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sabato 16 settembre 2017

Appalti, fisco, abusi (109)

Nove mesi per chiudere un conto alla Bpm – e non è finita. Un normalissimo conto family. Con quattro giornate perse per adempimenti inutili – del tipo: giustificare il mancato rientro di un assegno trent’anni fa (ci vuole la denuncia in Commissariato, etc.). Per un aggravio totale, senza alcun servizio reso, di 250 euro. Per tenuta contabile, assicurazioni legate al conto, e rinnovo carte di credito dopo aver dispesso il conto per raccommandata R.R. come prescritto.

Non c’è difesa contro gli abusi delle banche. Non alla Banca d’Italia, che probabilmente ha affari più seri da sorvegliare. Ma nemmeno con la associazioni di consumatori – Adusbef nel caso, e Codacons. Il consumerismo si ferma quando i monopoli pagano?

Raddoppia la bolletta Tim, più che raddoppia. Viene postata ogni 28 giorni, un abuso palese: si paga per tredici mesi l’anno invece che per dodici. Raddoppiano di fatto le tariffe dell’elettricità e del gas, caricando costi del tutto anomali per il trasporto, la “disponibilità” (la disponibilità….), la materia energia, la gestione del contatore, che invece non viene mai letto, si va “a calcolo”, in favore naturalmente della utility, in bollette illeggibili. Il tutto raddoppiato con un imponderabile “oneri di sistema”. Ma le associazioni dei consumatori tacciono.

Delittuoso il silenzio delle Autorità di settore, create formalmente a protezione degli utenti-consumatori: la napoletana Agcom, di garanzia nelle comunicazioni, e la romana Autorità per l’energia elettrica, il gas e l’acqua.

L’Agcom scopre oggi, dopo tre o quattro anni che la pratica è invalsa, che il mese di fatturazione dei telefoni è di 28 giorni. E la conclusione è ovvia: evidentemente prepara con le compagnie telefoniche un rincaro delle tariffe in vigore per il “passaggio” da 28 giorni al mese di calendario. Dopo aver multato (minacciato di multare) le stesse – tutte insieme – per un milione. Cioè niente. Forse. E dopo il tira e molla di prammatica, con il solito ricorso al Tar.

Le Autorità di garanzia, create da Prodi vent’anni fa al momento della liberalizzazione dele tariffe, sono organismi burocratci costosissimi, perché si pagano stipendi elevatissimi, e non hanno mai protetto i consumatori-utenti ma il “mercato”, Cioè le aziende di settore. Un comportamento chiaramente illegale, ma mai sanzionato. Nemmeno politicamente. 

Mussolini dittatore al debutto, f.to Hemingway

È un florilegio del giornalismo di Hemingway: 77 articoli, dal 1920 al 1956. Hemingway fu grande inviato e corrispondente – corrispondente per l’Europa del “Toronto Daily Star” e collaboratore di “Esquire”, “Colliers” e “Look”. Giornalista vero, accurate. E assiduo, soprattutto in zone di guerra, al fronte nella prima e nella seconda guerra mondiale, coi Repubblicani nella guerra civile spagnola. Da ultimo racconta ironico le sue stesse “avventure africane”, da naturalista a caccia grossa.
Tradotta in Italia quaranta anni fa – e non più ristampata – la raccolta si ricorda per i tanti incontri con Mussolini. A partire da quello celebre del 1923, quando Hemingway ha appena 24 anni. Un ritratto che fa aggio, a rileggerlo, su molte, più pensose, ricostruzioni storiche.
Nel 1923 Hemingway è inviato in Svizzera, per il “Toronto Daily Star”, 27 gennaio, alla Confereza di Losanna, a Ouchy. Di Mussolini al debutto internazionale dice subito che ha “genio nel rivestire piccolo idee con paroloni” - dunque il Duce non era un arcano, poche settimane dopo l’accesso al potere. Ma dice anche di non poter predire quanto durerà: se quindici anni o se non verrà alontanato presto – dunque sapeva benissimo, come tutti, anche se le leggi speciali erano da venire e il regime era formalmente sempre parlamentare in Italia, che Mussolini era un dittatore. Dittatore è la parola che Hemingway usa, non nomina Mussolini altrimenti. Lo descrive sprezzante con la “italiane in festa” di Losanna, contadine o mogli di contadini immigrati, che lo aspettano in albergo con I fiori. E superficiale:   affronta i giornalisti in conferenza stampa facendosi trovare seduto al tavolo intento a leggere un librone, che un Hemingway curioso sbircia essere un dizionario francese-inglese, a uso dei conferenzieri, tenuto capovolto.
Ernst Hemingway, By-line, Cornerstone, pp. 512 € 10,91

venerdì 15 settembre 2017

Secondi pensieri - 319

zeulig

Capitalismo – La mano invisibile di Adam Smith è la riforma: il capitalismo ha bisogno di essere guidato, da una solida mano riformista. La coppia Schröder-Blair per la Germania e la Gran Bretagna del Millennio, il sindacato nel dopoguerra, F.D. Roosevelt e Keynes (e Schacht) tra le de guerre, i Navigation Act inglesi e Bismarck prima della Grande Guerra.  
Si può anche dire il riformismo un capitalismo oculato – oculato più che occultato. Ma è un processo interno alla formazione capitalistica: il capitalismo senza il socialismo (il riformismo) – o il ferreo regime politico in Cina - è autofagico, sarebbe già finito da tempo. Anche negli Usa si regge grazie alle leggi restrittive del cannibalismo, che con difficoltà pure si passano. Le grandi crisi sono l’effetto di una mano riformista lasca o assente.

Centro Commerciale – Un “non luogo” particolare: nasce e si diffonde per risolvere il problema del parcheggio. Problema di spazio e di costo.  Una immensa piazza, dove si può arrivare liberamente in automobile invece che a piedi, nei cui bagagliai sgravarsi senza fatica del peso degli acquisti, e parcheggiar liberamente, senza limiti di tempo. Il centro commerciale è una liberazione. È la chiave del vivere artificioso dettato dall’automobile. Una via d’uscita, una delle vie d’uscita, dal circolo vizioso creato dal mezzo di locomozione per tutti: velocità-stagnazione, tempo moltiplicato-tempo sprecato, più occasioni (grazie alla mobilità)-meno occasioni (di vita goduta, fra natura e tradizioni).

Morte - ”. Come Budda Nietzsche distingue sottile: “Nascendo morimur”. Ma poi la vita dice morte: “La vita migliore è la morte. La morte è il più alto grado di guarigione. La morte è da considerare il vero fine della vita”. Il mondo si preserva distruggendosi: è il nichilismo. Ma come atto di volontà, creativo.

Natura – “Fulmini e tempeste” Nietzsche evoca in apertura a “Così parlò Zarathustra” come “mondo diversi, liberi poteri senza moralità” e “pura volontà, senza i i problemi di intelletto”. La forza bruta. La natura può sempre sopravanzare qualsiasi opera di salvaguardia, difesa, contenimento che l’uomo escogiti. Anche soltanto per un evento fortuito o occidentale: il ragazzino che mette un piede dentro la solfatara, una mano che allenti la presa di una microunità di forza sulla persona che le acque vogliono trascinare, un tetto poco inclinato, o troppo inclinato. Non è cattiva – non ne ha la volontà. È casuale (imprevedibile). Ma: e se volesse? Di fatto, non solo nelle fantasie del linguaggio. Gli stessi eventi può risolvere per il meglio. Ma allora stupida più che cattiva, anche nei tramonti fiammeggianti. Decide, è ultimativa, ma non sa perché. Non ci si salva dall’uomo, senza l’uomo.  

La natura è violenta, ma quanto è naturale la natura degli uomini? Accumulatrice di dati e idee, tra il culto del passato e il disegno del futuro. Ha memoria e fantasia, e l’istinto a migliorare. Ha un criterio morale e uno estetico.

La morte è la cosa più naturale. È la vita che invece è sorprendente, soprattutto l’inventiva straordinaria concessa agli esseri umani, uno spasso interminabile sotto forma di invenzione e scoperta. C’è vita nella natura, ma di che tipo? Non se ne ha memoria, se non quella dell’uomo – l’archeologia è lettura, interpretazione.

Parcheggio – È il “problema” della contemporaneità in un mondo che si vuole mobile, veloce, ubiquo. Il mondo della velocità è ossessionato, mai in pace con se stesso. È, di fatto, il mondo della stazionarietà: il suo problema è il parcheggio. Trovare un parcheggio, sostare, possibilmente non a un costo, possibilmente a lungo. È il problema del non fare nulla.
Il mondo della velocità esaspera il pendolarismo costante, lento, lungo, faticoso, esaustivo. A nessun fine, se non cominciare a lavorare, o andare a casa. Con l’handicap del parcheggio: quando si è arrivati non si arriva. A Roma si possono impiegare quindici-venti minuti per andare in macchina alla stazione Termini, altrimenti irraggiungibile, anche per il costo o la mancanza di taxi, e spendere mezzora per trovare un parcheggio, trovare il parcometro, trovarne uno che funzioni.
Il mondo della velocità è uno che segna il passo, per un addestramento formale esasperante, anche senza le mura della caserma.

Pudore – Si ridefinisce al tempo del web. La rete è il luogo delle oscenità e le ingiurie che un  tempo erano i vespasiani, e i bagni pubblici in genere, al bar, al ristorante, a scuola, alla stazione ferroviaria. Quindi l’oscenità, o il mancato senso del pudore, non erano vergognosi, avevano solo bisogno di spazio. Lo trovavano nei bagni pubblici perché erano l’unico luogo pubblico anche privato, per un po’, il tempo necessario per esprimersi.
L’oscenità e l’ingiuria hanno bisogno di esprimersi, non si reprimono. Le forme istintuali di reazione si devono realizzare. Senza la violenza sulla persona, che si può imputare a punte istintuali estreme, incontrollabili-indesiderate, l’aggressione verbale è istinto comune. C’è da ripensare tutte le forme istintuali, compresa quella della libertà.

Religione – È l’approdo a volte di chi è insofferente delle chiese. Di Scalfari col papa. Come di Rilke, Nietzsche, Tolstòj, Kierkegaard, che pure fu pastore. E Voltaire, perché no?
Ora della stessa chiesa romana? È il papato di Bergoglio: l’evoluzione decisa del cattolicesimo romano, che resisteva, verso la “religione civile”. Senza più sacramenti né dogmi, o verità rivelata, verso un esercizio di maestria socratica, con in più la pietas.

Tempo – “Time like an ever rolling stream bears all its sons away \ They fly forgotten as a dream dies at the opening day” – H.G.Wells nell’ultima opera pubblicata, “Mind at the End of its Tether”. Il tempo che divora i suoi figli non è una novità: è vorace, mentre è creativo. Ma le creature volano via come i sogni al mattino? Sempre una traccia resta: il tempo è piuttosto un accumulatore.

Web - Il web è ben altro, ma è degno di nota che col web i bagni pubblici sono tornati a essere luoghi di decenza, non più graffitati e perfino puliti, piuttosto che d’indecenza. Il web è il nuovo spazio de pubblico-privato degli istinti liberati.

zeulig@antiit.eu

Stupidario classifiche

L’Itlia è il paese più in salute al mondo - Oms. Seconda viene la Svizzera, terzo Singapore. Ma non è il  paese dove si vive meglio – quello è la Svizzera.

Andrea Iacomini, rappresentante dell’Unicef in Italia, paragona Roma a Rio de Janeiro, per i bambini di strada. Che Iacomini nn sia mai stato a Rio?

I maturandi nelle scuole pubbliche americane sono più deboli in matematica se abitano nelle zone di confine degli Stati (“The Atlantic”).

“Potrebbe l’America avviarsi a un’altra guerra civile?” (“The New Yorker”): “Gli esperti ritengono che c’è un 35 per cento di possibilità di una conflagraziione domestica nei prossimi dieci-quindici anni”.

L’Italia punisce i bestemmiatori altrettanto duramente che l’Arabia Saudita, l’Iran, il Pakistan, la  Somalia, lo Yemen e l’Egitto (Us Commission on International Religious Freedom).

L’Italia privilegia il cattolicesimo più di quanto l’Egitto (e la Somalia, l’Iran, etc.) privilegi l’islam (Id.).

Dio salvi Heidegger, da se stesso

Si riedita tascabile la traduzione vent’anni fa dell’intervista che il filosofo fece con “Der Spiegel” nel 1966, con Georg Wolff e col direttore-editore del settimanale Rudolf Augstein, a condizione che fosse pubblicata postuma. L’intervista, pubblicata il 31 maggio 1976, subito dopo la morte del filosofo, viene qui presentata come se fosse la spiegazione del nazismo di Heidegger. Così il settimanale tedesco la presentava. Con un richiamo in copertina (la copertina era sulla “Paura della scuola”, con un bambino perplesso): “Conversazione di Der Spiegel con Maritn Heidegger – Il Filosofo e il Terzo Reich”. Mentre è importante semmai al contrario, perché questa spiegazione latita, anche a futura memoria. E anzi, per chi sa leggere il gergo heideggeriano, è una sorta di attesa aurorale, di velato richiamo alle armi – del tipo: abbiamo perso ma ci rifaremo.
L’intervista è preceduta, per due terzi del libro, da un saggio di Alfredo Marini, “La politica di Heidegger”. Articolato. Esauriente? No, perché il fatto è semplice: Heidegger era un nazista, caratterialmente e politicamente. È la sua filosofia quindi che va letta su questo presupposto, non viceversa. Marini legge l’impegno politico alla luce dell’opera, e allora tutto è possibile – l’opera consta di 120 volumi, almeno 120… Non è il solo, anzi la sua è la procedura corrente. Mentre l’impegno politico è un fatto, e quindi è al contrario che la lettura dell’opera va fatta. Poco importa che si nobiliti per conseguenza il nazismo, poco o molto - o, se c’è, è inutile cancellarlo, fare finta di no.
Si finisce altrimenti con Bourdieu, “L’ontologia politica di Martin Heidegger” (tradotto “Führer della filosofia? L’ontologia…”), che fa di Heidegger un campione della “dissimulazione”, volendo argomentare il contrario. Bourdieu critica chi trascura l’autonomia dello “spazio filosofico” rispetto all’impegno politico. Ma poi mostra come questi spazi Heidegger articoli nell’“ambiguità”, e non a caso o per errore, ma per una precisa strategia di comunicazione. Ha dovuto, ma di più voluto, atteggiarsi, per una sua propria idea del suo pensiero e del suo spazio pubblico. Filosofata peraltro, già da “Essere e tempo”, e poi in più luoghi. Il tacere dicendo giustamente una parte costituiva del discorso. Fino poi a fare del silenzio la scaturigine del linguaggio – come di fatto è. Distinguendo, certo, tra la reticenza, il Verschweigen, e il passare sotto silenzio, l’Erschweigen, il corpo fertile del non detto. Uno che sapeva cosa voleva quando non voleva dire. Da qui allusioni, sottintesi, qui lo dico e qui lo nego, affermazioni-distinzioni. 
Ciò non gli ha impedito di “produrre” un “discorso filosofico”, indenne anche da condizionamenti politici o partitici, ma senza spiegare le strategie linguistiche, le ragioni del dire e non dire – non potevo, non era possibile, non ho avuto il coraggio, una qualsiasi ragione. In realtà Heidegger fino all’ultimo, all’intervista che ha voluto postuma con lo “Spiegel”, non ha disgiunto il “discorso filosofico” dall’impegno politico. Senza secondi fini, era così. Allo “Spiegel” dice: “(I francesi) quando cominciano a pensare parlano tedesco”. E l’intervista, sarebbe stato bene dirlo, era a domande concordate, e a testo rivisto. Non una conversazione estemporanea. Concordata su iniziativa e progetto di un giornalista, Georg Wolff, che era stato in guerra capitano delle SS, e poi agente dei servizi segreti federali. 
Marini, che si definische “heideggerista”, scrive pensando tutto il contrario: Heidegger non era nazista. Anche recentemente, un anno fa, sul “Corriere del Ticino”, ha ridotto lo scandalo dei “Quaderni Neri” del filosofo a una bega editoriale: all’“incapacità” di Peter Trawny, incaricato dell’edizione, che essendo stato per questo rimosso dall’incarico (ma non si è dimesso?), si è vendicato. Ma Heidegger è stato antisemita. Come quattro quinti dei tedeschi. A differenza dei quali, dopo, non ha avuto una parola di cordoglio, una sola.
Martin Heidegger, Ormai solo un Dio ci potrà salvare, Guanda, p. 169, ill. € 13

giovedì 14 settembre 2017

Ombre - 382


Singolare difesa del Procuratore Capo di Santa Maria Capua Vetere che nel 2008 inguaiò Mastella, la moglie di Mastella, il partito di Mastella, e il governo Prodi, con accuse ora rivelatesi senza fondamento: “Ho solo fatto il mio dovere”. Il suo dovere è abbattere governi e persone? Non ha nemmeno interrogato la persona che delle malefatte di Mastella & co. avrebbe dovuto essere la vittima, l’ex sindaco Antonio Bassolino – quello che, chiamato dopo nove anni a testimoniare, ha scagionato Mastella e i mastelliani.

“Come ci insegnava il grande  professore Leopoldo Mazzarolli, con la giustizia amministrativa è fattibile tutto ciò che è possibile. Tutto e il contrario di tutto”, sostiene l’avvocato Pietro Longo, a proposito di Berlusconi che vorrebbe riabilitato. Il “grande professore Mazzarolli” è vero, non è inventato: eminente amministrativista, è morto un anno fa, o due.

Il ricorso di Berlusconi alla Corte Europea di Strasburgo contro la decadenza dal Senato è del 2013. Verrà deciso, forse, il 22 novembre, dopo quattro anni e mezzo. Ma la sentenza non sarà disponibile prima di sei-dodici mesi. È l’Europa che copia l’Italia, o l’Italia non è un’eccezione, è proprio l’Europa?

Lo ius soli è semplice: non si può impedire a uno nato e cresciuto in Italia di essere italiano. La mancanza di una legge obbliga però lo stesso a pratiche interminabili ogni anno, per la residenza, e a ogni evento, iscrizione alla scuola, ricovero in ospedale, matrimonio, etc. – per non dire del passaporto se vuole viaggiare. A costi esorbitanti per la Pubblica Amministrazione. Cpme definire un Parlamento che rifiuta di discuterne?

Ma criticano questo Parlamento soprattutto gli stessi che al referendum lo vollero – e fecero propaganda accesa per questo – irresponsabile e inerte. È vero che il Parlamento esprime la società che lo elegge.

Il Parlamento si disinteressa dello ius soli, una legge solo necessaria, anche solo per liberare i ventimila funzionari dell’Interno addetti a pratiche inutili. Ma trova il tempo per il reato di propaganda fascista. Per lavarsi le mani.

Tre ciclisti russi, esclusi dai giochi di Rio dalla Wada, l’agenzia anti-doping, per essere stati citati dal rapporto MacLaren sull’uso dell’epo, non hanno trovato i loro nomi nel rapporto, quando infine sono riusciti a procurarselo, e ora citano la Wada per danni. C’è del marcio, molto, nell’antidoping, soprattutto nella Wada (caso Schwazer e numerosi altri), ma non si vuole vedere. Il politicamente corretto è per gli stupidi?

La stessa Wada ora, per evitare altre cause per danni?, assolve 95 dei 96 atleti russi esclusi dai giochi: non aveva prove che fossero drogati. Ma è un’agenzia internazionale antidoping o una Cia? Tutto si basa su un russo informatore della Cia, che la Wada non è mai riuscita a interrogare, in tre anni. Non perché Putin lo impedisce ma perché la Cia lo “protegge” negli Usa. I servizi segreti americani non trovano altra ragione di essere che la guerra fredda, il vecchio schema Usa-Uras. 

Fabrizio Micari “rompe gli indugi” – titolo di “la Repubblica” - appena fatto l’accordo sul suo nome tra Renzi, Leoluca Orlando, Crocetta e Alfano come candidato di sinistra alla Regione Sicilia, e va a rendere omaggio a Mario Ciancio Sanfilippo. Che è l’editore del giornale “La Sicilia” di Catania, ma è anche inquisito per mafia, con rinvio a giudizio. Questo Micari stupido non dev’essere, è anche rettore dell’università di Palermo.

Lorenzo  Cremonesi fa sul “Corriere della sera” un ritratto lungo due pagine di uno dei capetti del  racket dell’immigrazione a Sabratha. Lo fa con “il servizio di intelligence della polizia locale”. Sembra di sognare, Sabratha come Mosca, Berlino, Washington.

Da Napolitano a Minniti: le politiche dei respingimenti, più o meno mascherati, passa per i due ministri dell’Interno ex Pci. Un caso?

Presto le Ong faranno a pezzi Minniti. Non è una previsione, è una constatazione, seppure anteveggente: è nella natura delle Ong, l’umanitarismo è affare intoccabile.

Il monumento Victor Hugo, grottesco

Poco tragica, molto grottesca, questa “vita” di Hugo. Un libello, non una biografia, contro l’opportunismo, il poligrafismo, la poligamia. Il poeta non è simpatico a Ionesco da giovane, quando scrisse questa “Hugoliade” per una rivista rumena, nel 1935, un’esercitazione in biografismo antiapologetico. E nemmeno da grande, quando la ripescò e, benché frammentaria, la propose in volume, dopo i successi parigini, nel 1982. Una presenza però costante, questa di Hugo in Ionesco. Che ne imiterà anche un titolo: “Le Roi s’amuse” è ricalcato sull’hugoliano “Le Roi se meurt”.
Si direbbe una prima espressione degli umori crudeli (“assurdi”) di Ionesco. Ma Hugo meritava. “Hugoista” all’eccesso, anche in morte della figlia, episodio su cui Ionesco si dilunga. Opportunista politico senza vergogna: bonapartista, legittimista, orleanista, repubblicano, non c’è cambiamento di regime in Francia che non l’abbia trovato compiacente. Versificatore incontinente. Troppo spesso senza urgenza. Organizzatore assiduo della propria fama, dapprima con la regia della madre. Bigamo spudorato, alla fedele moglie Adèle affiancando Juliette Drouet prima e poi Thérèse Biard, che finirà in manicomio – già il padre, figlio di un falegname, generale e conte di Napoleone, aveva abbandonato moglie e figli per un falsa contessa spagnola. In proprio, il poeta del perdono, della bontà e dei buoni sentimenti fu cattivissimo coi suoi critici, in parole e in opere (li faceva licenziare).
Ionesco eccede. Il genio teorizza come un fallito – “un’alta spiritualità non si abbassa mai a sposare il genio o il talento”. E in un centinaio di pagine non dà respire al “Monumento”. Più che se stesso, il suo Hugo fa primo dei letterati che satireggerà in teatro, nella “Lezione”, nelle “Vittime del dovere”.
Eugène Ionesco, Vita grottesca e tragica di Victor Hugo

mercoledì 13 settembre 2017

Il mondo com'è (316)

astolfo

Hartz IV – Il nome, e la cosa, risuscitano con Macron in Francia? Si vuole il miracolo economico tedesco di questo decennio dovuto allo Hartz IV, il complesso di norme che l’1 gennaio 2005 liberalizzò il mercato del lavoro in Germania. Ultimo atto di un programma chiamato Agenda 2010. Preceduto da altri pacchetti Hartz, a partire dal 2002, intesi ad alleviare la disoccupazione, che colpiva quasi cinque milioni di persone.
In realtà la deregolamentazione estrema del lavoro fu opera in Germania non tanto di Peter Hartz, da cui prende il nome, ma della socialdemocrazia europea. Del cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder e del premier britannico Tony Blair, che ne fecero un manifesto, “Europe: The Third Way/Die Neue Mitte,” 1999. Hartz presiedette la commissione di riforma a Berlino in quanto manager della Volkswagen, il gruppo di cui Schröder, in precedenza a lungo governatore della Bassa Sassonia, era stato a questo titolo azionista di riferimento, al 20 per cento.
La deregolamentazione del mercato del lavoro si è potuta imporre per il ruolo del sindacato, che è in Germania antitetico a quello italiano. Ha sempre escluso lo sciopero generale in quanto forma di azione politica. E si limita a proteggere il salario, non necessariamente anche l’occupazione – si poteva licenziare in Germania anche prima. Protegge il salario, peraltro, solo in due maniere. Come contrattazione aziendale, del salario legato alla produttività. E per tenere conto dell’inflazione. Tutto quanto è normato per legge per il sindacato tedesco non è terreno di battaglia: si obbedisce a basta. Le norme di Harz IV - la liberalizzazione, del posto e della retribuzione, in cambio di sostegni sociali agli esclusi - sono legge, e il sindacato non le contesta.
Il sistema funziona? Al costo sociale di una decina di milioni di soggetti variamente assistiti, su una forza lavoro di 42 milioni di persone: integrazioni di reddito, cure sanitarie, affitto della casa. Sulla base di un sussidio disoccupazione-incapienza di 409 euro al mese, volutamente basso per obbligare  i beneficiari ad accettare un lavoro qualsiasi. Su tutto vigila un sistema di monitoragio coercitivo, che non discute ma sanziona. Costituito da 408 JobCenter, dotati di molta autonomia, ma nell’ottica della riduzione dell’assistenza.
Malgrado questa politica restrittiva, a fine 2016 i benefici sociali del pacchetto Hartz IV si applicavano a sei milioni di persone. Di cui 2,6 disoccupati in base alla terminologia statistica ufficiale. Più 1,7 milioni di “disoccupati non ufficiali” – tenuti fuori dalla statistica della disoccupazione con “misure di attivazione” (formazione, tirocinio, a un euro l’ora, mini-jobs). Più 1,6 milioni di minori, figli dei beneficiari.  
Le cifre lusinghiere della disoccupazione nascondono una realtà degradata. Un milione di posti di lavoro sono a tempo – erano 300 mila nel 2000. La percentuale dei lavoratori poveri, che guadagnano meno di 900 euro al mese, è salita nei dieci anni dopo Hartz IV dal 18 al 22 per cento. Molti di loro, due milioni mediamente (portando così il totale dei sussidiati da sei a otto milioni), hanno bisogno di forme di assistenza, per fare la spesa, per curarsi, per una abitazione. E le statistiche non tengono conto dei mini-job, il sistema misto di benefici sociali e paga ridotta, portata ultimamente da 420 a 450 euro, al mese. Un secondo, o un terzo, salario nella famiglia, ma non un posto di lavoro.
In generale, le retribuzioni del lavoro sono in libera caduta, e spingono la Germania verso la deflazione. Evitata grazia al boom costante delle esportazioni, che beneficiano del dumping sociale. Il circolo è vizioso: finora ha funzionato per il meglio, ma è minato. Anche perché, se ha attivato una forte capacità di capitalizzazione delle imprese, questi benefici però solo in parte ritornano sul mercato. Non, per esempio, sulle banche, gravate da sofferenze quasi italiane.
Il pacchetto Hartz, dalla Germania poi imposto più o meno ai partner europei, ha indebolito, probabilmente a titolo definitivo, la socialdemocrazia. Che da allora ha perso competitività politica, diventando minoritaria. È il ruolo, e l’involuzione, prossima alla cancellazione, che ha avuto in Italia l’ex Pci, che ogni liberismo ha adottato e protegge. Blair ha dovuto lasciare per le bugie sulla guerra all’Irak, non rimpianto dalle Trade Unions. Schröder, sconfitto nel 2005 alle elezioni politiche dalla Cdu-Csu, la democrazia cristiana di Angela Merkel, si è dedicato agli affari – è consulente di aziende russe, quelle legate a Putin.
Peter Hartz è un imprenditore, già direttore del Personale della Volkswagen fino allo stesso 2005. Quando si dimise in seguito a uno scandalo di cui fu ritenuto colpevole: mazzette vere a manager VW da aziende fittizie,e subornazione dei sindacati, in denaro e altri favori, e con bordelli di proprietà liberamente fruibili, compreso il Viagra, prescritto dai medici aziendali. Hartz si riconobbe colpevole, ebbe una condanna lieve, a due anni con la condizionale, più una multa (575 mila euro), e vive da allora in Francia. Dove si dice sia il consigliere segreto di Macron.

Totti – È il genius loci, che dunque c’è. Dell’Olimpico e forse della capitale, con i quali l’ex capitano dell’As Roma si è identificato per quasi un quarto di secolo. Pur stando sul campo, in mezzo ad altri ventuno atleti, e per di più muto. Alla partita della stessa squadra nello stesso stadio che la tv mostrava martedì Totti presenziava, in giacca e cravatta, ma non era la stessa cosa: la partita si è svolta come se fosse una corsa di ventidue senza senso. Magari tra squadre con più qualità di quelle con Totti. E del resto nella coppa dei Campioni, il match dell’atra sera, l’As Roma ha per lo più dato brutte e bruttissime prove, la Roma di Totti. Magari anche di atleti uno per uno migliori di Totti, per questo o quell’abilità particolare. Ma i luoghi si identificavano con questa presenza, non più in campo – per assenza.

Zambeccari – Uno Zambeccari, patriota repubblicano, ispirò nientemeno la repubblica Riogradense, o Rio Grande do Sul, staccatasi negli anni 1830 dall’impero del Brasile, che attirò gran numero di fuoriusciti, italiani, francesi, spagnoli – i più baschi, francesi e spagnoli. Ne perpetua il ricordo Garibaldi, che fu  uno degli espatriati, nel memoir redatto da Dumas: il presidente della repubblica di Rio de Janeiro, Benito Gonçalves, aveva come segretario uno Zambeccari, “figlio del celebre aeronauta perduto in un in viaggio nella Siria”.
Deve trattarsi di Livio, figlio del conte Francesco Zambeccari, bolognese, pioniere a Londra e a Parigi del volo aerostatico – dopo aver militato nell’esercito spagnolo. Una sua ascesa celebre fu quella sopra Venezia, alla punta della Salute, il 15 aprile 1784, immortalato da Francesco Guardi in un quadro ora alla Gemäldegalerie di Berlino. Il conte fu anche uno dei primi a superare i tremila metri di altezza in volo. Trovò pure il tempo di arruolarsi nella Marina russa, e di essere fatto prigioniero dai Turchi, per un paio d’anni. Ma morì in ascensione a Bologna e non in Siria, nel 1812, per l’incendio del pallone “a doppia camera” che stava sperimentando.
Cospiratoria e coperta fu invece l’attività del figlio Livio. C’erano aeronauti (Comaschi et al.)  tra i giovani dei moti anti-pontifici degli anni 1820-1830, ma Livio non si appassionò di palloni. Fu costretto all’esilio a 19 anni, nel 1821. In Spagna e poi in Sud America. In Argentina combatté contro il dittatore Rosas, poi passò nel Rio Grande do Sul. Nella posizione di prestigio che Garibaldi ha voluto immortalata. Fu però catturato dagli imperiali brasiliani, nel 1836, e tenuto prigioniero tre anni. Parteciperà in Italia ai moti mazziniani degli anni 1840 in Romagna. Nel 1848 comandò il battaglione volontari Cacciatori del Reno, in Veneto. Per la Repubblica Romana comandò il forte in Ancona. Fu poi in esilio in Grecia, e dal 1854 in Piemonte. Fu volontario al Volturno, alla fine dell’avventura dei Mille, meritandosi da Garibaldi il titolo di Generale dell’Esercito Meridionale. Ma Zambeccari ora solo si occupava di massoneria: nel 1859 fondò a Torino il Grande Oriente d’Italia, di cui fu Gran Maestro, fino alla morte nel 1862.

astolfo@antiit.eu

È di Hemingway il capolavoro della Grande Guerra

Riletto, avvicinandosi Caporetto, di cui è l’apoteosi, è il Grande Romanzo della Grande Guerra, e anche del Novecento – uno dei maggiori: un “Guerra e pace”, ne ha limpianto. Solo andrebbe sfrondato della traduzione leziosa di Fernanda Pivano, quasi vernacolare, un birignao presto sorpassato - gli Oscar, che s’inaugurarono felicemente nel 1965, e inaugurarono il tascabile italiano, con questo romanzo, vendendone in poche settimane 600 mila copie, potrebbero fare lo sforzo.
Un romanzo non vitalistico, come lo Hemingway successivo si vorrà: triste, quasi cupo. Evocativo, eroicizzante, ma su sfondo di morte, onnipresente. Il vero romanzo della vera guerra, come sarà di Céline – non altrettanto epocale come il “Viaggio” di quest’ultimo perché di autore non maledetto? Subito il lettore viene immerso nell’insensatezza, nella confusione del volontario straniero in un paese straniero, in una strategia e una tattica di cui nessuno nulla sa. E ascende via via fino ai due culmini. Della storia d’amore che si rivela inavvertito, e finisce nella morte, al parto - come di un Dio invidioso che tronca la felicità con la morte, con due morti, del bambino che deve nascere e della madre. E della guerra che si conclude nella ritirata, e nelle fucilazioni ad arbitrio degli sbandati - con “la freddezza e il controllo di se stessi degli italiani che sparano e non sono sparati”. Quasi un docu-romanzo, più che un’opera di stile, alla Céline, e per questo monumento più vero nelle lettere del Novecento alla guerra vera.
Di scrittura sempre nitida. Di tematiche antiche e profonde. È il romanzo, tra i tanti temi, dell’acqua - della madre assente, della vita sfuggente: dei fiumi, dei laghi, delle pozzanghere e gli abbeveratoi, della pioggia che è incessante. Le stagioni si succedono ma nient’altro di esse è rilevato, non i colori, non gli odori o i colori, giusto la pioggia. E della guerra solo morti si vedono, casuali, ordinarie.
Un addio alla vita anche, seppure di un giovane ventenne, più che alle armi – dopo sarà un’altra vita. Con strane riprese, trent’anni più tardi, e in clima dittatoriale, nel “Dottor Živago”. Una storia di vinti: “Sei morto. Non sai nemmeno perché. Non hai avuto mai il tempo d’imparare”. La guerra il protagonista rifiuta, con la ritirata, ma senza colpa - né tarde professioni di antimilitarismo alla Barbusse, cui Céline si ispirerà, che legge ma non apprezza. Senza disertare, che non è possibile, ma sottrarsi sì.
Ernst Hemingway, Addio alle armi


martedì 12 settembre 2017

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (338)

Giuseppe Leuzzi

Sudismi\Sadismi
“Per noi che siamo beduini, gli accordi sono un fatto di sangue”.
“Io sono calabrese, ed anche per me, per la regione da cui provengo, conta il sangue”.
È il resoconto dell’incontro tra il ministro dell’Interno Minniti e i capi tribù libici, convocati al Quirinale per un tentativo di pacificazione. Lo racconta “L’Espresso” faceto, ma questa era la cronaca del quotidiano milanese “Libero” il 4 aprile – solo di “Libero”.

Il pezzo di carta
Non ci si laurea prima dei trent’anni, in media, in molte università del Sud secondo le graduatorie del Miur pubblicate dal “Sole 24 Ore”. Per essere più precisi, le università dove l’età media dei laureandi è sui trent’anni sono tutte del Sud: Camerino 27,8, Teramo 28,9, “Dante Alighieri” di Reggio Calabria, 29,  Link Campus di Roma (iscritti in prevalenza meridionali) 34,2. Tutti esamifici, peraltro, più che centri di studio e formazione, anche se pubblici come istituto, a Teramo e Camerino. La “Dante Alighieri” di Reggio è una università privata per stranieri, come l’analoga di Perugia (che viene poco sotto per l’età media dei laureandi: 27,7), ma è aperta agli italiani – ha un migliaio di iscritti.
Analoga la graduatoria a rovescio per quanto riguarda la durata “media” dei corsi di laurea: il peggio è al Sud – eccetto una altrimenti ignota “Humanitas University”, mezzo latina e mezzo inglese, di Rozzano in provincia di Milano. Alla “Parthenope” di Napoli, l’ex Istituto Navale, oggi legato per Ingegneria a Apple, ci vogliono 8,6 anni. Seguono la “Dante Alighieri” di Reggio, con 7 anni, e l’università della Basilicata, 6,5.
Dietro questi lunghi corsi di studio si immaginano molte spese per viaggi e soggiorni fuori sede, molte bugie, esami passati per caso, e infine una laurea senza valore – in molti casi neppure legale. E una pratica sociale più sciocca, nel 2017, che arretrata: oggi s’immaginerebbe che tutti sappiano che gli studi hanno valore se danno una professione e una specializzazione. In sé, sopratutto se subiti, contro ogni interesse e volontà, sono uno spreco, di denaro, che per molte famiglie è raro, e di opportunità: uscire dall’università, tanto più se fantomatica, a trenta anni con un pezzo di carta inutile segna a una vita da niente. Da disadatti. Senza studi, in realtà, e senza un mestiere.
Di questa folle vaghezza del pezzo di carta fanno le spese anche alcune università pubbliche, per il numero elevato, e il relativo costo senza ritorno, degli abbandoni. Tutte, anche queste, meridionali -  a parte la solita “Humanitas University” di Rozzano. Dopo Rozzano, dove “si laurea” solo il 2 per cento degli iscritti, viene Napoli II (ora “Luigi Vanvitelli”), con un 11,5 per cento  di laureati sul numero degli iscritti. Terza la “Magna Graecia” di Catanzaro, seconda università calabrese per numero di iscritti, 12,2. Quindi la Basilicata, 12,8. E Salerno, 14,1.  

La minoranza si vuole superiore
Degli Albanesi venuti al seguito di Catriota, si operò con insistenza la latinizzazione. “I vescovi cattolici”, racconta l’“illuminato” Bartels nelle “Lettere dalla Calabria”, “gelosi dei Greci che si formavano sotto di loro, si unirono ai baroni, i quali mal sopportavano che un numero consistente di loro sottoposti fosse esentato da ogni imposta, com’era il caso soprattutto degli abitanti della città di Corone fatti venire da Carlo V, e dei preti con le loro mogli e i loro figli”. Gli Albanesi erano di rito greco.
Ma presto, più che l’ortodossia, preoccupò Roma “l’ignoranza crassa che si era diffusa” tra gli Albanesi di Calabria, continua il viaggiatore tedesco, futuro borgomastro a vita di Amburgo. Clemente XII creò allora un collegio greco, “Benedetto Ullano”, perché vi si temessero corsi di morale e di teologia per i preti-pope. “Il primo istitutore fu monsignor  Rodotà (il bibliotecario vaticano, n.d.r.), nominato arcivescovo in partibus ma sottoposto al vescovo di Bisignano. Dopo la morte di Rodotà, continua Bartels, “il collegio è decaduto; e se prima, grazie alla sua opera, un po’ di civiltà penetrava tra questi montanari, ora non  v’è nemmeno l’ombra”.
E tuttavia – conclude Bartels: “E tuttavia gli Albanesi si credono superiori, e non di poco, al resto dei Calabresi”. Come tali sono risentiti nei comuni limitrofi e in quelli misti.

L’antimafia manzoniana
Una megastruttura balneare a Nord di Reggio Calabria, l’Oasi di Pentimele, è stata oggetto per anni di “atti vandalici”, il nuovo nome che si è deciso di dare ai vecchi “avvertimenti” mafiosi – il genere: se non paghi sarà sempre peggio. Tutti denunciati all’autorità giudiziaria. Senza esito. Finché un anno fa il Prefetto non ha notificato ai gestori una interdittiva antimafia. Provvedimento di natura “cautelare e preventiva”, secondo i codici, che però ha effetto immediato: esclude i gestori da ogni contatto con la Pubblica Amministrazione, e quindi dal rinnovo annuale della concessione.. Senza nominare un supplente o commissario ad acta, per i necessari adempimenti burocratici della struttura. E senza avviare procedimenti penali contro i gestori stessi.
Gli “atti vandalici” invece hanno continuato a essere perpetrati. Con danneggiamenti di varia entità.  Ma cadenzati; cioè non casuali, per ubriachezza, teppismo, dispetto. Senza alcun accertamento penale da parte degli inquirenti.
Il Prefetto ha “messo le mani avanti”, si è premunito. Ma Manzoni, che pure ne ha analizzate tante, dei predecessori del Prefetto, di questa si sarebbe meravigliato.

Sicilia
Garibaldi si apprestava a liberarla già nel 1848. Passato in Svizzera dopo il fallimento del ’48 a Milano, era rientrato nel regno sabaudo, a Genova. Dove, dice Dumas, “accettò la proposta della  deputazione siciliana di recarsi in Sicilia per sostenere la causa della rivoluzione”. È il primo schema dei Mille. Ma come sarebbe andata nel ’48, sarebbe stata un’Italia repubblicana? Un’Italia che si sarebbe liberata partendo dal Sud?
Garibaldi era anche partito per la Sicilia: “Con trecento uomini si diresse a Livorno”, dice Dumas. Ma al momento d’imbarcarsi seppe della  Repubblica Romana, e cambiò itinerario.

Fa grande caso Dumas nelle sue opere più tarde - specialmente ne “I garibaldini”, dove lo ritrova tra i sobborghi marinari (allora) di Messina, dai nomi beneauguranti di Pace e Paradiso - del capitano Arena, persona e personaggio del suo romanzo di viaggio “Lo speronare”, insieme col giovane militare francese esule De Flotte: un siciliano dal “volto buono, sempre sereno, anche nella tempesta”. Una figura che avrebbe servito molto all’immagine, oltre che alla psicoanalisi, del Siciliano. Ma in Sicilia, dove pure si ama il feuilleton, il Dumas sicilianofilo è snobbato, praticamente sconosciuto.

Anche la Sicilia ha il suo “miracolo Shangai” quest’anno, come la Calabria. Anzi più miracoloso: l’università di Palermo è classificata dall’Arwu (una sorta di Anvur) dell’università Jaotong di Shangai “tre la prime cinquecento in tutto il mondo”. Cinquecentesima (è la sedicesima tra le università italiane )?

Prefazionando la mostra che la Rai venticinque anni fa dedicò ai grandi scrittori siciliani fotografi, Verga, Capuana e De Roberto, Sciascia caratteristicamente li diminuisce: erano dilettanti, comunque incapaci di leggere l’immagine, non come Barthes, o come questo o come quello. In genere, come i francesi. Per esempio Zola: quando Capuana a Roma spiegò a Zola come la fotografia fosse utile alla scrittura, Zola, dice Sciascia, lo compatì, come se gli offrisse delle foto spinte. E anche lui compatisce Capuana, non Zola – la cui moglie Alexandrine invece aveva capito benissimo, e lo ha anche scritto.

Non c’è paragone tra Sicilia e Calabria per l’accoglienza. La qualità dei servizi, la pulizia, la continuità, la cura - degli spazi pubblici, della casa e dei borghi, della cultura, dell’innovazione, dell’agricoltura, dei manufatti, specie artigianali. Per tutto. Eppure un siciliano ritiene un calabrese uno alla apri, e viceversa, la Calabria spesso pensa di surclassare addirittura la Sicilia. Effetto di una vecchia tradizione – i Normanni arrivarono in Sicilia dopo un secolo in Calabria, nel Trecento? O dell’emigrazione: ancora nel Quattrocento, molte maestranze erano a Palermo calabresi? O del Risorgimento - i moti, carbonari, massonici, liberali, partirono a Reggio prima che a Messina? O della nuova specialità, le mafie?

Ma c’è - per la contiguità territoriale? per il comune dialetto latino? - una comunione bizzarra tra estremi molto diversi. Reggio e Messina si scambiarono molti patrioti nei moti del 1848 e precedenti. Francesco Stocco, il più eminente tra essi, messinese, fu condannato a morte per aver fomentato l’insurrezione dei reggini nel ’48 – fu poi organizzatore dei Cacciatori della Sila e in genere dei volontari calabresi nell’impresa dei Mille (da comandante della cosiddetta “compagnia dei Savi”, perché ebbe come soldati e ufficiali futuri deputati, senatori, ministri).

Rosario Crocetta, presidente uscente della Regione, ha cambiato 47 assessori in cinque anni. Ma il motivo è semplice, dice: “Sono stai i partiti (quelli che lo sostengono) a fare pressione… Prima hanno voluto i tecnici. Poi i politici. Infine, sono entrati i deputati regionali, ed è tornata la quiete. Chissà perché”.

Nel dicembre 1972 si temeva a Palermo un convegno di studi normanni importante, preparato da tempo, Che si aprì nell’imbarazzo, racconta lo storico inglese Abulafia: era appena crollata un’ala del palazzo della Zisa, la quale era stata chiusa per restauro dal 1955, cioè da diciassette anni.

Il Tribunale di Enna può contare, caso quasi unico, sulla piena copertura dell’organico, di giudici e cancellieri. Ed è il Tribunale con più arretrato.

“Palermitani con la valigia. Ogni mese partono in mille” - “la Repubblica-Palermo”. Non sono pochi. Per lo più diplomati o laureati.

leuzzi@antiit.eu

L'esploratore dell’Italia dialettale

Un ritratto, l’unico disponibile in Italia da mezzo secolo a questa parte, di un linguista cui l’Italia deve molto, e le aree linguistiche greche in italia, nel Salento e in Calabria, moltissimo. Esito della sensibilità di Loredana Rotundo, capostruttura di wikiradio, e delle insistenze, s’immagina, di Patrizia Giancotti, l’antropologa torinese che già aveva celebrato su radio Rai 3 un anno fa l’area grecanica, o Bovesìa - l’isola linguistica e culturale greca alla punta dello stivale, attorno alla colonia magno-greca di Bova.
La Calabria in particolare è indebitata con lo studioso di Tubinga per la sua storia linguistica. Anzi, si può dire, per i suoi fondamentali linguistici: c’è in Calabria un prima e un dopo Rohlfs. A partire dal suo primo saggio, 1924, cattedratico di 32 anni, “Greci e Romani in Sud Italia”, la sua tesi di dottorato. Per Sud Italia intendendosi il Salento e la Calabria meridonale. Dove avanzava la tesi, e la documentava con alcuni costrutti fondamentali e ricorrenti, che le persistenze linguistiche fossero magno-greche e non medievali, bizantine. Di queste parlate curerà poi i dizionari, uno per il Salento e uno per la Calabria. Ma la Calabria gli dovrà man mano lo scavo e il repertorio di tutti i suoi reperti linguistici: vocabolario, nomi, toponimi, soprannomi, etimologie. Bova lo ha celebrato l’anno scorso aprendo un “Museo della lingua Greco-Calabra Gerhard Rohlfs”, digitale e fotografico. 
La vulgata vuole che gli interessi filologici di Rohlfs si siano appuntati sul greco di Calabria per aver ascoltato in guerra nel 1916 dei prigionieri italiani che parlavano tra di loro in dialetto. Ma è vero che Rohlfs ha fatto delle ricerche di prima mano, “sul campo”, minuziose e interminabili. Per 62 anni, dal 1921 al 1983, ha regolarmente visitato, anche a piedi o a dorso di mulo, i dialetti italiani. Anche le forme ultraminoritarie, paesane. Con visite periodiche, anche annuali, per annotare le variazioni, e una vasta platea di informatori, da lui sintonizzati sul fatto linguistico e periodicamente aggiornati. Nell’ambito di un progetto di studi sulle “fonti delle lingue romanze”. Di cui è l’esito una monumentale “Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti”, tre grossi tomi, pubblicati tra il 1949 e il 1954 – tradotti quindici anni dopo e subito riposti, senza nemmeno sfogliarli, troppo impegnativi.
Viaggiando ogni anno instancabile, Rohlfs ha dotato le sue ricerche verbali di foto dei luoghi e delle persone, datate, localizzate, nominate, che sono molto suggestive – se non adeguatamente apprezzate dagli studiosi, dato che gli studiosi latitano. Di cui si può avere un assaggio al museo linguistico che Bova gli ha dedicato.
Patrizia Giancotti, Gerhard Rohlfs, wikiradio.rai.it

lunedì 11 settembre 2017

La Germania aveva deciso di affossare la lira

Raccapricciante ricostruzione oggi con Fubini, sul supplemento “L’Economia” del “Corriere della sera”, di Giuliano Amato, all’epoca presidente del consiglio di come la Germania ha deiberatamete affossato nel 1992 la lira. Aveva anche deciso il giorno: esattamente lunedì 14 settembre di venticinque anni fa. E a nulla sono valse le misura anticrisi decide dal suo governo.
La ricostruzione di Amato il giornale rafforza ricordando la testimonianza di Soros, l’esecutore materale dell’affossamento: “Ho preso alla lettera la Bundesbank. Aveva dichiarato che non avrebbe sostenuto la lira a oltranza e io ci ho creduto”.
Raccapricciante perché Amato è uno degli incondizionali dell’Europa tal quale, e quindi della Germania. La Germania prima di tutto, sempre e comunque, ha ragione. Mentre è un partner tra i tanti, molto potente, e poco affidabile – non con l’Italia.
La ricostruzione di Amato si completa con  il diverso trattamento della Bundesbank e del governo Kohl per la Francia. Che aveva anch’essa il franco sopravvalutato, come lo era la lira, e in più un referendum se entrare o no nell’euro. Si completa anche nel ridicolo: Amato pensava di tenere duro anche per consentire al primo ministro francese Bérégovoy di vincere in qualche modo il referendum, mentre invece Mitterrand semplicemente si accordava con Kohl.
E questo è: questa Euopa non è europea, ma ingombra di europeismo la vecchia politica, di (mini) potenza.
Non meno raccapriccianti sono i numerosi testimoni in diretta che Amato cita: Ciampi, Barucci, Draghi, Trichet. Nessuno ha dato testimonianza degli eventi che portarono alla caduta dell’Italia.

Macron è bello e quindi è giusto

Siccome Macron è bello e giovane è anche giusto? Un protezionista volgare, che vuole a tutti i costi sopravanzare tutti, da Andorra alla Germania, e non fa altro. Contro l’Italia le ha provate tutte. La frontiera vhiusa a Ventimiglia. La Libia L’assalto alle azende italiane. Le barriere in Francia – per dei cantieri in crisi che erano stati rifilati a ditte coerane, che appena seppero la verità si defilarono.
È il fascino dell’uomo. O l’indigenza dei media. Che non vedono quello che tutti vedono. Per un interesse? Per giocare, vecchia pratica non in disuso, al tanto peggio tanto meglio? Per ignoranza? Per (finto) europeismo? Questo è più probabile: l’Europa è da qualche tempo un brutto sinonimo.

Nel cambiamento tenersi saldi

A Gela, negli anni 1960, e anche 1970, quando la petrolchimica tirava e se ne poteva fare motore di sviluppo del Mezzogiorno, ogni anno a luglio l’Anic-Eni doveva trattare l’emergenza acqua, che il Prefetto voleva per la città dal petrolchimico – la Sicilia meridionale era piena d’acqua, ma privata. L’impianto cioè si fermava, e a Gela bevevano. La crisi durava un mese, tutto luglio. Ad agosto l’acqua continuava a mancare, si suppone, ma i cittadini e il Prefetto erano ai bagni di mare, e comunque il petrolchimico chiudeva. È uno dei tanti conflitti locale-globale. Che a volte si risolvono a volte no.
Nel caso di Gela Potere Operaio tentò nell’estate del 1971 di rifare Reggio Calabria, la rivolta di popolo che tanta fortuna aveva portato a Lotta Continua, ma nessuno si fermava ai suoi megafoni, i sette compagni restarono soli: la città risolveva i suoi problem locali con gli interessi dell’Eni multinazionale. E viceversa, si posssono dare casi di interessi locali ecologici, che Eriksen cita, in contrasto con Greenpeace e altre organizzazioni ecologiste.
Nel caso siciliano poi l’Eni, la petrolchimica, l’acqua e lo sviluppo di Gela hanno seguito strade diverse. L’Eni verso la liquidazione del settore. Gela nel pantano: una cittadona informe, che non ha migliorato - non nel complesso, non mediamente, pro capite - ma ha l’acqua.
Ci sono sempre conflitti, è la scoperta dell’acqua calda. Ce ne sono anche nella stagnazione. Quelli del cambiamento sono di più. E se il cambiamento è “accelerato”, o per meglio dire confuso, quale è il cosiddetto pensiero unico di oggi (mercato, libero scambio, privato), sono più complessi e sfaccettati, aperti a mille soluzioni, o strozzature.
“Un’antropologia del cambiamento accelerato” è il sottotitolo della trattazione. Con la riscoperta dell’Antropocene, che l’epoca è segnata dall’uomo - e quindi è condannata, lestinzione dell'homo sapiens H.G.Wells vedeva scritta nelle stelle, nella sua terribilissima ultima opera, le venti pagine del pamphlet Mind at the End of its Tether. E con la meno vecchia ma nota salvezza che viene dal piccolo e personale invece che dal grande e globale. Anche se molto campanilismo è solo becero, e sciocco. Razzista per esempio, sotto l’etichetta identitaria. Reazionario sotto quella della tradizione. Ma anche innovativo, seppure in opposizione al monopolio istituzionale dell’innovazione.
L’antropologo novegese è ottimista: prospetta soluzioni. Ineguaglianze e iniquità sono moltiplicate e ampliate dalla globalizzazione, dalla caduta delle difese, invece che, come da presupposto, ridotte ed eliminate. Le crisi d’altronde vengono percepite e sofferte a livello locale, comunitario, personale,  solo le ricette sono universali. E quindi, vuole dire Eriksen, diamoci sotto: finché c’è vita c’è speranza. Con molta dottrina ma uno solo è il messaggio, dell’ottimismo: forza!
Thomas Hylland Eriksen, Fuori controllo, Einaudi, pp. XIV-215 € 17

domenica 10 settembre 2017

Problemi di base - 355

spock

Perché un africano sfruttato a Rosarno prende 25 euro al giorno per 25 giorni al mese, 750 euro, e un’avvocatessa torinese ne prende 400 al mese, senza orario, sabati, domeniche e notti incluse, in primario studio legale?

Perché quando piove è ora sempre allarme meteo?

Allarme vuole dire fare fronte (“alle armi”) oppure squagliarsela?

Le nazioni che non trovano rimedi cercano colpevoli, e i colpevoli - cercano rimedi?

Era il tirapiedi,  l’assistente del boia, colui che tirava per i piedi gli impiccati, per farli morire prima, un benefattore – da eutanasia?

Quando Epimenide cretese dice che tutti i cretesi sono bugiardi, dice una verità, sia pure probabile, oppure una bugia?

Ma per mantenere in autostrada i 60 m. di sicurezza dal veicolo che precede bisogna andare a marcia indietro? 

spock@antiit.eu

Il santo è buono se lieto e spiritoso

Estrapolato dal “Viaggio in Italia”, il  secondo soggiorno a Roma a fine 1787, e rimpolpato come saggio a parte nel successivo “Philipp Neri, der humoristische Heilige”, 1810. Goethe era anche esoterico, e un po’ “illuminato”, come il suo amico Tischbein. Delle religioni fu più vicino al cattolicesimo. Nel viaggio in Italia, dove disse “come sono contento ora di addentrarmi completamente nel cattolicesimo e di conoscerlo in tutta la sua vastità!”. Pur non apprezzando reliquie e santi. Con un’eccezione, Filippo Neri, il santo toscano dei ragazzi e dei poveri a Roma, di cui apprezzava l’umorismo.

Nel “Viaggio in Italia” lo dice “il santo della letizia”, più appropriato. Prima e dopo le tante stravaganze per cui il santo è famoso, di cui fa gustosi aneddoti, Goethe ha due magistrali contestualizzazioni - inquadramenti storici. Filippo, “sceso a Roma nell’epoca più triste, pochi anni dopo l’atroce sacco della città, si consacra tutto, a somiglianza e sull’esempio di molti nobili, all’esercizio della pietà, e il suo entusiasmo si accresce col vigore della forte giovinezza”. Sua e dei giovani cui si dedica. Il suo segreto? Nella “gran confusione in cui si trovava Roma alla seconda metà del secolo decimosesto… il modo di procedure di Filippo dovette essere di potente effetto: mediante la simpatia e la paura, la sottomissione e l’obbedienza, esso conferiva alla volontà umana interiore la gran forza di resistere a qualsiasi ostacolo esteriore, di affrontare qualunque cosa potesse accadere”.  
Johann Wofgang Goethe, Il santo spiritoso, EDB, pp. 64 € 8,50