Cerca nel blog

sabato 8 gennaio 2011

Pronunciamento contro Marcegaglia

Il silenzio fragoroso della Confindustria di Emma Marcegaglia sul referendum tra una settimana allo stabilimento Fiat di Mirafiori indigna molti piccoli dell’organizzazione confindustriale, soprattutto del comparto Federmeccanica. C’è nel Veneto, e anche nella Bassa Lombarda, chi vorrebbe raccogliere firme per una sorta di manifesto anti Marcegaglia.
La convinzione è vasta che Marchionne non soltanto è un manager capace, ma ha anche ragione. E che gli accordi speciali in deroga che chiede per il comparto auto sono effettivamente la sola soluzione per la sua sopravvivenza, e quindi di interesse sostanziale per il sindacato. Che se le rifiuta è solo per cieco pregiudizio ideologico o per le manovre politiche di suoi dirigenti – ambizioni di cui l’appoggio che a essi dà l’ex sindacalista Cofferati sarebbe una cartina di tornasole.
A questo punto il silenzio della presidente è giudicato connivente. Non si sa per quali ragioni, ma ormai si dà per scontato che Emma Marcegaglia voglia usare la Confindustria per uno sbocco politico. Come candidata del’Udc a capo di un governo di responsabilità o unità nazionale, oppure, nel caso di adesione dell’Udc al governo Berlusconi, a quella di vice presidente del consiglio. Tutte previsioni che si fanno per scherno, ma che concorrono alla voglia di pronunciamento.
Si verificherebbe un'inedita sintonia, se non allenza, tra i piccoli, da sempre avversi alle grandi imprese che comandano in Confindustria, e il prototipo dei grandi, la Fiat. Ma non contradittoria, seppure apparentemente contorta: i piccoli sono risentiti anche contro la sorda battaglia del loro giornale, "Il Sole 24 Ore", oltre che dei grandi editori come Bazoli e De Benedetti, contro Marchionne e la Fiat proprio e solo su questo punto, sulla flessibilità contrattuale. Non per altro motivo, non ne trovano altro, che le ambizioni politiche di Marcegaglia, sostenuta da De Benedetti e Bazoli.

La Bce una bad bank?

Non se ne parla per scongiuro, ma la possibilità che la Banca centrale europea si riduca al ruolo di bad bank, di banca in cui far confluire i titoli di Stato euro di poco valore, si fa strada. Avanzata dapprima in Germania, nel confuso dibattito suscitato attorno al salvataggio dell’Irlanda e del Portogallo, la formula è stata accolta allora con scetticismo, come una battuta polemica. La quota dei titoli acquistati dalla Bce sul totale dei titoli del debito pubblico dell’eurozona è appena dell’1 per cento, è stato detto, mentre per la Federal Reserve Usa è del 7 per cento (e si avvia a diventare, con gli acquisti già programmati, del 12 per cento).
Con gli acquisti di titoli irlandesi e portoghesi, tuttavia, in aggiunta a quelli greci, la Bce arriva oggi a detenere il 13 per cento del debito pubblico dei tre paesi. E se dovesse intervenire a sostegno del debito dell’Italia e della Spagna in analoga percentuale dovrebbe impiegare risorse tre volte maggiori, altri 300-350 miliardi di euro. Trichet s’è cautelato preventivamente a metà dicembre, chiedendo e ottenendo di raddoppiare il capitale della Bce, a 10,6 miliardi.

Gli eurobond costano poco e sbloccano il debito

Non se ne parla perché, dopo il salvataggio dell’Irlanda, la parola d’ordine è: “Tutto è in ordine”. Ma la proposta degli eurobond resta sul tappeto, ed è anzi l’unica fra le tre proposte emerse in autunno a restare in circolazione. Con più credito di quella adottata, voluta dala Germania: guarnire i salvataggi con una “convergenza” delle politiche fiscali nazionali. Che è in realtà la ricetta del salvataggio classico, caso per caso. Le altre due proposte sono il raddoppio della consistenza attuale (440 miliardi di euro) del Fondo europeo di stabilità, avanzata dal ministro delle Finanze belga Reynders, e la facoltà al Fondo di acquistare titoli di Stato nei paesi a rischio, avanzata dalla Banca centrale del Lussemburgo.
Gli eurobond sono titoli europei di debito. Progettati da Tremonti e dal presidente dell’Eurogruppo, il lussemburghese Jean-Claude Juncker, si basano sulla creazione di un’Agenzia europea del debito, che progressivamente verrebbe ad assorbire l’indebitamento dei paesi membri. L’Agenzia configura un mercato di titoli europei a tasso unico (tre mesi fa i differenziali erano arrivati fino al 3 per cento, rispetto ai titoli guida tedeschi). Che abbia le dimensioni del mercato dei titoli Usa, e quindi la stessa attrattiva per le grandi economie emergenti e i fondi sovrani. E strumenti in grado di sollevare i paesi dell’euro più indebitati dallo “schiacciamento monetario”: con la facoltà quindi di emettere obbligazioni fino al 40 per cento del pil dell’Unione monetaria, e di rilevare fino al 50 percento delle emissioni dei paesi membri (fino al 100 per cento nei casi di paesi a rischio crisi), sempre a tasso unico.
La Germania di Angela Merkel non ha voluto prendere il progetto in considerazione. In parte per mercantilismo, per lucrare il vantaggio differenziale dei suoi titoli di debito rispetto agli altri paesi dell’euro, la “superbia del virtuoso”. In parte anche perché quella degli eurobond è stata finora una proposta praticamente intellettuale. Presentate da due personalità politiche stimate, Tremonti e Juncker, ma di due governi minori della Ue - l’Italia avendo perduto ogni contato e credito, ormai da tempo, dalla caduta del Muro e la riunificazione della Germania, con Bonn-Berlino, anche per l’attitudine superbamente solitaria della Germania, sotto il cliché stantìo dell’asse con Parigi (nell’ultima crisi la cancelliera Merkel ha lasciato cadere nel nulla l’apprezzamento pubblico di Mario Draghi, il governatore della Banca d’Italia, sospettandolo forse di volere la poltrona di presidente della Bce, che invece dovrà essere tedesca).
Ma gli eurobond sono rimasti sul tappeto, come soluzione unica all’eccessivo debito europeo. L’attesa è concorde tra gli operatori finanziari che l’intervento caso per caso non è risolutivo, e che anzi ogni intervento apre le cateratte a un nuovo più massiccio intervento. Questa è l’opinione anche, dietro l’ottimismo di facciata, dell’Eurogruppo, che Tremonti ha reso pubblica mercoledì brutalmente. Compreso, nell’Eurogruppo, il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble - che nella coalizione di Angela Merkel, sassone dell’Est, rappresenta la tradizione cristiano-sociale e della vecchia Repubblica renana: “Prima dobbiamo migliorare gli strumenti che abbiamo; se questi non funzionano, allora, in questo ordine, dobbiamo parlare di alternative”. Come Tremonti e Juncker, Schäuble non fa della tenuta dell’euro una questione di potere, nazionale o regionale, ma di strumentazione: l’euro sarà, come egli dice, “uno strumento nuovo, in chiave con le esigenze del ventunesimo secolo”, ma è anche “una unione monetaria senza essere fiscale e politica”. L’Eurogruppo si appresta a emissioni record di nuovo debito nel corso del 2011, per non meno di 800 miliardi, metà dei quali della Francia e della Germania: una porta spalancata al rialzo degli interessi, cioè alle banche, da quì l'irritazione di Tremonti.
L’Agenzia di Tremonti e Juncker sembra la quadratura del cerchio, per uscire dal circolo vizioso del debito che crea debito e impedisce ogni rilancio dell’Europa, e lo è. Ma è la sola misura in grado di garantire contro la volatilità dei debiti pubblici nazionali, che è il vero motore della speculazione –l’avidità vince se fa leva sull’obbligo di difesa preventiva. Ed è poco costosa, meno che il Fondo. Per la Germania la “Frankfurter Allgemeine Zeitung” stima il costo in 17 miliardi in tre anni, molto meno di quanto la stessa Germania potrebbe guadagnare dal rilancio delle economie dell’Unione. Con Schäuble si sono detti possibilisti in Germania pubblicamente Frank-Walter Steinmeier e Peer Steinbrück, ministri degli Esteri e delle Finanze del primo governo Merkel, di Grande Colazione con i socialdemocratici (2005-2009), personalità sempre eminenti nel campo socialista. Che propongono gli eurobond come “segnale politico inequivocabile” per prevenire attacchi alla Spagna e all’Italia, benché con emissioni di ammontare “limitato” – clausola che evidentemente non ha senso economico, serve ad addolcire la novità per un pubblico da qualche tempo in Germania conservatore. Proprio una Bce entro l’anno a presidenza tedesca, come si dà per scontato, avrebbe l’interesse maggiore a un’Agenzia del debito, per riprendere la sua autonomia in materia monetaria evitando di ridursi a bad bank, deposito di titoli spazzatura.

venerdì 7 gennaio 2011

Per chi gioca Ponzellini? Per Prodi al Quirinale

E dunque Massimo Ponzellini è il banchiere di Bossi (“Sono io che l’ho indicato alla presidenza della Popolare di Milano”). Col quale festeggia devoto la vigilia di Natale. Indicato da Tremonti, suo estimatore da almeno un decennio, da quando lo volle al vertice della patrimonio Spa. È la vulgata recenziore, avocata peraltro da Bossi, e quindi indiscutibile: Ponzellini è l’uomo della Lega nel mondo degli affari. Ma una vita non si cancella. E Ponzellini è stato per una vita l’uomo di Prodi: al governo, a Nomisma, all’Iri, alle banche europee, Bers e Bei. Trascurato da Prodi quando fu presidente della Commissione Ue, si è rifatto negli anni Duemila con Tremonti, vice-presidente alla Patrimonio nel 2002, poi ad del Poligrafico, prima di approdare alla popolare di Milano. Nel mentre che rispolverava la vocazione familiare agli affari, figlio di un’imprenditrice del mobile (Marisa Castelli) e marito di una del caffè (Maria Segafredo), prendendo la direzione della Impregilo. Ma il vecchio legame resiste.
È d’altra parte vero che Ponzellini è arrivato al vertice della Popolare di Milano senza alcun titolo milanese, lui bolognese e molto “romano”. E su indicazione di Bossi-Tremonti. E che con Impregilo, nell’attesa del Ponte sullo Stretto che non si farà, intanto guadagna bei soldi con i ritardi, mentre si accaparra la polpa dei grandi appalti pubblici, la Salerno-Reggio Calabria, l’Alta Velocità, la Variante di valico Firenze-Bologna, l’area metropolitana di Reggio Calabria, che è una circonvallazione, tutti appalti di aziende o enti vicini al centro-destra, Anas, Autostrade, Fs. Ma è un tipico caso di destra-sinistra, o di doppia tessera, come si sarebbe detto al tempo della Prima Repubblica, quando la pratica era in voga: di democristiani che si dicevano socialdemocratici o socialisti, e di repubblicani che si dicevano democristiani.
Ponzellini fa un’analisi molto aggiornata, cioè berlusconiana, leghista, degli orientamenti politici e del voto: tutto cambia, dall’operaio di Sesto San Giovanni, la Stalingrado italiana, che vota Lega, alla Sicilia che vota compatta per un milanese, al ringiovanimento del Parlamento, alla partecipazione femminile alla politica. Resta immutato il Centro Italia, come a dire il Pci-Pds-Ds-Pd, ma in qualità di “becchino, medico terminale, assistente sociale e spirituale di un Sud che decade sempre di più e di un Nord che soffre per la burocrazia”, ha detto in un’intervista già tre anni fa. Qualità che il federalismo abbatterà: “Quando travasi il miele ti rimane sempre attaccato qualcosa alle mani: il non poter più travasare il miele, questo è il federalismo”. Ma così la pensa anche Prodi. Da qui il ruolo, di fatto se non di progetto, di Ponzellini mallevadore di Prodi al Quirinale quando la presidenza si rinnoverà fra due anni e mezzo.
Prodi non ha abbandonato la politica - il bagno di folla a Reggio Emilia oggi non è sttato casuale, c'è chi lavora per lui, e lui stesso. E' nella riserva della Repubblica, come De Gaulle diceva di se stesso, da uomo della Provvidenza. E nella costituzione non scritta il nuovo presidente della Repubblica, dopo ben due laici, Ciampi e Napolitano, non può non essere (ex) democristiano. Portato da Casini e Rutelli, Prodi non potrà non essere votato dal Pd, e ora anche dalla Lega. Mentre Berlusconi potrebbe voler concludere nel 2013 la sua avventura politica. Sicuro che Prodi al Quirinale non tollererà più lo strapotere dei giudici.

Germania al boom con accordi extra-legem

Il rinnovato boom della Germania, con una crescita nel 2010 di ben il 3,7 per cento, si produce in presenza di vincoli legali al lavoro più rigidi che in Italia. L’art. 18, in Germania in vigore dal 1951, è stato lievemente ristretto, ma si applica pur sempre alle aziende con più di 10 dipendenti (in Italia sono 15). Inoltre, rimane in vigore la Mitbestimmung, la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’azienda. E un sistema contrattuale nazionale e statuale (dei Länder, le grandi regioni). In questo quadro, però, il sindacato ha negoziato e accettato una forte serie di limitazioni, già negli anni del governo rosso-verde del cancelliere Schröder, quando la disoccupazione era arrivata poco sotto i cinque milioni.
Nel 2004 imprenditori e sindacato hanno sottoscritto gli “accordi di Pforzheim”, ipotizzando una serie di deroghe aziendali ai contratti, sia sul salario che sull’orario di lavoro. In particolare, hanno aperto la strada ad Accordi (alleanze) aziendali per il lavoro: accordi tra imprese e consigli di fabbrica per garantire comunque il posto, in cambio di orari e salari flessibili. Accordi o alleanze che coprono ormai più delle metà delle grandi aziende, e un terzo di tutte le aziende tedesche. Altre innovazioni del secondo governo Schröder hanno riaperto i contratti di apprendistato e di formazione, con una riduzione degli oneri sociali, e un parallelo scudo fiscale per i capitali esportati all’estero. Una particolare valvola di flessibilità sono i minijob (per retribuzioni fino a 400 euro al mese), e i medijob (fino a 800), con aliquote fiscali e sociali limitate.
La disoccupazione è stata così ridotta drasticamente e durevolmente. Su questa base la cancelliera Merkel ha poi potuto innalzare notevolmente l’età della pensione, a 67 anni – pur col beneficio transitorio del raddoppio dell’indennità di disoccupazione, da 12 a 24 mesi. In una prospettiva di sviluppo dell’occupazione. Il presidente della Federmeccanica tedesca ha spiegato che il problema principale è avere lavoro qualificato: “Se a noi mancasse la gente nelle officine, che crea innovazione e crescita, tutto il nostro benessere andrebbe perduto. Le nostre maestranze dovranno diventare non solo più grigie, ma anche più femminili e culturalmente variopinte”. Il nuovo boom è buona parte frutto della stessa industria metalmeccanica, che pure è ritenuta “matura”, se non obsoleta: l’industria automobilistica è riuscita a comprime i prezzi di un 25 per cento, senza scadere di qualità, ed è quindi oggi imbattibile in Europa.

Magris prende il polso del ‘900, con buone certezze

Si è detto che se Emma Bovary si fosse scritta da sé la sua storia non ne sarebbe rimasta vittima, come invece la fa Flaubert, annota Magris. E subito dà la zampata: “Questa fiducia nel potere salvifico dell’intelligenza e della conoscenza, secondo la quale basterebbe capire il male e il dolore per superarli e per sottrarsi alla loro morsa, era già improbabile all’epoca di Flaubert e forse è stata sempre ingannevole e precaria”. Nella stessa “sicura e solida classicità” socratica, come poi in Freud – “uno degli ultimi spiriti socratici della nostra civiltà, (giacché) riteneva che capire le origini e i motivi dei propri mali significasse già la loro guarigione”. Tutto queste cose in venti righe.
Il libro è una raccolta di scritti giornalistici per il “Corriere della sera”, dal 22 gennaio 1979 al 14 febbraio 1982, ma è una serie di grandiose intuizioni, vive, vivificanti, sviluppate con mano felice, ispirata ed equilibrata, sempre significative. Con l’ausilio di una filologia appassionata, Magris direbbe “liceale”, di letture curiose con mente disponibile. Seppure limitate all’area germanica, da Ibsen allo stesso I.B.Singer, con incursioni su Borges e Flaubert. Da storico consolidato del Novecento più che da incerto contemporaneista, già trent’anni fa dunque – ma, poi, siamo sempre Novecento. Il critico capisce e risolve - l’incoerenza è male minore, viene dall’entusiasmo e non dall’ipocrisia.
Claudio Magris, Itaca e oltre

giovedì 6 gennaio 2011

La Nato a difesa della Russia contro la Cina

Per gli Stati Uniti la Russia ha acquisito un nuovo ruolo di peso, dopo gli anni del disdegno, finiti con l’adesione di Bush alle aperture di credito berlusconiane, nel famoso vertice di Pratica di Mare nel 2002. Il decennio che si apre potrebbe mutare gli equilibri geostrategici degli Usa, impiantati negli ultimi vent’anni sull’asse economico con la Cina. La Cina dovrebbe superare nella decade gli Usa come prima potenza economica mondiale, e gli Usa hanno avviato una discreta azione di contenimento. Di cui la Russia è uno dei pilastri principali, se non il principale.
Gli europei ne sono al corrente, poiché se ne è parlato nell’ambito Nato. Sono state dismesse le aperture all’Ucraina e alla Georgia, che Mosca giudicava negativamente, come un allargamento della Nato antirusso. E si è avviata la proposta di un accordo fra la Nato e la Russia che includa anche una qualche forma di garanzia alla Russia sui suoi “confini attuali”. Una formula che, senza dichiararlo, dovrebbe garantire Mosca contro ogni ingerenza cinese in Asia.
La Cina è già la prima potenza finanziaria mondiale, anche se sottrae la sua moneta a un ruolo di riferimento, per mantenerne il corso a livelli concorrenziali. Con un ruolo di “controllo” sul debito occidentale, americano ed europeo, di cui è il maggior sottoscrittore, dopo la Fde e la Bce, con il 10 e il 7 per cento rispettivamente del totale del debito. E anche il maggior esportatore mondiale. E nel corso della decade dovrebbe superare il pil Usa.

La Russia ritorna europea

Apparentemente nulla è cambiato: Putin ha riproposto, a fine novembre sulla “Süddeutsche Zeitung” di Monaco di Baviera, l’Europa da Lisbona a Vladivostock altrettanto stancamente che nel famoso vertice di Pratica di Mare quasi dieci anni fa. La Russia di Putin è ancora impegnata sul fronte interno, per consolidare l’assetto dello Stato dopo la deriva eltsiniana e l’accaparramento privato di ogni bene. Ma dopo Pratica di Mare molte cose sono avvenute, che hanno riportato la Russia in Europa.
Anzitutto, come Berlusconi pretendeva fosse stato deciso a quel vertice, l’abbandono dell’assedio Nato. L’adesione forzata della Georgia e dell’Ucraina alla Nato è stata abbandonata. I gruppi russi dell’energia, Gazprom più di ogni altro, hanno stabilito solide alleanze in Europa, in Italia e in Germania – qui con più difficoltà, ma per fatti di corruzione, avendo i gruppi tedeschi sbagliato interlocutori in Russia. Nel 2010 Bruxelles ha dato via libera all’entrata della Russia nella World Trade Organisation – da cui è, più o meno, l’unico paese ad essere escluso… E ora il nuovo ministro degli Esteri francese, Michèle Alliot-Marie, esordisce evocando l’Europa da Lisbona a Vladivostock, vecchia provocazione del generale De Gaulle.

Gli Usa contro l’Eni, per la Russia

L’attivismo americano contro i paesi e le aziende che hanno i migliori rapporti con Mosca, tra essi l’Italia e l’Eni, è il più sicuro segnale che la Russia è sempre più europea. Da scettici sul futuro della Russia, gli Stati Uniti sono nuovamente,d agli ultimi due anni di Bush, interessati a un rapporto esclusivo con Mosca. Politico e, in prospettiva, anche economico. Ciò si è tradotto in un rinnovato attivismo contro quei paesi e quei gruppi che hanno stretto migliori relazioni con Mosca.
L’Eni in particolare, e i suoi rapporti con Gazprom, il maggior gruppo mondiale del gas e maggiore azienda russa, già oggetto dell’attenzione preoccupata dell’ambasciata americana a Roma, sono ora oggetto di un non mascherata campagna di stampa. L’obiettivo è di condizionare il gruppo italiano, giù pupillo dei fondi d’investimento e pensione Usa, presso i suoi grandi sottoscrittori. Di indebolire cioè Gazprom indebolendo il suo primo socio in Europa.
Gazprom segue una politica delle alleanze realistica: essendo il maggior esportatore di gas, cerca partner tra i maggiori consumatori europei. Per gli Usa il discorso è politico: non ci deve’essere un rapporto diretto e privilegiato della Russia in Occidente se non passa attraverso gli Usa. Come nella guerra fredda. Ma questo è il binario su cui si muove anche l'ambasciatore di Obama a Roma, Thorne, e quindi il dipartimento di Stato.

Obama conquista i repubblicani col deficit

Gli investimenti sono subito ripartiti, con un saldo attivo di ben trecentomila nuovi posti di lavoro a dicembre, e quindi non si torna indietro: nuovo deficit per la spesa pubblica Usa, invece della prevista riduzione, e dollaro debole saranno al centro della politica economica americana fino alle presidenziali del novembre 2012.
L’apertura politica di Obama ai repubblicani, dopo la sconfitta elettorale due mesi fa alla Camera, si è fatta come si sa sul terreno della spesa pubblica. Verranno mantenuti ancora per due anni i tagli fiscali operati da Bush, anzi saranno accresciuti nel 2011 per l’equivalente di un 2 per cento del pil. Mentre la Federal Reserve immetterà nel corso dell’anno denaro fresco per 600 miliardi di dollari, mediante acquisti di tioli del Tesoro. In precedenza, le tre commissioni istituite da Obama per analizzare la spesa pubblica dopo lo shock del 2008, le commissioni Bowles, Rivlin e Peterson, concordavano su una riduzione del debito a partire dal 2012, per un ammontare fra i 4 e i 6 mila miliardi di dollari entro il 2020.
L’intesa stipulata sulla base del deficit si presenta durevole anche sul piano politico, almeno fino alle presidenziali fra due anni. L’intesa fra il partito Repubblicano e la presidenza rientra infati, in questi termini, anche nel piano d’azione del movimento dei Tea Party, che rappresenta la parte politica più vivace all’interno del partito Repubblicano, ed è essenzialmente un movimento anti tasse. I Tea Party vogliono anche la riduzione del debito, ma non a costo di aumentare le tasse: vorrebbero cioè un’ulteriore riduzione della spesa. Ma si accontentano dell’accordo sulle tasse ridotte. Al quale potrebbero sacrificare anche l’altro loro richiesta, l’abolizione dell’Obamacare, la riforma sanitaria fatta votare da Obama.
Gli interventi della Fed sul mercato dei titoli pubblici, definiti “d’emergenza”, in realtà non sono occasionali. Sono stati concordati tra la presidenza e il Congresso, e sono stati programmati, entro un tetto di 600 miliardi di sospesa, entro agosto. L’obiettivo è di mantenere il dollaro in posizione di debolezza, contro le spinte di mercato, che lo vorrebbero riapprezzarsi contro l’euro.

mercoledì 5 gennaio 2011

Problemi di base - 46

spock

Ma è Vendola, o Rosy Bindi?

Critical mass o critical mess?

Se Battisti è Megamind, il cattivissimo buono, e Lula è il suo socio d’affari Berlusconi, si può dire che il Brasile non esiste?

Per Claudio Magris “il terrorismo cosiddetto rosso è stato un fenomeno non molto rilevante della storia recente dell’Italia”. Non molto quanto? Un chilo, un etto? E di che colore è da presumere il terrorismo cosiddetto rosso?

Che linguaggio è quello del cosiddetto?

Come sarebbe il mondo senza i germanisti?

E senza la filosofia tedesca (Kant era scozzese)?

Perché il presidente Napolitano non apre gli archivi della lotta al brigantaggio per il centocinquantenario? Questo è un problema vecchio

Perché tanto rispetto per i briganti?

Perché Berlusconi si fa pagare da noi le campagne di odio a sostegno che gli fanno Santoro, Fazio, Floris, Annunziata, Dandini, Berlinguer?

Walter Tobagi è stato ucciso dall’odio. Sua figlia Benedetta odia Berlusconi. È l’odio intransitivo attivo?

spock@antiit.eu

La verità del terrorismo si vuole segreta

È la verità di un generale dei carabinieri indagato per concussione, che si riconosce reo di appropriazione. Ma, fatta la tara del suo punto di vista, alcune delle cose che racconta aprono, essendo verità che vogliono restare sconosciute, a una dozzina d'anni dalla pubblicazione di quest memorie, squarci sorprendenti. Le faide all’interno dell’Arma, ben più violente delle perfide burocratiche: i contendenti si combattono sfruttando il protagonismo dei magistrati. Il numero dei terroristi, che è dato contenuto: tutti i Br erano nel 1977, anno in cui realizzarono 1.950 attentati, fra i 130 e i 150, con 600 fiancheggiatori e\o irregolari. Come mai allora tanto terrore, e così a lungo, fino al 1983, per un totale di 10 mila attentati? I carabinieri anti-Br erano al più, dice il generale Delfino, un centinaio. Abbiamo vissuto una “guerra civile” fantasma?
Francesco Delfino, La verità di un generale scomodo

martedì 4 gennaio 2011

I morti sono cristiani, il nemico è l’Europa

Il terrorismo islamico è anzitutto un fatto islamico, una guerra interna. Le bombe e i kamikaze contro le scuole, i scuola bus dei bambini, i mercati, le moschee il venerdì lo provano senza dubbio. Ma è anche antioccidentale, e da alcuni anni principalmente antieuropeo. E non contro l’Europa per il passato coloniale, ma contro l’idea di Europa. Gli assassini, le bombe, e gli attacchi suicidi non colpiscono tanto le comunità cristiane missionarie, in Turchia, in Pakistan, in Sudan, ma soprattutto quelle millenarie, i siriaci, i caldei, i maroniti, i copti, alcune radicate da più tempo che l’islam, in Egitto, Libano, Iraq.
L’Unione Europea non vuole essere cristiana. Lo ha deciso nel simulacro di costituzione che si è data, lo conferma con l’inattività totale ogni volta che un attacco del terrorismo islamico si produce contro i cristiani. Anche quando le vittime sono cittadini europei. L’inerzia è parte della più generale atonia politica dell’Unione, confermata al momento della scelta del suo superministro della politica estera e della sicurezza, l’inverosimile baronessa Ashton (erano candidati D’Alema, Blair, Felipe Gonzales e altri personaggi di ben diversa caratura). Chiudendo gli occhi di fronte al terrorismo anticristiano è come, però, se a ogni bomba o kamikaze l’Europa perdesse una battaglia: se non è cristiana, la tolleranza è comunque un valore laico, un fondamento della democrazia.
L’islam infatti è in guerra. È sempre stato esclusivo, benché versioni interessate affermino il contrario, le minoranze e le diverse fedi tollerando solo per opportunità politica. Non importa se più o meno esclusivo del cristianesimo quando questo era espansivo e imperialista: il fatto oggi, dopo il khomeinismo ma anche prima, è che aggressivo e intollerante è l’islam. Anche a costi elevati per le stesse nazioni islamiche, di vittime non solo, ma anche di commercio e di turismo, a scapito degli investimenti ingenti effettuati in questi settori, in direzione principalmente degli europei. L’imam di El Azhar, l’università del Cairo, accreditato come moderato, che critica il papa a poche ore dalla strage di Alessandria, dice quanto il revanscismo islamico, e più in terra araba, sia “normale”. Nella storica competizione tra le due sponde del Mediterraneo, d’altra parte, il terrorismo, compresa la pirateria, è sempre stato islamico e mai cristiano.
Quando occorre, l’Unione europea sa dimenticare perfino la libertà di culto, che fu all’origine della tolleranza, di cui mena vanto. È tutto dire, e attesta la stupidità politica, prima che la debolezza, dell’Unione. Ma ci sono dei limiti anche alla stupidità, mentre la baronessa Ashton sembra non averli, il ministro degli Esteri e della Sicurezza dell’Europa. Baronessa scelta peraltro non a caso dal consenso occulto che governa questa specie di Europa, a preferenza di candidati ben più capaci, D’Alema, Blair, Felipe Gonzales.
Negli attacchi islamici contro i cristiani, l’Europa può non senirsi coinvolta, ma è indubbio che i cristiani sono sotto attacco in quanto “europei”. La Germania tutta, la Gran Bretagna sottotraccia pur non dicendolo, e la Francia di Sarkozy riconoscono implicitamente la minaccia, nel momento in cui pongono dighe alla crescita della popolazione islamica al loro interno – il no all’entrata della Turchia nell’Unione Europa è un riflesso di questo timore. Per la pretesa dei loro molti residenti islamici di godere dei diritti senza alcun obbligo, come una sorta di risarcimento, benché siano stati solo beneficiati dai paesi europei da un paio di generazioni. Un revanscismo che non è terrorismo, ma lo agevola e lo giustifica.
Nessun paese può però agire in alcun modo contro il terrorismo islamico nei paesi islamici. Mentre l’Europa potrebbe: come per l’euro in economia, non c’è che una chiave europea per la politica estera e della sicurezza. E i periodi più distesi e proficui attorno al Mediterraneo si sono avuti quando le due parti si sono bilanciate. Ma non c’è Europa per la Germania oggi, per la Gran Bretagna, e per Sarkozy.

Ombre - 73

L’inflazione raddoppia, annuncia l’Istat drammaticamente. Ora è all’1,6 per cento… Insomma, tutto è falso all’Istat, non solo il rilevamento prezzi.

Le cimici in casa Bossi sono, come quelle in casa Berlusconi, patetiche: poco efficienti, rilevabili, da dilettanti (giornalisti? curiosi? Lo stagnaro può essere curioso). Ma non sono come gli attentati e i golpe di “Libero”. Intanto dicono che questi politici superprotetti sono alla portata di chiunque. E poi sono ammonitrici: come i “dispetti” o “avvertimenti” in territorio di mafia, indicano che il peggio, che avrebbe potuto avvenire e non è avvenuto, può sempre avvenire. Bossi, che è stato primo attore di Mani Pulite, ne è andato finora indenne, ma Berlusconi lo sa bene, l’uomo più intercettato al mondo.

Due pregiudicati vengono fermati casualmente, per la presenza occasionale sul posto di un carabiniere fuori servizio, dopo avere bloccato sul raccordo anulare di Roma e tentato di malmenare un automobilista che a loro parere non dava loro strada. Viaggiano in Ferrari. E hanno nell’automobile 27 o 28 mila euro, in contanti, merce oggi rara. Ma le cronache cittadine ne omettono i nomi.

Muore Bernini, un maggiorente Dc finito in Tangentopoli. Le commemorazioni non dicono che è uscito da Tangentopoli assolto. Che è il fatto più importante. Non si può dire?

Antonio Polito, giornalista stimabile, spiega conciso come Garrone padre gli si presentò al varo del “Riformista”, dieci anni fa, e gli diede un milione, di euro. In regalo? Senza scandalo per nessuno. Lo incontrò per caso, in strada?

Per fare l’elogio di Marchionne sul “Corriere della sera” Sergio Romano lo paragona venerdì a Montanelli. Montanelli impersona, dice, “l’italiano scomodo”. Uno che si accomodava con tutti, salvo sbeffeggiarli quando non ne aveva più bisogno. O è l’unica maniera per Romano, o il giornale, di elogiare Marchionne, sotto mentite spoglie?

I giornali italiani scoprono Licia Ronzulli, un’eurodeputata assidua al suo lavoro, attraverso “Le Figaro”, un giornale francese. È perché l’onorevole è berlusconiana? O perché è donna? La mamma partoriente che non salta una votazione va sui giornali italiani se è l’onorevole Bongiorno, una che “ha gli attributi”, direbbe Montanelli – beh, ha trasformato Andreotti in una vittima della mafia, non è poco.

Bruno Vespa è sempre, nei grandi giornali d’informazione, “Corriere della sera”, “Repubblica”, “Stampa”, perfino sul “Sole 24 Ore”, “il giornalista Bruno Vespa”. Qualifica che ovviamente si omette di altri giornalisti vedettes della tv, Mentana, Annunziata, Floris, Lerner. Giornalista come ingiuria? Il Cominform è più forte di ogni altra ragione, fosse anche solo economia di scrittura, il vezzo di catalogare-additare gli avversari.

Cesare Segre, grande filologo, rifà sul “Corriere della sera” Uzbek, il “persiano” di Montesquieu, per interrogarsi su una politica che non capisce e non riconosce. In particolare, non capisce che i partiti cambino nome. Ma se uno non capisce perché ne scrive? O si camuffa perché capisce? È la verità filologica così contorta? Il Settecento era molto più esplicito del “Corriere della sera”.

Lezione di giornalismo e di politica di Stefania Prestigiacomo lunedì dopo Natale al “Corriere della sera”, che la intervista sornione come una delle ragazze di Berlusconi. Quanto giornalismo non fatto sulle manovre parlamentari contro i controlli sui rifiuti “speciali”, l’80 per cento dei rifiuti mobili italiani, che lei sa fare invece in quattro righe. E come sbugiarda la moralità superiore degli ex missini di Fini, gli amici dei Procuratori della Repubblica, nelle stesse quattro righe. Il giornalismo impossibile non è.

Dunque i regali si fanno in soldi: con buoni acquisto da spendere liberamente. Prima il regalo era un piacere del donatore che si augurava piacesse al destinatario. Poi al piacere è subentrato il fastidio: dover fare i regali, soprattutto per le Feste, ha condotto molti a odiare le feste. Ora si supplisce col regalo “utile”. Il piacere non c’è più, e il regalo nemmeno, c’è solo una tassa.
Il meraviglioso già si era ridotto al tecnicizzato: missili, computer, telefonini. Ora dev’essere monetario. Senza arricchimento.

lunedì 3 gennaio 2011

Il bene è il male, è l'allegra nuova morale

Il brutto, lo sporco e il cattivo come favola morale. In un film d’animazione, quindi naturalmente indirizzato ai bambini, con i soliti ingredienti della fantasia a ruota libera e dell'allegria, ma che si regge sulla morale più che sul disegno.
Megamind è un bambino abbandonato dai genitori a dieci giorni dalla nascita. Destinato a un altro mondo. Dove approda in carcere, e cresce tra detenuti e guardie cattive. Maturando una sorta di cattiveria innata. Evaso con sporchi trucchi, si dedica a distruggere il mondo. Abbatte il buono Metroman, parlato in originale dall’accattivante Brad Pitt, e ne aggredisce in vario modo la fidanzata, giornalista tv. Fino a restarne innamorato. Nella sua cattiveria aveva dotato dei poteri un imbranato spasimante della giornalista, trasformandolo in Titan. Per venire a capo del quale salverà il mondo e conquisterà la giornalista. Fare il bene facendo il male è la morale: bisogna essere capricciosi, egoisti, violenti. L’eroina che mantiene il senso delle cose e non cede ai trucchi verbali lasci a tranquillamente il vecchio fidanzato, il buono Metroman, in realtà sopravvissuto alle persecuzioni, per il persecutore Megamind.
Tom McGrath, Megamind

La letteratura dei buoni poveri è povertà

Summa dello stile bozzettistico, per accumulo, di segnali poveri: i poveri sono anche poveri di spirito, muoiono spesso, più spesso degli altri, e vivono senza un raggio di luce, non capiscono e non parlano. A Genova e anche al tropico. Nei commerci, nei lavori del porto, nelle missioni, tra i "cannibali". Solo l'atomica riluce, assimilata al destino. Non è il vecchio neo realismo, il povero non è spiritoso, o disincantato (filosofo). Distillato dell'estetica Fetrinelli, della letteratura che la povera gente deve dire povera, il racconto è premio Strega 1999: il migliore libro di fine millennio.
Maurizio Maggiani, La regina disadorna

domenica 2 gennaio 2011

Sedicente è Battisti, il Raiume è immortale

Claudio Magris non si discosta, e quindi la metastasi potrebbe essere generale e irreversibile: “Il terrorismo cosiddetto rosso è stato peraltro un fenomeno non molto rilevante della storia recente dell’Italia”. Ma il linguaggio è della Rai: sedicente, presunto, condannato (a tre ergastoli!) perché ritenuto colpevole, è soprattutto la Rai, come da tradizione, che rispolvera per Battisti il linguaggio di Pilato.
La giustizia non è mai certa. Ma la giustizia non c’entra, l’arcano della verità – dell’equanimità, dell’imparzialità, la giustizia giusta. Né la Rai lo pretende: non ne fa una questione di giustizia, alla quale non mostra alcun interesse, solo di vaghezza opportunistica. Quanto basta a indurre l’ascoltatore in depressione, prima del canone la Rai esige l’induzione alla schiavitù. Non dice naturalmente che Battisti è innocente, o che non era brigatista, insinua il dubbio. Non lo dice non per opportunismo, o per viltà, non lo dice per eliminare ogni traccia di realtà, di possibilità di giudizio. Più che al canone, la Rai assoggetta l’Italia all’incertezza, fattuale, morale, politica.
Nulla di nuovo, è il solito raiume che si aggiorna, dell’essere e non essere, del qui lo dico qui lo nego, del siamo tutti poveri, tutti sfortunati, tutti senza lavoro, che nessuno ci dà, e quindi tutti inermi, ma del posto in video che il giudice di Roma amico garantisce a vita, e del centro, grande o piccolo, o magari solo casiniano, imperituro. “Dare” il lavoro, qui il linguaggio è, involontariamente, esplicito. È una chiave di potere – di lettura, d’interpretazione, di comunicazione - democristiana? Ma i democristiani non ci sono più, né c’erano prima – prima di De Gasperi. È una chiave chiesastica. Quella della chiesa fino a un’epoca già remota, prima di Giovanni XXIII, ma evidentemente la Rai non si è aggiornata.