi interessa. La vita e la letteratura stanno su piani diversi: la vita si può solo vivere”. Detto dall’autore di “Autobiografie altrui”, un selfie critico a frammentazione di specchi.
Non sempre gli scrittori sono maestri. Di vita o di saggezza. Ma Tabucchi resta narratore, uno dei più creative del Novecento. E anche questo tema ingrate riesce in qualche modo a raccontare. Poi riracconta le sue opere.
“Dietro l’arazzo” viene da “Il gioco del rovescio”, i racconti del 1981. Che Tabucchi condensa così: “Un atto di coraggio e un atto di dimissioni”, a nemmeno quarant’anni, l’autore più apprezzato, “o già, comunque, di ‘ammissione’. L’atto di coraggio consisteva nel dire: guardate, ora mi insinuo dietro il tappeto. E poi l’ammissione: sapete, ci ho provato, ma in realtà meglio leggere la figura che si vede di fronte. Tanto il rovescio non si capisce”. Cose così.
Si sarebbe voluto di meglio, di meglio che una superba ipocrisia, ma bisogna contentarsi. Sul “gioco del rovescio” un’autocritica Tabucchi la accenna anche. A proposito del sospetto, che lo insidia: “La mia posizione rispetto anche alla situazione politica, di cui ogni tanto mi occupo, forse infastidisce molti perché è guidata dal sospetto. Dal sospetto di voler guardare il rovescio delle cose”.
È una conversazione degli ultimi mesi del 2004, proposta dieci anni dopo. Con Luca Cherici, conterraneo e ammiratore di Tabucchi, medico, sembra di capire, di professione. Ma è di fatto un’autointervista: il testo è riscritto da Tabucchi, da quello che  si vede nei facsimili della trascrizione qui allegati. L’intervista è arricchita da un ricordo personale di Paolo Di Paolo.
Antonio Tabucchi, Dietro l’arazzo, Giulio Perrone, pp. 77, ill., € 10

lunedì 1 ottobre 2018

Ombre - 434

Cerano una volta i mezzibusti, pochi, i soliti. Ora lo sono tutti, tutti i politici: passano per dieci secondi l’uno sui tg, dicono tre frasi memorizzate, guardando fisso l’obiettivo, e concludono domandandosi: “L’ho detta bene?”. Un tormento. Inutile, tanto nessuno li ascolta, o ci capisce.

Che bisogno c’è dei politici in tv, anche quando, il più delle volte, non hanno nulla da dire? Simpatici non sono, popolari i più nemmeno. Che essi non sappiano che si danneggiano, é possibile, la politica è da qualche tempo mediocre, molto. Ma che le tv ce li impongano, perché? La tv vuole distruggere tutto?

Un rigore per il Bologna che l’arbitro non vede con l’Udinese, e un non rigore che l’arbitro dà alla Fiorentina contro l’ Atalanta. Due errori ci possono  stare – anche se nella stessa giornata sono un po’ troppi. Ma, richiamati dal Var, a vedere in tv quello che tutti vedono, gli arbitri Manganiello e Valeri confermano i loro errori. È la rivolta dell’uomo contro la macchina? No, è la presunzione del giudice.

Si celebra un’Europa che vince. Nel golf – il golf, sport nobile, accetta la competizione, benché volgare, ma in un campionato continentale. La cosa fa più piangere che ridere. Ma il compianto è la prova tangibile della decadenza.

“Riso cinese in scodelle cinesi. La propaganda mostra il leader fra contadini e operai”. Già visto, si direbbe, l’autarchia contro il “nemico esterno”. In questo caso i dazi di Trump sulla concorrenza sleale cinese. E come tale non viene taciuta: “Nuova autarchia” titola il “Corriere della sera” della Cina. Ne tratta però con ammirazione. Il fascismo è deprecabile solo in Italia.

Non è piena la piazza del Popolo a Roma, che contiene 25 mila persone. Ma i capi del Pd non se ne preoccupano. Concionano per ore, senza una idea o proposta, giusto per monopolizzare i tg.

Impressionante galleria sul “Corriere della sera” di belle donne arabe, giovani, imbiondite, senza velo, in affari, trucidate senza motivo, in Iraq, o imprigionate senza motivo, al Cairo. Cioè no, si sa: sono una sfida al maschilismo, e anche a un certo islam. Donne forse incaute, sovraesposte perché succubi dell’ideologia occidentale, via social. Potrebbero essere le martiri di aggiornamento  dell’islam? Il fondamento dell’islam retrivo e maschilista, anche in Iran, paese di molta civiltà, sono le donne.

Vanno da Giletti su La 7 prima lui, Jimmy Bennett, poi lei, Asia Argento, e come nulla di rinfacciano la violenza sessuale. Lui: “È stata lei, mi ha portato in camera, mi ha spogliato” , eccetera. Lei: “Mi è saltato addosso, mi ha spogliata, mi ha buttato sul letto, di traverso”, eccetera. Non particolarmente feriti. Lui anche a pagamento. La verità della tv è tra esibizionismo e voyeurismo.

Si cercava tra i turisti, erano studenti di Belle Arti i deturpatori del “leoncino” di San Marco a Venezia. Un gesto senza pretese artistiche. Si studia Belle Arti per poi fare l’insegnante. E gli insegnanti non si distinguono più dai vandali, che una volta ne erano l’antitesi.

Si moltiplicano le foto di Macron abbracciato a fusti prestanti di vario colore. Anche se fanno gesti o azioni sconvenienti. Senza che se ne denoti l’omoerotismo. È politicamente corretto non notarlo. Ma a proposito di un ragazzo che ha sposato una donna con più del doppio dei suoi anni?

Hala twitta in arabo e inglese. Da Idlib in Siria, assediata dalle truppe governative. Dice cose del
tipo: “Non vogliamo cibo, vogliamo sicurezza”.Va a scuola a piedi e quindi teme le bombe. Perché
Hala ha sei anni. I giornali italiani sono gli unici che abboccano, alla guerra sceneggiata a Madison
Avenue.

“La babele di imposte nella Ue costa 70 miliardi l’anno”. Tre  o quattro “manovre”. Sei paesi della Ue possono usare liberamente il fisco a trucco – non farlo pagare – per attrarre lavoro e investimenti, o soltanto guadagnarci – per cui magari il lavoro si fa in Italia ma le tasse si pagano nei sei: Olanda, Belgio, Lussemburgo, Irlanda, Cipro, Malta.

Si condanna Bossi per aver dato del “terrone” a Napolitano. Otto anni dopo il fatto. Perché ora la Lega è al governo? I giudici sono di opposizione: otto anni fa Bossi era di opposizione, e quindi impunito.

Si continua a osannare la proprietà delle squadre di calcio come opera di mecenatismo e generosità, mentre è un impiego di capitali. Redditizio. Talvolta senza oneri per i club – le squadre degli sceicchi, che cercano bare fiscali. Talvolta a carico dei club – le proprietà cinesi e americane, a caccia di debitori che paghino alti interessi.  

Il calcio agli strozzini

Non ci sono gli sceicchi in serie A, l’Italia non è glamour, non abbastanza, ci sono gli strozzini, cinesi e americani. Non propriamente strozzini, ma fondi, famiglie e affaristi che si fanno pagare l’8 per cento di interesse annuo, in un mercato in cui va il 2-3 per cento.
È il caso di due dei maggiori club, Milan e Inter. E forse Roma: il bilancio dell’As Roma è opaco, anche se il club è in Borsa, mentre Milan e Inter ne sono fuori.
Cominciò la proprietà indonesiana dell’Inter. Che prestò al club il capitale di esercizio in forma di prestito, facendosi pagare l’8 per cento di interesse. Interesse analogo si è fatto pagare il fondo americano Elliott, ora proprietario, sui prestiti quando la proprietà era del cinese Yonghong Li.
All’Inter la proprietà cinese è meno esosa. Ma si fa anch’essa remunerare. Un presto di 300 milioni, che la proprietà sottoscrive, il club lo paga al 5 per cento.

L'Occidente nasce in Mesopotamia

Poemetti di miti poco frequentati ma che si rivelano fondatori della civiltà occidentale, nella sua duplice versione greco-ebraica. La creazione come divenire: “Quando il superno e l’inferno erano stati compiuti,\ quando gli dei e le dee erano stati generati,\ quando la terra era stata posta e costruita,\  quando Ie determinazioni del cielo e della terra erano state determinate,\ quando canale e fosso erano stati raddrizzati…”. Poi viene il diluvio. La regalità è ordine e apprendimento, conduce l’umanità fuori dallo stato selvaggio. Si cominciano le discese agli Inferi. Con la “selva oscura”. E in alternativa i “morti viventi”. Il poemetto intitolato “Miti della creazione” è la creazione e disposizione di quello che in Grecia sarà l’Olimpo, tal quale. Un Asclepio ricorre, col nome di Adapa.
La violenza è il mito fondante – la vera radice dell’Occidente (se l’Occidnete non è violento non è niente)? L’ultima revisione della storia greca, quella Einaudi curata da Settis, la lega all’antico Egitto. Ma è una storia che comincia con le guerre, una in campo aperto, e una dentro il potere. Il proprio di ua civiltà nomadica, maschile. L’Egitto dei faraoni è un’altra civiltà, matrilineare e materna, sedentaria, agricola peprfino – e forse ha ragione Cheikh Anta Diop, che le dava origini nubiano-africane. 
È la riedizione tal quale del vecchio lavoro di divulgazione dell’assiriologo istriano Furlani, per la collana “La Meridiana” di Sansoni, 1954. L’edizione Mimesis mette in quadro l’opera di Furlani  (1885-1962) e i successive sviluppi degli studi assirio-babilonesi, opera in particolare di Semerano e Pettinato, con un’introduzione dell’assiriologo dell’“Orientale” Pietro Mander.
Giuseppe Furlani (a cura di), Poemetti mitologici babilonesi e assiri, Mimesis, pp. 124 € 9

Ghibli, pp. 93 € 8

domenica 30 settembre 2018

Nostalgia di Craxi

Governo: “La stabilità politica è un valore per la crescita”. Riforma della riforma Fornero: “L’intervento costa ma la richiesta di svecchiamento del personale per adeguare le competenze è veramente forte”. Con Bruxelles “non è una sfida: può non esserci una coincidenza di valutazioni su come operare in modo anticiclico in una fase di frenata dell’economia”. Su ogni tema spinoso Giovanni Tria ha una risposta precisa nell’intervista con Giorgio Santilli e Giovanni Trovati sul “Sole 24 Ore”. Competente non solo, ma ma capace politicamente. Forse perché è l’ultimo socialista perduto nella giungla della Terza Repubblica.
Tria parla il giorno che Rai Uno conferma la scommessa: una serie di prime serate su Craxi. Regista di peso, Gianni Amelio. Su Craxi a Hammamet, tema doppiamente spinoso, perché Craxi vi era contumace.
Si recupera Craxi a Hamamet per uno storione familiare, il rapporto con la figlia, con i familiari. Da uomo orgogliosamente solo. Ma è inevitabile un’operazione nostalgia. C’è nostalgia di buongoverno in questo avvio di Terza Repubblica.

Casanova femminista

“L’uomo e la donna pensano allo stesso modo”. La superiorità dell’uomo è fuori discussione: “È categoricamente certo che Dio creò la donna ad uso dell’uomo”. Ma la donna è solo diversa, non inferiore: “La condizione e l’educazione della donna sono le due cagioni che la rendono differente da noi”.  Un’anticipazione quasi multigender, o no gender, del 1772. Di Casanova - all’epoca se ne poteva questionare, senza danno per nessuno. Un libello scritto per fare un po’ di soldi a Bologna, in fuga da Firenze, inseguito dalle guardie del granduca per aver truffato al gioco 12 mila zecchini a un Lord inglese.
A Bologna Casanova fu protetto da un suo vecchio compagno di bagordi di Parigi, benché noto omosessuale, il cardinale Antonio Branciforte Colonna, che vent’anni prima era stato legato del papa nella capitale francese. E in libreria incontrò un “abate guercio” con la proposta di guadagnarsi qualche zecchino facendo da arbitro tra due libellisti. Due dottori dell’Università. Uno, Petronio Ignazio Zecchini, teorico del “furore uterino” – “Bisogna perdonare alle donne gli errori che commettono”, così Casanova ne sintetizza il libello, “perché a causarli è l’utero, che le fa agire contro la loro volontà”. Il cui oppositore, Germano Azzoguidi, “Madame Cunegonde”, aveva buon gioco a ribattere sulla stessa lunghezza d’onda, ma invertendo la proposizione: le donne pensano come gli uomini, l’anatomia “non ha mai scoperto il più piccolo canale di comunicazione tra esso e il cervello”.
Un libello di Casanova, che non si nega il salace. A proposito dell’utero, e di ogni evenienza. Da Eupolemo Pantaxeno, il nome adottato per lArcadia, con le cui sigle firma il libello. Su mentula costruisce una digressione incatenata, tra il sette (lettere) il tre (sillabe), il quattro (materie).Ma più colto che salace. Scopre i “prestiti”, brevi e lunghi, degli opuscoli che critica da Rousseau e Voltaire.  Spazia da Platone a Moro e Campanella, con proprietà di riferimenti. Ribalta il materialismo di Gorter, medico olandese molto in voga nel primo Settecento, in gara col più quotato La Mettrie, autore di molta divulgazione scientifico-ateista. E ridicolizza l’erudito olandese Gerardo Giovanni Vossio, che, lapalissiano in anticipo, sosteneva “feminas non esse homines”.
Senza eccessi, molto oraziano – “gli uomini che vogliono sapere, non temono ostacoli”, “folli vogliamo raggiungere il cielo”, “l’uomo che fugge (vir fugiens) può sempre combattere”. Con qualche verità anche scomoda: “L’uomo ha tutto in suo potere, e la donna non possiede che ciò che le è donato dall’uomo: ecco la cagione che la donna è più dominata dall’avarizia che dalla lussuria, e che l’uomo è tutto all’opposto” – la lussuria come prodigalità, e liberalità, verso se stessi. 
La contestazione di Gorter assume il contorno di una cosmogonia, quasi religiosa. Assumendosene la “forza agente” quale forza vitale, ma in quanto “spirito universale che anima questo immediatamente creato da Dio globo terracqueo, di cui noi siam figli”. Casanova era (anche) una persona seria, colta. E ben del suo tempo, attivo e organizzato. Il “giovane abate guercio” che lo consiglia in libreria è Francesco Zecchiroli, erudito, intelligente, avventuroso, che sarà rivoluzionario vent’anni dopo, e sottoprefetto a Conegliano della Repubblica Cisalpiana. Il libello Casanova redige in tre giorni, lo manda a Venezia, al protettore Dandolo, col quale briga per un  ritorno da libero in città, per farne stampare 500 copie, le riceve “in non più di dieci giorni” (Renato Giordano nella prefazione), e le vende con successo. Con un  “avvertenza dell’editore” scritta  in francese, in slang  parigino.
Il libello aveva come sottotitolo “Epistola di un licantropo”. Perché, argomenta Casanova divertito, anche certi uomini, i licantropi, hanno i loro disturbi a ogni plenilunio, come le donne. Amano anche loro il lusso. Amano anche loro l’amore. Per concludere autoironico: facciamo questioni di “lana caprina”. Mettendosi al passo con i due litiganti: “tres medici, tres asini”.

Giacomo Casanova, Lana caprina, Elliot, remainders, pp. 69 € 4,50